Serie TV > The 100
Ricorda la storia  |      
Autore: Aagainst    30/11/2021    4 recensioni
Non voglio piangere. Non voglio crollare. Non voglio essere debole. Non posso.
“Lasciami entrare.” mi sussurra lei e a nulla valgono i miei patetici tentativi di resistere, la verità è che io sono già debole. Di fronte a Clarke non ho difese, è riuscita a scardinarle tutte.
“Pensi che io meriti di essere felice?”
Genere: Drammatico, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Costia, Lexa
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Tw// omofobia, suicidio



 

“Lexa, ti prego apri!” sento urlare, ma non mi muovo di un millimetro. Sono immobile, seduta sul pavimento della mia stanza, circondata da vecchie fotografie. Ne prendo una in mano e la guardo, come se i miei occhi potessero riportare in vita quanto raffigurato. A volte mi chiedo essere felice è un diritto che spetta anche a me. La risposta che mi do non è delle migliori. 

“Lexa, ti prego! Ti scongiuro, fammi entrare!”. Chiudo gli occhi a quelle parole. Fammi entrare. No Clarke, non posso. Non ce la faccio. Aprirsi agli altri è un lusso che io non posso più concedermi. Non oggi. Non questo giorno. 

“Lexa, ti prego.” la sento supplicare, la voce sempre più debole, rassegnata. Dio, cosa sto facendo? Cosa le sto facendo? Con uno sforzo monumentale mi allungo e afferro le chiavi della camera, per poi lanciarle sotto la porta. Sento Clarke afferrarle e armeggiare con la serratura. Non la vedo entrare, sento solo le sue braccia circondarmi da dietro e stringermi al suo petto. Mi bacia con tenerezza il capo e comincia a cullarmi, senza dire nulla. Sa che sarebbe perfettamente inutile. A volte il dolore è così grande che non esistono discorsi in grado di lenirlo. In fin dei conti, tramite le parole l’essere umano cerca di razionalizzare la realtà, di dare un senso a ciò che lo circonda. Eppure, qual è il senso che si cela dietro alla morte di una persona cara che non ha trovato altro appiglio se non il vuoto sprofondare nel nulla? Qual è il senso che si nasconde dietro alla decisione della ragazza che ami di porre fine alla sua esistenza, schiaffandoti in faccia la tua piccolezza, la tua inadeguatezza, la tua nullità, il tuo non essere abbastanza? Qual è il senso del male che alberga nel cuore di un uomo così radicalmente ancorato alla sua idea di bene, non coincidente con la realtà, dall’arrivare a spezzare definitivamente le speranze di una ragazza di soli ventidue anni, facendola sentire un errore, un peccato da estirpare e lavare con un estremo sacrificio? No, la verità è che non esiste alcun senso. Non esiste e non può esistere. E va benissimo così. Se mi dicessero che un senso c’è beh, probabilmente impazzirei. Non credo che il dolore serva realmente a qualcosa. Penso che sì, si possa imparare da esso, ma il dolore in quanto dolore non porta con sé alcun significato mistico o insegnamento di vita. 

“Sono qui.” mormora improvvisamente Clarke, risvegliandomi dai miei pensieri. Mi volto lentamente, fino a quando le mie iridi verdi non si specchiano nei suoi grandi occhi azzurri. Apro la bocca per parlare, ma ne esce solo un suono strozzato. Mi mordo forte il labbro. Non voglio piangere. Non voglio crollare. Non voglio essere debole. Non posso. 

“Lasciami entrare.” mi sussurra lei e a nulla valgono i miei patetici tentativi di resistere, la verità è che io sono già debole. Di fronte a Clarke non ho difese, è riuscita a scardinarle tutte. 

“Pensi che io meriti di essere felice?” chiedo senza alcun preavviso. Sospira, senza darmi una risposta. Sa di non potermela offrire lei. Devo cercarla io, trovarla io, afferrarla io. Ne è consapevole anche lei. È l’unico modo perché sia una risposta vera, non un mero insieme di parole. 

