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Autore: holls    21/10/2021    9 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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6. Corazza di cristallo

 

 

Nemmeno otto mesi prima c’era stato il funerale. Ci ero andato con una strana sensazione addosso, un’incredulità mista a una tristezza che non riuscivo a provare. Era proprio il funerale di Oliver, ma non potevo credere che stessi onorando la memoria di quello che, appena due giorni prima, era stato il mio ragazzo.

Sua madre era vestita in nero e sfogava il suo dolore sulla spalla di un’amica che le massaggiava la schiena, nel tentativo di farla calmare. Gli altri avevano lo sguardo basso e molti fissavano ora la terra, ora gli ulteriori presenti, come per assicurarsi di star seguendo l’etichetta.

Mi sono sentito decisamente fuori posto, quel giorno. Non riuscivo a provare dolore, non riuscivo a credere che quella davanti a me fosse la realtà. Quello nella bara non era Oliver, perché Oliver era a casa, probabilmente a studiare, aspettando che io facessi ritorno. E non me ne capacitavo, non capivo cosa facesse lì tutta quella gente, il perché di quei pianti, di quelle grida soffocate, di quella bara dove dentro c’era Oliver – ma che ci faceva lì?

Mi ero pentito di ciò che avevo provato. O meglio, di ciò che non avevo provato. Mentre la bara veniva calata giù, il prete mi offrì una rosa, da gettare sottoterra con lui. Perché dovrei lanciargli addosso una rosa?, mi domandai. Ma lo feci. La buttai. Alzai gli occhi al cielo e cercai di seguire il volo di un uccello che non riuscii a identificare, a causa degli occhi un po’ troppo lucidi. Poi li abbassai.

Oliver, ormai, era già sotto un cumulo di terra. Realizzai solo in quel momento che non l’avrei visto più. Avrebbe continuato a vivere nella mia memoria, certo, ma non sarebbe più stato accanto a me; semplicemente, non c’era più. Dovevo lasciarlo indietro, dovevo riuscirci.

Ma era troppo per me.

Erano passati appena otto mesi, otto mesi di vuoto, di inerzia, di niente. Mi avevano detto tutti le solite frasi fatte: che mi sarei rifatto una vita, che mi sarei innamorato ancora. Ma non riuscivo a togliermi dalla testa quell’aria da secchione tipica di Oliver, quella testa piegata sui libri, quella dolcezza che non ti aspetteresti mai da un cervellone troppo preso dai suoi studi. Avevo sempre pensato che, se mi fossi innamorato di nuovo – ipotesi remota , sarebbe stato di qualcuno simile a Oliver, ma che, per ovvie ragioni, sarebbe stato diverso da lui. In altre parole, mi sarei innamorato di una brutta copia.

Piena di difetti e imperfezioni rispetto all’originale, come tutte le brutte copie.

Avevo quindi decretato l’inutilità di innamorarmi di nuovo e chiuso definitivamente quel capitolo della mia vita, anche perché non ero proprio dell’umore adatto.

Tutto era ancora troppo vivido, troppo fresco. Come potevo anche solo concepire l’idea di innamorarmi ancora? Un altro carattere, un altro sorriso, un altro corpo. Era fuori da ogni possibile concezione.

Riempivo le mie giornate con il lavoro e spesso funzionava, ma quando mi ritrovavo solo, a letto, mi sentivo sprofondare in un baratro di disperazione. Proprio in quei momenti, cominciavano quegli stessi pianti, quelle stesse urla soffocate, quello stesso dolore che non avevo provato otto mesi fa e che ora mi ritrovavo a scontare tutto insieme.

 

Rientrai dalla pausa pranzo in solitudine, la stessa con cui avevo lasciato che il cibo mi riempisse solo per soddisfare un bisogno primario. Mi trascinai verso l’ufficio con fare lento, ma Ashton mi si parò davanti con un’esuberanza che non gli avevo mai visto addosso.

«Tu ora vieni con me.»

«Che succede?»

Ashton mi fece cenno di seguirlo. Era riuscito a ottenere i filmati della banca relativi al giorno della rapina, più qualche filmato di esercenti sulla stessa strada, e non vedeva l’ora di farmeli vedere. Varcammo la soglia della sala multimediale e vidi riflesso nei suoi occhi un guizzo di eccitazione per ciò che stava per mostrarmi.

