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Autore: padvaniglia_EFP    02/12/2021    1 recensioni
[BBC Sherlock: Sherlock Holmes/John Watson, Ace!Sherlock]
«Perché?»
[...]
Per un attimo, John è tentato di non rispondere, di lasciarlo schiavo di un quesito mai soddisfatto, di un dedalo di frasi meschine, vere nel loro veleno e false nel loro significato, come tutto è vero e falso allo stesso tempo se pronunciato in un impeto d' ira - proprio come lui si era inginocchiato ai piedi di una lapide menzognera, un segreto spillante dalle labbra e la morte nel cuore.
Perché mi hai voltato le spalle, Sherlock, e mi hai costretto a vederti morire, impotente di fronte ad un salto nel vuoto, a seppellire un corpo che non era il tuo. Perché ti ho cullato tra le mie braccia, ed ho sentito il calore del tuo sangue e il gelo della tua pelle. Perché hai cercato di proteggermi, ma non hai fatto altro che ferirmi. Perché sei stato il mio primo amico, e sarai il mio ultimo amore. Perché volevo condividere il peso del cielo sulle mie spalle, con te, ma tu non lo hai mai permesso. Perché ti ho amato, e forse lo faccio ancora, eppure non riesco più a distinguere illusione e disillusione, sogno e realtà.[...]"
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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"A STUDY IN OPPOSITES"


"Everyone wants to fall in love.
But I think more people are in love with the theory of love.
If you're looking in from the outside, it looks so beautiful.
On the inside, it's scary because it can take over your life.
It's the strongest emotion, but also the darkest.
It can put you on a high for days, but it can wrap an anchor around our feet
and drown you in less than a minute."

Calia Read, Breaking the Wrong

*

"So, go ahead and break my heart again
Leave me wonderin' why the hell I ever let you in
Are you the definition of insanity?
Or am I?
Oh, it must be nice
To love someone who lets you break them twice"

*

Il suono del violino si frange contro il silenzio pregnante con la violenza di uno sparo. Non c'è traccia di alcuna delicatezza nel modo in cui l'arco saetta alacre sulle corde dello strumento, pizzicandole come a voler imprimervi delle impronte, dei lividi: non è più un compagno da onorare, venerare, ma piuttosto un vessillo di sventura, un'arma che vacilla nell'incavo del palmo, un arco che si tende, e si tende... fino a spezzarsi.

La melodia è un susseguirsi di crescendo e diminuendo, un intrico di pause che hanno il sapore di un addio, un avvicendarsi di ottave che si inseguono l'un l'altra in un gioco d'ombre che sveste l'iride dei suoi colori – che ferisce l'udito con inaudita rabbia. È uno dei Capricci di Paganini, John lo riconosce dal modo in cui le note volteggiano tra loro a mozzare il respiro, ma non riesce a ricordare quale: la musica lo raggiunge quasi ovattata, un velo di malinconia la rende estranea ad un orecchio poco esperto, ma è una malinconia altalenante, che si adagia sugli arpeggi e riaffiora insieme ai mordenti, come il bagliore discontinuo di un faro nella notte.

L'ultima nota aleggia nell'aria, sospesa nel preludio di un imminente distacco: ha il sapore di un ultimo bacio, di una fiducia rinnegata, di un rimpianto inenarrabile... di un passato che infanga il presente, lo ghermisce, e lo avvelena, e lo svuota di ogni significato. Ha il sapore acido di un salto nel vuoto e l'odore pungente dell'asfalto bruciato dal sole, di ricordi che si succedono come fotogrammi di una vita sbiadita... ha il profumo sfuggente dell'aquilegia ripiegata su una tomba vuota.

Adesso che il silenzio ha pervaso ogni antro dell'appartamento – ha congelato il fremere del suo cuore – John trova difficile persino respirare. Un tempo – quando la guerra era solo un errore vacante su un libro di storia e la morte solo un velo opalescente che attendeva paziente all'estremo di un crocevia – Harry gli avrebbe detto che nei suoi polmoni stavano germogliando camme di lobelia, ma il sentiero della vita ha oltrepassato il suo mezzo, l'innocenza della margherita si è dissolta insieme ai suoi petali di cristallo, e John sente quegli stessi lacerargli la carne, gemmare sotto pelle, farsi spazio tra le sue membra in un estenuante annichilimento.

