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Autore: Ishouldgoaway    20/11/2021    0 recensioni
La morte di Frigga è stata improvvisa, dolorosa e brutale per tutta Asgard. E tutti hanno voluto portarle il proprio, personale, ultimo saluto. Tutti tranne il dio dagli occhi verdi rinchiuso in una cella lussuosa quanto opprimente. Il divieto, per Loki, di partecipare alla funzione viene direttamente dalle labbra di Odino, ma non rimarrà a lungo senza conseguenze.
Dal cap. 2 [...] Lo aveva visto solamente un breve istante. Attorniato da guardie e guaritori come a formare una barriera. Battiti improvvisamente irregolari e violenti contro la cassa toracica.
Non era riuscito ad osservargli il volto. A notare i lineamenti espressivi di un viso inanimato. Ma soltanto a carpire gli orli macchiati delle vesti stracciate, martoriate come il corpo pallido.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L’unica possibilità accordatagli per assistere ai funerali corrispondeva tristemente alla sola modalità grazie alla quale, negli ultimi giorni, gli era stato possibile tornare a percorrere i lunghi corridoi del palazzo reale per affacciarsi a uno dei numerosi terrazzini e riuscire a scrutare nuovamente il cielo, il fiume che a poca distanza continuava nel suo tacito e ripetitivo scorrere, sempre uguale eppure così mutevole.

La sola via di fuga offertagli nel vano tentativo di non sprofondare nell’abisso della pazzia. Quelle illusioni proiettate dalla mente nel segreto della sua cella, al riparo dai curiosi e spesso irriverenti occhi dei suoi compagni di prigionia, costantemente ansiosi. Desiderosi di poter ammirare il tanto chiacchierato dio degli inganni all’opera. Aspettative quanto più disattese alla vista del giovane uomo assorto tra le pagine di uno dei numerosi libri giunti sorprendentemente sino al luogo considerato spiritualmente più distante da ogni forma di nutrimento per la mente.

Ogni giorno il principe di Jotun si dilettava nella lettura, volutamente ignorando ogni interferenza esterna, intervallato solamente, con regolarità, da quelle visite che, proibite, in segreto, venivano consumate tra le pareti intangibili che lo costringevano in quel buco soffocante.

Giochi di sguardi, consigli commossi, il dispiacere di una madre che vede il figlio consumarsi nell’intimo del proprio animo, assoggettarsi al proprio dolore, alla rabbia di un affetto mai pienamente corrisposto, velato da un’ombra di risentimento celata da chi aveva saputo che quel bambino crudelmente dimenticato tra gli sterili ghiacci di un mondo in rovina, mai sarebbe divenuto figlio di Asgard.

Un profondo lutto aveva permeato l’intero regno, incastrandolo tra le trame di uno stallo pesante, soffocante anche per coloro cui era concesso respirare aria nuova, pulita, riempire i polmoni di ossigeno vero e non di scarti, spiragli ribelli provenienti dagli ambienti superiori.

Un innocente respiro, nato nell’istante precedente attraverso le sue narici, gli era morto nella trachea al solo udire la tragica notizia portatagli dalla voce sconosciuta di una guardia anonima. Era sicuramente affidata a qualche compito in superficie. Mai visto. Da anima alcuna. Lì sotto i soli commenti rivolti alla figura erano stati animati da uno spirito di curiosità, nessuno degli insulti appartenenti al decalogo generalmente riservato ai corpi rivestiti dalle armature dorate si era librato dalle labbra di uno solo dei prigionieri, accompagnando così le grida e i lamenti che permeavano quel luogo costruito tra le ombre.

Subito aveva trovato rifugio tra le figurazioni della mente, nella bramosa ricerca di un riparo che si contrapponesse alla trasparenza dorata della sua prigionia.

Quale crudele condanna concedere agli irrecuperabili pareti invisibili, penosa illusione di una libertà ormai perduta, spietato scherzo per beffarsi di quella punizione alla quale nessuno avrebbe potuto sottrarsi. Nessuno. Nemmeno il dio degli inganni.

Rimase nell’ombra della propria magia persino quando lo stesso Thor venne a fargli visita, mosso da tutt’altro che desiderio di confortare il fratello, di condividere il dolore della perdita. Sceso tra gli ultimi del popolo perché richiamato dalla voce del giovane manipolatore.

Sicuramente non si sarebbe mai rifiutato a un simile gesto, eppure fu in grado di ammettere che quella repentinità nasceva dalla debolezza che l’improvvisa dipartita della madre aveva scatenato nel suo animo. Si riconobbe, per la prima volta, debole. Scavato in profondità da una tragedia che non aspettava di vivere in quelle vesti, e che mai avrebbe sperato così prossima.

Si mantenne dietro il sipario, al riparo dagli occhi del futuro re di Asgard anche quando lasciò la propria immagine incorporea pregarlo, supplicarlo con voce inverosimilmente ferma di lasciarlo assistere, anche soltanto dal fondo del corteo, alle celebrazioni funebri.

L’aveva fatto, lui, orgoglioso, invocando la sua benevolenza e quella di PadreTutto, aggrappandosi a quell’affetto rimasto intatto nell’animo del primo e a quel forte sentimento che lo univa alla madre ormai esanime. Odino non avrebbe potuto ignorare un simile legame, non lo aveva fatto nemmeno in occasione della sua condanna. Aveva prestato ascolto all’amata consorte e risparmiato la vita di colui al quale il Fato aveva inizialmente riservato la morte infantile.

Thor era poi svanito, ricolmo di promesse: avrebbe incoraggiato in ogni modo una concessione in favore del fratello proveniente dalle labbra del sovrano che raramente si discostava dal suo trono.

Lo stesso, dorato, che mai avrebbe accolto le membra fiere del dio degli inganni.

 

L’attesa di un responso l’aveva trascorsa rinchiuso due volte, nella propria cella e tra le grinze del proprio tormento. Una fortezza inespugnabile quanto impenetrabile che non sarebbe crollata se non per qualche breve istante, nelle ore successive.

Era riuscito a camuffare le urla tanto vigorose da graffiargli la gola, a mascherare la desolazione che aveva creato distruggendo quegli stessi arredi che Frigga gli aveva fatto pervenire al fine di rendergli meno opprimente una nuova realtà già sufficientemente avvilente.

Si era asserragliato nella solitudine che lo accompagnava, in uno stato molto simile all’alienazione, in cui l’ultimo frammento di controllo sopravvissuto era appena sufficiente a fare procedere l’illusione.

Seduto sul proprio letto, il solito libro aperto, lo sguardo fisso verso un orizzonte lontano. Nemmeno un suono fuoriusciva dalle labbra, le palpebre sbattevano a mala pena. Una costruzione perfetta, una perfetta elaborazione del lutto, traboccante di tutta la compostezza che il principe era stato educato a mantenere.

Apparenza. Vuota e fredda apparenza. Fredda come i ghiacci su cui era stato ritrovato, come la sua provenienza. 

Lo attese a lungo, voltandosi ansioso ad ogni rumore improvviso, sperando di scorgere il fruscio di quel mantello rosso seguire i movimenti del corpo.

Lo attese a lungo e quasi perse le speranze.

Lo attese giungendo alla conclusione che non sarebbe tornato. Le motivazioni, irrilevanti; che l’intenzione fosse mutata o il sovrano degli dei gliel’avesse impedito, per lui non ci sarebbe stata differenza alcuna.

