Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Carme93    08/11/2021    0 recensioni
I nati del 1998 sono figli della guerra e della vittoria su Lord Voldemort.
La loro nascita ha simboleggiato nuova luce nel buio delle tenebre e gioia e speranza in un mondo in macerie da ricostruire. Un chiaroscuro insito nella vita di ognuno di loro.
La generazione figlia della guerra arriva a Hogwarts.
Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Potter, Minerva McGranitt, Neville Paciock, Nuovo personaggio, Teddy Lupin | Coppie: Harry/Ginny
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo diciassettesimo
 




 
 
 
Svolte (im)previste
 
 
 




Enan avanzò deciso nel corridoio: era il momento che aspettava, quello per cui aveva messo in piedi quella messinscena. I suoi ‘zii’ erano a lavoro e i suoi ‘cugini’ nel salone a giocare. Li avevano lasciati soli, ritenendo che ‘Thomas’ fosse maturato abbastanza da poter badare i ‘cugini’ per qualche ora. Quasi gli dispiaceva tradire la loro fiducia in quel modo, ma lui non era Thomas e doveva scoprire quale fosse la verità. Aveva atteso fin troppo.
Si guardò intorno e poi aprì la porta dello studio di suo zio. Con il cuore in gola costatò per la millesima volta di essere solo nel corridoio. Entrò, assottigliando gli occhi per vedere meglio nonostante la penombra, causata dalle tapparelle abbassate.
Non c’erano schedari come a casa, perciò decise di perquisire prima i cassetti della scrivania. Fortunatamente era molto ordinata, ma ciò non facilitò comunque il suo compito: dove venivano conservati di solito i certificati di nascita?
Nel primo cassetto c’erano delle agende, piume, boccette d’inchiostro, ma nulla che potesse solo assomigliare all’oggetto della sua ricerca. Nel secondo, c’erano un blocco di carta intestata e una scatola di legno. La tirò fuori e l’aprì. Con il cuore in gola si accorse che erano ritagli di giornale. Di uno riuscì a leggere la data: 1998. Ma alcuni erano anche più vecchi. E tutti riguardavano l’ascesa di Colui-che-Non-Deve-Essere-Nominato e la famiglia Mulciber.
«Che stai facendo?».
Per la paura lasciò cadere la scatola a terra e i suoi piedi si ricoprirono di ritagli. Dalla porta lo fissava Michelle scioccata. La ragazzina teneva in mano la mazza che Enan aveva ricevuto per Natale.
Enan la fissò con occhi sgranati.
«Chi sei?» sibilò Michelle minacciandolo con la mazza.
«Come chi sono? Sono Thomas» tentò di sorridere.
«Tu non sei Thomas» replicò la ragazzina. «Dimmi la verità o te ne farò pentire».
Il ragazzino strillò quando la mazza oscillò a pochi centimetri dal suo petto. «Mi chiamo Enan. Enan Macfusty».
«E chi saresti?».
«Sono un compagno di Scuola di Thomas. Puoi abbassare la mazza?».
«Come faccio a sapere che non stai mentendo ancora?».
Bella domanda. Si fissarono per un attimo, poi Michelle tentò nuovamente di colpirlo. Enan che, per fortuna, aveva buoni riflessi indietreggiò appena in tempo, ma inciampò nella sedia e cadde a terra trascinandosela con sé. Il rumore mise in allarme Benji, che chiamò dal piano di sotto. Michelle troneggiava su di lui, brandendo ancora quella benedetta mazza e sembrava ben intenzionata a non mancare nuovamente bersaglio.
«Aspetta» borbottò Enan, tentando di pensare in fretta. «Come vuoi che te lo dimostri?».
«Questo è un problema tuo» sentenziò la bambina di nove anni con logica impeccabile.
«Lascia che ti racconti».
«Uffa, va bene» assentì Michelle, palesemente dispiaciuta di non poter procedere con la mazza.
Enan si sedette alzando le mani in segno di resa, come aveva visto più volte in alcuni fumetti babbani che circolavano al villaggio, poi iniziò a raccontare di quando aveva visto per la prima volta Thomas la prima sera a Hogwarts, di come fosse diventata una fissazione e di come fosse ben deciso a scoprire la verità.
«La parte su quanto sia odioso e vigliacco Thomas è sicuramente vera, ma questa cosa dei gemelli? Come faccio a crederti?».
«Aiutami a cercare il certificato di nascita» sospirò Enan. «Quella sarà la prova».
«Va bene, allora sicuramente sono…».
Le parole le morirono in gola: Benji strillava felice per il ritorno del padre.
Enan si rialzò in fretta.
«Se ci trova qui, ci ammazza» borbottò Michelle guardandosi intorno. «Raccogli quella roba, muoviti».
Enan si sbrigò a obbedire.
Michelle lo trascinò nella sua camera e solo lì presero fiato. Si fissarono per un attimo e poi Enan, sorridendo, le porse la mano: «Amici?».
«Ok, ma la mazza la tengo io e se…».
Enan sollevò nuovamente le mani in alto. «Sì, tranquilla».
In quel momento lo zio entrò in camera: «Tutto bene, ragazzi?».
«Tutto bene, papà» rispose Michelle con tono falsamente angelico e nascondendo la mazza dietro la schiena.
Il padre la fissò scettico, ma sembrò volersi illudere di quell’apparente tregua tra i due cugini.
La serata trascorse tranquilla e, finalmente, Enan si sentì accolto da Michelle e Benji. In lui, però, c’era il cocente desiderio di scoprire la verità: ogni volta che gli sembrava di esserci vicino, si allontanava. Era così frustrante.
 
