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Autore: EcateC    11/12/2021    1 recensioni
✒︎ SHERLOCK, LUPIN E IO
✒︎ ADLOCK
Questa storia si propone di dare un epilogo alternativo alla saga di Sherlock, Lupin e io, e non tiene conto dei fatti accaduti dopo l'improvvisa partenza di Irene per New York...
Sherlock ormai è adulto e lavora fianco a fianco con Watson, quand'ecco che un misterioso gentiluomo americano richiede la sua presenza per risolvere un caso d'oltre oceano.
Può essere letta anche da chi non conosce la saga di Sherlock, Lupin e Io.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Irene Adler, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Alla cara Ecate,
che è rimasta con Mary fin proprio alla fine
.

 


 

Trenton,
A. S. 16 febbraio 1889

 

Mio caro Dottor Watson,

Quando sono sbarcato nel porto di Atlantic City, in New Jersey, la prima cosa che ho pensato fu che volevo tornare subito a Londra. Non mi fraintenda, è stata l’America ad accogliermi nella maniera più ostile che si possa immaginare, con un tentativo di furto perpetrato a mio danno mentre scendevo le scale del transatlantico. È stato un falco fulmineo, una freccia di sedici anni alta un metro e sessantasei, scura di carnagione, 41 di scarpe, che mi ha spodestato della borsa senza nemmeno darmi il tempo di voltarmi. Ho dato spettacolo rincorrendolo per tutto il porto e quando l’ho acciuffato, il ragazzino era incredulo. Non si era aspettato una tale rapidità di riflessi e di piedi da parte di un turista inglese, un quisque de populo reduce tra l’altro da un viaggio lungo e periglioso. Come dargli torto, ma d'altronde non tutti possono vantare di avere per amico un medico scattante e abile come lei. Anche con una gamba acciaccata lei continua a essere un corridore migliore di me, Watson.
Comunque, se questo è stato il mio ingresso nel suolo americano, posso anticiparle fin d’ora che la mia permanenza non è stata da meno, ma procediamo con ordine.

Non persi tempo e presi l’accelerato per Trenton. Dovevo incontrare il gentiluomo che mi aveva pagato questo lungo viaggio e promesso un lauto compenso se fossi riuscito a dirimere il caso che tanto lo tormentava, ovvero la scomparsa di suo padre e del suo fedele maggiordomo. Come ben sa, in genere non mi occupo di sparizioni, ma questa volta volli fare un’eccezione. Il fatto che questo signore mi avesse contattato dal New Jersey, millantando che io costituivo la sua ultima speranza, sul momento mi riempì di orgoglio. Non credevo che la mia fama avesse varcato i confini europei e si fosse spinta così lontano. E poi quale altro caso mi avrebbe permesso di viaggiare gratis, in prima classe, verso le Americhe? Quale altro cliente mi avrebbe offerto un compenso simile? Questi ultimi due sono stati i suoi incoraggiamenti, Watson. Pur con tutto il suo garbo, mi ha fatto intendere che sarei stato un vero idiota se non ne avessi approfittato. Eppure c’era qualcosa che non mi convinceva fino in fondo. Il mio intuito, reso affilato dall’esperienza, mi suggeriva a gran voce di diffidare da questo gentiluomo dalla grafia equivoca e dall’atteggiamento misterioso. Se si ricorda, a suo tempo le feci notare che la carta e la busta della missiva erano prive di personalità, non presentavano un solo segno e non emettevano un solo odore, come se il mittente fosse stato a conoscenza delle mie capacità di dedurre i fatti ignoti da quelli noti.

Non nego che pensai subito a Irene Adler, la mia affascinante amica di gioventù, che era residente proprio in questa terra lontana. Se sono partito, è stato anche per quello. Trenton è sì una grande metropoli, ma non ci sarebbe più stato l’intero oceano a separarci. L’idea di farle visita e di conoscere suo marito, magari anche i suoi figli, mi incuriosiva e ributtava allo stesso tempo.

Avrei dovuto immaginare che presto questa mia indecisione sarebbe caduta nel nulla. L’uomo misterioso che mi aveva scritto, pagato il viaggio e ingaggiato qui, si rivelò niente meno che Miss Adler in persona. Ovviamente, aggiungerei io.

“Non saresti venuto se ti avessi detto la verità, Sherlock.”

Questo fu tutto ciò che lei mi disse quando, sgomento, la vidi comparire nel locale dove mi aveva dato appuntamento.

