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Autore: EnryS    22/10/2021    0 recensioni
[post war-arc | spoiler fino al cap #303]
La mano dell’altro sfiora appena la pelle nera della sua giacca, fermandosi l’attimo prima di poggiarvisi in tutto il suo peso. Quell’esitazione è straniante, considerando come quello stesso uomo era stato solito toccarlo in passato. Hawks sa che Endeavor non lo ha mai visto forte, non fisicamente — non come lui — ma sa anche che non l’ha mai considerato fragile. Finora. «Ti serve una mano?»
Hawks volta appena la testa a quella domanda, le labbra incurvate da un sorriso amaro restano celate dalla mascherina che ha sul volto, e forse Endeavor potrà dedurre i suoi pensieri dal modo in cui i suoi occhi dorati si socchiudono appena al ricordo di una situazione tanto simile, eppure tanto diversa da sembrare il ricordo di un’altra vita.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Endeavor, Hawks
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Questa ff è stata scritta a ... febbraio(-ish) per l'Easter Advent Calendar del gruppo https://www.facebook.com/groups/337102974212033 ( Prompt: #60 - Pelouche )
Note: Manga Spoilers fino al #303. Si tratta di una canon divergence, dal momento che è sottintesa una relazione fra i personaggi e degli hc e uno sviluppo che non sono canonici, ma che tiene conto di tutto quanto accaduto nell’opera originale finora.

 


 

 

     "Sei sicuro che va bene?"

     Endeavor inclina la testa, ancora palesemente disabituato ad ascoltare Hawks parlare tramite la voce metallica che viene fuori dal cellulare. Lo osserva senza rispondere subito, ed Hawks può quasi vedersi attraverso quegli occhi prepotentemente chiari che lo scrutano ora che finalmente sono liberi da altri occhi indiscreti tutti attorno. Deve a malapena riuscire a vederlo, fra la maschera nera che lo aiuta a respirare che gli copre il volto dal naso al mento, e tutte quelle bende che lasciano scoperti soltanto gli occhi e la parte superiore dei capelli che di quel nuovo look non ne hanno beneficiato in quanto a compostezza.

      «Sì, sono sicuro. Vivo solo, qui.» Gli risponde infine, poggiando il lungo cappotto su una poltrona. Hawks si guarda intorno, osserva l’arredamento tradizionale eppure frettoloso, spoglio. Si vede che Endeavor ci vive da poco.

     Non si è esattamente autoinvitato, ma voleva evitare di restare fra i piedi di Jeanist e con quanto la stampa ha detto di lui, Hawks non era troppo entusiasta all’idea di andare in un albergo. Tornare nel Kyushu non era un’opzione, e quindi: eccoli lì. Sono mesi che non è solo con Endeavor, e quando prova a sfilarsi goffamente la giacca a sua volta, Hawks quasi si stupisce della maniera apprensiva, anche se impacciata, con cui l’uomo gli si avvicina. «Hawks…» La mano dell’altro sfiora appena la pelle nera della sua giacca, fermandosi l’attimo prima di poggiarvisi in tutto il suo peso. Quell’esitazione è straniante, considerando come quello stesso uomo era stato solito toccarlo in passato. Hawks sa che Endeavor non lo ha mai visto forte, non fisicamente — non come lui — ma sa anche che non l’ha mai considerato fragile. Finora. «Ti serve una mano?»

     Hawks volta appena la testa a quella domanda, le labbra incurvate da un sorriso amaro restano celate dalla mascherina che ha sul volto, e forse Endeavor potrà dedurre i suoi pensieri dal modo in cui i suoi occhi dorati si socchiudono appena al ricordo di una situazione tanto simile, eppure tanto diversa da sembrare il ricordo di un’altra vita.

     Ti dispiace? Gli aveva chiesto Hawks, sfoggiando con fierezza le sue grandi ali cremisi sedendosi sul bordo del divano nel suo appartamento a Fukuoka, chiedendogli aiuto per sbottonare il collo della sua tuta nera. La spalla lussata era stata la scusa ufficiale, il sudore e il sangue che avevano addosso per quella giornata passata ad inseguire, combattere, schivare, conoscere fin troppo cemento e altrettanto asfalto, erano stati l’innesco del desiderio di sentire l’odore dei propri corpi, tanto feroce quanto il resto delle azioni della giornata.