 
*
 
 
 
«Ti odio» borbottò Charlie per la millesima volta. E sua madre, per la millesima volta, la ignorò.
L’aveva costretta a indossare un vestito di lana, che non solo la pizzicava tutta, ma era anche orribile e scomodo. Zoey le aveva detto che i Babbani avevano il Telefono Azzurro, chissà se avrebbero risposto anche a una strega.
Il vestito, però, non era la cosa peggiore, Oh, no, la crudeltà di sua madre era andata oltre: la stava trascinando a casa di Matilde Gould, perché coltivasse delle buone amicizie. Sua madre aveva pessimi gusti.
Per giunta, quel fedifrago di suo fratello Willy era riuscito a defilarsi con la scusa dei compiti. Ci aveva provato anche lei, ma la madre non le aveva creduto. Che rabbia!
«Eccoci. Muoviti e comportati bene».
Charlie le fece una boccaccia e colse il labbro di Chris, al volante, piegarsi in quello che sarebbe stato ben più di un sorriso se non fosse stata presente la ‘signora’. Gli regalò una linguaccia tanto per ringraziarlo del suo mancato sostegno e scese di malavoglia dalla macchina.
Un elfo domestico aprì loro la porta, ma furono subito raggiunti dalla leziosa signora Gould, che scoccò due sonori baci sulle guance di Charlie. Poteva vomitare ora? Si guardò bene dal chiederlo alla madre.
Si disse che poteva sopportare Matilde per un paio d’ore, poi sarebbero tornate a casa e sarebbe stato tutto un brutto ricordo.
Il suo proposito durò finché non entrò nel salone della sfarzosa villa dei Gould: era un raduno di Serpeverde. No, non ce l’avrebbe fatta.
Matilde le venne incontro con il suo sorriso più falso e Charlie cercò di ricambiare, perché ora era in minoranza numerica e doveva studiare gli avversari.
«Oh, sono contenta che Charlotte sia venuta» cinguettò la signora Gould accomodandosi sul divano con l’amica. «Mia figlia ha invitato anche altri compagni di Hogwarts. È bello che i ragazzi possano coltivare le loro amicizie anche durante le vacanze».
«Sì, sono sicura che Charlotte si divertirà».
Stronza, pensò la ragazzina non trattenendo un’occhiataccia alla madre.
«Matilde, tesoro, perché non salite in camera? Così puoi mostrare la nuova bambola di porcellana che ti abbiamo regalato per Natale».
Bambola di porcella? Charlie odiava quella collezione. «Perché, invece, non usciamo in giardino a contemplare le rose?» balbettò.
Sua madre le lanciò un’occhiataccia.
«Ma non essere sciocca, fa troppo freddo fuori» rispose la signora Gould, con una certa impazienza nella voce. «Su, andate».
Chissà quale pettegolezzo doveva raccontare, se aveva tanta fretta di liberarsi di loro.
Charlie colse lo sguardo divertito e cattivo di Matilde, ma il suo orgoglio non le avrebbe permesso di andare a supplicare sua madre – la stessa che l’aveva trascinata in quella casa con la forza – perché era terrorizzata da quelle orribili bambole.
«Giochi anche tu con le bambole, Edward?» chiese tentando di darsi un contegno, mentre salivano le scale di legno chiaro e lucido.
Edward Burke arrossì e si affrettò a negare.
«Lui prenderà il tè con noi, come un rampollo che si rispetti».
Charlie fece una smorfia, ma notò che Burke si limitò ad abbassare lo sguardo. Evidentemente, non solo non sapeva farsi rispettare da Dolohov, ma nemmeno dalle sue compagne di Casa.
Elisabeth Foster ridacchiò e le lanciò un’occhiata interessata. Edith Yaxley, invece, aveva un’espressione annoiata in viso. Evidentemente Charlie non era stata l’unica a essere stata obbligata a star lì.
