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Autore: StagTree    02/11/2021    1 recensioni
E’ inspiegabile, avvilente – quando ti guardo mi tocca qualcosa, le dita affettuose di una stretta, unghie, coltelli – quando ti guardo mi tocca la speranza che qualcosa nel mondo di salvabile sia ancora rimasto.
( hardenshipping )
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ivan, Max (Team Magma)
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Videogioco
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“Questa storia partecipa a “Luoghi dell’Orrore” indetto sul gruppo facebook Il Giardino di Efp

https://www.facebook.com/groups/476570382775792/posts/1325267377906084/?comment_id=1325272091238946¬if_id=1634736968060257&ref=notif¬if_t=group_comment_mention
 
una raccolta di cose più o meno inconcludenti che ho scritto nelle ultime due settimane. qui ci sono i prompt che ho scelto (quelli che ho usato sono quelli cancellati). archie = ivan e maxie = max
 
 
 
 
 



 
you never could quite bite the bullet
you just sink into your bed with a belly full of lead woes



 
 
 

i.

Traccia le dita sulla silhouette nuda delle sue costole e gli pronuncia parole delicate, a bassa voce, per non romperle – “Sei un mucchio d’ossa, Max,” sorride, e con confidenza sagace, scherzosa, aggiunge, “Sicuro non te l’ha mai detto nessuno.”

“Ovviamente,” risponde, Maxie, fingendo indifferenza, “Né tu, né tutti gli altri.”

E poi è silenzio; il palmo di Archie preme caloroso sul suo sterno, gabbia di cristallo, e si immagina Maxie sporcarsi i denti tossendo di rosso, cercando aria, polmoni lacerati, le ossa che sotto al suo peso si spezzano e aprono i suoi organi come schegge di vetro. Lo potrebbe fare, chiudere Maxie in un mucchio di polvere e dolore, non è difficile, Maxie è fragile, è esile, è il debole rametto di un albero malnutrito e disidratato; lo potrebbe fare, raccogliere le sue ossa da terra e guardarlo soffocare, sputare nel sangue menzogne graziose, bruciare e scomparire, dissolversi negli atomi implacabili dell’acqua. Lo potrebbe fare: Archie lo osserva con affetto chiudere gli occhi e contemplare il sonno dietro le palpebre stanche, e come le muove, come le alza e le avvicina al suo collo per contarne i punti morbidi della pelle, sente le dita tremare.
 
 

ii.

Suo padre dimena le mani con precisione esperta, taglia la testa del Magikarp, netto e pulito, e dice, “Mira, mijo,” sorridendo, paziente, “Così si fa.” E Archie ascolta, annuisce, guarda gli occhi vitrei del pesce e la bocca aperta che non respira più, inspira l’odore del sangue – e il sole lo stesso batte su di loro e sul mare e sulla carne morta, senza volerne sapere nulla di piangere, malgrado questo, malgrado tutto.
 
 

iii.

Shelly spegne la barca dopo essersi allontanata a sufficienza da non farsi notare dalla riva, si toglie la maglietta e si butta nell’acqua a torso nudo. Archie segue; nuotano insieme fino alla prima boa in vista, ci si appoggiano e riprendono fiato, ridono del Wingull ostinato che rimane accovacciato sulla boa malgrado il loro arrivo, caparbio, inflessibile. Accetta la loro presenza con un verso mentre la boa danza sull’acqua mossa.

Shelly gli dice, “Hey,” tra un respiro e l’altro, perspicace, e Archie ascolta, come sempre fa, come sempre farebbe, “Hey? Hai l’aria di uno che sta pensando ad altro.”
Archie non risponde subito, gira la testa, guarda la barca: finge di vederlo seduto a leggere un libro, godersi la culla naturale dell’acqua, coperto di crema solare, occhiali da sole – ma magari anche lui si butterebbe ad un certo punto, si lascerebbe aiutare a raggiungere la boa con Archie, stringere un polso per paura – un polso, magari una mano, le dita, una guancia; magari non si butterebbe proprio e Archie tornerebbe sulla sua barca e lo incontrerebbe di forza, togliendogli gli occhiali, salutandolo col corpo bagnato, imponendosi, coprendolo con le braccia larghe, il petto nudo – o magari, magari nemmeno Archie si butterebbe, magari rimarrebbero entrambi sulla barca, insieme, asciutti, un’isola, loro ed il gabbiano, nessun altro.