Ammetto che sarei venuto ugualmente. Avrei pagato il viaggio di tasca mia e non avrei tardato così tanto ad arrivare, ma non le avrei negato il mio aiuto. Non le serbo rancore, malgrado tutto, e a prova di ciò posso dire che mi fece uno strano effetto sentire il mio nome pronunciato ad alta voce. Nessuno mi chiamava più così da tempo immemorabile. 

Lo strano effetto non era altro che contentezza. 

Caro Watson, lei non ha idea di come sia questa donna. È un delicatissimo intreccio di contraddizioni, il cui risultato finale risulterebbe intrigante agli occhi di chiunque. Il mio cuore adolescente ne era innamorato pazzo, il mio cuore adulto si limita a riconoscerne il fascino con disincantata freddezza.

Ci appartammo a parlare e la prima cosa che notai fu che lei non indossava la vera al dito. Scelta a dire poco azzardata, considerando che era uscita a incontrare un uomo non sposato come il sottoscritto, ma non da fraintendere. Tra me e lei c’è sempre stato un rapporto di pura e sincera amicizia, nient’altro. La formalità tra noi non era necessaria.

Dunque mi raccontò tutto. Suo padre Leopoldo e l’anziano maggiordomo Orazio erano spariti e nel giro di pochi giorni i miei timori si erano rivelati esatti: i due erano stati uccisi. Quattro ribelli boemi, sopravvissuti alla rivoluzione, li avevano freddati in nome del loro defunto sovrano e si erano nascosti in un bugigattolo senza preoccuparsi di nascondere le loro tracce. Trovarli nella periferia della città fu per me una sciocchezza, dirlo a Irene fu invece molto difficile. La morte di un genitore, seppur molto anziano, spezza sempre il cuore. Anche Orazio fu per lei una perdita incommensurabile.

Mi avvicinai a lei col cappello tra le mani e l’espressione luttuosa. Irene e io ci conoscevamo da molti anni ormai e lei comprese cos’era accaduto guardandomi semplicemente negli occhi, senza bisogno che io le spiegassi alcunché. Mi ha abbracciato molto forte e mi ha ringraziato. Io l’ho ricambiata con trasporto e mentirei se le dicessi che il profumo dei suoi capelli e il contatto ravvicinato col suo corpo non mi sortirono alcun effetto. Non avevo mai abbracciato con tanta passione una donna, dunque per me erano state tutte sensazioni nuove e fortissime, ma viste le tristi circostanze mi imposi di fare finta di nulla. 

Il caso tuttavia era risolto e la mia presenza non era più necessaria. O almeno così pensavo, quando mi sono recato da lei per salutarla, il pomeriggio dopo che si erano tenute le esequie. Sapevo che era immersa nel dolore, credevo che non avrebbe avuto nemmeno la forza o la voglia di ricevermi e in quel caso non gliene avrei fatto una colpa. Venni comunque accolto dalla sua domestica, la quale mi disse che la signora si era chiusa in camera e non voleva vedere nessuno. Era comprensibile…

“Le porti i miei saluti” dissi allora per congedarmi. Feci per andare verso la porta, ma la voce squillante di Irene mi fermò inaspettatamente sull’uscio.

“…Sherlock!?”

Mi voltai di scatto e la vidi che si era sporta dal corrimano delle scale, in veste da casa. Mi fissava con un’espressione basita e incredula al contempo, come se la mia decisione di partire l’avesse in qualche modo offesa. 

“Che stai facendo!?” mi ha domandato con tono accusatorio, quasi aggressivo.

“Torno a Londra naturalmente” le ho risposto con ovvietà “Ero solo venuto a salutarti.”

Irene cambiò espressione e scese in fretta i gradini, dire che non fosse presentabile era un eufemismo.

Salutarmi?” ripetè con gli occhi gonfi, raggiungendomi in fretta “Oh, Sherlock…”

Mi ha supplicato di restare qualche giorno in più e io le ho detto di sì senza nemmeno pensarci.

 

La situazione era scomoda e si prestava a molti imbarazzi. Alloggiavo a sue spese in un albergo molto costoso e raffinato, dunque dopo nemmeno una settimana decisi di andarmene e trasferirmi un posto più modesto e adatto alle mie tasche. Irene insistette, ma io non volli sentire ragioni. 