Conosceva a menadito la villa e la cameretta di Matilde. La stanza era ampia, sembrava quasi uguale alle illustrazioni sui libri di fiabe: tanto rosa ˗ ora con qualche tratto di verde ˗, letto a baldacchino come quello di Hogwarts ˗ sul quale vi era una moltitudine di cuscini a forma di cuore e di peluche ˗, un’ampia finestra che si affacciava sul giardino innevato, una scrivania di legno chiaro completamente sgombro, una porta che conduceva al suo bagno personale e una al suo guardaroba, infine una libreria di medie dimensioni dove c’erano più sue foto che libri. Al centro della stanza c’era un tavolino già preparato per il tè. Forse ne avrebbero bevuto uno vero e non giocato alle ‘signore’ come quando erano più piccole ossia fino all’inverno precedente.
Edward sedette sulla sedia rigida della scrivania, sempre più imbronciato. Edith e Elisabeth sul letto. Matilde iniziò a parlare a ruota libera: l’esatta fotocopia della madre.
Charlie si affacciò annoiata alla finestra, provando a ignorare la coetanea intenta a tirare fuori tutte quelle orribili bambole di porcellana e allinearle sul cuscino del letto.
«Charlie, ti piace? Mio padre me l’ha portata dalla Germania».
La ragazzina si limitò a un lieve cenno del capo, senza nemmeno voltarsi. A Matilde, però, non bastò e le si avvicinò con quella cosa.
«Non è educato comportarsi così in casa d’altri» insinuò Matilde. «Dove sono finite le tue buone maniere?».
No, non la sopportava, ma doveva resistere se non voleva finire nuovamente nei guai: le vacanze erano fin troppo brevi.
«Perché non la prendi in braccio?».
Charlie le rifilò un’occhiataccia tale da costringerla a indietreggiare. «Non mi piacciono le tue stupide bambole».
«Non sai quanto le ha pagate mio padre… È che ormai sei abituata con quei tuoi amici straccioni… come si chiama? Ah, Becker. Sembra un cagnolino abbandonato».
Nessuno rise e la tensione nella stanza si fece sentire.
«Decapito la tua bambola» sibilò Charlie.
«Cosa?».
«Se non la allontani, la decapito».
«E come?» chiese interessata Edith Yaxley.
Charlie si guardò intorno, poi indicò la finestra.
Matilde si strinse al petto la bambola e la fissò inorridita. «Mio padre…».
«Chissenefrega di tuo padre».
«Lo dici solo perché il mio non è disabile».
Charlie strinse le mani a pugno, pronta a colpire, poi decise di ricambiare con la stessa moneta: «Almeno, anche se cieco, è veramente mio padre».
Matilde sgranò gli occhi e sembrò non trovare più divertente quel gioco.
«Che vuol dire?» chiese Elisabeth Foster.
«Significa che il signor Gould è il marito di sua madre, non suo padre» disse Edith Yaxley.
Charlie si disse che il metodo “Serpeverde” non fosse particolarmente soddisfacente: si sentiva a disagio dopo aver pronunciato quelle parole.
«Non ci ha perso nulla» intervenne a sorpresa Edward Burke. «Almeno lui fa finta di volerle bene. Non basta mettere al mondo un figlio per essere un buon genitore».
La Tassorosso lo fissò basita e così anche Elisabeth, gli altri non reagirono in alcun modo.
«Già, mio padre non mi ha mai regalato una bambola… nemmeno di pezza» borbottò Edith Yaxley.
Il disagio di Charlie aumentò: quelli erano i suoi nemici, non doveva provare compassione per loro.
I pensieri tristi furono interrotti da uno degli elfi di casa Gould, che servì loro il tè. Da quel momento in poi ripresero a far finta di essere gli eredi delle loro famiglie e non dei ragazzi di undici anni. Con esclusione di Elisabeth e di Charlie, che non potevano veramente comprendere la sofferenza dei compagni.
 