Archie dondola la testa e pensa, vagheggia – si abbandona al sogno per ancora il tempo di leccarsi le labbra e godersi l’acqua salina e deglutisce, tira appena un angolo delle labbra senza che un sorriso di fortuna gli tocchi gli occhi. “Magari,” le risponde, bugiardo, e guarda i suoi piedi muoversi invisibili dentro l’acqua per tenersi a galla. Magari,

Magari Maxie si farebbe trascinare sotto con lui, si farebbe annegare. Magari la sua testa è talmente pesante – intelligente, astuto, apatico, empatico – da non riuscire nemmeno a galleggiare, o magari sarebbe Archie ad ancorarlo al fondo dell’oceano per scoprire nuove forme, nuove vite. Maxie non appartiene al suo mondo, umido – ma magari, magari per Archie, in una fantasia lontana ed inviolabile, si lascerebbe comunque soffocare da esso.
 
 

vi.

Il docente di Sistemi Morfoclimatici entra in aula con un saluto distinto e siede in cattedra coi suoi libri e quaderni ancora in mano; gli cade una penna nel tragitto, ma non si ferma per raccoglierla. Gli studenti in aula rispondono al saluto con voci incerte – l’arrivo del professore ha coperto gli animi di tutti di una tensione spessa, tetra, e soffocano in un silenzio congiunto e preoccupato mentre aspettano che sia il professore ad aprir bocca, o qualche altro temerario seduto sulle seggiole.

Maxie guarda distratto un angolo dell’aula. La figura distinta del docente non lo intimorisce – da lontano, dall’alto del suo seggio, non è che un uomo nel suo piccolo trono, maledetto dalle rughe e dalla vecchiaia, privato di ogni senso di rispetto reciproco e di empatia per una gioventù che non toccherà mai (o mai più), nemmeno con il più sbiadito degli sguardi. Maxie pensa – Maxie sogna, con la schiena diritta e le mani congiunte sulla sua bella stilografica, morsa da dita magre, aguzze – Maxie si cruccia, per un attimo, e lo vede entrare, in ritardo, salutarlo con la mano, corricchiare su per gli scalini e sedersi vicino a lui, sorridergli, commentare a bassa voce, chiedergli appunti. Maxie ascolta, chiude gli occhi e ascolta la sua voce distante, abbassa il colletto alto del suo dolcevita per scaldarsi il collo nudo di un respiro che non c’è, e non ci sarà – né oggi, né domani, né in riva al mare dietro un tramonto rosa e fuggente, toccando l’acqua con le dita dei piedi, seduto su un molo. Mi butta nell’oceano, pensa, mi trascina dalle gambe come una sirena e mi porta sotto. Lui non è in università. Non entrerà da quella porta.

“C’è una situazione di forte disagio nel campus,” spiega il professore, serio, schiarisce la voce e si tocca le lenti tonde, la barba bianca, con una punta di imbarazzo, “Chiunque abbia avuto la brillante pensata di lasciare che il proprio Gengar giocasse nelle aree riservate agli studenti di Studi Umanistici, è pregato – ” con tono, “cortesemente di andarselo a riprendere il prima possibile. Il corpo docenti non è riuscito… il Gengar sfugge a chiunque gli si avvicini per prenderlo. Nelle Pokéball non entra. Si suppone non sia selvatico, dunque, se Dio vuole, e nella speranza che qualcuno di voi trovi del sale in zucca e se lo vada a riprendere, faccio un appello…”

Il professore si alza in piedi, “Se era uno scherzo di Halloween, signori miei,” annuncia, e si sente ridere, sotto i baffi, parlottare a bassa voce, sorrisi nascosti dietro mani, composti, “non fa assolutamente ridere.”
 
 

vii.

“Gentile Maximilian,” la professoressa lo saluta, con finto garbo, “E’ stato molto cortese da parte sua accogliere la mia richiesta. Capisco quanto il tempo libero per voi studenti sia prezioso.”

Un Mighthyena ruggisce, silenzioso, e mostra i denti in un angolo della stanza, sotto la testa di un Sawsbuck dal manto autunnale, e un Vivillon, immobile, in una teca di vetro. Dietro una poltrona di pelle bordeaux, un’alta lampada da salotto, l’unica luce accesa dell’ufficio – “La prego di sedersi,” lo richiama, e Maxie obbedisce, e siede su una delle due sedie di fronte alla larga scrivania di vetro. Alla sua destra, due Vulpix, di cui uno Alola, e un Rockruff, cucciolo, finge di grattare il parquet con le zampe anteriori.

