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Autore: pa_pam    05/12/2021    1 recensioni
Nella cella di Las Noches Orihime aspetta. Cosa, non lo sa nemmeno lei. Perché lei è lì per salvare i suoi amici, così si ripete.
La Speranza è lì: ma spera che i suoi amici siano salvi, o che salvino lei?
Ulquiorra svela la risposta, e assiste al mutamento derivato da questa verità.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Inoue Orihime, Schiffer Ulquiorra
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia sono proprietà intellettuale di Tite Kubo.


Nota Autore: la seguente one-shot è stata scritta diversi anni fa. Per affezione e personale spirito di accettazione del non-perfetto, ho il piacere di condividerla con voi intatta, ingenua, senza rimaneggiamenti. 
In diretta dal passato, buona lettura.




Giorno e Notte*

Giorno e notte erano uguali. 
Giorno e notte stava chiusa in quella stanza bianca. 
Non parlava con nessuno –non aveva nessuno con cui parlare. Era una semplice prigioniera. Non le era concesso mettere il piede fuori da quelle quattro mura, ma lei tanto nemmeno ci provava. Stava lì per salvare i suoi amici, così si ripeteva. Desiderava ardentemente tornare a casa, alla normalità, ma quei pensieri si nascondevano dietro il sacrificio delle persone che amava. La soluzione migliore era stare lì, ad aspettare chissà cosa, e sperare che gli altri stessero bene. Giorno e notte. 
Quando si sentiva sola, sapeva che ad accoglierla c’era il suo piccolo angolino, pronto a darle conforto. Era l’angolo vicino alla porta, così che se qualcuno fosse entrato lei sarebbe stata l’ultima cosa che avesse visto, in quella stanza. E spesso, giorno e notte, finiva per ritrovarsi a singhiozzare proprio in quel punto. 
La mezza luna le sorrideva costantemente, maligna. Se ne stava sempre là, ad osservarla da dietro quella finestra posta in alto. Lei non sopportava quella presenza. 
Così, anche nel suo misero rifugio, la si vedeva raccolta contro la parete, stringendo le gambe tra le braccia, come per portarle il più vicino possibile al petto. La testa nascosta, le spalle scosse dal pianto. 


***

Erano pochissime le volte in cui sentiva dei passi. 
Quando questo succedeva, giorno o notte che fosse, si tirava subito in piedi e piombava al centro di quella stanza. Si bloccava infine a fissare la finestra lontana. 
Il suo piccolo angolino, sebbene allo scoperto, doveva rimanere segreto. Nessuno doveva sapere che si rifugiava in quel punto. 
Quando i passi si allontanavano, si accasciava al suolo, debole, e coprendosi il viso con le mani riprendeva a piangere. 


