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Autore: observer90    21/10/2021    0 recensioni
POST MOCKINJAY / IL CANTO DELLA RIVOLTA
Nonostante la guerra sia finita e Panem sia libera dal dispotismo di Capitol City, gli incubi perseguitano Katniss e Peeta mentre cercano faticosamente di riscostruire una vita insieme.
Ho letto moltissime fanfiction su Hunger Games (si può dire che le ho scoperte proprio grazie a questa saga) e finalmente, dopo tanto tempo mi sono decisa a pubblicare qualcosa di mio.
Si tratta di una song-fic ispirata alla canzone di Florence and The Machine, intitolata appunto Spectrum (la versione lunga, senza il remix di Calvin Harris).
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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SPECTRUM



Say my name

As every colour illuminates

We are shining

And we will never be afraid again



 

“Katniss… no” Peeta geme nel sonno, svegliandomi di soprassalto e il cuore mi sprofonda dritto nello stomaco.

Scosto le lenzuola e mi stringo al suo corpo, accarezzandogli il viso sudato e scostandogli i capelli all’indietro, la paura mi attraversa come una scarica d’acqua gelata mentre i miei occhi registrano i movimenti febbrili e bruschi dei suoi polsi affondati nel cuscino: il ricordo delle manette unito all’incubo che lo sta torturando.

“Peeta” lo chiamo, cercando di trattenere il fremito che mi assale nella voce e l’ansia cresce dentro di me, facendosi strada come una crepa su una parete, “Peeta, svegliati”

Continuo a chiamarlo, accarezzandolo piano e pregando di riuscire a farlo riemergere dal mare oscuro nel quale piomba tutte le notti.

Spalanca gli occhi, e il sollievo che per un minuscolo frangente mi ha investita si sgretola nell’osservare il blu delle sue iridi soppiantato dal nero delle pupille: il marchio del veleno degli aghi inseguitori, la cicatrice ancora fresca che Capitol City gli ha inflitto.

Peeta resta steso su un fianco, continua a guardarmi con il respiro affannato, gli occhi ampi e neri, e una voce preme dall’interno del mio cranio urlandomi di scappare, di mettermi in salvo perché se resto lì con lui potrei non uscire viva da questa stanza.

“Katniss” dice ansimante, allungando una mano per scostare le mie dal suo viso, “Vattene” sibila, cercando di spingermi lontano da lui, “Vattene via” continua a denti stretti, affondando le dita sul cuscino e sul materasso, artigliando la stoffa al punto che sono sicura che riuscirà a strapparla.

Scuoto la testa, il cuore mi martella furioso contro la gola e prendo consapevolezza di un fatto sconvolgente: da un po’ di tempo a questa parte, da quando viviamo insieme e a lui capitano i soliti episodi di questo tipo, raramente riesco ad allontanarmi da lui.

La paura mi fa un effetto strano, paralizzandomi sul posto e impedendomi di perderlo di vista anche solo per mezzo secondo. Devo farmi forza in quei momenti dove capisco che ha bisogno dei suoi spazi per riprendersi, che ha bisogno del silenzio di una stanza vuota ad eccezione di una sedia con un ampio schienale su cui adesso sono disseminati i segni delle sue unghie.

“Non ti lascio solo” dico piano, e faccio per accarezzargli il viso ma Peeta riesce ad afferrarmi il polso con una velocità sorprendente.

“Va’ via” ripete a denti stretti, e la sua voce è talmente bassa da sembrare un rombo sommesso.

Non riesco a non avere paura, ma non è abbastanza forte al punto da farmi abbandonare la mia postazione.

Sono così stanca di questi giorni di ripresa altalenanti, di questi suoi episodi che riescono a strapparmelo via per una consistente quantità di tempo; sono stufa e arrabbiata, furiosa e ferita per il dolore e le torture che ha dovuto subire a causa mia, al punto che mi metterei ad urlare e a distruggere qualunque cosa mi passi davanti.

Ma ora come ora, faccio l’unica cosa che sembra avere un effetto positivo sui suoi episodi, qualcosa che a poco a poco riesce a riportarlo indietro, che lo fa tornare da me, al sicuro tra le mie braccia.

Avanzo e mi sporgo verso il suo viso che afferro con entrambe le mani, serro forte le palpebre e premo le mie labbra sulle sue, i sensi all’erta e che aspettando di sentirlo agguantarmi il collo con le mani come ha fatto nel Distretto 13.

Peeta cerca di scansarsi, tenta di spingermi via, ma c’è una forza strana che mi attraversa e che riesce inspiegabilmente a farmi da scudo contro le sue braccia forti.

Non riesco a quantificare il tempo che scorre, ma riesco a percepirlo mentre si rilassa sotto il mio tocco, le labbra che si schiudono piano per ricambiare il mio bacio, le mani che affondano fra i miei capelli, insieme a tutto il suo corpo che smette di lottare per attirarmi maggiormente su di lui.