Fece partire il primo video, quello che conteneva le immagini interne ed esterne della banca.

Le telecamere avevano inquadrato perfettamente sia il momento della rapina, sia quello della fuga: come riportato nelle testimonianze, i rapinatori erano due uomini, abbastanza massicci. Nel filmato si vedeva il momento in cui McCain aveva lanciato il fermacarte e anche l’attimo in cui era partito il colpo. La telecamera esterna, invece, mostrava il momento in cui Nathan stava per entrare dentro l’edificio e il successivo scontro con uno dei due rapinatori. I due si erano guardati per un attimo, forse smarriti, dopodiché i malviventi erano montati in sella a quel motorino per fuggire alla velocità della luce. Purtroppo, a causa delle inquadrature sfavorevoli, la targa non era facilmente leggibile. Chissà se qualche testimone ricordava qualcosa?

«Lo hai notato?», mi chiese Ashton, alla fine della visione.

«A cosa ti riferisci?»

Ashton sembrava impaziente e in parte lo capivo: quando sei l’ultimo arrivato e hai un’intuizione geniale, hai tutte le ragioni per crederti il migliore.

Rimandò indietro i fotogrammi fino al momento in cui il primo rapinatore usciva dall’edificio e si scontrava con Nathan. Io osservai bene la scena e, in un attimo, capii a cosa faceva riferimento.

«L’altro rapinatore non ha nemmeno fatto caso a Nathan, ma il primo sì», suggerii per tastare il terreno.

«Ottima osservazione, agente Scottfield», mi canzonò lui.

«Forse il rapinatore dagli occhi di ghiaccio non si aspettava di scontrarsi con una persona.»

Ashton rimandò ancora indietro e guardò nuovamente.

«Ha esitato troppo. Si sono guardati negli occhi.»

Pensai un attimo a quello che voleva sottintendere il mio collega.

«Dove vorresti arrivare?»

«Be’, mi pare ovvio: Nathan e il primo rapinatore si conoscono.»

Mi scappò una risatina. Non era per la conclusione in sé, quanto la sicurezza con cui l’aveva pronunciata. Io avevo già imparato a diffidare dell’ovvio.

«Potrebbe essere un’idea. Che cosa proponi, Stoner

«Be’,» rispose lui, fissando lo schermo. «Le piste che abbiamo a disposizione non sono poi così tante. Io direi che potrebbe essere una buona idea cominciare a cercare tra la cerchia di Nathan. Che ne pensi?»

Non aveva tutti i torti. Ripensai però al fatto che Nathan era venuto il giorno dopo a riferirci il particolare degli occhi del rapinatore. Se davvero fosse stato un amico e lo avesse riconosciuto, sicuramente avrebbe aspettato prima di metterlo in mezzo in quel modo.

A ogni modo, non avevamo molte altre piste. Avevo fatto una ricerca anche sui simboli lasciati sulla macchina di Michael, senza successo.

Così risposi ad Ashton che la sua teoria poteva essere un buon punto di partenza. Come finii di parlare, i suoi occhi si illuminarono e le labbra si aprirono in un sorriso.

«Sai che solo il due percento della popolazione mondiale ha gli occhi verdi?»

Ashton era in preda all’euforia. Sentiva di aver avuto una buona idea e il merito era praticamente solo suo. A me era successo solo un paio di altre volte e invidiai un po’ la sensazione che stava provando in quel momento. Ci si sente fieri e imbattibili, almeno finché qualcuno non ti smonta.

«Questo è un dettaglio interessante, sempre che sia vero. Direi che potremmo escludere il fatto che portasse delle lenti a contatto colorate e provare a ipotizzare che il verde sia il colore reale dei suoi occhi. Oltre a questo, potremmo partire dal presupposto che Nathan abbia detto la verità, riguardo agli occhi del rapinatore. L’esitazione c’è stata, si vede chiaramente. Direi che la tua è una buona idea, Ashton.»

«Perfetto! Direi che potremmo cominciare a suddividere le sue conoscenze. Famiglia, università, lavoro. Che ne dici?»