Landa bruciata.

Boccioli che si insinuano nelle sue vene, che si impregnano del suo sangue, gli ostruiscono la gola, irrompono nella sua bocca, che rammendano le sue labbra martoriate, che si schiudono nelle sue pupille.

Fiori del male.

I suoi passi grevi riecheggiano nella stanza troppo vuota, troppo spoglia. Le pareti grigie riflettono la tempesta che imperversa su Londra – che si abbatte su di lui, inerme, roccia di un coraggio fagocitato dall'oceano tumultuante. Piove, ma John non si cura di chiudere le finestre, ed ora gocce d'acqua sporca si stanno infiltrando tra le scanalature del pavimento dissestato.

Sono le lacrime che non riesce a piangere. 

È l'impotenza di un dolore che non riesce ad esternare, che lo divora dall'interno, che banchetta con le schegge del suo cuore – l'acre agonia della bile sulla sua lingua.

Non vi è più nulla che possa testimoniare il suo passaggio, lì, in quelle camere che soffocano con il peso della nostalgia per ciò che non è stato: John si è premurato di bruciare il compianto di ciò che sarebbe potuto essere con il disincanto di ciò che fu.

Ora, il profumo speziato dell'ultima crostata al lampone è stato rimpiazzato dal puzzo acre della cenere.

A nessuno dei due è mai piaciuto fumare.

 

C'è uno specchio, nel lungo corridoio fuori la camera da letto; era appartenuto a Mrs. Hudson da giovane, con una spessa cornice d'oro finto un po' scrostato ai lati – fasullo e rovinato come tutte le cose che travalicano i confini del tempo. John si chiede se anche lui diverrà così, in un pomeriggio caliginoso lontano da quest'istante, un involucro di carne sdrucita dall'usura; se chi lo guarderà – di sfuggita, con odiata compassione e ancor più agognata indifferenza, con il ripugnante sguardo indagatore di un adulto o quello puerile di un bambino – scorgerà soltanto cristallo incrinato sotto il peso di una fiducia tradita.

È in questo modo che devono sentirsi gli oggetti, pensa, gli oggetti che vengono passati di mano in mano, di casa in casa, di paese in paese, dimenticati da quegli stessi che li hanno posseduti, maneggiati, anche solo adocchiati con la coda dell'occhio, nei corridoi silenziosi, nelle sale polverose, sulle pareti come trofei.

È in questo modo che devono sentirsi le persone, pensa, le persone che vedono il loro amore gettato sul fondo di un armadio, come una veste mai indossata, calpestato come si calpesta ciò che è superfluo, dimenticato come si dimentica ciò che è avulso, da quegli stessi che hanno donato loro l'illusione di poter essere qualcosa di più, non solo pagine bianche alla fine di un libro già ultimato.

La lastra di vetro è completamente incrinata: screziature argentee dipartono dal centro, diramandosi taglienti verso l'esterno come le fronde di un fusto che pendono sulle acque di un lago placido.

John non può fare a meno di sorridere, un sorriso stanco, gli angoli della bocca curvati verso il basso in una posa melanconica, un sorriso che rimane circoscritto lì, tra due pieghe di carne riarsa, che non fa dolere le gote – un dolore bello, che respira il sole – e non arriccia la pelle intorno agli occhi.

Nella sua mente, come una boa che riemerge tra le onde, riaffiora il ricordo delle nocche scorticate e delle schegge di vetro che riflettono lacrime scarlatte. Non aveva mai creduto che il sangue potesse galleggiare sull'oceano.

Era accaduto poco dopo essere rientrato nel loro appartamento, il frastuono delle sirene che rimbombava nelle orecchie e il fermo di una macchia scura contro il cielo plumbeo impressa nell'iride, una diapositiva bloccata all'interno di un proiettore.

Quella volta, aveva fatto riparare lo specchio, perché l'idea di vedersi spezzato anche fuori era insostenibile.