Poi, improvvisamente, eccolo, vicino, forse troppo, alla parete invedibile ma ugualmente inviolabile per colui che costringeva al proprio interno.

“Sei tornato,” fece parlare la propria immagine. Voce calma, contemplativa, velata da una coltre amara. Il viso ancora rivolto in avanti, mostrando al fratello il solo profilo.

Capì subito il più giovane fra i due. Nemmeno una parola fu necessaria perché quel pensiero giungesse fin dentro la cella. Nessuna manipolazione mentale al fine di leggere le riflessioni private del legittimo erede al trono - rinchiuso là dentro non gli sarebbe comunque risultato possibile.

“Padre ha rifiutato, non è vero?” articolò accompagnandosi a un movimento del capo. Ora gli occhi potevano scrutarsi.

Lo appellava ancora con il nominativo di padre. Pensava realmente a lui come a una figura genitoriale o era un vuoto titolo per riferirsi a tutti gli dei figli suoi?

L’anziana divinità non aveva mai dato prova di comprensione verso le azioni del giovane dai capelli corvini. Portato ai piedi del trono, in catene, egli aveva udito chiaramente le dure frasi a lui dedicate. 

La vita che ancora impregnava ognuna delle sue parti era dovuta soltanto alle intercessioni di quella madre da cui era stato irrimediabilmente separato, quando Odino stesso aveva espresso il proprio risentimento attingendone fino all’ultima goccia per pronunciare una frase che più di qualsiasi altra gli aveva confermato l’identità di reliquia relegata ad Asgard fino al momento in cui si sarebbe finalmente rivelata utile - sarebbe dovuto morire infante, questo il primo diritto accordatogli dal Fato.

Ecco che era stato sufficiente quel preciso istante per decretare la definitiva rottura con quel genitore empio che gli era spettato in eredità. Gli occhi chiari non avevano smesso di scrutarlo, tradendo tuttavia una patina di delusa afflizione a fronte di simili inattese sentenze.

Thor sembrò riflettere, soppesare attentamente la scelta cui si sarebbe affidato. Gli avrebbe dato risposta, oppure avrebbe delegato al silenzio il compito richiestogli?

“Non è vero?” udì ripetere prima che gli fosse concessa la possibilità di prendere una decisione. Tonalità assente, voce dura eppure appena percettibile.

“Odino si è espresso riguardo l’irrevocabilità della tua pena, Loki,”

Tornò a mostrare il proprio profilo. Le braccia appoggiate alle ginocchia a convergere in un intreccio di dita, gli occhi a rivolgersi ad esso. Il libro di poco prima riposto al proprio fianco.

“Non sto chiedendo la libertà,” sentenziò privo di vigore alcuno. A seguito di una breve pausa puntualizzò “Per quanto questa prigionia si riveli quanto più ingiusta di momento in momento,” e scosse lievemente la testa.

Solamente poche ciocche nere assunsero, appena percettibile, una movenza, spostandosi dalle spalle e arrivando a sfiorare il collo pallido.

“Nulla di quello che era in mio potere è rimasto intentato," Immobile, la sua figura fiera e imponente stabile sul quel gradino che l’aveva portato allo stesso piano su cui il dio dell’inganno aveva i piedi poggiati.

Aveva volutamente scelto di ignorare l’ultimo commento del fratello, che del tutto esulava dalla tematica affrontata in un simile momento.

“Eppure non è servito a nulla, non sei stato ascoltato,” 

“Padre ha ritenuto inopportuno fornire la facoltà di fuggire a un prigioniero pericoloso come vieni considerato,”

“C’è altro. Continua,” lo incitò percependo l’incertezza del dio del tuono nel proseguire. Quell’animo tetro era già stato ferito con sufficiente brutalità, tanto che tormentare maggiormente la lesione non avrebbe apportato sostanziali differenze.

“Egli non reputa inoltre adeguato accordarti tale benignità a fronte dei crimini di cui ti sei macchiato," Thor portò a termine la frase con profondo rammarico e Loki sembrò leggergli dentro non appena iniziò a parlare.

“Benignità?” chiese incredulo. L’acredine a dipingergli l’inflessione vocale.

La testa si mosse una seconda volta, ripetendo il movimento appena pronunciato compiuto negli istanti precedenti. Le iridi arrivarono a scavare il pavimento, conficcandovisi nelle trame chiare.

“Benignità?” ripetè, questa volta alzando maggiormente il tono. 

Le gambe si stesero verticalmente, accogliendo interamente il peso del dio vestito di verde il quale iniziò una lenta camminata verso il fondo della stanza che aveva ormai misurato incalcolabili volte - quindici passi di lunghezza per ventuno di larghezza, il risultato di sempre. La nuca a nascondere le fattezze del volto. Le mani nuovamente intrecciate, questa volta dietro la schiena.

“La chiama benignità quando l’unica ad essere implicata è la legittimità,” si perse in una breve risata amara che lo portò a inclinare il capo, per poi riprendere con un’intensità ancora maggiore rispetto a quella di cui precedentemente si era servito, esplodendo in un urlo “Io ne ho il diritto!” che lo portò a voltarsi per sfondare le iridi azzurre di Thor. Una lacrima a tremargli sul bordo dello sguardo. I lineamenti tesi. Le palpebre che non accennavano a un solo movimento.

Il maggiore lo osservò persistendo nella propria immobilità. Gli occhi soli si ridussero a fini fessure.

“Loki,” la voce profonda “basta illusioni,”

Silenzio. Non assoluto, certo. Le urla dei numerosi prigionieri si inseguivano, una dopo l’altra, tra i corridoi, ancora e ancora. Eppure pareva ciò che di più simile alla quiete esistesse per quello dei due che ormai era stato costretto ad abituarvicisi.

Entrambi continuarono a persistere in quella statica lotta costruita attraverso gli scambi visivi.

Loki dunque si rizzò, in quanto precedentemente protesosi verso il fratello, benché da lui distante almeno dieci passi.

Un battito di palpebre prima di riempire la stanza con le proprie parole.

“Entra dunque, affinché possa tu stesso accertarti delle mie condizioni,” si accompagnò da un lento quanto ampio cenno delle braccia.

“Sai anche tu che non mi è possibile farlo,”

“Anche se così non fosse,” cominciò rapido in risposta. “Non lo faresti,”

“Svelati Loki,” pronunciò il dio del tuono a seguito di uno stringato silenzio.

“In modo che la prevalenza dei sotterranei possa contemplare gli effetti che questa perdita ha provocato all’erede al trono di Jotunheim? Non crederai veramente che io lo faccia. Saresti soltanto un illuso,”

“Mostrati," Ribadì ferreo. E il più giovane cedette, immediatamente nonostante le parole appena uscite dalle labbra pallide; ubbidì, chinando il capo e allargando nuovamente le braccia in un largo gesto ancora più teatrale.

Ora mi vedi fratello?1 chiese con voce affranta. “Ti compiaci dello spettacolo che trovi allestito dinnanzi al tuo sguardo?”

Tutto si era dissolto, rivelando la propria natura incorporea, intangibile, confessandosi alla vista di Thor, tutt’altro che incredula. Avrebbe dovuto aspettarselo fin dal principio, si disse in una riflessione che sapeva di una indecifrabile mescolanza di sapori.