Capii che chiedeva la mia conferma solo per non osare troppo e che nella sua mente aveva già organizzato le prossime mosse. Io lo assecondai e approvai la sua idea, che si tradusse in una suddivisione dei compiti. La famiglia fu lasciata per ultima, sia perché non vivevano più insieme e avevano quindi contatti sporadici, sia perché il cerchio era molto più stretto e improbabile – suo fratello aveva solo cinque anni. Lavoro e università furono le cerchie su cui riflettemmo maggiormente. Se l’ipotesi di Ashton era giusta, l’uomo con cui si era scontrato era qualcuno con cui aveva più di un’amicizia superficiale e presumibilmente era qualcuno che non vedeva da molto tempo o che non si aspettava di trovare lì.

Cominciammo a stilare un elenco delle cose da fare: recuperare i nomi dei colleghi, dei compagni di corso, delle amicizie più strette.

Avevamo una pista e anche io cominciai a sentire l’euforia che avanzava.

 

L’eccitazione scemò dopo qualche ora, quando ormai erano subentrati tutta una serie di pensieri ansiosi sulla possibilità di farcela o meno.

Il mio turno era praticamente finito, ma mi ricordai di ciò che era accaduto la sera prima e il magone mi fece crollare in uno stato di depressione improvvisa.

L’unico ricordo che mi era rimasto di Oliver erano i suoi messaggi. L’unica traccia della sua dolcezza, del suo amore per me, del desiderio di condividere una vita insieme.

Ma ora quell’unico ricordo era in mano a Nathan. Che sarebbe dovuto arrivare a breve, o almeno lo speravo.

Toc toc toc.

Era una bussata informale, non troppo decisa, quasi come qualcuno che bussa al bagno per sentire quando si libera.

Era lui, ne ero certo.

«Avanti.»

Quel ciuffo di capelli biondi si fece largo tra lo stipite e la porta, mentre il mio cuore prese a martellare a un ritmo inconsulto.

All’improvviso mi resi conto di quanto mi fosse mancato Oliver, del rischio che avevo corso lasciando il mio telefono in mano a uno sconosciuto che avrebbe potuto farne qualunque cosa. Osservai il volto di Nathan e mi sembrò troppo teso per qualcuno che non aveva sbirciato – aveva scoperto di Oliver? , per qualcuno che – dannazione! – non si era fatto gli affari suoi.

Sapeva.

Non volevo intrusi tra me e Oliver, tra me e il suo ricordo; invece ora qualcuno sapeva. Qualcuno che mi avrebbe fatto domande, che si sarebbe introdotto nella mia vita senza permesso, che avrebbe preso a curiosare con arroganza e sfacciataggine.

Io dovevo averlo guardato con una punta d’astio, perché non mi diede nemmeno il buongiorno. Si limitò ad aspettare che io dicessi qualcosa, le mani intrecciate e lo sguardo basso.

Poi, come vide che io non riuscivo a proferire parola, sciolse l’intreccio e si infilò una mano in tasca. Impugnò subito il mio tesoro più prezioso e, come lo posò sulla scrivania, io mi ci fiondai senza nemmeno degnare quel ragazzo di uno sguardo grato.

Accesi lo schermo e sbloccai il telefono in una voglia frenetica di controllare, ma lui mi precedette.

«Non ho toccato niente, tranquillo. Ti è arrivato solo un messaggio da Ash e poi qualcos’altro, ma non c’era più spazio.»

Aveva studiato le mie reazioni dopo ogni frase, con quella voce che somigliava più a un bisbiglio, con l’eterno terrore di fare un passo falso, di dire qualcosa di sbagliato.

Effettivamente aveva ragione. Avevo controllato davanti a lui e mi sentii in colpa un attimo dopo averlo fatto, quasi a significare che non mi fidavo.

Alzai lo sguardo su di lui.

«Grazie.»

Calò il silenzio.

Lui era ritornato a incrociare le dita e, anche se non lo fissavo direttamente, sapevo che stava spostando lo sguardo in ogni angolo della stanza.

Non sorrideva, non ridacchiava, né diceva qualcuna delle sue solite sciocchezze. Semplicemente se ne stava lì, ritto in piedi, muto come un pesce.