Lo sovrasto mentre i miei capelli calano sul suo viso come una tenda spessa e scura, e continuo a baciarlo piano, quasi che mi trovi nel bosco alle prese con una creatura spaventata.

Peeta geme contro la mia bocca, e quando si stacca da me per riprendere fiato, mi avvolge il viso con entrambe le mani, i palmi che profumano irrimediabilmente di farina e tempere, calde contro le mie guance gelide per il terrore di poco prima.

“Non puoi fare così” mi sussurra a pochi centimetri dalle labbra, un tono di voce che sembra piuttosto incerto, specialmente non appena mi sistemo a cavalcioni su di lui strappandogli un sospiro di sorpresa e piacere insieme “Potrei farti del male” continua a parlare, deglutendo a fatica mentre gli afferro le spalle con entrambe le mani “Se ti accadesse qualcosa, non me lo perdonerei mai”

Gli copro la bocca con le dita, fremendo al contatto dei miei polpastrelli sulle sue labbra stranamente calde. Non so bene che cosa dire, quindi mi limito a lasciargli dei baci sulla pelle del viso, partendo dalla fronte e tracciando un sentiero lungo le guance, il naso il mento, la mandibola e bloccandomi a metà strada a pochi centimetri dalla sua bocca.

Il suo respiro è ansante, l’attesa lo sta visibilmente consumando e un moto di lieve autocompiacimento mi attraversa il corpo.

“Sono riuscita a riportarti indietro” gli dico, incapace di trattenermi e osservandogli con attenzione il viso per registrarne l’espressione.

Peeta spalanca gli occhi: “E’ troppo pericoloso per te, Katniss”

Lo bacio con forza, e qualcosa nel mio stomaco si scioglie come un liquido denso e caldo mentre lo sento trattenere il fiato. Mi stacco in fretta da lui, trattenendo un sorriso alla vista delle sue labbra ancora sporte in avanti e delle palpebre tremolanti: “Ma ci sono comunque riuscita” ribatto, sistemandomi meglio sopra di lui, prendendo consapevolezza di non indossare nulla sotto il pigiama.

Peeta sbuffa, un minuscolo sorriso gli attraversa la bocca come una falce di luna, ma quando i suoi occhi tornano su di me la loro espressione triste mi paralizza i muscoli.

“Come faccio a proteggerti da me stesso se continui a…”

Lo interrompo con un altro bacio, e qualcosa in me si sgretola nel momento in cui lui si allontana da me, bloccandomi le mani e guardandomi con una serietà così profonda da sconvolgermi.

Un moto di frustrazione e rabbia si impadronisce di me, mentre la mia lingua articola parole che sembrano sfuggire totalmente al mio controllo: “E’ in questa maniera che sono riuscita a farti andare avanti quando quegli ibridi ci stavano braccando” esclamo, godendo internamente nel vederlo vacillare “E quando io impazzisco per gli incubi, tu riesci a riportami indietro” lacrime calde mi scorrono lungo le guance, mentre un calore cocente mi infiamma il viso e il petto “Quindi spiegami perché dovrei lasciarti indietro quando tu hai uno dei tuoi episodi!” urlo, senza curarmi del fatto che sono le tre di notte e probabilmente Haymitch ci farà una ramanzina non appena farà giorno.

Peeta trema, nei suoi occhi passa qualcosa che però non riesco a decifrare perché la mia vista si appanna per il pianto. Faccio per scostarmi da lui, ma le sue braccia si avvolgono al mio corpo; lo sento affondare il viso sulla mia spalla, le labbra calde che mi sfiorano la pelle del collo provocandomi brividi sottili lungo la schiena.

“Scusami” mormora contro il mio collo, e le mie orecchie si raddrizzano come due antenne nel sentirlo singhiozzare, “Perdonami, ti prego, perdonami

Lo stringo a me, avvolgendogli il collo con un braccio mentre con la mano libera gli accarezzo piano i capelli.

“Stavo sognando…” singhiozza, interrompendosi per riprendere fiato e per guardarmi in viso, i suoi occhi sembrano ancora più blu nella penombra della camera, lucidi per il pianto al punto da assomigliare a due polle d’acqua “Sognavo c-che… t-ti… uccidevo” dice, inorridito e terrorizzato, più che dalle sue parole da sé stesso in persona.

Continuo ad accarezzargli la nuca, mentre lui continua a parlare, la voce rotta e incrinata al punto da farlo sembrare un bambino terrorizzato dall’oscurità: “Sembrava tutto così reale, e tu eri… sembravi…” un altro singhiozzo gli scuote il petto, mozzandogli il respiro e accartocciandogli il corpo come una foglia secca. Lo stringo a me, nella speranza che il battito del mio cuore e il calore del mio corpo siano sufficienti a scacciare via anche l’ombra sottile del suo incubo.