Quando lui era tornato – ma tornato da dove, da un'esistenza raminga, da una ragnatela di inganni e falsità che si trascinava dietro come un velo di menzogne? – non si era curato di ripararlo. Forse perché alcune cose non possono essere riparate: le si aggiusta solo lasciandole andare.

Quando raggiunge il salotto, c'è una tazza di tè ad aspettarlo sul suo piccolo scrittoio – su quello che è stato il suo piccolo scrittoio. Non crede di avere più il diritto di considerarlo una sua proprietà, proprio come la stanza dalle pareti grigie che ha appena chiuso a chiave, non quando è stato privato di tutte quelle cianfrusaglie che affollavano la superficie – una candela al cedro, il busto della Venere di Milo in miniatura da usare come portalapis, una tastiera che non digitava più le e le H, una pila di libri di chimica farmaceutica e psicologia criminale... Non è riuscito a separarsene, per quanto ci avesse provato strenuamente – cancellare ogni traccia della vita di prima non avrebbe cambiato nulla, non avrebbe diminuito l'afflizione della perdita o il senso di colpa, così... ingiusto, che lo costringeva all'insonnia.

Ogni oggetto è portavoce di una storia, la sua, la loro storia, anche se non quella che John avrebbe voluto udir raccontare. In un impeto d'ira gli è sembrata la cosa più ragionevole da fare, perché la memoria è fallace, tentatrice, e John non sa come disporre di quei ricordi – sono spirali di fumo nell'alba di un nuovo giorno, che tenta invano di trattenere tra grumi di dita – eppure sembra così crudele separarsi da quei custodi del tempo – conchiglie smerigliate che restituiscono l'eco di parole lontane.

Il tè si è raffreddato, ancora in attesa di un ospite che, appena arrivato, è pronto a ripartire.

Accanto, vi è posato il violino, un po' di sbieco, la quarta corda spezzata, l'archetto abbandonato sopra il manico, come l'arto scomposto di un corpo inanime. John conosce ogni particolare di quello strumento, potrebbe perfino tracciarne i contorni ad occhi chiusi, nello stesso modo in cui conosce ogni dettaglio di lui.

C'è una sottile scalfittura, quasi invisibile, all'altezza della cassa armonica, proprio come la cicatrice sul suo fianco sinistro, sotto le costole; il rinzaffo delle due effe è una tenue pennellata sulle sue scapole, che si distendono come ali smaniose di avvertire il frullare del vento; il lieve pizzicare del Mi gli ricorda la sua voce baritona – il rimbombo della selva in una tormenta – o il modo in cui la sua risata si riverbera nel petto, una cascata di slavati fiori d'erica.

L'uomo è voltato di spalle, lo sguardo sibillino fisso sul palazzo di fronte; c'è una famiglia riunita intorno al tavolo, in uno dei pochi appartamenti senza le imposte chiuse, un mazzo di carte da gioco sparse sul legno ed una bambina che le indica affascinata, emettendo gridolini divertiti.

Saremmo potuti essere noi, pensa John, con una naturalezza che lo disarma, perché non gli è per nulla difficile immaginare Rosie tra le sue braccia, le labbra schiuse in un sorriso estatico senza denti, un gioco di società abbandonato sullo scrittoio e...

«Il numero ventiquattro.»

La voce che lo raggiunge è piatta, atona, un lago placido in cui John vorrebbe annegare. Non chiede spiegazioni – è troppo stanco per farlo, non dopo aver imparato che i silenzi valgono più di mille parole, non dopo tutte quelle domande che sono ancora in attesa di una risposta: invece, si limita a fissare il modo in cui le sue mani sono intrecciate dietro la schiena, le dita arcuate come pronte a premere i tasti di un pianoforte.

Pronte a premere il grilletto di una pistola.

«Stavo suonando il Capriccio numero ventiquattro, non il cinque.» Un sospiro appanna la vetrata. «La melodia di mezzo può trarre in inganno i meno esperti.»