Se aveva voglia di dire qualcosa, che lo dicesse! Il non sapere se avesse letto o meno i miei messaggi, se avesse scoperto il mio segreto mi faceva impazzire. Era quanto di più riservato avessi mai avuto, perché avevo imparato presto a detestare le frasi di circostanza e a leccarmi da solo quella ferita.

Mi alzai dalla sedia e lui sembrò irrigidirsi, tanto che in quel momento somigliava più a un bambino spaventato, con quello sguardo così insicuro e le spalle ricurve a mo’ di protezione.

«C’è qualcos’altro che vuoi dirmi?»

Mi accorsi subito che ero stato uno stupido: avrei potuto semplicemente congedarlo con la prima scusa banale. E invece gli avevo rivolto quella domanda che, per certi aspetti, sembrava quasi un invito.

Qualcosa tipo: “So che vuoi parlare di Oliver e forse voglio farlo anch’io”.

No, non era vero!

Non volevo parlare di Oliver. Mai, e di certo non con lui.

Eppure gli avevo fatto quella domanda.

Eppure…

«Sì. Ti vorrei dire una cosa.»

Fluttuazioni nello stomaco.

Cuore martellante.

Testa impantanata.

Ancora, bisbigliava.

«Ecco… lo so. Ho letto i messaggi.»

«Non mi va di parlarne.» O mi andava?

A nessuno avevo mai raccontato ciò che facevo da quando Oliver era morto. A nessuno avevo mai confidato che apparecchiavo ancora per due, che la sera raccontavo la mia giornata alla sua foto – com’ero patetico , che talvolta parlavo da solo, mentre le mie parole si perdevano nel vuoto di quelle stanze.

Quant’ero patetico nel ripetere quelle frasi nella mia testa?

Che cosa avrebbero pensato di me, se lo avessi detto ad alta voce?

Pazzo, mi avrebbero preso per pazzo.

Ero così dannatamente patetico!

«È una cosa che voglio dirti lo stesso.»

Il mio respiro era troppo grosso per qualcuno che voleva illudersi di non piangere. Per qualcuno che pensava che non l’avrebbe mai fatto – avrei resistito in quel momento, non poteva prendersi anche quella soddisfazione.

Soddisfazione?

Davvero credevo che gongolasse nel vedermi così?

E quanto gli stavo rivelando di me in quel momento? Stava vedendo tutta la mia fragilità, eppure non dicevo niente, non l’avevo reso partecipe di nessuno dei miei pensieri.

Tuttavia mi fissava, mi attraversava con quei suoi occhi verdi carichi d’innocenza, occhi che cercavano di entrare nei miei, di capirmi.

Sembrava che mi stesse sfilando i vestiti uno ad uno, ma mai gli avrei permesso di vedere la mia nudità. Non l’avrei permesso a nessuno.

Lui riprese a parlare, senza che io glielo avessi chiesto, ma non ne ero più così sicuro.

«Non sei l’unico a cui è successa una cosa del genere. Cioè», si riprese subito, quasi avesse fretta di chiarire. «Non come quella che è successa a te. Ma anche io ho perso qualcuno di importante.» La sua voce tornò a distendersi, come quando aveva iniziato. «Il risultato è lo stesso.» Esitò un momento. «Mi manca.»

Dio, se mi mancava Oliver.

I sentimenti che avevo sopito mi ritornarono su per la gola, bloccandomi il fiato e soffocandomi, annebbiandomi ancora la mente, e Oliver era lì, davanti a me, con quel suo sorriso che – Dio! quanto mi mancava non avrei più rivisto, ma quanto faceva male? Quanto?

Sentii la terra sgretolarsi sotto i miei piedi e il mio corpo sprofondare in un dolore che non riuscivo più a sopportare, che aveva sedimentato dentro di me e che ora era pronto a cibarsi della mia fragilità, e io che non riuscivo a oppormi, e mi trascinava giù, giù, in un nero che non conoscevo…

Eppure lui mi tenne in piedi, cinse il mio corpo con le sue braccia esili e lo strinse, per non lasciarmi cadere. Oliver mi aveva salvato, mi aveva aiutato a non cadere nell’oblio, mi aveva tirato su, fatto sedere sulla scrivania, invocava il mio nome.