Delusione, dispiacere, il tentativo di provare un’empatia fasulla nei confronti di colui che sempre aveva considerato compagno, sangue del suo sangue. Fasulla sì, perché, benché egli riconoscesse come inaccessibili, indecifrabili le sensazioni provate dal fratello, aveva imboccato ugualmente il sentiero del tentativo.

E così tutto si mescolò in un turbinio di confusione, un lutto vivo circondato da un nuvolo di ricordi e afflizione scaturiti da una scena tanto drammatica da rendere possibile all’unico figlio di Odino intravedere uno spiraglio, quello che su Midgard avrebbe preso il nome di ‘punta dell’iceberg’ - cosa fosse non gli era dato saperlo. In quel cordoglio era finalmente riuscito a scorgere la verità celata nel più intimo recesso dell’animo dell’ingannatore.

 

Lo scrutò attentamente. L’arredamento devastato, dilaniato dalla potenza scaturita dall’uomo. Grosse schegge di legno pregiato a campeggiare sul pavimento, il cui bianco rimaneva ormai un ricordo lontano, accompagnate da frammenti di vetro sporcati di rosso.

“Sei ferito. Hai bisogno di medicazioni?”

Loki iniziò ad ispezionare le proprie carni. Le mani sfiorarono le vesti lacera tingendole di quel colore vivo presente in abbondante ma non eccessiva quantità per tutta la stanza. Osservò i palmi lesi, confuso.

Reclinò poi la testa all’indietro, i capelli scomposti premuti anch’essi, come la schiena, alla parete ultima della cella, un tempo candida e pulita.

Le mani abbandonate con pesantezza sul ventre, una seconda volta.

Espirò con profonda rassegnazione, per poi esprimere la propria priorità.

“L’hai vista…” si fermò, non riuscendo evidentemente a proseguire. “Ha provato dolore?” 

Innanzi all’ulteriore incertezza del dio del tuono il menzognero si sentì costretto a mostrare insistenza. Non gli avrebbe permesso di lasciare simile domanda in sospeso.

“Dimmelo,” esalò fiaccamente, spostando le iridi nella sua direzione.

Un sospiro come prima risposta.

“Non più di brevi momenti, si è concluso tutto in pochi istanti,"

Uno sguardo contemplativo perso nel vuoto di quel disfacimento circoscritto. Occhi verdi spenti, pesantemente arrossati, gonfi da estenuanti ore di lutto.

“Pertanto non c’è possibilità che mi venga concesso di…” lasciò la frase in sospeso.

“Per quanto provi un grande rammarico non posso disattendere agli ordini di Padre," Abbassò lo sguardo per la prima volta, incapace di sostenere quello tormentosamente penetrante del fratello, tornato nuovamente sul suo volto.

Sorrise amaro inarcando le sopracciglia. “Ma certo,” sussurrò in un’appena percettibile fiato.

Dopodiché iniziò dei movimenti lenti, talmente indolenziti da risultare un’opprimente tortura, un martirio, uno strazio cui assistere mantenendo religioso e contemplativo silenzio.

Le piante dei piedi toccarono terra. Non appena vennero caricate del peso del corpo un ginocchio sembrò voler cedere, seguito subitamente dal secondo.

Loki mosse qualche breve passo accorgendosi rapidamente del dolore che tali movimenti gli arrecavano.

Osservò verso il basso, si voltò poi indietro e fu allora che potè notare le impronte striscianti che, alle sue spalle, ripercorrevano lo spostamento da lui effettuato.

Il fratello osservò la scena quasi confuso. La sua mente venne riportata ai momenti precedenti e la teoria elaborata nutrita da ulteriori elementi.

Possibile che Loki, attraversato dal dolore, non avesse nemmeno preso coscienza delle proprie ferite? Era stato necessario un commento di Thor, accompagnato poi dai movimenti del dio a fargli acquisire consapevolezza?

Un dolore morale talmente intenso da divenire fisico, annichilendo totalmente quello procurato dalle carni esposte, adombrandolo, sino ad un totale asservimento.

Il più grande dei figli di Odino scelse tuttavia di mantenere private tali osservazioni cosciente che non avrebbe mai ricevuto risposta sincera, priva di ognuna delle costruzioni metaforiche di cui si era attorniato il più giovane.

“È una commedia sufficientemente degna perché tu vi assista? I tuoi occhi persistono nell’osservarla, deduco quindi che ne ricavino diletto," Loki parlò a seguito di pochi brevi istanti in cui lui stesso si era soffermato sull’attenzione statuaria rivoltagli dal fratello. Un ghigno, di un’argutezza intaccata dalla prostrazione, abbozzato sul volto sfiancato. Sfumature debolmente accennate in un quadro di perniciosa provocazione.

Per l’appunto. Soltanto orgoglio, pesanti drappi a celarne l’animo, parole arcigne arricchite di scherno selezionate appositamente per farlo allontanare.

Ma se i termini soli avrebbero potuto trarre in inganno qualsiasi ascoltatore, le immagini che perseveravano dinnanzi al suo sguardo raccontavano una trama del tutto differente. L’opposto di come era stata descritta, una tragedia. 

Un dramma interiore perfettamente inscenato al quale un terzo atto, ancora celato tra le increspature della mente, si sarebbe presto aggiunto, al riparo di una nuova illusione. Se non vi si era ancora rintanato era stato soltanto per far sì che quell’immagine rimanesse impressa nella mente del dio del tuono e vi attecchisse. 

Mai più il degno di Asgard sarebbe sceso fin lì, l’aveva compreso. Se non per propria volontà, sarebbe stato per quella di Odino. Che se lo ricordasse così e la colpa crescesse in lui. Che iniziasse a farsi strada una domanda caricandolo di responsabilità per simile indegna situazione. Rinchiuso com’era in una squallida cella. Finalmente le differenze concretizzate. Il maggiore destinato a un regno, prestigio, potere, riconoscenza; il minore alla solitudine eterna. Thor avrebbe dovuto fronteggiarsi con tale corrosiva realtà, lui che sempre si era rifiutato di vederla, che, come tutti, era stato cieco di fronte alle ingiustizie perpetrate da Odino. Il favorito, il promettente, l’animo nobile degno di guidare il popolo con giustizia e rettitudine. E proprio in quel frangente si sarebbe ricordato di Loki, del frangente in cui gli si era avvicinato per l’ultima volta. Un’immagine ricolma di desolazione, squallore, rovina.

Forse si sarebbe affacciato alla sua cella, di nascosto, nell’ombra, in modo da non essere scorto. E a quel punto l’avrebbe scrutato come si fa con gli animali in gabbia, chiedendosi se era la verità ad essergli offerta oppure essa si celasse tra gli anfratti di un inganno.

Ma forse ciò non sarebbe mai capitato. Forse il Fato aveva in serbo altro per il promettente principe. La vergogna per essere scomparso, per aver scelto di dimenticare compiendo il proprio destino lontano da lui, ricacciando quel ricordo, che dell’uomo era rimasto, nelle più buie segrete della sua mente. Avrebbe potuto fingere di essere sempre stato solo, di aver perso definitivamente l’unica figura fraterna che gli fosse mai stata riservata accanto, eppure di tanto in tanto l’immagine del suo volto gli sarebbe sovvenuta tra i pensieri. 

La pelle pallida, i lineamenti naturalmente scavati, i capelli corvini. Ogni cosa di lui sarebbe tornata gradualmente a tormentarlo. 