John non riesce a reprimere l'istinto di sorridere – quel sorriso un po' incredulo, un po' orgoglioso che ha sempre vestito solo per lui – mentre le dita corrono ad allentare il nodo del colletto.

«Sei sempre stato abile nel decifrare le persone.»

Sherlock scuote il capo debolmente, i ricci steli di iris neri che ricadono sulla fronte alta.

«Non questa volta, temo.»

Improvvisamente, respirare è come avere decine e decine di spine conficcate nei polmoni. Le parole non dette rubano la voce ad entrambi.

John sa a cosa l'altro stia alludendo – a come sia consapevole di averlo lasciato a processare una perdita che non era mai stata tale – ma la smania perversa di vedere la colpa divorarlo vivo dall'interno supera quella di ascoltare le sue scuse.

Questa volta, non sono sufficienti.

«Dunque, è giunto il momento. Hai deciso.»

Il riflesso di John annuisce, le gote striate dalle gocce di pioggia. È un'immagine a cui è segretamente grato, perché gli dipinge sul volto un'emozione che non riesce ad esternare. Non è mai stato bravo a farlo, comunque; mai quanto Sherlock.

L'uomo non pone ulteriori domande, ma rimane lì, immobile, le gambe tremule, un Laocoonte avvinto dai serpenti del rimorso, un burattino a cui hanno reciso i fili.

«E Rosie? La... la rivedrò?»

Non c'è negazione a questa domanda, ma il silenzio teso che cala tra loro è più eloquente di qualsiasi risposta.

Il viso di Sherlock si contorce dall'amarezza, una pergamena lambita dal fuoco, e una tacita supplica gli sboccia nelle iridi d'anice.

«Non puoi farmi questo, John. Non puoi tagliarmi via dalla sua vita!»

«Non è mai stata tua figlia!»

Ma non è vero, e John lo sa, lo sa non appena quelle parole d'astio sgorgano dalle sue labbra: Rosie è stata la figlia che Sherlock non ha mai potuto o voluto avere, il futuro che aveva tentato di precludersi, ma che lo ha raggiunto, e lo ha imprigionato come la più dolce delle trappole.

Le stesse che lui è così bravo a tendere.

«Perché?»

È un bisbiglio appena udibile, quasi rivolto a sé stesso, un segreto che non ha ragione di essere rivelato, distrutto come l'uomo dinanzi a lui – un soffio senza vita.

Per un attimo, John è tentato di non rispondere, di lasciarlo schiavo di un quesito mai soddisfatto, di un dedalo di frasi meschine, vere nel loro veleno e false nel loro significato, come tutto è vero e falso allo stesso tempo se pronunciato in un impeto d' ira – proprio come lui si era inginocchiato ai piedi di una lapide menzognera, un segreto spillante dalle labbra e la morte nel cuore.

Perché mi hai voltato le spalle, Sherlock, e mi hai costretto a vederti morire, impotente di fronte ad un salto nel vuoto, a seppellire un corpo che non era il tuo. Perché ti ho cullato tra le mie braccia, ed ho sentito il calore del tuo sangue e il gelo della tua pelle. Perché hai cercato di proteggermi, ma non hai fatto altro che ferirmi. Perché sei stato il mio primo amico, e sarai il mio ultimo amore. Perché volevo condividere il peso del cielo sulle mie spalle, con te, ma tu non lo hai mai permesso. Perché ti ho amato, e forse lo faccio ancora, eppure non riesco più a distinguere illusione e disillusione, sogno e realtà.

Perché volevo soltanto essere la tua famiglia, ma tu non volevi me.

«Perché mi hai mentito. Hai calpestato la mia fiducia, e l'hai tradita.»

Le braccia di Sherlock ricadono lungo i fianchi, il petto che si gonfia in un respiro tremolante.

«Non posso darti ciò che vuoi, John, non quando ho solo cercato di fare la cosa più giusta.»

«Per appagare il tuo ego, o per me?»

«Per proteggerti. Solo... solo per proteggerti.»

John scrolla le spalle, tentennante nel decifrare ciò che sta provando in questo momento. È la risposta che aveva bramato, sognato per quattro lunghi, estenuanti anni nel tentativo di risolvere quell'enigma che era Sherlock Holmes, ma allora perché una delusione bruciante gli stritola le viscere?