     Adesso, ad Endeavor difficilmente piacerà quello che vedrà sotto la giacca di pelle nera, pensa Hawks digitando pigramente un “OK” sul suo dispositivo che fa immediatamente risuonare quella parola nella stanza. Inspira, chiude gli occhi lentamente, accettando il dolore che gli provoca quel movimento delle spalle necessario a poter lasciare che l’altro gli sfili la giacca. Quel che ha sotto è una maglietta bianca, larga, che cade sul suo corpo bendato lasciando sbucare da dei piccoli fori sul retro quel che resta delle sue ali.

     «Hawks…»

     Dal sospiro rumoroso, doloroso, che sente provenire dalle labbra dell’uomo alle sue spalle, Hawks già sa cosa Endeavor sta per dire, e si affretta a prevenirlo sollevando una mano mentre con l’altra scrive in fretta sullo schermo del cellulare.

     "Sto bene."

     No, ovviamente non è vero, pur nella sincera caparbietà con cui quella frase è stata detta, o insomma, scritta. Hawks è quasi morto per via di tutto il fumo incandescente che aveva respirato mentre veniva bruciato vivo, e la sua gola è ancora troppo malmessa perché lui possa parlare per più di un paio d’ore nell’arco della giornata. Le sue ali, ridotte a dei monconi, ricrescono lentamente, e dolorosamente, filamento dopo filamento. Prima di poter sviluppare di nuovo delle piume ci vorrà tempo e chissà se torneranno forti abbastanza da consentirgli di volare di nuovo. Hawks non vuole, non può pensarci adesso. Ci sono troppe cose di cui parlare e troppo poco tempo.

     «Da quanto hai addosso queste garze?»

     È la domanda, piuttosto inaspettata, di Endeavor. Hawks si volta a guardarlo, perplesso. È vero, non le ha cambiate da quando è stato dimesso, non ne ha avuto il tempo, fra andata e ritorno in auto con Jeanist da casa di sua madre e il tempo che aveva passato a farsi mettere al corrente di quello che era successo mentre lui era stato incosciente, trattenuto per un filo sottile che oscillava fra la vita e la morte. Avrebbe dovuto principalmente stare a letto, secondo il parere dei medici, ma con una guerra in corso e, fra eroi morti e feriti e quelli andati in pensione, Hawks non ci aveva neanche pensato a tornare a casa sua e riposare. Chi ancora poteva rialzarsi aveva il dovere di farlo, e così aveva fatto lui.

     "Perché?" digita, sul telefono, guardando Endeavor che continua a tenere gli occhi fissi sulla sua schiena fasciata.

     «Perché sono bagnate, e di un colore strano.»

     La notizia fa ricadere la testa di Hawks teatralmente all’indietro. Come se avesse il tempo per quel genere di cose. Portandosi una mano dietro il collo, il ragazzo fa scattare la chiusura che rilascia la mascherina in un piccolo sbuffo di vapore.

     «Non è niente,» spiega, con quella voce che suona come vetro rotto che viene calpestato, logora dal fuoco e dal fumo, quasi un contrappasso per tutte le bugie che ha dovuto dire in tutti quei mesi. Sono le sue ali che ricrescendo producono una specie di sostanza simile al plasma sanguigno, e Hawks dovrebbe tenere tutto più asciutto e pulito possibile, per le ustioni che ricoprono la schiena in quella zona, ma ovviamente, aveva rimandato tutto. «Posso usare il tuo bagno per cambiarle?»

     Endeavor inspira, aggrottando la fronte perplesso, o forse solo avvilito.

     «E come pensi di riuscirci?»

     Un piccolo colpo di tosse precede quel «In qualche modo farò» che è la sua risposta, mentre apre lo zaino tirando fuori una busta di carta contenente tutto quello che gli avevano dato in ospedale.

     «Non puoi neanche muovere le spalle abbastanza da toglierti la giacca. Trovo assurdo che ti abbiano detto che potevi occuparti di— questo da solo.»

     «Infatti non l’hanno detto.»