“Ci sono giorni in cui non riesco ancora a credere che tu stia con me” confessa, parlando contro la mia spalla e disegnando cerchi concentrici sulla mia schiena, “Inorridisco al pensiero di quello che ti ho fatto, di quello che avrei potuto fare se…”

“Basta” gli dico, prendendogli delicatamente il viso per spingerlo a guardarmi negli occhi, “Non è colpa tua, Capitol City…”

“Mi ha trasformato in un ibrido” mi interrompe, lacrime sottili gli segnando un percorso sottile e lucido sugli zigomi “Potrò anche continuare ad illudermi di essere sempre lo stesso, ma non è così”

“Hai ragione” gli dico rapida, stupendomi per un secondo della mia risposta, ma è un attimo breve e inconsistente quanto un soffio di vento, “Non sei lo stesso, nemmeno io sono la stessa”

Prendo atto mentalmente di tutte le parole che escono dalla mia bocca, ma non ne sono spaventata o atterrita: la consapevolezza di essere cambiata in modo irreversibile, partendo dai nostri primi Giochi per arrivare alla guerra, mi porta un insolito senso di quiete che non avrei mai creduto di potervi associare.

“Non siamo più gli stessi, Peeta” gli prendo il viso tra le mani a coppa, il cuore mi batte forte nel vederlo così, incapace di togliermi gli occhi di dosso e con quegli occhi così aperti da darmi la presunzione di riuscire a leggervi dentro “Ma il fatto che sia così, non deve impedirci di andare avanti”

“E tu vuoi andare avanti con me?” domanda con voce flebile e incerta, scatenando in me un moto di tenerezza infinita.

Non ho più paura dei miei sentimenti per lui, da tempo ormai le cose stanno così: sto pian piano imparando ad amarlo senza nessuna riserva, pur con la consapevolezza amara del dolore passato e del futuro incerto che si prospetta al nostro orizzonte.

“Sì” gli rispondo, percorrendogli i lineamenti del viso con i polpastrelli, la stessa delicata accuratezza che lui utilizza sui suoi dipinti e su di me ogni volta che mi sfiora, “Sì, Peeta. Voglio andare avanti con te”

Resto ferma, incatenata al suo sguardo che mi attraversa e mi dà la sensazione di essere sotto una corrente calda, come in un giornata di sole tiepida.

Con lentezza, quasi temesse di vedermi svanire, Peeta mi attira a sé prendendomi la nuca con le dita; mi bacia come se fossi un oggetto fragile e delicato, qualcosa che potrebbe sbriciolarsi alla minima pressione.

“Io sono un pericolo per te” mormora, la punta del suo naso che sfiora la mia.

Vorrei urlare, ma la mia voce è ridotta ad un sussurro, che a dispetto di ogni cosa risulta essere dirompente e distruttivo dentro di me: “No che non lo sei” gli mormoro in risposta, strofinando le mie labbra sulle sue, senza baciarle ma semplicemente toccandolo per fargli capire che non riuscirà ad allontanarmi da lui, non importa quanto possa provarci.

Perché il pensiero di averlo abbandonato, più e più volte in passato, mi attanaglia ancora; la colpa, oscura e feroce, di essere io la causa di tutti i suoi mali, a partire dal pane che ha bruciato per darlo a me fino alle torture subite a Capitol City, mi stringe in una morsa gelida e feroce. Un dolore freddo che mi attraversa la pelle, tranciandomi i muscoli e le ossa, facendomi desiderare di essere morta.

Ma basta poco a farmi tornare in vita.

Un semplice tocco, che sia una carezza o un minuscolo bacio, è sufficiente a riaccendermi, scaldandomi dall’interno e risvegliando un desiderio feroce e quasi aggressivo di restare saldamente ancorata alla vita, al cuore che mi batte, ai polmoni che raccolgono ossigeno, ai muscoli che si tendono.

È sufficiente il dente di leone, Peeta, a farmi tornare in vita.

“Dillo” Peeta mormora contro la mia bocca, prendendomi per i fianchi e sistemandomi maggiormente sopra di lui “Dì il mio nome”

Lo bacio, temporeggiando appena prima di accontentarlo.

Sussurrerei il suo nome fino alla fine dei tempi, fino a vederlo svanire nell’eco della mia voce.

E quando lui sussurra il mio alla mia richiesta, riesco a capire quanto siamo sulla stessa lunghezza d’onda.

Non appena pronuncia il mio nome, è come se la vita stessa esplodesse per sprigionare tutti i suoi colori, che diventano più nitidi e luminosi via via che andiamo avanti.

Via via che trasformiamo questa notte insonne, insozzata da incubi e immagini cruente, imbrattata dal dolore delle cose passate, in una notte d’amore.

Sembra di splendere, sembra quasi che brilliamo di una luce vivida.

È quello che ci serve per ricacciare indietro l’oscurità, e per sapere che d’ora in avanti nemmeno la paura di quello che non sappiamo sarà in grado di paralizzarci al punto da non voler continuare a camminare insieme.

Uniti, legati.

Innamorati.

 

 

   
 
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