«Non voglio le tue scuse.»

«Ed io non cerco il tuo perdono.»

È una menzogna, l'ennesima, un meccanismo di difesa che Sherlock ha affinato con gli anni, eppure John non può impedire al proprio cuore di perdere un battito: è un gioco perverso a cui lui stesso ha dato inizio – per scorgere un lampo di dolore ferirgli gli occhi, per sentire l'ebbrezza di veder sconfitto l'uomo che ha ingannato la morte – ma non è mai stato un gioco ad armi pari, non con lui.

«Talvolta, ciò che appare giusto, può essere sbagliato.»

Era stato lo stesso Sherlock a pronunciare queste parole, quando i ricordi di una guerra ingiusta affluivano nel labirinto della mente di John, acque di torbida colpa che si incanalavano in un dedalo di memorie luttuose – memorie senza fine, senza via d'uscita, da cui, talvolta, sembrava impossibile evadere.

«E se ciò che è giusto può essere sbagliato allo stesso tempo, John, non credi che ci sia un fondo di verità anche nelle menzogne?»

«Le menzogne a cui scegli di credere,» è l'amara replica di John – un biasimo che non sa di aver rivolto contro sé stesso.

«Nessuno ti costringe a farlo, John! Sei stato tu a decidere di credere alla mia morte, io non...»

«Smettila! Smettila, Sherlock!» È una richiesta disperata, uno di quegli ordini pronunciati quando lo sconforto prende il sopravvento, quando l'impulso supera ogni ragione. «Perché non riesci – perché non vuoi – accettare i tuoi sbagli? Una sola volta, Sherlock... ti sto implorando, una sola volta, di lasciarti andare, con me – lo puoi fare, puoi fidarti...» la voce si spezza in un'esitante domanda, il magone dell'incertezza difficile da inghiottire.

Sherlock è sul punto di parlare, ma qualcosa negli occhi cinerei di John lo fa desistere. «Perché ti accanisci nel voler essere un uomo perfetto, quando non sei altro che un uomo? Un uomo che-»

Un uomo che amo come la nebbia ammanta i campi, così John avrebbe voluto continuare, nell'invisibilità di una sera d'inverno, nel silenzio della neve che argenta una tomba sterile, ma le parole gli muoiono in gola, troppo pericolose nella loro semplicità, troppo rischiose nell'ardore che custodiscono.

«Sono la misura di tutte le cose.»

John scuote la testa, un'amarezza che riaffiora nel lago dei suoi occhi.

«Sei la misura di ciò che vuoi possedere, sviscerare e analizzare, Sherlock.»

Per un momento, scende nuovamente il silenzio. Un tuono si riverbera nel cielo plumbeo – un interrogativo che rimane taciuto, perché se l'ignoranza è agonia, allora la conoscenza è perdizione.

«Dimmi, Sherlock: sono mai stato qualcosa di più di un mero trauma da esaminare? Di un curioso caso da tenere sotto controllo?»

Sherlock gli rivolge ancora le spalle, ma il capo è reclinato verso la strada sottostante, rischiarata per un breve attimo dal bagliore di un fulmine. Come sono arrivati a questo punto – quando essere distanti è al contempo un supplizio e una benedizione? La mano di John si posa esitante sulla sua spalla, e può sentire i muscoli guizzare sotto il suo palmo in tensione, e riesce a riconoscere quell'odore di tabacco e sudore impregnare la sua pelle, che gli ricordano di interminabili viaggi trascorsi sullo scomodo sedile di un treno...

«Guardami. Ti prego.»

Il suo alito si infrange contro la nuca di Sherlock: percepisce il suo irrigidirsi, e basterebbe far scivolare un braccio attorno alla sua vita, il volto nell'incavo del suo collo – le labbra sulla sua guancia – ma è il timore di un rifiuto a inibirlo.

Un altro lampo getta uno squarcio di luce sulla strada quasi deserta, e lo stridere dei freni contro l'asfalto annunciano l'arrestarsi di un taxi davanti al 221B di Baker Street.