Il triste giorno dei funerali mi resi conto che non era accompagnata. Mi raccontò senza tanti preamboli che suo marito Godfrey Norton l’aveva ripudiata dopo averla sorpresa a letto con un altro. Il fatto mi scandalizzò, anche se non lo diedi a vedere. Lei aggiunse che suo marito era sempre stato un uomo inetto e mediocre, e che il suo matrimonio era stato combinato. 

“Non l’ho mai amato, Sherlock” si giustificò inquieta, con gli occhi velati di lacrime “Non giudicarmi male, ti prego.”

“Non ti giudico” la rassicurai. Non avevo nemmeno le basi empiriche per giudicarla, che giudice può essere uno che non conosce dettagliatamente i fatti?

Mi misi solo la pipa in bocca, il fumo mi aiuta a pensare. Immaginai un marito che scopre brutalmente di essere tradito e una moglie costretta a vivere ogni singolo giorno con un uomo che disprezza. In quel momento più che mai ho sentito la sua mancanza, caro Dottore. Lei in queste faccende rappresenta per me la luce della ragione.

 L’ho guardata e mi sono reso conto con una certa sorpresa che lei mi aveva fissato per tutto il tempo sotto le sue folte ciglia. Ho abbassato di scatto lo sguardo, fu una reazione istintiva, ma poi mi sono imposto di rialzarlo. Lei mi ha sorriso e mi ha preso una mano tra le sue. 

“Sai tutto di me adesso” mi ha detto con una dolcezza a dire poco equivoca “Io invece non so niente di te.”

“Non c’è molto da sapere” tagliai corto. Dopotutto era vero. 

“Non fare il modesto, non ti si addice” scherzò, accarezzandomi le dita con le sue “Raccontami uno dei tuoi casi, il più interessante.” 

Per qualche ignota ragione in quell’istante persi l’uso della parola. La guardavo e non riuscivo a parlare, le mie guance si erano scaldate dall’imbarazzo. La bellezza di Irene Adler è difficile da descrivere, è una di quelle bellezze che un uomo di chiesa considererebbe empia e indecente. I suoi capelli sono rossi e ricci, grintosi, e la sua notevole altezza la rende ancor più vistosa di quanto già è. Gli uomini la guardano sgranando gli occhi e le donne, così scialbe rispetto a lei, si indispettiscono.

La sua focosa bellezza, unita a quella intimità eccessiva, mi avevano sopraffatto.

Ho guardato fuori dalla finestra della carrozza e mi sono ripreso in fretta. 

“Non sono belle storie, Irene, lo sai. E non sono certo adatte a una signora che sta portando il lutto.” ho esclamato con ovvietà. Forse sono stato sgarbato, dato che lei mi ha lasciato bruscamente la mano.

“Hai ragione, come al solito” mi rispose freddamente, voltandosi del tutto verso il vetro opposto al mio.

Presi una boccata di fumo e guardai il suo riflesso. Irene aveva un’aria molto seccata e io mi sentii a disagio, la mia incapacità con le donne si era riconfermata per l’ennesima volta.

 

Dopo i funerali, lei rimase in lutto per una buona settimana. L’accompagnavo a pranzo e dopo passeggiavamo per questa città a me del tutto sconosciuta. Irene mi prendeva sempre sotto braccio, sembrava provare un certo gusto nel farlo. Avrei voluto essere più massiccio, ma dopotutto non era certo per la mia avvenenza che sopportava la mia compagnia. Si sentiva invece molto sola.

L’ultimo giorno del lutto mi propose di accompagnarla a teatro per una sera della settimana successiva. Io non avevo degli abiti adatti ma lei insistette e perciò dovetti noleggiare un completo elegante, che mi costò quanto un pointer inglese. Ma poi, come la vidi scendere le scale e raggiungermi, compresi che quella spesa era stata un’inezia. Con quell’abito da sera Irene era uno schianto, si riconfermò la donna più bella che avessi mai visto. Il verde agata risaltava il rosso dei suoi capelli e il taglio dell’abito, così stretto e scollato, aderiva in modo perfetto al suo corpo. Mi complimentai con lei ma non assecondai il bruciante impulso di darle un bacio solo perché erano appena morti Leopoldo e Orazio, e perché non avevo più quindici anni. Un bacio scambiato alla nostra età ha un significato ben più profondo di uno dato durante l’irruenza della gioventù. 

