Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: Soul Mancini    05/12/2021    5 recensioni
[Scritta per il compleanno del mio OC Randy ♥]
Randy è un ragazzo di diciott'anni che non ha ancora deciso cosa fare del suo futuro e della sua vita: la scuola non lo appassiona, così come la maggior parte delle altre attività che ha sperimentato, ma la cosa sembra non turbarlo troppo.
Sua madre però si rende conto della gravità della situazione e così, prmai preda della disperazione, decide di affidargli un incarico che possa metterlo alla prova, affinché si renda utile: il baby sitter.
A Randy i bambini sono sempre piaciuti, per lui non è un problema, ma non aveva tenuto in conto che si sarebbe ritrovato faccia a faccia con Rose, una bambina particolare che vive nel suo mondo e ragiona in modo totalmente opposto rispetto a chi la circonda. Il ragazzo rimane subito colpito e affascinato da lei: c'è tanto da scoprire all'interno di quella bimba e lui non vede l'ora.
Forse, all'interno del loro sconclusionato caos, qualche pezzo andrà a incastrarsi e assumere un qualche senso.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Ice'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
As if it made sense
 

 
 
 
Stavo aggrappato al palo giallo e sudicio, stipato in uno spazio troppo stretto per il numero di persone che conteneva, e il mio corpo veniva sbalzato da una parte all’altra come gelatina a ogni brusca frenata dell’autobus. Allungavo il collo nella speranza di riuscire a leggere i nomi delle fermate che, una dopo l’altra, ci lasciavamo alle spalle – per fortuna la mia altezza mi permetteva di avere una buona visuale. Non avevo mai preso quella linea e non conoscevo quella zona della città, dunque vivevo nel terrore di non scendere nel momento giusto.
Mi ero cacciato in una situazione piuttosto assurda dovevo ammetterlo: non avrei mai immaginato che sarei finito a fare il baby sitter, ma ormai la mia vita non aveva più una direzione e nulla mi sorprendeva più.
Tutto era cominciato l’estate precedente, quando avevo fallito i test per recuperare i debiti che mi ero lasciato alla fine dell’anno: avevo dovuto ripetere il decimo, l’avevo superato per miracolo e ora frequentavo l’undicesimo, ma le cose non erano cominciate col piede giusto; nonostante l’anno accademico fosse cominciato solo da un paio di mesi, avevo già collezionato una serie di insufficienze che mi avevano messo da subito in una situazione complicata.
Non ero motivato, non avevo voglia di studiare e di frequentare, non avevo più gli stessi compagni di corso e gli attuali mi piacevano ancora meno; non avevo voglia di fare alcunché, a dire il vero, a parte seguire mia madre nei viaggi in cui accompagnava Jia per le gare.
Mia madre, già, che era disperata e preoccupata per il mio futuro più di quanto lo fossi io. Qualche settimana prima, quando ero rincasato con una nuova F da aggiungere alla mia sconfinata collezione, si era prodigata nell’ennesima ramanzina che però stavolta era stata diversa dal solito. Non si era limitata a puntualizzare che avevo quasi diciott’anni e non avevo nemmeno cominciato a costruire il mio futuro, che dovevo smetterla di bighellonare e impegnarmi almeno per prendere il diploma di prima superiore; mi aveva sputato in faccia che si era stancata del mio atteggiamento e che, se non avessi trovato da solo un modo per fare qualcosa di utile, l’avrebbe trovato lei.
Così mi aveva procurato un incarico: a quanto pareva una sua vecchia amica aveva bisogno di qualcuno che la aiutasse con la figlia, una bimba di appena otto anni molto particolare. Non dovevo fare granché, semplicemente andare a prendere la piccola Rose a scuola e riportarla sana e salva a casa.
Avevo avuto un breve colloquio con la signora Hull e lei mi aveva spiegato che sua figlia era una bambina fuori dal comune, probabilmente con un qualche disturbo cognitivo che spesso la teneva distaccata dalla realtà e da ciò che la circondava: bisognava chiamarla per nome almeno tre volte prima di ottenere la sua attenzione, che spesso andava a perdersi nel giro di pochi secondi. Per ovviare il problema era necessario starci molto attenti e tenerla sempre per mano per evitare che si infilasse in qualche guaio, ma per il resto era una bambina tranquilla.
“Tutto chiaro?” mi aveva chiesto conferma la signora Hull.