“Spero che la tassidermia non le arrechi disturbo,” la professoressa commenta, e sorride, e Maxie alza il mento, arriccia il naso.

“Alcuno,” risponde. Il Seviper dormiente ai suoi piedi respira, e gli mostra la lingua.
 
 

xi.

Fluttua giocoso nella piazza centrale di Mauville, un Gengar, rosicchiando un Lavottino; c’è una piccola folla di bambini che lo guarda fare piroette per aria, sorridere coi denti grandi, lanciare il biscotto per aria e prenderlo al volo. I bambini applaudono; uno solo di loro sfugge alla stretta protettiva della mamma, con una busta di carta in mano – glielo appoggia a terra, a distanza di sicurezza, e il Gengar si avvicina, lo apre, lo esamina – lo strappa, aperto, e si siede a terra per inghiottire ingordo altri biscotti. La mamma recupera il bambino, cauta, e tutti gli altri ridono, buoni, teneri, prima che il Gengar esaurisca i biscotti e scompaia sotto terra. Maxie tiene una borsa di plastica per mano, le braccia di una bilancia – e quando la folla si scioglie nella piazza, si dirama in ogni direzione, Maxie segue, si allontana dal Centro Pokémon, verso il campus.
 


xii.

Maxie cammina nella tuta tutta nera di cotone, sotto il sole, in un’area di campagna kantoniana infestata dai serpenti; poco più avanti, i suoi compagni di avventura, che con un bastone picchiano ogni Ekans che gli si avvicina per allontanarli, fino ad incapacitarne uno a suon di calci.

“Che si levino, cazzo,” dice uno. Ammira il suo bastone sporco di sangue e lo getta a terra – si guarda indietro – “Hey,” lo chiama – e incontra Maxie strizzando gli occhi, il sole in faccia.

“Ti muovi?” ammonisce. L’altra recluta, impaziente, più lontana, già si perde tra l’erba alta.

L’Ekans ancora respira quando Maxie gli passa accanto.
 
 

xv.

Il professore di Scienze Morfoclimatiche finisce la sua lezione e si prepara per andarsene; prima che un fiume di studenti gli passi accanto per uscire dall’aula, alza una mano – li chiama, ad alta voce, “Halt,” – e tutti si fermano.

“Ho un annuncio da fare,” continua, severo, “Il Gengar è stato preso, o meglio… il Gengar è finalmente sparito. Vi ho visti settimana scorsa, e ho giusto avuto il tempo di dirvelo prima che smettesse di girare per i corridoi del campus. Supponendo che il cacciatore di fantasmi sia tra voi, la situazione è stata esasperante abbastanza da dovervi un ringraziamento.” Echeggia una risata piatta, e poi, “Potete andare.”
 


xviii.

“Se mi avessi lasciato aiutare,” dice, sorride, una guancia cullata su una mano, “Probabilmente sarebbero venuti meglio.”

Di tutta risposta – e Archie sa, che se Shelly non fosse presa con lo shampoo, si indicherebbe il viso per mostrargli gli occhi che girano – un timido dito medio, tondo di bolle bianche. Dice – “La tinta va bene,” e poi ci ripensa e dice di nuovo, “La tinta andrebbe bene, se non fossi stata di fretta. L’unica soluzione adesso è lavarli il più possibile, così se ne va via prima.”

“E poi cosa fai?”

“E poi la rifaccio, senza il tuo aiuto,” strizza i capelli nella vasca,  “Voi uomini non ne sapete nulla di tinte, né di capelli, in generale. Non farmi scuola.”
 

 
xxi.

In cima ad una collina, nel verde – una chiesa, antica e decrepita, senza campane. L’edera, sui lati, si infila nelle crepe del sasso, del vetro delle finestre; l’erba è verde, alta, e dal basso copre la vista dell’entrata, e il fantasma di un sentiero che non esiste più. Archie gli afferra una spalla – mano calda, possente, e Maxie si ferma subito, teso, immediato – come non potrebbe fare altrimenti, pensa; se mi lasci, cado a terra – e gli indica l’edificio decadente con l’indice della mano libera.

Spiega, “Camminiamo da stamattina,” e gli fa un cenno stanco con la testa, “Pausa time.”

“Sarebbe bello, se avessimo tempo,” Maxie gira la testa, guarda altrove, “Dobbiamo raggiungere Lavender prima di domani mattina.”

“E quindi? Abbiamo tutta la notte.”