Nonostante tutte le delusioni, alcune delle quali ancora cocenti nell’animo del guerriero, l’affetto che aveva riservato a Loki continuava a rigenerarsi, a guarire, a rimarginarsi dopo ogni tradimento. E proprio di questo stavano parlando gli occhi del dio degno di impugnare il Mjolnir. Di questa affezione fraterna che sempre avrebbe covato in un angoletto dello spirito.

Improvviso uno scatto, un movimento che portò il mantello rosso a un riflesso rapido.

“Ci parlerò ancora,” esordì allontanandosi. I passi diretti verso la scalinata umida.

“Non lo farai," Thor si arrestò, voltandosi poi verso il fratello.

“Dove credi che stia andando?” chiese retorico.

“Stolto non è questo che voglio dire," Il silenzio seguitò alle parole del figlio di Laufey.

Non gli avrebbe permesso di rivolgersi nuovamente a Odino. Nulla sarebbe derivato da una nuova discussione. La decisone era ormai stata presa. 

“Continui ad illuderti, perfettamente consapevole dell’indifferenza che seguiterai a ricevere in risposta. Non ho intenzione di umiliarmi ai suoi occhi," Una sentenza dura, decisiva. 

Per quanto lo strazio gli gonfiasse il cuore, non si sarebbe abbassato a una nuova supplica.

“Sarà sufficiente l’avviso di una guardia,” concluse. Pur isolato, si sarebbe ritirato in momenti carichi di lutto, immaginando la madre prendere posto tra quegli antenati che non avevano mai condiviso, nel Valhalla.

 

E così si era ritrovato ad attendere che il buio avvolgesse il cielo. Alienato dalle costanti eco cariche di urla e imprecazioni provenienti dalle celle attigue. Tornato a nascondersi in una delle solite proiezioni.

La percezione del tempo era mutata dopo essere stato confinato laggiù. Esso pareva essersi grandemente dilatato, ancor più da quando la sola in grado di scandirlo con le sue visite attese era stata strappata alla vita.

Era giunto a desiderare quei momenti come ossigeno. Tanto che le vuote settimane lì rinchiuso sarebbero trascorse tutte nel medesimo modo, leggendo, per l’eternità, se lei non si fosse mostrata.

Il susseguirsi di giorno e notte era ormai divenuto indifferente, come capirlo senza nulla ad indicarlo? Infinite ore cadenzate solamente da tali agognate visite.

Ma oramai tutto era stato dissolto. Anche l’illusione di riuscire a respirare aria pura, pulita, attraverso i propri magheggi.

Inaspettatamente si sentì mancare il fiato. Iniziò ad annaspare. Era come se i polmoni si rifiutassero di  rispondere agli impulsi cerebrali, come se si fossero pietrificati, mentre i battiti cardiaci avevano triplicato il ritmo. Un dolore intangibile al petto. Gli occhi, spalancati, iniziarono a roteare freneticamente alla ricerca di un appiglio al quale aggrapparsi. Li avvertiva violati dal pizzicore delle lacrime che spingevano per uscire.

Totalmente impreparato a tale improvviso malessere, cercò protezione nella copertina di un libro. Rilegato in pelle con intarsi verdi e oro perché fosse evidente a chi appartenesse la proprietà dell’oggetto.

Era ancora un bambino quando la madre glielo aveva consegnato e lei stessa, una volta rinchiuso, si era preoccupata affinché gli venisse recapitato in cella.

Ben presto si riscoprì a sorridere verso quel dolce ricordo di fanciullo.

La mente confusa e annebbiata tornò poco a poco a riacquistare lucidità. Di qualsiasi cosa si fosse trattato, benché breve, era una stata una sensazione di intenso malessere. Un’angoscia profonda, un’inquietudine celata nell’animo. Un’ombra. Un turbamento. 

Mai gli era accaduto. E mai avrebbe desiderato vivere nuovamente un’analoga sofferenza.

Gli occhi erano ormai stati vinti, lo sguardo si appannò di colpo per poi liberarsi con qualche battito di palpebre. Eppure non fu sufficiente e la vista tornò offuscata. Le lacrime caddero lungo le guance in un contrasto di temperature: liquido caldo contro pelle raggelata.

Alcune tornarono a bagnare i tessuti pregiati della casacca che nascondeva le linee del torace.

Aveva ceduto nuovamente al pianto, facilmente si era arreso all’impeto di quel tumulto che stentava ad allontanarsi, a diradarsi nelle sue interiora, a liberarlo da quelle opprimenti catene.

Era rimasto solo. Intrappolato nel proprio corpo, nella propria mente, nello stesso risentimento che l’aveva portato a trincerarsi tra le pieghe di un’illusione, a proiettare quelle sensazioni intangibili sugli arredamenti, ultima concessione offertagli dal Padre di tutti gli dei, gli stessi che l’avevano inconsciamente portato a ferirsi.

 

“Il primogenito di Odino vi informa dell’inizio della funzione,” una guardia si rivolse all’immagine generata dalla fantasia del dio. Un’immagine seduta in un ulteriore isolamento, quello da sé stesso. Immobile. L’apparenza che stesse meditando. Su cosa poi, su tutto e nulla. La mente vuota e ingombra di pensieri al tempo stesso.

Una voce austera a mischiarsi con il silenzio di quelle lacrime che, di nascosto dal resto del mondo, continuavano inesorabili a scorrere. Un suono improvviso a rompere il silenzio che era riuscito a creare attorno a sé. Un silenzio nato dal frastuono delle stesse urla che traboccavano dagli ingressi delle segrete e nelle quali si era più volte rifugiato nel tentativo di evadere, seppur fantasticamente, da una prigionia ormai opprimente per raggiungere quelle storie lontane, quelle chimere irrealizzabili, puri vaneggiamenti straripanti di vendetta e minaccianti promesse, irrealizzabili.

In quell’istante dubitò della richiesta rivolta a Thor in occasione della sua visita. Era riuscito a valutare appieno la portata di tale preferenza? Aveva realmente anteposto la consapevolezza di non poter partecipare al dubbio? 

Un momento sarebbe stato dedicato ai pianti per la sovrana scomparsa, in tutto il regno, tutti avrebbero partecipato, lui non poteva essere da meno.

L’unica figura materna che avesse mai conosciuto necessitava uno spazio esclusivo tra i ricordi, gli stessi che l’avrebbero presto intrappolato se vi si fosse rifugiato troppo a lungo. 

E così l’immaginò, la cerimonia, comprendendo anche il dettaglio più trascurabile. La barca, le frecce infuocate, le neonate stelle, velate d’azzurro, che sarebbero salite al cielo.

Niente folla però. Nessuno, tranne lui, il vero lui. Ma ordinato, pulito, composto, ad osservare la scena dalla stessa posizione in cui immaginava essere Odino, insieme al fratello, in un momento intimo, in solitaria, accompagnando le spoglie della madre nel loro ultimo viaggio.

Un’illusione nell’illusione. Ne era mai stato in grado?

Rimase immobile anche negli istanti successivi. Incapace di sgretolare in un bagliore verdastro ciò che aveva creato.

Un urlo. Potente. A squarciare il velo di bugia rivelando lo stato di profondo degrado a circondare la sua figura. Nulla di sconosciuto a chi aveva avuto l’audacia di curiosare in occasione della venuta dell’erede.

Un urlo. Prolungato. Infinito. A tagliargli il respiro. A grattargli la gola.