Dopo quella settimana io iniziai a pensare di tornare a Londra. La mia presenza non aveva più molto senso, Irene aveva superato il baratro dei primi giorni e stava cercando di andare avanti, di sorridere e tenersi impegnata. Aveva già un fitto programma delle sue prossime esibizioni canore. Era un soprano molto richiesto, forse anche per la sua presenza scenica.

Sentirla cantare sarebbe stato meraviglioso, ma ragionandoci sopra, mi resi conto che non era la cosa giusta da fare. Mi mancava solo sentire la sua voce accompagnata dagli archi e poi mi sarei innamorato definitivamente, di nuovo. Non potevo permettere che accadesse e rivivere lo stesso tormento che avevo provato diversi anni fa, quando la vidi scomparire all’orizzonte a bordo di quella nave diretta a New York. Fu terribile, Watson. Ero innamorato, avevo già per la testa l’idea di sposarla e l’unico scoglio che vedevo frapporsi tra noi mi sembrava Arsene Lupin, il nostro fascinoso e galante compagno d’avventure. Non potevo immaginare che si sarebbe frapposto l’intero oceano e che avrei passato degli anni senza vederla. Per questo avevo fretta di andarmene, stare con lei mi faceva ritornare il ragazzo che ero stato.

Ma di nuovo, quando le dissi che ero intenzionato a partire, lei reagì male e poi si sciolse in lacrime. Rimasi basito, Irene non aveva versato una sola lacrima durante i funerali e io dimostrai di essere il consolatore più impacciato della storia. Eravamo fuori al ristorante, la gente aveva iniziato a guardarci. Mi alzai dalla sedia e mi parai di fronte a lei.

“Irene…”

“Resta, ti prego” mi supplicò, prendendomi entrambe la mani “Ho solo te, Sherlock, non lasciarmi anche tu.”

Lasciarla, assaporai il significato di questa parola equivoca. Per lasciare qualcosa, per logica bisogna prima averla, dico bene? Ha solo me.

“Io non te l’ho mai proposto perché non riesco davvero a capire se potrebbe interessarti oppure no” continuò lei, molto incerta “Ma se vuoi venire da me, è inteso che ti ospiterei più che volentieri.”

Sgranai gli occhi “Intendi a casa tua?”

Lei mi sorrise “Perché non saliamo a bere qualcosa? Non mi va più di stare qui.”

“Certamente.”

Prendemmo la prima carrozza disponibile e io la seguii fino in casa sua. Ammetto che mi sentivo eccitato e mentirei se dicessi di non avere colto la sfumatura amorosa della sua proposta. Fui comunque colpito dalla bellezza e dalla sontuosità della sua casa, sapevo che gli Adler fossero ricchi, ma la casa di Leopoldo non era così lussuosa. La sua carriera di cantante teatrale doveva averle portato molto denaro.

C’erano degli affreschi di pregio nelle pareti, i pavimenti di marmo bianco erano tirati a lucido e dei fiori freschi erano disseminati in ogni dove, regali dei suoi ammiratori. Il fiore più bello tuttavia era rosso e camminava davanti a me. Stavo ancora guardando le pareti quando Irene mi si gettò tra le braccia e catturò le mie labbra in un bacio.

“Resta” mi sussurrò piano “Ti voglio con me, non posso più vivere senza di te.”

Sono rimasto. Non avrei potuto fare altrimenti, nemmeno con tutta la forza o il coraggio del mondo avrei potuto dirle di no. Soprattutto dopo quel bacio, la nostra carne è così debole di fronte a certe donne, sono letteralmente disarmanti.

E infatti può ben immaginare cosa è accaduto dopo. 

Lungi da me renderla edotta di dettagli scabrosi, ma quando si desidera qualcosa da tanto tempo, al punto da essersi rassegnati all’idea di non averla, dopo poi ottenerla ti sconvolge la vita, ti inquieta. Io mi sentivo nervoso e impacciato come mai mi era capitato in vita mia. Non sapevo cosa potevo fare senza correre il rischio di offenderla o valicare il suo consenso. Nessuno mi aveva mai detto o spiegato niente, tuttavia lo appresi in fretta e la ricambiai con una passione vorace, estranea, che mi era sgorgata direttamente dal petto e aveva acceso di fuoco tutto il mio corpo. 

È stato meraviglioso, la dolcezza di Irene sconvolgente. E il fatto che fossi insieme alla mia Irene Adler ha acuito al massimo grado ogni sensazione. Con un’altra donna, anche più bella di lei, non sarebbe stata nemmeno lontanamente la stessa meraviglia.