*
 
 
Zoey sedette sul letto di Chris a gambe incrociate, guardandosi intorno con un leggero velo di tristezza: solo pochi mesi prima era stato tutto diverso. Non riusciva ancora a farsene veramente una ragione. Sua madre aveva detto che ferite del genere impiegano tempo a rimarginarsi e, a volte, persino anni. Brutalmente sincera. Recuperò un peluche a forma di Topolino e se lo strinse tra le braccia.
«Zoey» tentò Chris abbandonando la penna.
La ragazzina si asciugò gli occhi, troppo orgogliosa per piangere davanti agli altri. Ormai trascorreva quasi tutti i pomeriggi a casa della sua amica, perché non voleva star da sola quando i suoi erano a lavoro.
«Sto bene» mormorò. «Continua, ho promesso a tua madre che non ti avrei disturbato, mentre fai i compiti».
La madre di Chris era abbastanza severa per la scuola, infatti anche quando erano ancora tutte amiche, Chris le raggiungeva sempre dopo aver svolto tutti i compiti, che loro puntualmente copiavano.
Chris, incerta, tornò alla sua traduzione di francese, ma dopo un po’ l’abbandonò. «Non riesco a vederti così».
Zoey scosse la testa, senza sapere che cosa dire.
«Che cosa vuoi che facciamo? Lo so che non sono all’altezza delle altre».
«Non è vero, non è questo».
Chris fece una smorfia scettica. «E quale sarebbe?».
«Forse Charlie ha ragione, dovrei vendicarmi e poi chiudere la questione per sempre».
«Vendicarti come? Uno dei tuoi scherzi?» chiese leggermente preoccupata. Sapevano entrambe come finivano gli scherzi di Zoey, di solito.
«Sì, e se lo ricorderanno» assentì la ragazzina. «Mi aiuterai?».
«Sì» rispose Chris dopo un attimo di tentennamento.
«Chiederò anche a Charlie, magari potrà portare qualche prodotto Tiri Vispi Weasley… i Weasley hanno un negozio di scherzi strepitoso. Dovresti vederlo!».
«Ma quindi il mondo della magia…».
«Esiste ed è fantastico! A Hogwarts ci sono fantasmi e quadri che parlano!».
«Forte!» esclamò Chris con gli occhi che le brillavano. «E sai spostare gli oggetti con la forza del pensiero? Come la Matilde di Dahl?».
«Con la forza del pensiero no, ma c’è l’incantesimo di levitazione».
«Oh» sospirò Chris estasiata. «Perché non mi porti con te?».
«Non sei una strega» mormorò Zoey dispiaciuta.
Chris s’intristì, ma annuì. «Sì, giusto. Funziona sempre così. Oh, quanto sarei voluta nascere strega anch’io!».
«Sarebbe stato bello averti a Hogwarts» replicò sinceramente Zoey abbracciandola.
«Senti, ma quei Tiri Vispi Weasley di cui parlavi sono prodotti magici?» chiese Chris dopo aver sciolto l’abbraccio.
«Sì».
«E me li farai provare?».
«Penso che non ci saranno problemi» rispose Zoey eccitata.
«Evvai!» strillò Chris saltellando per la stanza.
Zoey sorrise. «Ti conviene finire francese, se vogliamo andare al cinema».
«Giusto! Faccio in fretta».
Zoey si stravaccò sul letto, questa volta più agguerrita.
 