Nessun problema, avevo pensato, sarà come avere a che fare con una piccola me, perennemente con la testa tra le nuvole.
Avevo annuito e accennato un sorriso. “Nessun problema. Prima di riportarla a casa possiamo andare a prendere il gelato?”
Non ero certo di aver fatto una figura brillante con la mia possibile datrice di lavoro, ma lei aveva comunque deciso di darmi fiducia e così, dopo essere uscito da lezione, mi stavo dirigendo verso una scuola elementare su un pullman pieno come un uovo.
Non potevo certo affermare che la situazione mi dispiacesse, anzi: mi erano sempre piaciuti i bambini, poteva addirittura rivelarsi divertente.
Quando ormai stavo per giungere alla mia fermata, mi spinsi a fatica tra il mare di gente che mi circondava e raggiunsi l’uscita del mezzo. Mi ritrovai, sudato e sfatto, sul marciapiede di un viale alberato che cominciava a tingersi delle tipiche tinte autunnali.
Armato di Maps, camminai per un centinaio di metri fino a ritrovarmi davanti al cancello multicolore di un grazioso istituto elementare; diversi genitori, nonni e baby sitter si trovavano già nei pressi dell’uscita, in attesa dell’arrivo dei loro bambini. Mi appostai accanto alla grande cancellata, infilai gli auricolari per ascoltare un po’ di musica e controllai l’orario – mancava circa un quarto d’ora al termine delle lezioni.
La signora Hull aveva avvisato le maestre che quel giorno un certo Randy Baker sarebbe andato a prendere la sua figliola all’uscita. Mi rimbombavano ancora in testa le parole che mia madre mi aveva ripetuto allo sfinimento la sera prima: non combinare fesserie, è una grande responsabilità, non distrarti, devi essere attento e concentrato al cento percento. Dal canto mio però mi sentivo tranquillo, non sentivo addosso tutta questa pressione: erano anni che mi spostavo da solo per la città e almeno da quel punto di vista sapevo badare a me stesso, che differenza avrebbe fatto se con me ci fosse stata anche una bambina di otto anni?
Sentii il trillo della campanella in lontananza e dall’edificio dalle pareti giallo canarino si levarono centinaia di voci infantili allegre e strepitanti.
Attesi che i bambini del primo anno sciamassero via verso i loro genitori, poi quelli del secondo anno e infine mi accostai. Una maestra stava ferma accanto al cancello per assicurarsi che ogni studente se ne andasse accompagnato dal proprio adulto di riferimento.
“Tu sei Randy Baker?” mi si rivolse lei, cogliendomi alla sprovvista.
“Sì… come fa a sapere il mio nome?”
“La signora Hull ci ha comunicato che saresti venuto a prendere Rose, ci ha mandato una tua foto affinché ti riconoscessimo.”
Sorrisi. “Ah, ecco, perfetto!”
La maestra si voltò verso destra e intercettò una bambina che attendeva lì accanto. “Rose?”
Lei, che nel frattempo si stava fissando le punte delle scarpe, non accennò a muoversi e non sollevò il capo.
“Rose, tesoro…” ritentò la donna, con lo stesso identico risultato.
Aggrottai le sopracciglia confuso, poi mi ricordai di quello che mi era stato detto qualche giorno prima: per ottenere l’attenzione della bimba bisognava chiamarla per nome almeno tre volte.
“Non importa.” Accennai qualche passo in avanti, raggiunsi Rose e mi rannicchiai davanti a lei in modo da essere al suo stesso livello e poterla guardare negli occhi.
“Rose” la chiamai, prendendole la mano nel tentativo di riscuoterla.
Lei finalmente sollevò lo sguardo e lo puntò dritto nel mio.
Era una bambina di una bellezza incredibile: aveva dei capelli castani ramati – quasi la stessa tonalità dei miei, solo più scuri – raccolti in una coda di cavallo, i lineamenti delicati su una carnagione diafana che la facevano somigliare a una principessina della nevi e due enormi occhi azzurri che sembravano non guardarti mai davvero.
Le sorrisi. “Ehi, io sono Randy. Oggi la tua mamma è molto impegnata, quindi ti riporto a casa.”
Lei sbatté le palpebre ma non rispose.
“Ma prima andiamo a prendere un bel gelato. Che ne pensi?”
Lei piegò il capo di lato.