***

Giorno e notte erano uguali. 
Solo grazie ai pasti riusciva a capire più o meno l’orario. Colazione, pranzo, cena, con quel cielo era semplice formalità chiamarli in modo differente. 
Un rumore diverso annunciava l’entrata di un nemico. 
L’entrata di un nemico diverso, diverso dagli altri. 
Un’andatura più composta, un cammino più leggero. 
Lo conosceva bene, aveva imparato a distinguerlo. 
Girò la testa, al cigolare della porta. Si mise in piedi e rimase a fissare, lo sguardo attento ma il capo chino. 
Era lui che le serviva i pasti. Non per piacere, di certo. Semplici ordini da eseguire. 
Eppure quell’uomo non lasciava trasparire niente delle sue emozioni. 
Disgusto, irritazione, noia, gioia… niente. 
Quando entrava, rimaneva a fissarlo in silenzio e lo studiava. 
Lui la trovava sempre là. 
Non capiva. 
Sempre là, in quell’angolo. Giorno e notte. 
In piedi, sembrava sapere sempre quando arrivava. 
Entrava, e come di consueto poggiava il piatto sul tavolino. 
Poi, attento a non tradire emozioni, chiudeva la porta e si girava verso di lei. 
Eppure, ogni volta, la ragazza evitava il suo sguardo. 
Questa non si abituava mai a quegli occhi verde smeraldo, gli unici che incrociava e che poteva incrociare. Occhi compagni della sua solitudine, occhi troppo profondi per essere nemici. E lei voltava lo sguardo altrove: semplicemente, non reggeva quegli occhi. 
E stava ferma, immobile. Ferma lì, nel punto in cui nessuno la vedeva mai, oltre lui. 
La ragazza si teneva sempre a debita distanza. Ma all’uomo non interessava. Lui pensava solo ad una cosa, in quel momento. Uno, due, tre, erano cinque i pasti che la donna aveva saltato. Non l’avrebbe lasciata morire di fame. Serviva. 
«Mangia». 
Dopo il rapimento, era la prima volta che le parlava. 
A quel suono, la ragazza spalancò gli occhi e fu percossa da un lungo brivido. 
Il tono del nemico era stato perentorio. Una lama avversaria che le si era conficcata al centro del petto, quasi mozzandole il respiro. Tuttavia non voleva mostrare segni di debolezza, perciò doveva trovare una risposta, subito. 
«Non puoi costringermi», annaspò. Lo fissò con incertezza: sapeva che non aveva possibilità di vittoria contro quell’avversario. 
Lui poteva costringerla. 
«Mangia, ho detto». Quella prigioniera gli stava incominciando a dare sui nervi. Ma come suo solito, non lo diede a vedere. 
La ragazza, spaventata e fragile, barcollò di qualche passo indietro; gli occhi sempre sulla sagoma nemica, per i suoi gusti troppo vicina. 
Il miele del suo sguardo studiò la figura. 
Il volto del rivale era pallido. Una carnagione così chiara da ricordare il giorno. Un colorito così debole che sembrava chiedere protezione, quando in realtà -ironia della sorte- era lui ad annientare le difese altrui. 
Uno sguardo annoiato -quasi stanco-; tuttavia impenetrabile. 
Lungo le guance, due eterne lacrime -che guastavano il viso altrimenti immacolato. Gli occhi della ragazza immagazzinarono quelle informazioni in pochi attimi, che diventarono secoli quando per sbaglio li posò nei suoi. 
Gli occhi del Cuarto Espada indugiarono qualche istante, poi tornarono alla realtà. 
Avanzò di qualche passo e la donna -indietreggiando- sfiorò la parete. 
Colse il terrore della ragazza e si bloccò. 
«Speri che verranno». 
L’affermazione la colse di sorpresa. 
«Eh?» 
Lui non aggiunse altro. Trovava superflua ogni spiegazione, in un contesto così ovvio. 
«Perché…?» balbettò lei. 
Stavolta fu l’uomo ad essere ammutolito. Con una punta di curiosità, fissò la donna. 
Lei riprese leggermente più sicura. 
«Non è giusto, sperare?» 
Solo dopo averlo detto si rese conto che non aveva senso. 
Non era quello che pensava. 
Stava lì per salvare i suoi amici, così si ripeteva.  
E nelle parole che aveva pronunciato, si leggeva chiara l’immagine di quegli amici che correvano contro il pericolo a volto scoperto, per salvarla. 
Questo era un pensiero cattivo. Oscuro, egoista. 
Era la notte dentro di lei, lei che si credeva il Giorno. 
Rimase colpita dalle sue stesse parole. 
«Speri la morte dei tuoi compagni». 
Non era una domanda, ma un'affermazione. 
Impassibile, il nemico la osservava. 
Lei mal sopportava quegli occhi vitrei fissi sulla sua persona. 
«Non spero la loro morte», ma nella sua voce da bambina l’unica cosa che mancava era la sicurezza. 
«Menti, donna», e alle sue parole, la ragazza sussultò. «Menti a te stessa. Vuoi che i tuoi compagni vengano qui, a salvarti. Il tuo desiderio -la loro protezione- è una menzogna. Menti perché così ti credi migliore». 
Quando il cervello della ragazza metabolizzò quelle frasi, gelide e taglienti come schegge di ghiaccio, i suoi caldi occhi ambrati si sbarrarono. Quell’uomo, che di lei sapeva niente, aveva capito tutto. I suoi complessi interiori, le sue mille domande senza risposte, le sue indecisioni, tutto: quell’uomo aveva messo a nudo la Notte della sua anima. E questa consapevolezza l’aveva spiazzata, rendendola indifesa. 
La prigioniera abbassò lo sguardo ormai vuoto e si rannicchiò -tanto nel suo angolino c’era già. 
Il nemico la fissava, lo sapeva, ma forse per la prima volta non le importava. 
Questo intanto si spazientiva, era una situazione che lo irritava. «Hai perso la parola? Donna». Pretendeva una risposta. 
La ragazza lo aveva sentito, ma tanto non lo ascoltava. Stava riflettendo sulla sua posizione. 
Un nemico di cui non conosceva nulla aveva in pochi istanti fatto luce sulla sua personalità con una risolutezza quasi surreale. Ad anni di problemi aveva risposto con poche righe, come a dare quasi la semplice soluzione ad un complicato problema matematico. 
Che a capirla fosse un nemico, era assurdo. Non lo tollerava. La faceva incazzare. 
La Notte le aveva fatto accorgere di non essere il Giorno. Il Giorno, illuminato dalla Notte, aveva scoperto le sue ombre.  
Si accorse di provare un’improvvisa rabbia verso quell’uomo. Non era possibile, non era giusto. Balzò in piedi con un fulmineo scatto e buttandosi in avanti gli gridò contro. 
«Ce l’hai un cuore?» 
La domanda risuonò nella stanza vuota. 
I due si guardarono intensamente, quasi fosse stata una gara a chi avrebbe ceduto per primo. 
Per parecchi secondi, forse minuti, l’unico rumore udibile era il silenzio. 
Improvvisamente il nemico, quasi si fosse ricordato di qualcosa, scrollò impercettibilmente la testa e fece per andarsene. 
La ragazza lo bloccò con un secondo e forte richiamo. «Ce l’hai un cuore? Sì o no? Rispondi!» 
«Silenzio, donna» rispose l’uomo con voce autoritaria, senza voltarsi. 
«Tornerò tra poco. Farai bene ad aver mangiato, per allora». Così dicendo la figura riprese a camminare. Si diresse verso l’uscita e se ne andò. 
Ansimante di rabbia, con il cuore che ancora le scoppiava nel petto, la ragazza osservò il pasto ancora sul tavolo, poi posò lo sguardo sulla finestra lontana e si accasciò al suolo. La luna sempre lì. 

Giorno? Notte? Lì erano uguali.

   
 
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