 
 
*
 
 
 
«Ce la fai?».
«Sì» mormorò Charis, brandendo con passo vacillante una pala. Fino a quel momento aveva creduto che servisse solo a scavare buche nel giardino.
Shawn scoppiò a ridere.
Charis arrossì, ma non volle consegnare la pala all’amico. «Fammi fare».
«Come vuoi» sorrise il ragazzo, tornando a spalare la neve nel vialetto. «Non sei obbligata ad aiutarmi però».
«Non è un problema. Mi diverte».
«Contenta tu. Io ne farei a meno, ma se non trovano il vialetto spalato chi li sente i miei?».
«Austin non ti aiuta?».
«È più grande ed è Serpeverde».
«Quindi?» chiese Charis, che non aveva esperienza di fratelli maggiori.
«Quindi è particolarmente bravo a defilarsi».
«Ma non è giusto».
«È la legge del più forte» disse Shawn divertito.
«Ma i tuoi non possono approvare» s’indignò Charis.
Shawn smise di spalare per un attimo e le sorrise: «Non lo sanno, ma tra fratelli ci dev’essere solidarietà».
«Come quando lascio copiare i miei compiti a Zoey e Charlie?».
«Sì, esattamente».
«Zoey e Charlie mi ringraziano».
«A volte lo fa anche Austin. I fratelli maggiori, però, sono molto orgogliosi».
«Mi piacerebbe avere un fratello» sospirò la ragazzina.
«Più grande o più piccolo?».
Charis si strinse nelle spalle.
«Posso prestarti Austin, se vuoi. Gli stai simpatica».
«Non credo ci guadagnerebbe molto. Non riesco nemmeno a sollevare questa cosa».
Shawn rise e le tolse lo strumento dalle mani. «È che sei ancora piccola e gracile».
Charis assunse un’espressione dispiaciuta.
«Non fare il broncio. Sei adorabile e apprezzo la tua compagnia».
«Grazie».
«E comunque, Austin aiuta me se necessario».
«Com’è vivere con un Serpeverde?» chiese Charis dopo un po’.
«Si sopravvive».
«Questa cosa della rivalità tra Serpeverde e Grifondoro non riesco a capirla».
Shawn si strinse nelle spalle. «Risale ai Fondatori, conosci la leggenda no?».
«Sì, il litigio tra Godric Grifondoro e Salazar Serpeverde».
«Già, poi la guerra ha anche inasprito il tutto, indipendentemente da quello che dicono i professori. Sai, ammiro molto il professor Paciock: nonostante lui abbia vissuto la guerra, tratta i Serpeverde, figli e nipoti dei Mangiamorte, allo stesso modo di tutti gli altri studenti…».
«Ma è un insegnante…».
«No, Charis» disse serio Shawn fermandosi. «Il perdono non è per tutti. McBridge non è un insegnante? Eppure non ha perdonato».
«Perdonato, cosa?» chiese sorpresa Charis. Con gli altri aveva indagato sul suo Direttore, ma non aveva scoperto nulla. Non aveva pensato di chiedere al Grifondoro.
«Non so molto» mormorò il ragazzo abbassando la voce, «ma ha perso tutta la sua famiglia tra la prima e la seconda guerra magica. Per questo non può vedere i figli dei Mangiamorte».
Qualcosa sul passato di McBridge l’avevano intuita, soprattutto dalle parole del padrino di Teddy. Eppure qualcosa continuava a non tornare. «Ma Mark? Perché ce l’ha con lui e i suoi fratelli?».
«Becker? Quel ragazzino dall’aspetto malaticcio?».
«Sì, sai qualcosa?».
«No, posso chiedere ai miei se vuoi».
«Sì, grazie».
«Dai, qui abbiamo finito, andiamo a berci una cioccolata calda».
Charis lo seguì all’interno dell’abitazione, ma nella sua mente riecheggiavano le parole pronunciate poco prima dall’amico: Il perdono non è per tutti. Che ruolo aveva la famiglia di Mark nella distruzione di quella di McBridge?
 