«Perché non vuoi guardarmi?» John bisbiglia con urgenza, il cuore che frulla nel petto come un uccellino in gabbia, ed anche Sherlock deve averlo avvertito, girandosi di scatto e intrappolando il volto del compagno nella coppa delle mani. Le sue dita sono gelide, e John sente quasi il bisogno di ritrarsi, perché quel freddo contatto gli rammenta di un altro giorno, e di un altro corpo esangue tra le sue braccia... Sherlock fa scivolare la punta delle dita sulle sue labbra, il tocco tremolante, delicato, come se stesse accarezzando le corde del suo violino, e poi sale a tracciare i contorni delle palpebre, in una lentezza che non gli appartiene.

Quando inizia a parlare, i loro respiri si condensano in un solo.

«Ma io ti vedo, John. Ti vedo nel viso di ogni sconosciuto che scruto per dipingervi sopra i tuoi lineamenti. Ti ho cercato nel tempo che mi ha tenuto separato da te – e ti cercherò in ciascuna stanza di questa casa, incessabilmente, quando ormai sarai lontano... perché sei tu tutti i miei ricordi.»

Una stilla solitaria si posa sull'indice di Sherlock, e l'uomo fa collidere le loro fronti: onice e quarzo si scontrano, brillanti di lacrime che hanno lottato per vedere l'alba.

«Mi hai mai voluto bene?»

Una debole risata vibra nel petto dell'uomo – una risata che cerca di smussare l'ovvietà della domanda.

«Sei il mio migliore amico, John.»

Il suo cuore sembra perdere un battito. È con tutto il coraggio che gli rimane – o la consapevolezza di non aver più niente da perdere? – che chiede ancora:

«Sei... sei mai stato innamorato?»

«Sono stato innamorato della teoria dell'amore.»

Dovrebbe accontentarsi, John, ma l'uomo non è un animale facile da appagare – ed anche a rischio di rimanere ferito, John decide proprio in quell'attimo di voler cessare di temere la verità.

«Ed ora?»

«Ora sono innamorato dell'idea di amarti.»

John chiude gli occhi di scatto, serrando le palpebre fino a che il dolore non sormonti quello che gli comprime la gola.

Ha riiniziato a piovere.

Questa volta, anche sul suo volto.

«Che cosa... che cosa significa?»

John non ha bisogno di una spiegazione per capire ciò che l'altro gli sta dicendo, ma lo anima un bisogno quasi infantile di essere rassicurato, di essere condotto per mano attraverso una realtà oscura che non riesce a valicare.

«Che cosa è andato storto?»

«Noi. Noi... non abbiamo funzionato. Io non ho funzionato.»

La mano di John scatta ad afferrargli il braccio, come se fosse possibile fargli rimangiare quelle parole – che nascondono un disagio che egli non sa trattare, un'inquietudine che cresce come la marea, e che, per quanto uno cerchi di ignorarla, ritorna ad ogni luna nuova.

«Non dire così, non lo devi neanche pensare...»

Sherlock scuote la testa. «È così, John, e devi accettarlo. Forse eravamo fatti l'uno per l'altro fino ad ora, e, semplicemente, non siamo stati in grado di cogliere la nostra occasione.»

John annuisce lentamente, e capisce che Sherlock sta cercando di racimolare la forza di chiedergli perdono – non si tratta più delle menzogne rivelate, ma di un amore che non potrà mai essere corrisposto.

«Non hai nulla di cui scusarti,» inspira profondamente, «perché così come sei, dal primo giorno in cui ho imparato a conoscerti nelle tue imperfette sfaccettature, io...» Io ti amo, vorrebbe sussurrargli, ma la codardia prende il sopravvento, e forse... forse Sherlock non ha bisogno di sentirlo. «Se devo lasciarti andare, qui...»

... che almeno ti possa rivedere nei miei sogni.

Sherlock inclina la testa, come un gatto curioso in un'eterna attesa. John si allontana ancora un po', verso le valigie accantonate sulla soglia del salotto.

«Per quanto io lo desideri.... ti desideri, sai che non posso restare.»