Non si era preoccupato di mantenere le apparenze, con quale vantaggio dopotutto, se chiunque aveva già scorto quell’indecente infamia? Se il suo onore, i teatrini, erano stati sminuzzati, smembrati nel profondo.

Energia a fuoriuscire dalle sue membra frantumando maggiormente ogni cosa si trovasse già a terra.

Una voce a consumarsi mentre i piedi già feriti si muovevano verso il letto, unico elemento rimasto intatto, incuranti delle schegge vitree potatrici di altrettante - nuove - future cicatrici.

Nocche bianche a stringersi sul legno intarsiato al termine delle lenzuola.

I tremori lo dominarono raggiungendo le iridi chiare al fine, impegnate in un frenetico spostamento da lato a lato. Il petto spasmodicamente ritmato dai polmoni che, caparbi, si rifiutavano di inglobare più di quel poco ossigeno che riusciva ad entrarvi.

Armature in movimento. Ne avvertì, distanti, i ticchettii. Metalli dorati a riverberare le luci tremolati delle fiaccole fissate alle sterili pareti rocciose.

Volti allarmati dall’inatteso scatto di disperazione del principe. Non si voltò. Li mantenne alle proprie spalle. I lineamenti certamente tesi a modellarne i volti.

‘Fatemi vedere mia madre!’ le parole che avrebbe voluto pronunciare, se flebili o con fragore rimase incerto.

“Fatemela vedere,” si azzardò poi con voce vacua, sebbene ferma. Quel miraggio di dignità che aveva inseguito si era infranto nel momento stesso in cui Thor gli aveva chiesto di mostrarsi, perché dunque nascondere il proprio desiderio?

Un’attesa che si protrasse fin troppo a lungo.

“Le vostre orecchie non hanno forse sentito ciò che il vostro principe vi comanda?” stizzito, con astio ad impastargli il timbro vocale già sfumato dal dolore.

“Sapete anche voi che il vostro desiderio non può essere adempiuto,” si azzardò la guardia dalla voce più giovane; sicuramente appena affidata all’incarico nelle segrete, nessuno gli si sarebbe mai rivolto in tal modo.

“Perché?” iniziò a voce bassa.

“Perché Odino ve l’ha ordinato?!” proseguì poi in un urlo carico di rancore. Nell’aprire le proprie labbra si voltò in uno scatto violento e trascinò con la torsione del proprio corpo gran parte di quell’arredamento ormai distrutto. Le armature tintinnarono, mentre i passi si muovevano indietro e la distanza con la parte trasparente della cella aumentava. 

I cocci, quei frammenti ormai più simili alla polvere, erano stati violentemente scagliati su di essa, generando così un bagliore dorato.

Che si trattasse di un’ordine del Padre degli dei era ormai evidente a tutti coloro che avevano ascoltato; nessuno spese dunque parola alcuna per sottolineare tale ovvietà.

“La funzione si è già conclusa. Le torce sono state liberate e hanno raggiunto la volta,” e così le spoglie di vostra madre, avrebbero desiderato aggiungere i meno empatici se il rispetto nutrito per l’amata sovrana non avesse costituito impedimento.

Loki li scrutò. Uno ad uno. I loro occhi si scontrarono con durezza. Di due in due.

Aveva avvertito ugualmente, lontane, tali inespresse parole. La barriera invisibile che separava le due parti impediva ai suoi magheggi qualsiasi applicazione, eppure carpire i pensieri gli risultava semplice. Le voci, certo, gli giungevano come ovattate, eppure arrivavano mute ai più alle sue orecchie.

Come poter dimostrare tale scarsa considerazione? 

Forse non era loro chiara l’intensità, la forza delle capacità del re di un regno distrutto.

“Perché non me ne è giunta notizia?” chiese cupo, stanco di ascoltare le ignominie provenienti dalle labbra serrate delle guardie.

“Il Padre degli dei non ha trasmesso ordine alcuno, similmente ha compiuto il suo erede,"

Parole scelte con cura. Il suo erede. Era rinchiuso, non gli sarebbe più stato possibile agire contro di loro, dunque perché non lasciarsi andare a qualche attimo di divertimento?

Ragionamento crudele, che pure l’ingannatore riconobbe come proprio. Ecco dunque che nessuno di coloro da cui parole taglienti si esprimevano nei suoi confronti era così diverso da lui.

La medesima natura, esplicita in uno e recondita negli altri, celata con ipocrisia al fine di mantenere una parvenza dignitosa.

Eppure simile frase indugiava a lasciare i contorti pensieri di Loki.

Erede. Il suo erede. Nè lui né tantomeno Odino avevano dimostrato interesse. Il primo si era semplicemente limitato ad esaudire una richiesta, senza mostrare iniziativa, senza mostrare empatia. Soltanto un’azione fredda, motivata da un’ultimo spiraglio di affetto.

PadreTutto l’aveva già fatto da tempo, ma in quel momento la consapevolezza che anche il fratello si fosse dimenticato di lui lo invase con la medesima potenza di un tuono scaturito dal suo Mjolnir.

Il tutto davanti allo sguardo tinto di mal celato compiacimento delle guardie.

E così, da quel momento, chiunque l’avrebbe scordato, rimanendo nei reconditi ricordi di un passato infausto, privato della sola persona che sempre l’aveva amato, che mai l’aveva allontanato da sé, Frigga, sua madre.

Una lacrima gli tremò sul bordo dell’occhio.

Poi un momento. Un intenso bagliore verdastro a riflettersi sulle armature dorate. Passi mossi a ritroso, occhi vagamente intimoriti e un urlo a sovrastare gli altri.

La potenza si era dipanata da Loki senza che gli fosse possibile controllarsi. Attorno a lui la devastazione, detriti e macerie di ciò che un tempo era il mobilio a lui riservato come ultimo atto di una tragedia ormai conclusa, a ricordare le origini nobili o ad addolcire una prigionia crudele.

Era ormai notte inoltrata. Quello sarebbe stato probabilmente l’ultimo momento di consapevolezza del mondo esterno. Se ne rese conto lui, conferendo forse l’adatta importanza a tale momento.

Il gruppo armato si allontanò a seguito di svariati momenti di valutazione. Alle loro viste tutto era tornato al proprio posto, come ricomposto dalla polvere. Il suo gioco fatto di apparenze era stato compreso.

Il dio degli inganni seduto, intento nella lettura di un libro già terminato da tempo, ma evidentemente tornato ad essere di suo interesse.

Nessuno glieli avrebbe più inviati.

L’eternità trascorsa a leggere e rileggere le medesime parole, di lettera in lettera, virgola dopo virgola.

Fu in quegli istanti che il fautore di tali inganni ebbe la sensazione di essere irrimediabilmente stato privato del senno.

Proseguì con le straziate urla, udibili alle proprie orecchie soltanto, fino a graffiare la gola, fino ad accasciarsi a terra. Sulle ginocchia, proteso in avanti. Le unghie e conficcarsi nei palmi e le lacrime a scivolare a terra dopo qualche fugace istante di contatto con l’epidermide.

Imprecazioni, maledizioni, tutte, singolarmente, rivolte a un unico epicentro. Odino.

Il torto maggiore rivoltogli dal padre: l’averlo egoisticamente prelevato da quel giaciglio congelato al termine della guerra con Jotunheim.