     Ribatte in un ghigno, e nei suoi occhi per un istante tutto quello che hanno vissuto sembra scomparire dietro la complicità che immediatamente sembra riappropriarsi dell’atmosfera soltanto grazie a quel modo che ha di sorridere, per lui.

     «Sei——» non continua, Endeavor, limitandosi a masticare un grugnito fra le fauci e a guardarlo un po’ esasperato. È strano, rendersi conto di quanto sia diverso anche lui, sembra più arrendevole, più spento. Forse lo sono entrambi. Gli ci vogliono due passi, al gigante di fuoco, per raggiungerlo e prendergli la busta dalle mani. «Siediti sul divano.» Gli ordina. In risposta, Hawks solleva le mani in segno di resa.

     Senza aspettare che sia l’altro ad occuparsene, Hawks fa passare la parte anteriore della maglietta davanti al volto e sopra la testa. Per fortuna è abbastanza larga e comoda da non impigliarsi nell’apparecchiatura che ha attorno al collo a cui è attaccata la mascherina. Dopo che ha sfilato le braccia, questa ricade sopra le piccole ali guidata soltanto dalla gravità. Endeavor non dice niente, mentre taglia la garza con la sicurezza di chi ha compiuto quei gesti tante volte, ed Hawks non se ne scopre stupito come avrebbe immaginato. È vero che chi conduce una vita come la loro deve più o meno essere abituato a gestire quel genere di cose, ma la competenza con cui Endeavor sta tirando via quella garza, continuando a irrorare la pelle con quel flaconcino che gli era stato fornito, sapendo esattamente cosa fare e quando, non è qualcosa che viene dalla sua esperienza professionale.

     Touya, pensa Hawks, sentendosi improvvisamente tremendamente in colpa, intrappolato in un contorto e grottesco gioco di matrioske per cui la vittima continuava a mangiare il carnefice e ancora e ancora, in un loop senza fine. Endeavor aveva imparato a curare le ferite da ustione sul corpo di suo figlio, quello stesso figlio che aveva ridotto Hawks in quello stato. 

     «Eri serio, prima?»

     Hawks, col respiro che già inizia a farsi pesante e affaticato, e lo stomaco contratto per il dolore che inizia ad insinuargli nei suoi pensieri, sbatte le palpebre un momento.

     «Eh?»

     Chiede, confuso, mentre si domanda se Endeavor sappia anche questo. Se sappia quanto adesso abbia bisogno di pensare ad altro, di allontanare la mente da quella sensazione di pelle che si squaglia.

     «Quello che hai detto in ospedale. Che quando eri bambino, guardavi i miei — video.»

     «Ah. Quello.» Hawks inspira divertito. «Beh, ogni bambino ha un supereroe preferito, Endeavor-san. Avevo anche un tuo pupazzetto di pelouche.»

     Endeavor non ride, non sbuffa, non dice niente. Hawks non può vederlo, perché adesso la schiena gli fa così male che non può neanche pensare di girare la testa, e per una volta non riesce nemmeno ad immaginare l’espressione sul volto dell’altro. Non sa quanto Endeavor abbia saputo, di quel che aveva rivelato Dabi, né che fra tutte le menzogne e le verità distorte che aveva svelato al mondo sul conto di Hawks, quella su suo padre era vera: Endeavor l’aveva arrestato, e così facendo aveva spezzato il lucchetto della gabbia in cui Keigo era stato tenuto fin dalla nascita. Era stato Endeavor a salvarlo da quella vita, anche se lui non l’aveva mai saputo, anche se non l’avrebbe saputo mai, quanto un pupazzo di pelouche può significare per un bambino che non ha niente.

     Hawks sta per dire qualcosa, ma non ci riesce: ostacolato da una serie di colpi di tosse, si limita a stringere la stoffa dei pantaloni sulle ginocchia, chiudendo gli occhi. Endeavor gli poggia una mano sulla parte alta della spalla destra, dove miracolosamente non è rimasto bruciato.

     «Okay, è venuta tutta via. Mi dispiace, so che è fastidioso. Sei stato bravo.»