“Ti piace il gelato?” tentai allora, sperando di suscitare in lei qualche reazione.
Rose rimase per qualche istante in silenzio, poi affermò: “Sì, mi piace anche quello della recita”.
Mi venne da ridere, ma mi trattenni e, prendendola per mano, mi diressi fuori dai cancelli della scuola: ormai tutti i bambini del terzo anno si erano allontanati, là eravamo solo d’intralcio.
Rose si lasciò guidare senza opporre resistenza, guardandosi attorno con curiosità come se vedesse quella via per la prima volta.
Io però, per niente turbato dalla bizzarra risposta che mi aveva dato, ero curioso di sapere cosa c’entrassero il gelato e una recita: avevo finalmente trovato un argomento di conversazione che forse poteva coinvolgerla e per me era importante, volevo parlare con lei e conoscerla meglio.
“Rose?”
Lei non rispose. Certo, come da copione.
“Rose? Ehi, Rose!”
Strinse leggermente più forte la mia mano, forse a volermi comunicare che avevo la sua attenzione.
“Che cos’è il gelato della recita?”
“Abbiamo fatto una recita quando è finita la scuola” ribatté lei in tono pacato. Attesi che continuasse il racconto, ma lei ripiombò nel silenzio.
Supposi che per trattenerla in quella conversazione l’unica soluzione fosse continuare a coinvolgerla, così le chiesi: “E dopo la recita avete mangiato il gelato?”
Lei scosse il capo. “Era in mezzo alla recita.”
“L’avete mangiato?”
“Ci abbiamo cantato dentro.”
Allora compresi: sicuramente Rose faceva riferimenti ai microfoni che avevano utilizzato per lo spettacolo, che ricordavano la forma di un cono gelato.
Sorrisi soddisfatto. “Oh, capisco. E che canzoni avete cantato?”
Ma Rose ormai non mi ascoltava più, troppo presa a osservare le foglie gialle e arancioni che si erano depositate sul marciapiede e che scrocchiavano sotto i nostri passi.
Nel giro di un paio di minuti arrivammo alla fermata e, mentre attendevamo il nostro autobus, pregai che non fosse affollato come quello che mi aveva portato fin lì. Non volevo che la mia nuova piccola amica venisse schiacciata in mezzo a quella bolgia, senza contare che era mio dovere tenerla d’occhio costantemente.
Mentre frugavo nella mia mente in cerca di qualche spunto di conversazione, Rose mi sorprese: “Queste sono le foglie degli Egizi”.
Seguii il suo sguardo e constatai che era ancora intenta a osservare la distesa giallastra ai nostri piedi.
Ecco l’ennesima frase che non ero in grado di decifrare.
“Conosci gli Egizi?” mi sorpresi. Con molta probabilità, a dispetto dei nostri dieci anni di differenza, ne sapeva più lei di me.
Rose non rispose.
“Rose?”
Calciò un paio di foglie con la scarpetta bianca.
“Rose, conosci gli Egizi?”
Le schiacciò, ascoltando il suono secco che emettevano quando finivano sotto il suo peso.
“Rose…”
“Gli Egizi li abbiamo studiati a scuola” ribatté. Dopo il terzo richiamo, come al solito.
“E anche loro avevano le foglie che cadevano dagli alberi?”
Lei era sul punto di distrarsi nuovamente, attirata da qualche movimento dall’altra parte della strada, ma io le strattonai leggermente la mano; ero troppo curioso di capire. “Io non li ho mai studiati, me li spieghi?”
Non che fosse una bugia: tutto ciò che avevo appreso per i test scolastici l’avevo dimenticato il giorno dopo del compito.
Rose allora puntò gli occhi su di me e accennò un sorriso – il primo che mi rivolgeva. “Io ti posso insegnare tutto perché li ho studiati e sono andata anche al museo. Gli Egizi avevano le foglie secche dell’autunno, però un po’ più grandi, e ci scrivevano sopra.”
“Ah, le pergamene!” esclamai, capendo finalmente il suo ragionamento.
Stavo per porle una nuova domanda, quando vidi il nostro autobus in avvicinamento. “Linea 44. È la nostra! Pronta a salire?”
Lei ovviamente non mi rispose, ma quando il mezzo accostò al ciglio della strada mi seguì dentro con naturalezza, come se avesse assimilato quella procedura e sapesse esattamente cosa fare.