Nella sua mente numerose domande a vorticare, ma una soltanto a raggiungere lucide riflessioni. Vi era stato almeno un briciolo di amore in quel gesto? O tutto era derivato soltanto dalla prospettiva di una futura alleanza attraverso di lui?

Lasciarlo in quel luogo inospitale ai più e permetterli perire in pace, questo sarebbe stato amore. Senza costrizioni legate a una vita ingiusta, senza menzogne, senza favoritismi malcelati. Lontano da fittizie dimostrazioni di affetto culminate in poche semplici frasi a separarli per sempre.

Se la vita gli era stata risparmiata, il merito era soltanto di quella che una volta era stata sua madre. L’unica mai avuta.

Il suo diritto di nascita sarebbe stato morire2, ancora in fasce. Quale acredine aveva spinto il sovrano a tali sentenze? Chiaramente aveva permesso a Loki di intendere che, se l’adorazione per la moglie non l’avesse convinto del contrario, egli non avrebbe avuto remore nello strappare la stessa vita che aveva salvato - le motivazioni, in simile frangente, indifferenti.

Da quel primo incontro, Odino aveva potuto disporre di quell’esistenza secondo il proprio desiderio; manipolando una mente fragile e inquieta, creando quel dio scontroso, bramoso di gloria soltanto al fine di essere finalmente considerato degno di una condizione paritaria al fratello.

Le riflessioni - cicliche - tormentate, ancorate al rancore, i palmi ancora scalfiti dalle unghie. Un male talmente flebile da essere ignorato.

 

Improvvisamente un lampo. Non Thor, bensì i pensieri che, legati a lui strettamente, continuavano ad accompagnarlo.

Forse proprio tale dolore corporeo l’avrebbe aiutato ad espiare quello spirituale, ad estraniarsi da esso, talmente denso da raggiungere il petto, la testa dolente per le troppe inquietudini, gli occhi ormai laceri da quelle lacrime che sembravano non accontentarsi mai.

Eppure era talmente trascurabile l’effetto che egli stesso si stava procurando! Necessitava di sensazioni più intense, più forti, che potessero portare la sua concentrazione altrove e, al contempo, costringerlo a rivivere ancora e ancora la notizia ricevuta. 

Un desiderio concepito nell’ombra di una mente annebbiata.

Bramosia di sangue. Dell’unico a cui potesse liberamente aspirare. Il proprio.

Un’eco lontana, rimasta inascoltata, come ultima testimone di una razionalità ormai perduta, a sottolineare l’inettitudine caratterizzante un simile comportamento. Un bagliore di esperienza adombrato da una sofferenza troppo profonda per essere ignorata, semplicemente accantonata nella speranza di riuscire a superarla. Un crepaccio ormai troppo marcato per nutrire la speranza di oltrepassarlo senza i mezzi del passato.

Strumenti apparentemente saldi su cui fare affidamento, ma che presto si sarebbero rivelati di cera, sciogliendosi al contatto con le mani, invischiando vilmente le dita.

Un respiro. L’aria viziata entrò nei polmoni attraverso le narici e gli occhi iniziarono a vagare sulla pavimentazione ormai ben poco candida. 

La consapevolezza di dover espiare una colpa. La sua vita era stata risparmiata e non quella di lei. Percepiva la propria colpevolezza, tangibile come l’abbattimento dell’animo che lo tormentava.

Qualche secondo di apnea una volta afferrato un frammento trasparente ancora comodamente utilizzabile.

Non esalò nemmeno nel posizionarsi. Vesti sistemate comodamente. Occhi chiusi in attesa di una sensazione conosciuta. Un appagamento dal sapore amaro che si sarebbe consumato con il termine di ogni gesto.

Scheggia stretta con forza, ancora immobile, vergine nel proprio operato.

Poi finalmente un movimento. Sembrò per un solo momento che l’ossigeno puro fosse tornato ad invadergli i polmoni mentre lentamente espirava reclinando indietro il capo. I capelli scomposti a contatto con la parete.

Un sorriso appena accennato, morto prima di venire alla luce su labbra umide di lacrime.

Sopracciglia aggrottate. Iridi riaperte alla desolante realtà di una prigionia eterna.

In breve tempo, passo dopo passo, tornò ad essere rappresentata una vecchia coreografia di movimenti. Un spettacolo portato in scena in un completo color cremisi, talmente fluido, morbido sul corpo, da giungere agli occhi come liquido. 

Un ballo di intensità sempre crescente, di profondità lacerante, di lacrimante sentimento.

Una scia inizialmente vacillante, poi sempre più sicura. Segni ogni volta più decisi, nonostante il tremore che, formatosi nel petto, si era esteso a tutte le membra come male incurabile.

Perché l’aveva salvato? Perché l’aveva fatto, immerso com’era nel sangue degli Jotun fino alle ginocchia?3 Le lacrime a solcargli le guance e mischiarsi con il liquido rosso che gocciolava sul pavimento.

Le dita anch’esse ferite dai bordi taglienti del frammento di vaso.

Avrebbe dovuto lasciarlo morire. Permettergli di abbandonare tutto quando ancora non aveva nulla, nemmeno un passato, quando ancora non conosceva sofferenza, innocente… o forse colpevole unicamente di essere nato.

“Uccidimi!” le lettere si susseguirono in autonomia prendendo forma nella sua gola.

“Non avresti dovuto darle ascolto!” proseguì.

“Perché l’hai fatto? Ha risparmiato la mia vita dando la sua!”

Un urlo ancora, intermezzato da altrettanti silenzi. Singhiozzi generati tra le corde vocali a privarlo della respirazione.

Una mescolanza di pensieri e riflessioni sempre più confuse. Un impasto tanto denso da diventare trappola e groviglio, catene avvolte con violenza a impedire ogni accenno di movimento alle carni sfinite.

Gettò con rabbia il frammento di vetro alla propria destra, accanto alla coscia distesa. La frustrazione di un sollievo momentaneo, la cui durata si contraeva sempre più nel tempo.

Il petto si gonfiava aggressivamente. I polmoni a richiedere una quantità sempre maggiore di aria, inglobandone sempre meno.

Strinse le palpebre nel vano tentativo di riacquistare un briciolo almeno di controllo. Quello non era lui. Loki. Il dio dell’inganno. Era sempre stato controllato, calcolatore. Ogni sua azione, ogni sua parola, ogni sua sagace battuta, abilmente programmata.

Si concentrò, senza permettere alle lacrime di uscire, avvertendone l’accumularsi tra le ciglia umide.

Le labbra tremarono. Le mani aperte, con i palmi rivolti al terreno e una tensione estesa fino alle spalle, mosse in un brivido incessante, diverso dalle scosse conseguenza dell’atmosfera umida e muffita del sotterraneo.

Controllo. Mente vuota, completamente. Inconsistenza dei pensieri, oscurati da un totale annebbiamento.

Attenzione sul respiro, sul movimento oscillante del petto. E per un istante, un breve, fugace istante, gli parve di trovarsi tra le braccia accoglienti dell’unico essere vivente che mai aveva dubitato di lui, che mai l’aveva abbandonato o trascurato, che mai l’aveva paragonato o mortificato.

Il calore della madre a contrastare quella natura gelida che gli era toccata in sorte.

Un timido sorriso a piegargli le labbra sottili per poi spegnersi appena accennato.

Un ultimo respiro a gonfiargli i polmoni per poi lasciarli vuoti, così come lui stesso sentiva di essere senza quella donna al proprio fianco.