 
*
 
 
«Ma a Hogwarts a che ora si cena?».
Teddy sprofondò nel cuscino del divano e sospirò: erano ore che Victoire lo torturava con i suoi “A Hogwarts…?”. Le voleva molto bene e avevano sempre giocato insieme senza problemi, ma in quei giorni lo stava annoiando.
«Dipende» borbottò.
«Da cosa?».
«Dai compiti, per esempio».
«Eh, sì, cara Victoire, iniziare Hogwarts rappresenta l’assunzione di nuove responsabilità, una nuova fase nella vita di ogni mago».
Teddy si sollevò quel tanto che bastava per lanciare un’occhiata scettica allo zio Percy, che, sfortunatamente, si sedette vicino a loro.
«E, dimmi, Teddy, come ti stai trovando?».
«Bene, grazie» mormorò cercando velocemente una scusa per filarsela.
«I tuoi compagni? Sono bravi ragazzi? Sai, è molto importante scegliere bene la propria compagnia… potrebbe portare sulla cattiva strada».
«Sono bravi ragazzi» tagliò corto il ragazzino, raddrizzandosi.
«Eh, ho sentito che la figlia del giudice Krueger è a Tassorosso, primo anno come te, la conoscerai senz’altro… il giudice quest’anno è tornato a lavoro… nomina spesso la figlia… dev’essere una ragazzina deliziosa… No?».
Teddy trattenne un sorrisetto: a Charlie non sarebbe piaciuto sentirsi etichettare come ‘ragazzina deliziosa’. «Sì, una brava ragazza».
«Non è quella che ha buttato un’altra studentessa nel Lago Nero?» intervenne Victoire, alla quale per qualche motivo davano fastidio tutti i compagni di Teddy, ma voleva che il ragazzino le raccontasse ogni cosa di loro.
«Impossibile» borbottò zio Percy. «Victoire non sai quello che dici».
«Beh, in realtà è vero» disse Teddy.
«Disdicevole, ma sicuramente lo farà per ottenere attenzioni… in fondo, una situazione familiare come la sua… non è facile per un bambino…».
Zio Percy non era mai coerente e rigirava tutto a proprio favore: Teddy non era così stupido da mettersi a discutere con lui.
«E c’è anche la nipote dell’Auror Williamson, no?».
«Sì, Charis è molto intelligente e timida» rispose Teddy, sperando che si stancasse. Sembrava di essere a una cena di Lumacorno.
«Poi c’è un McFusty… e? Quanti ragazzi siete?».
«Tre. Oltre me ed Enan, c’è Mark Becker».
«Becker, hai detto?» chiese zio Percy accigliandosi.
«Sì, perché? Conosci suo padre? Lavora al Ministero» si affrettò a rispondere Teddy: forse quella conversazione sarebbe stata utile.
Percy fece una smorfia e s’incupì. «Di vista» rispose rigidamente.
«Il professor McBridge odia Mark e i suoi fratelli. Lui non sa perché, ma secondo noi centra con i Mangiamorte».
Ora, Percy sembrava a disagio, come tutti quando si parlava della guerra e forse si era pentito di aver di aver iniziato quel discorso. «È difficile…».
«Cos’è difficile?» chiese Ron gettandosi sulla poltrona più vicina. Con lui c’era Harry e non sembrò felice di quanto gli riferì il cognato.
«Non credo sia importante» sentenziò Harry.
«Cosa? Sì, che è importante» sbottò Teddy. «Non puoi nascondermi tutto».
«Questi non sono affari tuoi, Teddy» disse Harry con fermezza.
Il ragazzino sbuffò e si rivolse a Victoire: «Dai, andiamo di sopra. Lasciamo gli adulti ai loro segreti». Prima di andarsene fece una linguaccia a Harry, che non si scompose.
 