“Oggi sono tre anni. Pensavo che il tempo potesse anestetizzare il dolore, ma mi sbagliavo. Fa sempre più male, Clarke. Mi sento come se dovessi esserci stata io al suo posto. Se solo non l’avessi lasciata da sola quel giorno, lei non…“. Non sono in grado di completare la frase. Scoppio a piangere, finalmente. È un pianto carico di disperazione, di rimpianti, di rimorsi, di sensi di colpa. Clarke mi culla dolcemente, sussurrandomi di tanto in tanto parole cariche di conforto che, però, non sono in grado di comprendere. Lo sa anche lei, eppure non si ferma. E io stessa voglio che non lo faccia. Ho bisogno di sentire la sua voce. Ho bisogno di percepire qualcosa, un’alternativa a tutto questo dolore, a tutta questa assenza di senso. Clarke non smette di parlarmi e, allo stesso tempo, aspetta, con estrema pazienza. Aspetta che io sia pronta a lasciarla entrare, per l’ennesima volta. Non so per quanto tempo rimaniamo così, avvinghiate l'una all’altra, io persa tra mille singhiozzi e Clarke che non demorde, che continua a cercare di riportarmi da lei tramite il suono della sua voce. Sento la sua mano accarezzarmi i capelli e la sua bocca posarsi sulla mia tempia, mentre il mio corpo scosso da spasmi è ormai completamente prosciugato a causa delle lacrime versate. Mi accascio sulle sue gambe, senza più forze. 

“Io sono qui, Lex. Non me ne vado.” mi ricorda lei. Non è solo una promessa quella che sta facendo, ma una constatazione. Ha bisogno che io veda, che io riesca a scindere la realtà dai ricordi. Perché, per quanto vivido, un ricordo non è reale, non più. 

“Io l’amavo, Clarke. L’amavo e non avrei dovuto farlo.” esordisco. Prendo in mano una delle fotografie e sorrido amaramente mentre delineo con il dito i lineamenti di una ragazza dalla pelle scura e i capelli neri. Gli occhi sono quasi grigi, così vivi, carichi di una curiosità verso il mondo e di una sensibilità rara, quasi disumana. Clarke mi carezza il braccio, senza dire nulla. Vuole che sia io a parlare. In questo ultimo anno e mezzo di relazione le ho accennato solo vagamente di Costia, evitando accuratamente di approfondire l’argomento. I motivi sono tanti e nessuno di questi contempla una mancanza di fiducia nei confronti di Clarke. Se devo essere onesta con me stessa, direi che ho paura. Sì, io ho paura che le parole rendano reale ciò che è successo tre anni fa e che mi costringano a fare i conti con quella notte. Ho paura che il dolore sia troppo, che mi trascini nel vuoto. Ho paura che la mia inadeguatezza mi faccia scoprire di non meritare la felicità che in questo ultimo periodo sto sperimentando con un’altra ragazza, una ragazza che non è lei. Ho paura che le cose tra me e Clarke cambino, che la mia vulnerabilità possa portarmi a soffrire di nuovo così tanto. Ho paura di scoprire che non ho diritto di sperimentare una vita carica di senso, carica di un’alternativa al vuoto che ho intravisto quella notte di tre anni fa. Mi volto verso Clarke. Lei mi sorride, invitandomi silenziosamente a proseguire, ad aprirmi. A lasciarla entrare. Ho alternative? In teoria sì, sempre che restare a galleggiare nel proprio dolore sia un’alternativa. Forse Clarke ha ragione. Forse lasciarla entrare può essere un modo per far sì che il dolore esca e io possa, finalmente, guardarlo in faccia. Prendo un respiro profondo. 