Quando il buio si schiuse, la vista annebbiata venne rivolta alla propria sinistra; un bruciore confuso ad invadergli il braccio, un bruciore che portava con sé amari ricordi, un passato aspro. 

Solo, come allora, nascosto da occhi giudicanti, da espressioni disgustate per simile disprezzo mostrato verso il suo stesso corpo. Nessuno avrebbe risposto alla sua richiesta. Per anni si era convinto che persino Frigga l’avrebbe rimproverato, privandolo di quella magia che a lungo gli aveva permesso di celare ogni singolo segno, ogni cicatrice.

In realtà nemmeno lui era certo di voler ricevere aiuto, assorbito com’era dal proprio orgoglio, convinto che trovata una migliore tecnica di espiazione sarebbe stato semplice abbandonare le vecchie abitudini.

Eppure quella sensazione sulle braccia aveva indugiato per molto prima di affievolirsi e mai completamente si era allontanata.

Era come un richiamo alterato dalla paura. Un desiderio frenato dalla consapevolezza che vi sarebbe seguito un rimorso e mischiato al timore di ripetere quel gesto per la prima volta dopo tanto sforzo, vanificando così giorni e giorni di lotta contro sé stesso.

Poche ore, tramutatesi in settimane e poi in anni, con pazienza, senza cedere nuovamente al richiamo del sangue, al richiamo della cerni lacerate in più punti. 

Una bramosia frenata solamente dopo essersi estesa alle cosce, al ventre. Zone semplici da occultarne una volta vestito, al fine di avere una maggiore sicurezza, anche agli occhi di Madre, la quale ben riconosceva la presenza di sempre meno inesperti magheggi.

I polpastrelli si appoggiarono sulle ferite appena aperte, raccogliendone il liquido scuro che, unitosi in gocce pesanti, raggiungeva il pavimento favorito dalla gravità asgardiana.

Lo ammirò, prima avvicinando le falangi ai propri occhi, poi osservando quella fuga liberatoria consumatasi tra due tele di diverso pallore.

Braccio come metafora di supporto adatto a riproduzioni penose e tubetto di colore. Era fuggito una vita dal desiderio di ripetere quel semplice e meccanico gesto. Memoria muscolare, avrebbe osato dire, la stessa che rimasta latente per anni, non esita a mostrarsi all’occasione opportuna.

Rimase in contemplazione di quel lento e delicato sgorgare, per poi afferrare nuovamente lo stesso frammento di vaso, ormai esperto strumento tra mani sapienti. E così si riscoprì maestro nel disegnare il proprio corpo di rosso.

Un appetito carnale che lo portò a privarsi della stoffa in eccesso per raggiungere nascondigli sicuri e riaprire vecchi ricordi sottili ormai rimarginati in una maglia fitta di fili biancastri.

Un fremito ad ogni passaggio. Un’espiazione corrosiva ma non per questo meno desiderata.

L’unico modo da lui conosciuto per esternare e liberarsi delle proprie colpe, dei propri malumori.

Ben presto venne catturato dalle pieghe dei propri deliri tra le quali si era nascosto, un carico consistente di cui privarsi, anche soltanto per pochi, esigui istanti, pronto tuttavia a tornare con rinnovato vigore e rimarchevole cupezza.

Si concesse una pausa, animato dalla granitica certezza che se avesse proseguito in tale febbrile operato sarebbe tornato a rimarcare le lesioni precedentemente disegnate, rendendole allora veri e propri squarci, degni delle rune curative delle guaritrici.

Avrebbe in ogni caso ripiegato su numerose altre modalità di auto-inflitta tortura. Interi volumi di conoscenze relative a specifico ambito sarebbe stato in grado di comporre.

Continuare a camminare sui piedi già abrasi da minuscoli frammenti di vetro e schegge lignee sparse in terra, poteva dunque rappresentare una delle opzioni prospettate a lui dinnanzi. 

Non esitò ad agire.

Le gambe si mossero pregne di quel tremore che mai del tutto l’aveva lasciato.

Il vetro maestro ancora saldamente conficcato nel palmo.

Occhi rivolti verso il basso. Vergogna verso la propria pietosa essenza. Alienazione dalla frenesia esterna, composta di urla e imprecazioni.

Ancorato tenacemente al ricordo di tempi passati. Un dolore spirituale che non esitava ad andarsene, ma che, anzi, al contrario, si faceva sempre più imponete proporzionalmente alla crescita di una bruciante consapevolezza: la delusione che avrebbe scorto negli occhi di lei se solo avesse potuto assistere a quella scena pietosa. 

Forse dal Valhalla era proprio quello che stava facendo. Osservarlo nauseata, di certo profondamente - pur continuando ad amarlo come sangue del suo sangue- turbata alla vista della trasposizione tangibile di una sofferenza mentale a tal punto divenuta abissale nell’animo.

Per lei era sempre stato suo figlio. Mai questo era stato messo in dubbio. L’aveva accolto e trattato come tale. La sola a vedere in lui la purezza e l’innocenza di un’anima sola, abbandonata, fragile. Un abbandono che il suo corpo avrebbe ricordato per sempre, mentre una sagoma, forse la sua stessa madre, lo abbandonava tra le asperità dei ghiacci. Una sensazione indelebile che Frigga mai avrebbe desiderato accadesse nuovamente.

Loki non poteva ricordarlo. Pochi giorni soltanto alle spalle, a fronte di molte migliaia ancora. Eppure i suoi occhi l’avevano vista allontanarsi in movimenti sfocati, la pelle aveva accolto l’ultimo tocco, probabilmente una carezza affranta, prima di non essere più in grado di formulare una speranza, speranza di ricevere, ancora una volta, calore.

Il dio mosse pochi traballanti passi, claudicando regolarmente, per poi arrestare la propria avanzata a soli un paio di metri dalla parete i cui bordi dorati continuavano ad apparire immutati.

Si accasciò così sulle ginocchia, in un tonfo sordo. Le cosce a contatto con il torace. Il viso rivolto a terra. Prostrato al proprio cordoglio.

Il desiderio di un istante di pace. Il desiderio di sentirsi vuoto, estraneo a sé stesso, alla propria vita, ovattato da tutto ciò che in pochi momenti era sfuggito dalla stretta delle mani.

Era stato lui a guidare quella creatura da sua madre, convinto vi avrebbe trovato Thor al suo posto. 

Non era il proprio sangue a sgorgargli dalle braccia, a sporcargli le vesti, ma quello della madre. Ecco, aveva già saputo tutto. Con ogni certezza era venuta a conoscenza del tradimento del figlio, lo avrebbe odiato…

No, non lei, sempre così amorevole. Con gli occhi umidi dopo averle detto che non era sua madre. Le ultime parole che si erano scambiati.

Un richiamo della precedente sensazione. Lacrime brucianti e respiro a mancare. Per un momento sperò di trovare la giusta punizione alle sue colpe in quella prigione di panico.

Panico, ecco il nome.

Un’attacco di panico, in accordo con le parole dei midgardiani. Il secondo in poco tempo, forse. Ma quanto era realmente trascorso?

I meccanismi di estraniazione si erano attivati con celerità, favoriti dall’assenza di riferimento alcuno al colore dei cieli che sovrastavano il popolo.