 
 
 
*
 
 
 
 
Le braci ardenti illuminavano cupamente la stanza e creavano ombre inquietanti. Mark c’era abituato e non si preoccupò, anche perché a volte la realtà fa abbastanza paura da sé. Si strinse la coperta addosso sperando di ottenerne chissà quale calore; eppure il problema più grave non era il freddo esterno, ma quello interiore: sentiva una profonda mancanza dei suoi amici e di Hogwarts, tanto che quella vita ormai era intollerabile.
Suo padre lavorava tutto il giorno, come al solito, ma i nonni si erano letteralmente accampati in casa loro e sembravano ben intenzionati a non andarsene presto e a godersi i nipoti per tutte le vacanze. Due dei loro nipoti.
Mark evitava costantemente di stare nella stessa stanza dei suoi nonni e di Alexis, ma non ne poteva più di vivere con quell’ansia. Gli erano persino tornati gli attacchi di tachicardia.
Continuava a chiedersi perché suo padre l’avesse costretto a tornare a casa per le vacanze, se non gliene fregava nulla di lui.
Di una sola cosa era certo: quella situazione stava diventando troppo.
Ripensò alla lettera di Charlie e di come l’amica gli avesse suggerito chiaramente la strada da seguire: lei, però, era tendenzialmente irresponsabile e combinaguai, non certo un modello; ma il suo comportarsi bene, dove l’aveva condotto? Da nessuna parte. I suoi familiari lo consideravano meno di nulla.
Charlie aveva ragione: doveva agire.
Si alzò, ignorando i brividi di freddo, e si recò nel piccolo bagno di servizio, che non usava quasi nessuno. Lì aveva nascosto i suoi regali di Natale e, quella mattina, anche la sua bacchetta. Deglutì, consapevole della gravità della sua decisione.
Prese il sacco e raggiunse l’ingresso con il cuore in gola. La casa, però, era immersa nel silenzio. Indossò il giubbotto, cappello, guanti e sciarpa, poi uscì nella notte.
Fuori faceva molto freddo e la strada era ricoperta di neve, tanto che rischiò di scivolare ripetutamente.
Il quartiere dove viveva non era esattamente tranquillo di giorno, di notte ancora di meno. Mark avanzò faticosamente temendo che qualche malintenzionato lo aggredisse all’improvviso o che qualcuno lo andasse a cercare. Naturalmente, la prima opzione era quella più probabile.
 