“L’idea era di arrivare lì e dormire in un letto comodo.”

“Vestiti così?” Archie si indica la R rossa sul suo petto, “Max, sei proprio un ottimista. Se pensi che qualcuno ci lasci dormire in qualche pensione senza chiamare la polizia, o chi cavolo ne so, sei proprio stupido. Dai,” due pacche sulla schiena, due passi in avanti, e un altro cenno della testa, “Due minuti. Se non mi siedo svengo.”

Uno stupido, pensa, un ottimista – ma non c’è tempo nemmeno per le lamentele; semplicemente barbotta, Maxie, sottovoce, e lo segue, facendosi strada tra i fiori e le erbacce. Ai piedi della chiesa una scalinata, e Archie è già lì seduto, beve acqua da una borraccia. Maxie rimane in piedi, si tiene un braccio con una mano, si guarda intorno – niente, nessuno; la vista su Saffron è illuminata, distante, sotto un sole invisibile, nuvole grigie. Le luci dei palazzi, sbiadite dalla nebbia, gli ricordano un aeroporto.

“Che c’è?” chiede, Archie – e da quanto mi guardi, pensa, Maxie, intenso, denso, e non lo sa, non se lo spiega, ma lo sente – una strana elettricità nell’aria, un’eccitazione sconvolta, irrisolta, da mordersi le labbra, da rabbrividire, sudare. Non vuole sedersi, vuole correre, scomparire – è stanco, no, non vuole correre, non sa cosa vuole, pensa, cosa voglio? Cosa voglio?

“Pronto?”

“Dovremmo tornare indietro,” dice, Maxie, svelto, e poi rettifica, “Dovremmo incamminarci. Verso Lavender. Trovare altre reclute, restare in gruppo…”

“Con quelli lì?” Archie sputa a terra, con disgusto, “Neanche morto. Sono tutti figli di puttana, nessuno si salva. Gli ho visto fare cose che nemmeno voglio ricordare. Che comunque, cosa ci andiamo a fare a Lavender? In un cimitero? Gente del genere non ha rispetto per nessuno, figurati i morti.”

“Non possiamo fare finta di niente e disobbedire agli ordini. Ci è stato chiesto di andare alla Torre Pokémon e quello faremo.”

Sbuffa una risata, Archie, ironico, e “Sennò?” dice. Sennò?

Sennò il chaos, pensa, Maxie, sennò il disordine, la disobbedienza; sennò il castigo, la sofferenza – non è stata una scelta obbligata, la loro, potevano scegliersi un’altra strada, un’altra vita, potevano perire di solitudine altrove, a casa loro, nella loro Hoenn, distante, maledetta – Archie, pensa, e “Archie,” dice; fingiamo di essere padroni di noi stessi ma i sentimenti sono più forti, penetranti. Vittime di vite desolate e senza futuro – una laurea fa la differenza, forse, mi istruisce, ma cosa serve studiare, come cambia il mondo un pezzo di carta, come lo fermo, come lo faccio smettere di girare, di bruciare, di sciogliersi, rivoltarsi – come divento grande abbastanza da sapere come fare, cosa fare, cosa volere – cosa voglio, Archie? E’ inspiegabile, avvilente – quando ti guardo mi tocca qualcosa, le dita affettuose di una stretta, unghie, coltelli – quando ti guardo mi tocca la speranza che qualcosa nel mondo di salvabile sia ancora rimasto.

Pazienta, però, pensa; pazienta. Non è ora il momento, non hai gli strumenti, le persone – le persone; guarda Archie con il respiro mozzato e pensa, non ancora, pensa, non ancora. Ripete, “Archie,” lo muove un’ingordigia ubriaca, un timido stimolo di curiosità indigesto, nuovo, è nuovo, è tutto nuovo – guarda dall’entrata l’interno della chiesa, le facciate ornate di affreschi di creazione, Pokémon regali fluttuando su nuvole dorate, leccati dai raggi del sole e della luna, le stelle, le Lastre – “Sai cosa succede a chi non rispetta gli ordini dall’alto.”

Archie alza un sopracciglio, coglie una sfumatura di lui che non ha mai visto, la accoglie, e Maxie non la nasconde, non la vuole nascondere – si alza in piedi e si pulisce i pantaloni con le mani, sbattendo via polvere e sporcizia. “Senti,” dice, “Chi se ne frega. Que será, será, no?”

“Cosa c’entra?”