Palmi rivolti a terra con forza, falangi premute sul pavimento sino ad assumere un colore biancastro. Si fece leva sulle braccia, nel tentativo di guadagnare spazio per allargare i polmoni. Eppure questi sembravano pietrificati, privi della capacità di dilatazione che sempre avevano posseduto. Un rantolo disperato a uscire dalla gola. Tremiti del corpo nella sua interezza.

Un improvviso e lancinante dolore al petto.

La mano destra portata all’altezza del muscolo cardiaco. Era consapevole che si trattasse solamente di quello, un muscolo. Eppure più volte aveva nutrito l’utopia di riuscire a privarsene. Forse un fondo di verità esiste se l’idea che esso rappresenti la sede prima dei nostri sentimenti e tormenti ha raggiunto ogni mondo presente nell’Universo. L’aveva pensato, ogni volta, per un breve istante prima di compiacersi del proprio acume, troppo spiccato per abbassarsi a una teoria nata su Midgard e diffusasi come un morbo.

Certo, sarebbe stato comodo imputare al cuore simili colpe; sarebbe stato più semplice individuare la causa di ogni malessere morale, obbligandosi con determinato esercizio ad estraniarsi da esso, a relegarlo a funzione di pompa, concentrandosi soltanto su ragionamenti logici derivanti dalla mente.

Tuttavia sarebbe stato troppo semplice.

No, il cuore sarebbe rimasto un muscolo e la mente un groviglio incomprensibile, impenetrabile, responsabile dell’essenza di ogni singolo individuo, e talmente complesso da far desistere chiunque desiderasse privarsi di emozioni inutili quanto soffocanti.

Le lacrime a sferzare violentemente il pavimento. Precedenti segni di distruzione a conficcarsi nelle ginocchia.

Concentrazione. Sarebbe stata necessaria concentrazione per riprendere il controllo. Pensieri lucidi in mente annebbiata, era forse possibile?

Si guardò attorno in un movimento frenetico del capo. Lì, dove la mano aveva lasciato una sbavata impronta rossa, l’oggetto da lui venerato a riposare come su di un giaciglio, coperto da un lenzuolo del medesimo colore.

Dal cuore tornò ad afferrare un vetro oramai tutt’altro che trasparente, unica razionale - ai suoi occhi annegati - possibile cura a quel malessere esitante nel lasciarlo solo, così morbosamente attaccato all’animo ferito.

Lo strinse e rizzò la schiena, porgendo il braccio sinistro in sacrificio. Un segno tremante ma deciso, profondo, a separare le carni in un fiotto di liquido scuro tra due sponde lacere e più distanti che mai.

Nel farlo chiuse gli occhi. Appagamento, soddisfazione, paura di comprendere la portata di quel gesto più drammatico, come se per gli altri si fosse trattato di un’esercitazione, un modo per prendere coraggio e agire davvero.

Mai avrebbe desiderato togliersi la vita. Eppure, quel dolore spiccante rispetto ai bruciori invasivi provenienti da ogni membro, gli era giunto come aria cristallina, pace a lungo desiderata, avvicinandolo alla prospettiva di rivedere presto la madre.

No. Non sarebbe potuto accadere. A lui, Loki, dio degli inganni, legittimo re di Jotunheim non sarebbe spettato il riposo dei valorosi guerrieri, delle vite pure, degne.

Non gli sarebbe dunque stato possibile, in nessun caso, il riabbracciarla, lo scorgere nuovamente quei lineamenti delicati alla vista, i capelli chiari, il viso in antitesi dolce e severo.

Rialzò le palpebre a fatica, abbassando il volto in direzione di un intreccio intricato come mai di fili rossi e bianchi - questi ultimi ricordi rimasti nascosti a qualsiasi vivente - di cui uno più spesso e scuro.

Il liquido rosso ne usciva copiosamente, senza dare alcun segno di volersi arrestare; Loki ne contemplò i movimenti sinuosi, rapito come dalla lava ribollente che accarezza le pendici di un vulcano in eruzione.

Il respiro era tornato regolare, il muscolo cardiaco al proprio ritmo abituale.

Esausto rivolse un ultimo sguardo a ciò che lo circondava, distruzione. Dopodiché, portata la mano orai libera sulla ferita più grave nel tentativo di imprimerci pressione, si accasciò di lato, poggiando sul fianco, anch’esso compromesso.

I singhiozzi riempirono lo spazio dalla percezione sempre più angusta, le pareti soffocanti.

L’illusione costruita tenuta faticosamente come facciata illusoria. Vacillante, ma presente. Incredibile il controllo che quella parte della mente riusciva a mantenere anche sotto grande stress, quando i pensieri lucidi venivano offuscati e i sensi iniziavano a spegnersi. 

Simile inganno era sul punto di crollare.

Il dolore di una perdita che aveva svelato ulteriori incrinature, talmente profonde da raggiungere il nucleo, la carne viva, provocando, proprio in quel momento, lo sgretolarsi delle barricate e il crollo di qualsiasi muratura; esplodendo privo di controllo ed investendo il dio stesso con un’onda d’urto tanto intensa quanto la quasi totale certezza, di qualsiasi mente razionale, che la sua sopravvivenza era stata messa in serio pericolo, trovandosi ancora, nuovamente, ampiamente incerta tra le mani del Fato.

Le palpebre tornarono così a rivendicare riposo e gli occhi si chiusero in un’ultima lacrima, mentre i singhiozzi, dapprima veementi al punto di scuotere interamente tessuti, muscolo e ossatura, erano andati pian piano scemando, fin poi a spegnersi stanchi.

“Guardie!” Un urlo, una voce femminile. Allarmata, incrinata, spaventata.

L’udì lontana. Accompagnata da lettere, alle sue orecchie, impastate senza logica alcuna, parole vuote.

Perché un urlo così fragoroso se talmente lontano? Avvertì il proprio nome, accanto a numerose richieste. Sarebbe riuscita, quella voce a spiccare tra gli schiamazzi volgari?

Forse non sarebbe morto, non questa volta.

Un ultimo soffio fuoriuscito dalle narici. Più alcuna percezione. E, lasciandolo esposto come animale in una teca, l’inganno si consumò infine in un bagliore verde. Il terzo atto.











Angolino di Ishouldgoaway...


Per la prima volta in vita mia mi cimento nella scrittura all'interno di questo ambito. Ho sempre avuto un po' di riguardo, con il timore di creare un pasticcio.
Spero di aver condiviso una domanda che mi sono sempre fatta, ovvero cosa fosse accaduto nell'unca cella arredata delle prigioni di Asgard.
Grazie a chi ha letto tutto fino alla fine, perchè mi rendo conto che il tutto è abbastanza lungo e a chi ha dedicato del tempo anche per queste poche righe. E ovviamente, se qualcuno si sentisse ispirato/a a scrivermi le proprie opinioni riguardo questo mio piccolo lavoro, non esiterò a leggere... vale anche per i più timidi!


Credo sia d'obbligo precisare che non appoggio né incito nulla di quello che c'è scritto nel testo e spero davvero che chi sta passando un momento difficile possa stare meglio al più presto, ricordando che cercare un appoggio con cui condividere i propri sentimenti può aiutare ad alleggerire il proprio carico <3 <3 

Buona vita a tutti and stay strong!





1. Evidente citazione a TDW.

2. Ovviamente, altra citazione alle scene iniziali di TDW.

3. E qui siamo alla scena iconica del primo Thor con il confronto tra Loki e Odino.

 

   
 
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