Eppure la signora Hull mi aveva avvisato che Rose aveva preso i mezzi pubblici solo qualche volta e che in genere era lei ad accompagnarla ovunque in auto.
Questo mi diede da riflettere: evidentemente Rose non era fuori dal mondo come tutti dicevano, si rendeva conto di ciò che le capitava attorno e imparava.
Avere a che fare con lei si stava rivelando davvero affascinante e divertente.
Occupammo gli ultimi posti a sedere miracolosamente liberi e divisi la mia attenzione tra Rose e il tragitto che stavamo percorrendo: così come per l’andata, dovevo stare attento a prenotare la giusta fermata.
“Randy?” mi richiamò Rose dopo qualche minuto.
Rimasi piuttosto sorpreso da due fatti: si ricordava il mio nome – pensavo che non mi avesse nemmeno ascoltato quando mi ero presentato – e mi aveva rivolto direttamente la parola.
“Dimmi.”
“Perché gli autobus hanno le linee e non i punti?”
Scoppiai a ridere, cercando di contenermi senza successo. L’avevo conosciuta una decina di minuti prima e già la adoravo.
 
 
“Mi scusi, ci vuole un po’ di pazienza con lei. Intanto per me può preparare un cono con due palline, caramello e pistacchio” mi rivolsi al gelataio, per poi tornare a guardare in basso, dove Rose si era accovacciata per osservare con fare critico una piccola crepa sul pavimento.
“Rose, potresti metterti in piedi, per favore?” la richiamai per la seconda volta.
Niente.
“Rose!”
“Da lì escono i vulcani!”
Scossi il capo e sorrisi sotto i baffi. “No, da lì non possono uscire i vulcani, perché quelli sono caldi e qui invece c’è il gelato che li sfredda subito e non li fa esplodere. Adesso ti metti in piedi?”
La cosa pazzesca era che, nonostante i suoi atteggiamenti bizzarri, non riuscivo proprio a perdere la pazienza. Era come se io e Rose avessimo cominciato a parlare lo stesso linguaggio.
Lei mi diede ascolto e si raddrizzò, apparentemente rassicurata dalle mie parole.
“Dobbiamo ordinare il gelato. Tu vuoi un cono o una coppetta?”
“Quello della recita.”
“Okay. E quali gusti vuoi?”
“Vaniglia.”
“E basta?”
“No.” Detto ciò, tornò ad accovacciarsi a terra e osservare la crepa da cui, nella sua immaginazione, presto avrebbero iniziato a sgorgare lava rovente e lapilli.
Sospirai. D’accordo, la situazione stava cominciando a complicarsi.
Afferrai il cono che il gelataio mi stava porgendo, gli rivolsi un’occhiata di scuse e tornai a concentrarmi su Rose. “Rose Hull. Rose? Rose!” ripetei tre volte.
Mi pareva di star evocando Bloody Mary.
Lei mi guardò dal basso e sbatté le ciglia.
“Quale gusto vuoi insieme alla vaniglia?”
“Banana.”
“Oh, ce l’abbiamo fatta!” Tornai a guardare il gelataio. “Un cono a due gusti: vaniglia e banana.”
Lui annuì e mi rivolse un’occhiata divertita. “Dura la vita del fratello maggiore, eh?”
Ridacchiai. “Sono il suo baby sitter.”
“Davvero? Vi somigliate!”
“Abbiamo solo un colore di capelli simile” commentai.
Figuriamoci: non ero mai stato carino come Rose nemmeno quando avevo la sua età.
Dopo aver recuperato anche il suo cono, richiamai Rose e le ficcai in mano la sua merenda, poi la condussi fino a una panchina in cui potevamo accomodarci.
Venire al parco era stata un’ottima idea: non solo i gelati del piccolo chiosco erano tra i più buoni che conoscessi, ma il clima mite di metà ottobre permetteva di stare all’aria aperta senza congelare né morire di caldo.
Prendemmo a mangiare i nostri gelati, lottando contro il tempo affinché non si sciogliessero inesorabilmente tra le nostre mani: notai che Rose era incredibilmente abile nel leccare via ogni singola goccia di crema che rischiava di piovere giù dal cono. La invidiavo, io in quasi diciotto anni di vita non avevo mai imparato e puntualmente mi impiastricciavo come se avessi ancora cinque anni.