Si allontanò da casa il più possibile e si fermò in uno spiazzo deserto. A questo punto estrasse la bacchetta, che fremette nelle sue mani. Aveva promesso a Vitious che non l’avrebbe più usata, ma non poteva fare altrimenti. Charlie era stata chiara.
Tese la bacchetta davanti a sé, ma quella non lo sopportava più di quanto non lo sopportassero i suoi familiari. Ci fu uno scoppio, ma Mark non ebbe il tempo di preoccuparsene, perché si ritrovò a terra sulla neve con un terribile dolore al braccio. Gemette. Doveva aver svegliato l’intero quartiere!
«Hai chiamato tu il Nottetempo?».
Gli scappò un urlo e fissò spaventato un giovane, ma soprattutto l’autobus violaceo su cui si trovava.
«Ma sei ferito».
«N-no, no» mormorò stringendosi il braccio e tentando di nasconderlo.
«Come no? Quello è sangue».
Mark seguì il suo sguardo e vide la neve chiazzata di rosso. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime e il dolore intensificarsi. Borbottò qualcosa di poco comprensibile sulla bacchetta.
«Vieni, ti portiamo al San Mungo» sbuffò quello.
Il ragazzino pensò di fare resistenza, ma il freddo, la stanchezza e la debolezza ebbero la meglio: la vista gli si annebbiò e perse conoscenza.
Quando si svegliò, si ritrovò in una stanza calda, bianca e da un fastidioso odore di disinfettante.  Tentò di sedersi, spaventato da quella nuova situazione del tutto inaspettata.
«Ciao». Fissò l’uomo con il camice verde acqua, che tranquillamente sedette sul letto accanto a lui. «Mi chiamo Anthony Goldstain, tu?».
Mark era terrorizzato e non rispose.
«Stai bene. Sei stato colpito da un incantesimo diffindo molto potente, dovrai tenere ancora la fasciatura… vedrai in un paio di giorni il tuo braccio ritornerà come nuovo».
Il ragazzino per la prima volta osò abbassare lo sguardo sul suo braccio: effettivamente era fasciato. Inoltre, non indossava più i suoi vestiti, ma una specie di pigiama verdastro, di una taglia o due più grande del necessario.
«Allora, come ti chiami?» gli domandò nuovamente il medimago.
«Mark» si costrinse a rispondere il ragazzino: non voleva che chiamasse suo padre.
«Piacere, Mark» replicò Goldstain. «Che facevi alle due di notte in una strada deserta?».
Ecco, quello era il genere di domande a cui non voleva rispondere. Fissò con ostinazione il lenzuolo.
«Va bene, dai, riposati. Magari ne parliamo più tardi, eh?».
Mark sollevò leggermente lo sguardo, incredulo che lo lasciasse andare così facilmente. Dormì qualche ora, ma senza continuità e in perenne ansia di veder spuntare il padre da un momento all’altro. Non voleva nemmeno pensare alle conseguenze delle sue azioni.
La mattina dopo un’infermiera andò a controllarlo e a portargli la colazione, ma Mark non toccò nulla nonostante le insistenze di quest’ultima.
Poco dopo, il guaritore della notte si fece rivedere senza camice. Mark sgranò gli occhi vedendo chi lo accompagnava.
«Buongiorno, Mark».
Il ragazzino ricambiò il saluto, ma sembrò più un guaito.
Vi fu un momento di silenzio, alla fine rotto da Goldstain. «Come le ho detto, professoressa, Mark sta bene, ma non ho avuto modo di contattare la famiglia».
Minerva McGranitt lanciò un’occhiata al ragazzino e poi si rivolse al medimago. «La situazione è molto complessa, ha fatto bene a chiamarmi. Prendiamo noi in custodia il ragazzo, se per lei va bene».
Gli adulti scambiarono qualche altra battuta, infine Goldstain si congedò.
«Che cos’è successo stanotte?».
Mark non ebbe il coraggio di tacere come aveva fatto con Goldstain e raccontò alla preside il suo tentativo di scappare di casa.
«Immaginavo» commentò lanciando un’occhiata all’uomo accanto a lei, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo. «Ho provato a parlare con tuo padre, ma essendo lui irragionevole e poco incline al dialogo, mi ritrovo costretta a prendere dei provvedimenti».
Il ragazzino la fissò terrorizzato: lo voleva espellere?
«Mark, ti presento Barnabas Becker, tuo nonno».
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Carme93