“Io e Costia ci siamo conosciute al liceo. I suoi genitori appartenevano a un gruppo religioso molto rigido, una sorta di setta fondamentalista di cui suo padre era a capo. La mandavano a scuola solo perché i servizi sociali avevano minacciato di togliere loro la patria potestà se non avesse ricevuto un’istruzione adeguata. Ovviamente non poteva fare sport o partecipare a nessuna delle attività che facevamo noi suoi compagni, ma questo non ci ha impedito di diventare molto amiche. All’inizio eravamo solo questo, nulla di più. È successo al terzo anno, non so bene nemmeno io come o quando, fatto sta che cominciai a vederla sotto una luce diversa. Passò poco tempo prima che mi rendessi conto di essermi perdutamente innamorata di lei. Forse non dovrei raccontarti queste cose, ma…”

“Va tutto bene, Lex.” mi rassicura Clarke. “Continua, se te la senti.”. Mi mordo il labbro e, per un attimo, sono tentata di fare finta di nulla e finirla qua. No, sarebbe un’occasione sprecata.

“Sapevo che sarebbe stato pericoloso. Sapevo che se l’avessero scoperta le avrebbero fatto del male e, forse, a posteriori posso dire che non l’ho amata abbastanza per lasciarla andare.  Forse quello che ho sempre creduto essere amore altro non era che puro egoismo.”

“No, sono sicura che non è così.” mi smentisce Clarke. Non mi dà altre argomentazioni se non quel sono sicura che non è così. E, inspiegabilmente, mi fido di lei.

“Cercai di reprimere i miei sentimenti per buona parte dell’anno. In fin dei conti, ci vedevamo solamente a scuola e il non poter uscire assieme rappresentò paradossalmente un’ancora di salvezza per me. Fu con l’inizio del quarto anno che cominciarono i guai. Lo ricordo come fosse ieri, Clarke. Eravamo chiuse in bagno, una cosa che facevamo spesso durante la pausa pranzo. All’improvviso si è fatta seria e mi ha baciata, prendendomi in contropiede perché andiamo, non avevo minimamente capito che anche lei provava quello che provavo io. Ero felice, Clarke. La ragazza che amavo ricambiava e voleva stare con me. Con me, capisci? Con me!”. Clarke mi schiocca un bacio sulla fronte e mi sorride con dolcezza. “Uscivamo di nascosto, senza farci vedere  dai suoi genitori. La portai al cinema, non ci era mai stata. Le feci vedere l’oceano di notte e le insegnai ad andare sullo skateboard. Avevamo il mondo ai nostri piedi, Clarke. O, almeno, era quello che credevamo. Una sera esagerai e la portai ad una festa. Qualcuno deve averci notate mentre ci baciavamo e lo disse ai suoi. Non la vidi più per due interi anni. Scoprii in seguito che l’avevano mandata in uno di quei campi di conversione. Il tutto per colpa mia.”

“No Lex.” mi contraddice Clarke. “Per colpa dell’odio di suo padre, non del tuo amore.”. Ho un nodo in gola. Vorrei replicare, ma decido di non farlo. Ho bisogno di concludere la mia storia.

“La incontrai nuovamente dopo appunto due anni, per strada. Era così diversa, sembrava un’altra persona. I suoi occhi erano spenti, stanchi. Non ho mai saputo cosa avesse patito in quel campo, ma deve essere stato orribile. Appresi che viveva ancora con i suoi genitori e che non le avevano permesso di frequentare il college. La invitai a contattarmi, a cercarmi per qualsiasi evenienza. Poi, feci la cosa più stupida che potessi fare. Le dissi che mi mancava e che l’amavo ancora. Sulle prime, cominciò a ripetermi che dovevo smetterla, che quello che c’era stato fra noi era stato un errore, un peccato voluto dal diavolo per allontanarci da Dio, ma più andava avanti più sembrava poco convinta di quanto stava dicendo. Fatto sta che ero convinta non l’avrei mai più rivista, invece si presentò al mio dormitorio, non so nemmeno come, e mi confessò che, nonostante tutto, anche lei non mi aveva dimenticata. L’aiutai a scappare di casa e ci trasferimmo in un appartamento non lontano dall’università. Pensavo saremmo state felici, Clarke. E, invece, fu l’inizio della fine. A nulla servì la terapia, l’avevano rotta, dilaniata. Una sera, decisi di uscire con Anya, lasciandola sola. Quando sono tornata, lei non c’era più. Tutto quello che mi restava di lei era un corpo privo di vita e una lettera di addio.”. Soffoco un conato di vomito e affondo il capo tra le mani. “E ora dimmelo Clarke, merito di essere felice? Merito di essere amata? L’ho uccisa, Clarke. L’ho uccisa amandola.”. Non resisto oltre. Il sapore salato delle lacrime mi invade la bocca, prepotente. Clarke mi stringe a sé e piange con me, piange per me. Non capisco. Pensavo se ne sarebbe andata. Non perché non mi fidi di lei, no, ma come puoi credere che qualcuno sia in grado di guardarti quando sei la prima a non riuscirci?