Chiamai la bambina per tre volte e poi, quando fui sicuro di avere la sua attenzione, le chiesi: “Come fai a non sporcarti col gelato?”
“Lo mangio” ribatté lei in tono ovvio.
Ecco, dovevo ammettere che me l’ero cercata.
“C’è una stella nel cielo!” esclamò lei a un certo punto.
Istintivamente sollevai lo sguardo, ma sopra la mia testa svettava solo la distesa azzurra del cielo macchiata soltanto da alcune nuvolette bianche, non trovai nulla di sospetto. “Dove?”
Ma quando mi voltai verso Rose, mi accorsi che stava guardando in basso, precisamente in direzione dei miei pantaloni.
Allora mi accorsi che una piccola goccia di gelato si era depositata sul tessuto blu notte.
Trattenni un’imprecazione: era ovvio che sarebbe successo. E ovviamente io non avevo dei fazzoletti appresso.
“Come possiamo fare per mandare via questa stella dal cielo?” chiesi tra me e me. Non sapevo nemmeno perché stessi parlando nel linguaggio di Rose.
“Aspettiamo che faccia giorno, così se ne andrà” rispose la bambina. Del resto per lei quel discorso aveva senso.
Cosa potevo fare se non cogliere la palla al balzo? “Oppure possiamo aspettare che vada via come le stelle cadenti di San Lorenzo. Le conosci?”
Le si illuminarono gli occhi. “Quelle che si muovono!”
“Esatto!” Mi guardai attorno e individuai un dispenser di tovaglioli posizionato su un tavolo a pochi metri da noi. “E sai cos’altro? Magari se copriamo il cielo per un po’ e non lo guardiamo, la stella prende coraggio e va via. Lì ci sono delle coperte per il cielo, le vedi?”
Rose seguì il mio sguardo e annuì.
“Dobbiamo prenderne una.”
Senza aspettare oltre, Rose saltò giù dalla panchina e corse a recuperare un tovagliolo. Per un attimo mi prese il panico: non potevo lasciarla andare in giro da sola, poteva tranquillamente distrarsi in qualsiasi momento e fuggire chissà dove; se la signora Hull avesse assistito a quella scena, mi avrebbe addirittura potuto denunciare per abbandono di minore!
Ma Rose fu di ritorno in pochi secondi, mi porse il fazzoletto e continuò a mangiare il suo gelato. Come avrebbe fatto qualsiasi altro bambino.
Okay, forse Rose era un po’ particolare, ma l’impressione che avevo era che tutti tendevano a sottovalutarla un po’ troppo. Certo, non sempre era semplice entrare nei meccanismi della sua mente, ma una volta scoperta la chiave era più facile coinvolgerla.
Forse, una volta ottenuta la sua completa concentrazione, poteva perfino essere affidabile.
Dopo la merenda decisi che era giunto il momento di rincasare: si stava facendo tardi e, nonostante avessi avvisato la signora Hull che stava andando tutto bene e ci eravamo fermati al parco per prendere un gelato, non volevo pensasse che le avessi rapito la figlia.
Giungemmo alla fermata – stavolta in una zona che conoscevo meglio – e salimmo sull’83, affollato come al solito. Riuscii a ritagliare uno spazietto a sedere per Rose, mentre io mi rassegnai a viaggiare in piedi accanto a lei.
“Randy!” sussurrò lei a un certo punto, il tono concitato di chi ha appena scoperto qualcosa di strepitoso.
“Dimmi.”
“Il quarantaquattro è più lungo dell’ottantatré.”
Stavolta non mi lasciai spiazzare dalla sua bizzarra affermazione: riconobbi i numeri dei due autobus che avevamo preso quel giorno, dovevo solo scoprire quale fosse il meccanismo che la portava a fare una tale affermazione.
“Il pullman intendi?”
“No, il numero.”
“E perché?”
Rose non rispose e tornò a guardare fuori dal finestrino, di nuovo persa nel suo mondo e nei suoi ragionamenti.
Decisi di non indagare oltre e di lasciare un alone di mistero attorno all’ennesima bizzarria di quella bimba così affascinante. Forse, ragionandoci su e conoscendola meglio, sarei riuscito addirittura a cogliere da solo il senso di quella frase.