Eppure Oliver non era biondo così, perché non era stato lui a salvarmi, non era stato lui a risvegliarmi da quello che speravo fosse solo un incubo. Non c’era Oliver davanti a me – non ci sarebbe stato più.

E quanta disperazione doveva aver letto nei miei occhi quel ragazzino in piedi davanti a me, che ora mi carezzava la schiena, mi toccava. Quelle dita a contatto col mio corpo mi fecero rabbrividire, perché si era stabilito un contatto, un legame, qualcosa che andava al di là delle parole, al di là dei gesti – solo sguardi.

Lui non diceva niente, tentava sorrisi strozzati dalla paura di essere inopportuno, mentre io a poco a poco tornai nel mio mondo, al mio ufficio, alla mia scrivania, alla mia realtà.

Feci un respiro profondo e ogni cosa tornò al suo posto, recuperai la mia corazza e la indossai – ma mi sembrò meno pesante di prima.

Nathan non disse niente. Attese qualche minuto per assicurarsi che fossi tornato in me, che non avessi bisogno di niente; poi tossicchiò, visibilmente imbarazzato da quel silenzio che si stava protraendo a oltranza. Mi accorsi che aveva le guance arrossate, probabilmente perché senza la sua sfacciataggine non era per niente capace di cavarsi d’impaccio da certe situazioni.

La cosa mi fece quasi tenerezza.

«Allora, io…», e prese a traccheggiare con le dita delle mani, indicando poi l’uscita, «vado, se non hai più bisogno. Cioè,» ancora quel tono di voce che voleva chiarire tutto e subito, «se non hai altro da dirmi.»

Inizialmente pensai che no, non avevo altro da dirgli. Forse non qualcosa che avrei voluto esprimere a parole. La sua sola presenza, lì di fronte a me, sembrava regalarmi una sorta di conforto.

Ma poi mi venne in mente qualcosa.

Qualcosa di buffo.

«In realtà sì, c’è qualcos’altro di cui vorrei parlarti. Magari mi puoi accompagnare a prendere qualcosa, così ne discutiamo.»

Aggrottò la fronte, sembrava quasi spaventato. Ancora, un bambino con la coda di paglia.

Era quasi divertente.

 

«Allora? Che cosa volevi dirmi?»

Molleggiava il piede destro con rinnovata agitazione, e io non potei fare a meno di tenerlo un po’ sulle spine. Sì, non era carino nei suoi confronti, ma mi regalava un’ilarità che non provavo da troppi mesi. E perse anche un po’ quel sapore di tenera vendetta che aveva animato le mie prime chiacchierate con lui, lasciando solo quell’intesa tipica di due amici di vecchia data, che però certamente non eravamo – né amici, né di vecchia data.

Ripensai all’episodio di quella notte, che era riuscito a farmi accantonare, per un momento, la disperazione per l’avvenuto scambio di telefoni.

«Mi ha scritto – o meglio – ti ha scritto un certo ‘SteveMerda’.»

Lui spalancò la bocca e si portò le mani al viso. Dentro di me pensai che faceva proprio bene a disperarsi così.

«Dimmi che non è vero.»

«È vero, è vero. Vuoi qualcosa?»

Eravamo davanti alla macchinetta. Optai per un tè al limone.

«Sotterrarmi?»

Mi fece ridere.

Ridere.

Mi ritrovai in imbarazzo. Io, che per tutto quel tempo avevo ormai imparato a essere quello ombroso, schivo e scontroso, ora stavo ridendo. Ero fuori dal mio personaggio. Che avrebbe pensato Ash, se mi avesse visto? Lui che mi conosceva solo da sei mesi, che non sapeva niente di ciò che mi aveva colpito due mesi prima che mi incontrasse? Mi avrebbe subissato di domande, avrebbe insinuato che ci fosse qualcosa tra me e Nathan – oddio.

D’istinto mi guardai intorno, come per assicurarmi che lui non ci fosse.

«Cerchi un posto per la mia tomba?», ridacchiò, ma divenne subito serio. «Cioè. Scusa. Era una battuta infelice.»