“Nulla,” e aggancia la borraccia al fianco; gli sorride, Archie, fa un passo in avanti, gli dice, “Entriamo,” e così fanno. La chiesa è il fievole fantasma di ciò che è una volta stata, un edificio di media imponenza, importanza, casa di spiriti perduti nella geografia dell’inspiegabile, incomprensibile, accogliente come può esserlo solo un bieco orfanotrofio per credenti e malati. Le file di banchi sono ancora in ordine, il legno mangiato dalla negligenza e l’abbandono; le vetrate, al centro dell’ampia parete principale, colorano un organo alle loro spalle, in alto, raggiungibile con una stretta, inutilizzabile, scala di Baccaliegio. Un altare siede impolverato in fondo al lungo corridoio centrale; c’è un’altra entrata alla loro destra, blindata dai rami perfidi e indomabili dell’edera. Maxie ammira con indifferenza calcolata ogni centimetro della chiesa – ne riconosce la bellezza svanita, l’importanza storica, l’odore che appartiene ad un’altra epoca – il freddo, l’umidità, il gruppo di Zubat appesi in un angolo alto alla loro sinistra, minuti, cauti; si strofina le braccia con le mani mentre Archie, intento, assorto, percepisce la solitudine della chiesa con altri occhi, più nostalgici, sensibili. Cosa celi, pensa, Maxie, dietro le iridi scure; cosa non conosco di te, di ciò che pensi, che hai pensato, di ciò che vedi e hai visto – pensa, Maxie, che cosa hai visto di me, e le dita ancora tremano, elettriche, e il cuore batte, frenetico, e i polmoni – apre il petto, lo chiude, ampi respiri. Archie sembra ricordare, distratto – Archie abbassa lo sguardo e soffia, aria condensa dal freddo, e si volta, guarda Maxie e sospira – chiede, “Hai mai pregato?”, e Maxie scuote la testa.

“No,” risponde.

Archie annuisce. Spiega, “Mio padre era un credente, e mi portava in una chiesa come questa a pregare ogni domenica quando ero bambino. Mi diceva di stringere le mani in un pugno, così,” e glielo mostra, “E pensare forte forte alla mamma.” Archie si guarda le mani congiunte, e dopo una pausa, continua, deglutisce, “Non l’ho mai vista, quindi quando pensavo – e lo facevo, davvero la pensavo – mi ero creato un’immagine di mamma tutta inventata. Mio padre mi diceva di aver lasciato indietro tutte le sue foto, di non averle potute portare a Hoenn.

“Penso si veda,” si indica il palmo chiaro, e poi gira la mano, più ambrata, “Ma non sono nativo di Hoenn, in teoria. Quello che so è che mio padre si è stabilito a Hoenn per fare il pescatore. Non so perché non lo potesse fare dov’eravamo prima.”

Maxie non risponde, ascolta; guarda Archie aprirsi come una lunga, rovente ferita, intima, perdendo sangue ad ogni parola, ogni sillaba, e lo ascolta, non pensando ai propri genitori, non pensando a sua madre, debole, accovacciata su una seggiola, con le occhiaie, suonando mesta il piano – non pensando a suo padre, distante, con le mani dietro la schiena, lo sguardo fitto, tagliente, severo, ostinato, imponente – fondamentalmente triste e solitario, come la chiesa, come Archie, solo, lasciato al mondo a soffocare, senza meta. Maxie lo ascolta, e Archie si guarda intorno, sfiora con le dita i banchi di legno, marci, bagnati. Maxie lo immagina seduto sui banchi a fianco delle larghe colonne di sasso, piccolo, le mani strette, concentrato, mormorando preghiere a bassa voce. Suo padre si è sempre rifiutato di entrare in chiesa – presuntuosi bugiardi, li chiamava, i credenti, uscendo dalle chiese, guardandoli in televisione, celebrando l’amore divino – si toglieva la fede al dito e la lasciava in un cassetto del suo comodino, ma chiamava gli altri bugiardi, complice della sua incoerenza.

“Per me Hoenn è casa,” continua, Archie, guarda la vetrata, in alto – un vulcano, una montagna, dei pilatri, un triangolo ed un cerchio dorato, spinato, “Mio padre era l’unico legame che avevo con la mia terra natia. Ora posso decidere per me stesso. E ho deciso che Hoenn è la mia casa.”

“Perché sei qui, allora?” presunzione, incoerenza, bugiarderia, “Questa non è Hoenn.”

“Perché mio padre è morto,” risponde, “E senza famiglia, non ho niente.”
  
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