La mattina seguente mi sono svegliato dopo di lei, mi sentivo audace come un leone e felice come un idiota. E questa strana sensazione di euforia non si è sopita col passare dei giorni, continua tuttora a durare e si intensifica a ogni sorriso o tenerezza che lei mi rivolge…

Confido che a questo punto che lei abbia capito perché non sono ancora tornato a casa, mio caro Watson.

Oggi la guardo, la guardo insistentemente. È così bella che mi sento un privilegiato, così bella che non mi capacito. Sono in camera con lei e posso guardarla mentre si muove tra le sue cose, nel suo ostinato disordine. Dormo in un letto principesco, drogato e allo stesso tempo assuefatto dal suo profumo. 

Mi sembra di vivere in una realtà provvisoria e destinata a frantumarsi nel giro di pochi secondi, una breve utopia che ha preso forma all’improvviso. Questa aria di precarietà che respiro mi rende irrequieto e appassionato come un ragazzino. La voglio ancora e ancora, insaziabilmente. Sento la paura svanire quando siamo uniti e la stringo forte, la sento qui con me più che mai. Spero sia una prima fase del l’innamoramento e di tornare presto l’uomo ragionevole che sono stato fino a poco tempo fa, ma ho molti dubbi a riguardo.

Il fatto è che ho mentito, io la amo da sempre, da quando mi ha battuto a scacchi a Saint Malo, da quando l’ho vista osservare una rissa di strada con gli occhi sgranati. Avevo quattordici anni, non ero uomo del tutto e già mi ero ritrovato a sognare momenti come questi. 

Potrei dirle che va tutto bene e che sono felice qui con lei, ma direi una menzogna. Amo Irene, ma non va tutto bene.

Mi manca tutto della mia precedente vita. Provo una nostalgia che lei non può nemmeno immaginare. La noia qui a volte mi spiazza. Sono costretto costantemente a conversare con persone povere di contenuti e Irene stessa talvolta è difficile da sopportare. Vuole uscire a passeggio tutti i giorni e spende una quantità spropositata di denaro in abiti, capellini, scarpe e altri vezzi che lei, Watson, non può nemmeno immaginare. Ha un guardaroba che farebbe invidia alla Regina Vittoria.

Gliel’ho fatto presente e abbiamo litigato. Le ho detto che mi annoiavo e abbiamo litigato di nuovo. Lei rimarca sempre il fatto che sono intrattabile e che “non capisco niente come tutti gli uomini”. Sì, ha letto bene. Sono certo che la sua compianta Mary Morstan non abbia mai fatto certe insinuazioni, a me Irene ne fa tutti i giorni. Io e lei litighiamo spesso ma rimediamo con l’amore altrettanto spesso, e questo mi ripaga di tutto… Fino a che non subentra di nuovo la noia, la banalità e la routine. Se vedesse quanto mi sono ingrossato e impigrito, non mi riconoscerebbe. Sto conducendo una vita dedita ai piaceri e alla nullafacenza, e più il tempo passa più mi sento imbrigliato in queste catene dorate. Medito spesso di fuggire, ma poi vedo Irene e ogni proposito sfuma, è come se mi avesse lanciato un potente incantesimo. Disprezzo questa mollezza, ma quando l’assaporo e ci sono dentro, sento di non desiderare altro al mondo.

Vorrei che lei fosse qui, Watson. Sono certo che il suo garbo e la sua proverbiale pazienza mi aiuterebbero a superare questa prima fase di patologica dipendenza. E poi le farei conoscere Irene, sa quanto considero la sua opinione, sarei curioso di sapere cosa pensa di lei.

Arrivederla al più presto,

SH




 


 

Note

Raramente mi è capitato di perdere la testa per coppie impopolari, forse mai. Ma ora faccio coming-out: amo la Adlock, è diventata ufficialmente la supreme leader delle mie OTP. Purtroppo, aggiungerei, dato che qui in Italia non piace praticamente a nessuno, ma non importa, al cuor non si comanda.

Il mitico Arsene comparirà nel prossimo capitolo, nonché l’ultimo. Volevo pubblicare tutto in un’unica one-shot, ma questa volta mi sono impuntata di dividerlo, credo forse sia meglio.

Niente, spero che vi sia piaciuto e sarei molto lieta di ricevere le vostre opinioni in proposito.

A presto!
Ecate

   
 
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