La macchinetta sputò fuori il mio tè.

«Non ci stavo nemmeno pensando.»

Sì, non avevo più dubbi: Ash avrebbe cominciato a ricamare sopra questa storia, a fare cornici di rose con i nostri nomi scritti dentro e a disegnare cuori trafitti dalla freccia di Cupido.

«Meno male!»

Girai la palettina dentro il bicchiere. Perché lo zucchero andava sempre tutto in fondo?

«Sai una cosa? Quella faccia seriosa non ti si addice. Sei meglio così.»

«Cioè stupido?», assottigliò gli occhi, quasi offeso.

«Chiamalo come vuoi.»

Nonostante tutto, riassunse di nuovo quell’espressione seriosa. Forse avevo detto qualcosa di sbagliato – cosa si agitasse in quella sua testolina era ancora un mistero, per me.

«Ah! Ma tu stavi cercando di sviare il discorso!»

«Io?», chiesi.

Sembrava essersi risvegliato tutto insieme. Pareva tornato quello di sempre.

«Sì, tu! Che ha combinato Steve?»

Mi spuntò un sorriso.

«Dovrei essere arrabbiato con te, ma non lo sono.» Mi divertii a osservarlo impallidire. «Ha parlato di una certa festa.»

Si coprì ancora il viso con le mani ed emise un gemito sconsolato.

«Alla quale andrai con un certo fidanzato.»

Sgranò gli occhi e continuai a pensare a quanto fosse divertente stuzzicarlo in quel modo, anche solo per le smorfie che faceva.

«Credo proprio di avere un impegno…!»

Come mosse i piedi, lo afferrai per un braccio. Un altro contatto, ancora. Non mi dava fastidio. Non c’era reale malizia in quello che faceva, né il desiderio di prendersi gioco di qualcuno. Quindi, forse per questo, accettavo di buon grado un qualunque contatto tra di noi. Perché non pensava che potessi provarci, non pensava a cercare significati nascosti in gesti innocenti, e questo perché sapeva. Non mi giudicava, né cercava di farlo. Era liberatorio.

«Dove scappi? Non ho mica finito.»

«Ti prego, non uccidermi!»

E inscenò un pianto melodrammatico.

«No, non ho intenzione di ucciderti. Però potrei denunciarti per aver diffuso false informazioni sul mio conto.»

Lo osservai assumere ogni tonalità dal rosa al bianco. Era impietrito.

«No, ti prego, ritiro tutto! Davvero, te lo giuro!»

Mi fece scappare un’altra risata. Una risata viva, di gusto.

Lontano, dentro di me, qualcosa cominciò a preoccuparmi.

Misi a tacere quella voce, così distante; perché i sentimenti negativi, anche se confusi, era meglio spezzarli sul nascere, nonostante i contorni sfumati.

«Nathan. Stavo scherzando.»

Tornò rapidamente a una colorazione normale.

«Oh. Ok. Dov’eravamo rimasti?»

«Ah, sì. Scordatelo.»

Gettai il bicchierino di tè finito da un pezzo e osservai l’ora: il mio turno era terminato da almeno trenta minuti. Iniziai a incamminarmi verso l’uscita e feci mente locale: portafogli e chiavi nella tasca interna della giacca, cellulare nel taschino dei pantaloni e la testa sulle spalle per riportare la mente all’indagine. L’ultima si rivelò poco più che un’intenzione, perché Nathan si aggrappò alla mia camicia e cominciò a strepitare.

«Non puoi abbandonarmi così, dai! È solo per una sera! Così me lo leverò di torno per sempre!»

Mi fermai e mi girai di scatto, tanto che per poco non mi finì addosso.

«Ma come ti è saltato in mente di dirgli che sono il tuo ragazzo? Tu sei matto e di certo non mi presterò a questa stupida finzione.»

Nathan si aggrappò di nuovo.

«È stata la prima cosa che mi è venuta in mente! Dai, ti prego, è solo una festa!»

Qualcuno si intromise tra noi.

«Festa?»