     Hawks sorride, trasformando quegli ultimi colpi di tosse in una risata amara. «Preferivo quando me lo dicevi in altre circostanze

     «Idiota.» grugnisce Endeavor, mentre inizia ad applicare la crema sulla pelle ustionata con una delicatezza strana, che stavolta non tradisce soltanto competenza di una gestualità familiare, ma qualcosa di diverso. Hawks vorrebbe quasi chiedergli cosa c’è? Ma non lo fa, e non perché sente troppo dolore per parlare, o perché la gola sembra ingoiare lamette ad ogni respiro, ma perché non vuole conoscere davvero la risposta a quella domanda, non adesso. Quindi permane uno strano silenzio, nella stanza, interrotto esclusivamente dal respiro rauco di Hawks e dalla carta della medicazione che viene strappata. Ci vuole tanto tempo, Hawks realizza solo adesso quanto — proprio come il fatto che da solo non sarebbe riuscito a fare proprio niente — per occuparsi di tutte quelle ustioni, posizionare le bende tutto attorno alla base delle ali, e poi fissarle fasciando di nuovo per intero il suo corpo, dal collo alla vita.

     Quando ha finito, Endeavor si siede sul divano, lì dove si trova, alle sue spalle, quasi a voler rimanere fuori dal suo campo visivo.

     «Hawks—— mi dispiace.»

     Hawks socchiude gli occhi un momento, giocherellando con la mascherina che ha in mano e senza intenzione di assecondare Endeavor in quel tipo di discorsi. Non ce n’è il tempo e non è nemmeno il caso.

     «Di cosa?» chiede quindi, aggrappandosi con tutte le sue forze ad un ultimo spiraglio di leggerezza, inevitabile, necessario, per una creatura come lui, nata per volare. «Non dirmi che hai dimenticato qualcosa e devi ricominciare daccapo.»

     «No.» La voce di Endeavor suona infastidita, già quasi nuovamente esasperata dal suo modo di fare perennemente poco serio. Quasi. «Sai cosa intendo. Questo. È stata tutta colpa mia.»

     Okay, Hawks inspira. Endeavor non intende mollare la presa, a quanto pare. E lui è troppo stanco per continuare in quel gioco. Quindi, raccogliendo le poche energie che gli rimangono si muove, spostandosi sul divano un centimetro alla volta fino a ritrovarsi seduto orientato quasi totalmente verso l’altro.

     «Hey: basta. Non ho voglia di giocare a questo gioco.» Hawks è serio adesso, ma la sua voce non suona dura, e non soltanto per via del fatto che riesce a malapena a parlare. Semplicemente lui non le vuole, le scuse di Endeavor, come non vuole le scuse di nessuno. Ha corso un rischio, un rischio enorme, sapendo dall’inizio che sarebbe potuta finire male. Ha solo fatto quello per cui è stato cresciuto e addestrato, quello che gli era stato ordinato, e se era finita in quel modo, la colpa non era di nessuno. E se proprio c’erano colpe da addossare, al massimo Hawks se le prenderebbe su di sé, su di sé e basta, per non aver capito che Dabi non aveva mai, neanche per un attimo, creduto alla sua recita. «Le mie ferite sono una mia responsabilità. Giusto, Endeavor? Non sei il solo che può usare queste frasi da film.»

     Endeavor sembra studiarlo, e sembra quasi diffidare, per un istante, come chi si chiede se si siano davvero conosciuti, fino ad ora, se si siano mai guardati negli occhi senza il filtro dalla realtà di menzogne in cui Hawks era stato costretto a vivere per tutti quei mesi, e senza la corazza dietro la quale Enji aveva, di rimando, vissuto da così tanti anni da averla resa parte di sé. Scuote solo la testa, infine, sospirando pesantemente, rumorosamente, come chi non è abituato a non avere l’ultima parola eppure adesso anche lui troppo stanco, esausto da tutto, per insistere.

     «Vuoi riposare?»

     Gli chiede, ed Hawks sorride, inclinando la testa. Ora che il dolore inizia ad attenuarsi, si sforza di sollevare le braccia e riallacciarsi la mascherina sul volto.

     "No," Hawks risponde, riprendendo a comunicare tramite il suo smartphone. "Abbiamo del lavoro da finire."

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Thanx for reading <3

   
 
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