In cuor mio speravo di rivederla, pregavo che quella giornata di prova si trasformasse in un incarico più serio: Rose mi aveva stregato, mi aveva messo alla prova e mi aveva fatto entrare nel suo mondo, che era tutto al contrario rispetto a quello convenzionale.
Non sapevo esattamente come definire la sensazione che avevo addosso, ma ogni volta che posavo gli occhi su quella principessina delle nevi mi sentivo come se la mia vita avesse trovato un senso.
 
 
Quella sera non avevo sonno nonostante la pesante giornata: i pensieri mi tenevano sveglio, così nemmeno provai a mettermi a letto.
Feci un po’ di zapping in tv, ma nulla attirava davvero la mia attenzione. Pensavo a Rose e alle imbarazzanti parole che sua madre aveva pronunciato quando l’avevo riportata a casa.
“Si è comportata bene,” le avevo assicurato, “abbiamo parlato un sacco e siamo andati subito d’accordo.”
Lei aveva sbattuto le ciglia, incredula. “Rose non parla mai, e quando lo fa è per dire cose sconclusionate.”
“C’è un senso in tutto ciò che dice” avevo obiettato educatamente con un sorriso, poi avevo aggiunto: “Non vorrei sembrare indiscreto, ma mi tolga una curiosità: Rose è seguita per questo suo problema? Ha un educatore, qualcuno che la aiuti?”
Lei aveva scrollato le spalle con fare rassegnato, come a voler dire: è un caso perso, niente e nessuno può aiutarla.
Quel suo atteggiamento mi aveva innervosito come poche altre volte mi era capitato. Quella bambina aveva un sacco di potenziale e pareva che io fossi l’unico a essermene accorto.
Pensavo a lei e a tutti i bambini nelle sue condizioni.
Rose non era stupida, aveva solo bisogno di essere seguita in una maniera diversa, più specifica. Io avevo notato tanti piccoli pregi in lei, tanti piccoli segnali che dovevano pur significare qualcosa.
Verso le dieci e mezza di sera spensi la tv, salutai mia madre che ancora armeggiava col cellulare – probabilmente stava organizzando i turni dei suoi allievi al palaghiaccio – e mi diressi in camera mia. accesi il computer, aprii Google e mi immersi in alcune ricerche che non mi sarei mai sognato di fare prima di quel giorno.
Esistevano tante forme di disturbi cognitivi, di cui avevo sempre sentito parlare ma che non avevo mai approfondito. Autismo, ritardo cognitivo, disturbo dell’attenzione, iperattività, disturbi dell’apprendimento… ognuno con i suoi sintomi e le sue possibilità di intervento.
Appresi che esistevano tante figure professionali che si occupavano di questi problemi, prima fra tutte l’educatore.
Mi piacevano un sacco le implicazioni di quel mestiere, si avvicinava un sacco a quello che nella mia testa mi sarebbe piaciuto fare con Rose. Certo, io non avevo alcuna qualifica, ma era come se quel pomeriggio avessi adottato con lei una mentalità da educatore… e non ne ero nemmeno stato consapevole.
Ecco, appunto, la qualifica.
C’era da studiare se si voleva intraprendere quella strada.
Innanzitutto c’era da prendere il diploma di scuola superiore.
Lanciai un’occhiata alla pila dei miei libri che giaceva sulla scrivania e venni colto da un senso di smarrimento.
Questa volta non era come le altre, non era come quando ero bambino e sognavo di fare l’astronauta, il pattinatore professionista, il marinaio. Stavolta si trattava di un obiettivo più raggiungibile e quindi tremendamente spaventoso.
Spensi il computer, afferrai il cellulare che avevo lasciato in un angolo da quando ero rincasato e, con mia sorpresa, trovai un messaggio vocale dalla signora Hull.
Lo misi in play e mi accostai il telefono all’orecchio.
“Ciao Randy, scusa per l’ora ma preferisco farti questa domanda con più preavviso possibile, in modo che tu possa avere il tempo di decidere. A quanto pare sei piaciuto tantissimo a Rose: da quando è tornata a casa non fa che nominarti e parlare di te, qualcosa che non era mai successo prima… visto che hai fatto un ottimo lavoro con lei e visto che prossimamente sarò ancora oberata di lavoro, mi chiedevo se ti andasse di lavorare per me e prenderti cura di Rose quando io non posso. Ovviamente non ti chiedo nulla di troppo complicato, semplicemente di andare a prenderla a scuola come è successo oggi, e il tutto compatibilmente con i tuoi impegni scolastici. Non devi darmi una risposta immediata, ti lascio un po’ di tempo per pensare e se ti va di discuterne meglio ci possiamo incontrare prossimamente. Okay? Buonanotte e grazie ancora per la disponibilità.”