“Ti amo.” mormora, spiazzandomi. “Ti amo e so per certo che anche Costia ti amava. Lo capisco da come ne parli, Lex. L’amore che provavate le ha mostrato un’altra faccia del mondo, di sé stessa, più vera e bella. Quello che è successo poi non c’entra nulla con i vostri sentimenti. No, c’entra solo con la malvagità e l’odio che costituiscono certi individui. Costia è stata vittima dell’odio di suo padre, non del tuo amore. E lo so che ti senti in colpa per essere uscita quella sera e che non esistono parole in grado di lenire il dolore che provi, ma voglio che tu sappia che non è tua la responsabilità, Lex. Anche se terribile, è stata una sua scelta. Non avresti potuto farci niente.”. Mi mordo forte il labbro, incapace di dire o fare qualsiasi cosa. Non ci riesco, non ce la faccio, non so come togliermi il peso di questi sensi di colpa da dosso. 

“Lex.” mi richiama Clarke. “Lex, guardami.”. Obbedisco, docile. I suoi occhi sono carichi di un affetto che non ho mai sperimentato prima. Tutto l’amore è il bene che Clarke prova per me sono racchiusi nel blu dei suoi occhi.

“Non so perché tu e lei abbiate dovuto vivere questo orrore. L’unica cosa certa è che tu ora sei qui e che non posso essere più grata per questo. Non so se il tempo davvero lenisca le ferite o meno, di certo però aiuta a vederle in prospettiva. Il dolore resta dolore, ma è solo una parte della vita, non tutta. Ed è il resto ciò a cui devi aggrapparti, con tutte le tue forze. Perché Lexa, di un senso che colmi il vuoto che il dolore provoca in noi ne abbiamo bisogno tutti. Lascia che ti aiuti a trovarlo. Sono sicura che Costia non voglia altro che questo per te.”

“E come fai a dirlo?” le chiedo, fra le lacrime. Clarke mi asciuga le guance e mi sistema una ciocca di capelli dietro le orecchie.

“Perché ti amava. Se ami una persona non desideri altro che la sua felicità. Sono certa che grazie a te Costia sia stata felice, anche solo per un istante. E questo significa che le hai salvato la vita Lex, perché gliel’hai riempita di significato.”. Mi accoccolo al suo petto, come un bambino in braccio alla mamma. Non dico nulla, sarebbe superfluo. Merito di essere felice? Non ho ancora una risposta a questo interrogativo. D’altro canto, penso che non importi. Se sono tornata a sperimentare un sentimento simile alla felicità, è solo grazie a Clarke. Mi sento amata e mi riscopro persona grazie a Clarke. Non esiste l’amore per merito, non sarebbe altro che uno sporco ricatto. L’amore è diverso. È puro, candido, senza macchia. L’amore crea, crea senso. L’odio no, produce solo vuoto. E io ho bisogno di senso. Ho bisogno dell’amore di Clarke. Ho bisogno di riscoprirmi tramite l’amore di Clarke. 

“Ti amo.” le confesso, in un sussurro quasi impercettibile. E in quelle due parole è racchiusa la mia possibilità di salvezza dall’abisso.







Nota dell'autrice

Sì, è un orario assurdo per pubblicare, ma è una di quelle notti in cui scrivere è una necessità salvifica. Spero che questa piccola one-shot vi piaccia, c'è tanto di me dentro, forse troppo.
Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate. Vi ringrazio in anticipo per aver letto.
Alla prossima.

   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The 100 / Vai alla pagina dell'autore: Aagainst