Era Ashton. Come arrivò tra noi, sentii il legame tra me e Nathan spezzarsi all’improvviso. Quell’incredibile complicità venne soppiantata dalla presenza di Ashton, che subito si scambiò un’occhiata con Nathan. In quell’istante, capii di essere distante anni luce dal rapporto di quei due, che certamente erano più sconosciuti di quanto lo fossimo io e Nathan. Mi sentii escluso, di nuovo; e se la prima volta avevo trovato quel fatto semplicemente maleducato, ora sentii un pizzicore allo stomaco, un fastidio che non trovò altro modo di manifestarsi.

Ero stato messo da parte, dimenticato in una frazione di secondo; e tutto ciò che avevamo condiviso in quei pochi attimi nel mio ufficio mi sembrò già svanito, volato via, un istante di qualcosa che somigliava alla felicità, che avevo afferrato per un momento e che già non tenevo più tra le dita.

«Sì, festa! Alan non vuole accompagnarmi.»

In quelle parole, nel modo in cui aveva strutturato la frase e nel tono in cui l’aveva pronunciata avvertii tutto il peso del legame che si era formato tra loro quasi a pelle, un legame che io non avrei mai raggiunto, forse con nessuno su questa Terra. E, infatti, non appena avevo avuto l’impressione di esserci quantomeno non troppo lontano, ecco che qualcuno si era immischiato e aveva fatto svanire ogni mia speranza.

«Perché non vuoi andarci? Ti farebbe bene.»

Nathan mi guardò con un sorrisetto divertito, lo stesso che forse gli avevo rivolto qualche minuto prima. Ma in quel momento mi infastidì, perché sembrò quasi che si fosse scordato ogni cosa di ciò che aveva scoperto. Era così ovvio il motivo per cui non volevo andarci!

Sarebbe stata una finzione, un teatrino, ma non me la sentivo. Non dopo che, oltretutto, mi sentivo tradito così. Nella mia illusione forse avrebbe funzionato. Non mi sarei comunque comportato da finto ragazzo, ma da amico, eppure sentivo che avrei potuto sopportare Nathan e quel suo modo di capirmi senza parlare. Invece, in quel momento, mi sembrava di non riuscire più a scorgere quella parte di lui. Forse non era mai esistita. Forse mi ero sognato tutto.

«Dai, per favore!»

«Su, Alan, non fare sempre così.»

«Non costringermi a farti gli occhioni dolci, dai!»

«E accetta, per una buona volta!»

Scoppiai.

«Basta! Ho detto ‘scordatelo’ e mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro. Quale parte di ‘scor-da-te-lo’ non capisci? Eh?»

Entrambi mi fissavano impietriti. Ashton, forse, anche con un po’ di durezza.

«Scusa, eh. Lo facevamo per te.»

Ashton non sapeva. Il suo sguardo era fermo: mi stava condannando e a me andava bene così. Non poteva capire e non mi interessava che lo facesse. Ma Nathan…

Nathan sapeva.

E il suo sguardo mi fece capire che, ancora una volta, aveva intuito ciò a cui stavo pensando.

«Non mi sembra proprio.»

Feci dietro-front e lasciai quei due a parlarsi di chissà cosa, forse anche solo a guardarsi, perché sì, loro potevano comunicare anche così.

Ma che me ne importava?

 

 

 

 

 

Angolo autrice

 

Salve a tutti!

Finalmente trovo il tempo per scrivere due righe sotto al capitolo. Ne approfitto intanto per ringraziare tutte le persone che hanno letto e recensito, mi avete resa felicissima! E mi complimento con voi per esservi sciroppati tutti questi capitoli lunghissimi, siete fantastici! XD

Questa storia è importante per me perché forse sarà quella con cui tenterò la pubblicazione (self o CE, vedremo) una volta che l’avrò terminata e pubblicata per intero qui su EFP, quindi ogni feedback è molto prezioso… e se ho in testa questo pensiero è solo grazie alle belle parole che avete speso per questa storia.

Quindi che dire, se non un immenso “grazie”? Col vostro sostegno mi è tornata la voglia di scrivere, pubblicare e anche interagire con gli altri autori. Sono davvero contenta! Tra l’altro i prossimi capitoli mi piacciono molto, non vedo l’ora di farveli leggere.

 

A giovedì!

holls

 

   
 
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