Lasciai ricadere il cellulare sul materasso, basito e incredulo. Ci avevo sperato, ma non ci avevo creduto per davvero.
Potevo ufficialmente essere il baby sitter di Rose.
Il mio sguardo andò a cercare nell’oscurità la pila di libri ammassata sulla scrivania, che mi dava sempre un senso di smarrimento ma meno accentuato di qualche minuto prima.
Perché dentro di me si stava facendo strada una sensazione sconosciuta, come se per la prima volta la mia vita avesse un senso.
Il giorno dopo avrei risposto alla signora Hull e accettato il lavoro, a qualsiasi condizione.
Il giorno dopo, forse, avrei anche preso in mano quei libri dopo mesi e mi sarei messo a studiare.
 
 
 
 
♥ ♥ ♥
 
 
AUGURI RANDYYYYYYYYYYY, BIMBO MIOOOOOOOO *_______________*
Ragazzi, ma quanto mi era mancato scrivere di questo pandorino???
Ebbene… lo scorso anno ho scritto una storia in cui ho voluto evidenziare la sua totale indecisione verso il suo futuro, mentre qui ho voluto dargli almeno una piccola speranza, un minimo di direzione. Non sappiamo ancora cosa Randy diventerà, se seguirà davvero questo nuovo sogno di fare l’educatore e se sarà abbastanza tenace da combattere la sua pigrizia nei confronti dello studio, ma una cosa è certa: non è un ragazzo superficiale e vuoto, non è vero che non ha sogni e obiettivi nella vita, non è vero che nulla lo interessa e lo coinvolge veramente.
Insomma, si è capito che sono dalla sua parte e lo difenderò finché vivrò? XD
MA DEL RESTO COME SI FA A NON VOLERGLI BENE?????? *_____________________*
Sono davvero curiosa di sapere cosa ne pensate del suo atteggiamento nei confronti di Rose!
E a proposito di lei… chi l’ha riconosciuta??? Eh sì, si tratta proprio della piccola Rose protagonista della mia shot Al sole piace mangiare lo zucchero filato, in cui presento la sua primissima caratterizzazione e spiego dall’interno i meccanismi dei suoi ragionamenti fuori dal comune. In realtà questo personaggio non è mio: la prima storia in cui compare partecipa al contest “Un anno all’inferno” indetto da Artnifa; era stata proprio la giudice a lasciare a noi partecipanti una lista di personaggi strambi, era nostro compito sceglierne uno e svilupparlo. Questa è la traccia su cui mi ero basata:
Rose: ha 7 anni e vive nel suo mondo, tanto che bisogna chiamarla almeno tre volte prima che si giri. Ma non illudetevi, non riuscirà ad ascoltare un intero discorso senza distrarsi.
Dopo la partecipazione avevo chiesto alla giudice se potessi far comparire Rose in qualche storia futura (perché avevo già in mente questo crossover) e lei mi aveva dato il via libera per farne ciò che volevo ^^ non la ringrazierò mai abbastanza per avermi “regalato” questo stupendo personaggio che ha cambiato la vita al mio Randy *-*
Lascio solo una piccola noticina per quanto riguarda il ragionamento irrisolto: Rose afferma che il quarantaquattro è più lungo dell’ottantatré perché, scritto in lettere, il primo è formato da quindici lettere mentre il secondo da dieci ^^
Beh… mi sono divertita tantissimo a scrivere questa storia, è stata una corsa contro il tempo ma ne è valsa la pena *-* e spero che, al di là della sua assurdità, si sia colta l’importanza che questo episodio rappresenta nella vita del protagonista! :3
Grazie a chiunque sia giunto fin qui e ANCORA TANTISSIMI AUGURI a Randy, il mio piccolo sole e l’altra metà del mio cervello ♥

P.s: il compleanno di Randy è il 4, stavo anche per riuscire a pubblicare in tempo ma OVVIAMENTE internet ha deciso di crashare nel momento sbagliato e la storia è stata uploadata alle 00:00 -.-"
 
 
   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Soul Mancini