Un sorriso amaro delinea le labbra dell'altro uomo, ma non vi è alcun segno di inaspettata sorpresa: il dolore nel petto di John non cessa di acuirsi.

«Tornerò,» aggiunge di impulso, senza pensare a quanto sia facile fare una promessa, e ancor di più romperla. «Un giorno, tornerò da te.»

Sherlock adesso sta sorridendo apertamente, l'assurdità di quel futuro impossibile da ignorare.

«Un giorno, troverai un altro paio di occhi in cui rifletterti, un'altra bocca che desidererai baciare, un'altra risata di cui ti innamorerai.» Sherlock scuote la testa debolmente, e si avvicina a John, le braccia spalancate come se avesse intenzione di abbracciarlo.

Non lo fa.

«Un giorno,» posa una mano sulla sua spalla, «un giorno non ti ricorderai più l'esatta sfumatura dei miei occhi, o il suono della mia risata...»

Rapidamente, tanto che John crede di averlo immaginato, Sherlock gli regala un bacio sulla tempia, per poi ritrarsi nuovamente verso la finestra. Così come prima, gli volta le spalle.

«Un giorno, ti dimenticherai di esserti mai innamorato di me.»

 

I bagagli di John custodiscono il peso del suo cuore, che sprofonda ad ogni passo che percorre – ad ogni passo che lo conduce lontano da Sherlock. Il taxi lo aspetta come una condanna a cui non può sottrarsi; il portone sbatte alle sue spalle, spezzando qualsiasi legame lo tenesse ancora avvinto al 221B.

Una volta entrato nella vettura, John rialza lo sguardo verso quella che è stata la sua casa per più di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Indugia un attimo, un altro, e un altro dopo ancora – alla fine, fa cenno all'autista di partire.

Le tende dietro la finestra rimangono calate.

 

"So, don't pretend that I'm the instigator
You were the one, but you're born to say goodbye
Kissed me half a decade later
That same perfume, those same sad eyes"





 

ANGOLO AUTRICE:
Buonsalve lettor*! E' passato molto tempo all'ultima volta che sono riuscita a scrivere qualcosa di getto, e questa one-shot è stata una vera e propria boccata d'aria: avevo iniziato ad abbozzarla verso fine estate, ma poi, complici il mio nuovo impegno da beta reader e l'inizio della scuola, ho dovuto abbandonarla temporaneamente, riprendendola solo nell'ultima settimana.

Come ho sempre ribadito, trovo complicatissimo approcciarmi a personaggi di film o show televisivi, perciò si è trattato più che altro di un duplice esperimento - con la sfida di usare anche il tempo presente, di cui mi sono innamorata grazie ai capolavori di Erin Morgenstern.

"A study in opposites" nasce dalla lettura di un headcanon riguardante Ace!Sherlock Holmes, e dunque tratta del tema dell'asessualità, in riferimento generico al suo spettro; non avendo "esperienza diretta" dell'argomento, ho preferito inserirlo in modo quasi implicito, proprio per evitare di ledere la sensibilità di interessati* e non - se dovessi aver fatto "cilecca", chiedo umilmente perdono ed esorto a segnalare correzioni costruttive. E' una sorta di what if?, immaginando che John non abbia accettato così facilmente il "tradimento" di Sherlock, sebbene, in fondo, ne comprenda le ragioni... ma, d'altronde, un cuore straziato non è disposto a sentir ragione. 

Sperando di non aver creato un'atmosfera eccessivamente patetica o ridondante, grazie a tutt* coloro che hanno dedicato un po' di tempo a questa mia storia!
 

N.B.:
- Gli estratti alla fine e all'inizio del testo sono tratti dal brano "Break My Heart Again" di Finneas - un artista che ho scoperto solo recentemente, ma che mi ha conquistata sin da subito.

- I nomi dei fiori e/o frutti usati sono correlati al loro significato secondo il "The Language and Sentiment of Flowers Dictionary", di James D. McCabe: Aquilegia - Abbandono; Lobelia - Malevolenza; Lampone - Rimorso.

 

padvaniglia

 

   
 
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