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Autore: Ciuscream    16/12/2021    6 recensioni
Non hanno tempo, però, per dirselo; ci saranno altri giorni, quelli della pace, quelli della vittoria, per lasciarsi andare a fiumi di parole – mai di lacrime. Adesso hanno entrambi la gola secca, asciutta dalla perdita, dal dolore, dal prosciugarsi di un tempo che cercano di strappare – giorno a giorno, ora ad ora – mangiandosi la vita, sottraendola a quelle bocche enormi, letali, buie. Le uniche bocche che vogliono ricordare, quando la sera chiudono gli occhi color cielo o ripiegano con maniacale dovizia l’amore, sono le loro, che si incrinano in un sorriso involontario, raro, libero, che si destinano in un silenzio scomposto, agitato, vibrante.
[Questa storia partecipa alla Challenge "Questioni di voci e stile" indetta da Rosmary sul forum "Ferisce più la penna"]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non all’amore né al cielo
 
 
I. LEVI
non conoscendo affatto la statura di Dio
 
“La mia vita, questa vita sporca, non ha mai avuto senso”
“E allora tu dagliene uno”
“E se rifiutassi?”
“Non ti sto offrendo una scelta”
 
Verso l’amore – verso il cielo.
Sopra di me, di noi, passeggiano indisturbati i nobili – vestiti intarsiati, oro, collane, occhi che non si fissano i piedi e quello che vive, muore, al di sotto. Camminano sulla mia testa, sulla testa mia e degli altri, come se sotto di loro la moltitudine umana dei reietti non si moltiplicasse – respirasse, soffrisse – senza mai avere accesso al sole, al cielo. Li guardo – non li vedo – ma li odio. Odio questo mondo sporco, buio, perduto. Perduto come sono io, come siamo noi, orfani del sole, figli di ladri e puttane – figli di nessuno. Ho imparato a conoscere le poche leggi che servono per sopravvivere: rubare, stringere i denti, ingoiare. Ma poi le ho dimenticate: non ingoierò più, mai. E anche se non ho un cielo – solo un tetto di pietra e sconfitta – ho imparato a volare lo stesso: ho rubato le ali a chi le ha e non le sa usare.

Ma non basta, non basta più – non è bastato mai.
Lo so che, perché ci sia speranza, devo salire quelle scale.

Sono nato per ucciderli, lo so, sono nato per pulire questo mondo. Sono nato perché la libertà è una trappola anch’essa; non ne basta mai, sempre di più, sempre più lontano. Sotto il cielo prima, fuori dalle mura dopo. Liberi. Nessun abbozzo, nessuna scintilla di pentimento o rimpianto – perché ho visto il cielo e non se ne può scappare. Perché anche se la luna e le stelle sono nascoste, sono vicine – la roccia non è più un manto impenetrabile ed eterno. Sotto al cielo, io vivo, io uccido. Se ho sconfitto la vita, quella che ci era stata marchiata addosso dal più infausto dei destini, posso sconfiggere l’enormità di quei mostri – l’enormità della morte. E se è il diamante che spezza il diamante, colui che spezza gli Dèi non può che essere solo uno di loro – un Dio.
 

II. ERWIN
son morto in un esperimento sbagliato
 
Non per l’amore – né per il cielo.
Hai sacrificato tutto quello che potevi – perché chi non sacrifica niente, nulla può ottenere. Ai giganti hai dato la tua vita, il tuo corpo – un braccio è solo un arto, pezzo e ammasso di carne sangue e nervi –, hai dato tuo padre, il suo amore. L’ultimo (l’ultimo?) brandello d’amore in un mondo – in una vita – che hai scoperto crudele, fin troppo presto. E la crudeltà è una sirena, canta, s’insinua, ti avviluppa ancor prima che tu te ne renda conto e ti ruba quello che è tuo: c’è solo un obiettivo, la sconfitta della sconfitta. Il prezzo per pagarlo, quello che fai pagare agli altri, quello che paghi tu stesso, è sempre irrisorio in confronto all’orizzonte che ti si dipana davanti, nella ricerca, nella lotta, nella verità. Oltre le mura ci sono le risposte e tu vagabondi, voi vagabondate – sempre arrancando, sempre in meno –, cercandole.  

Ma non basta, non basta più – non è bastato mai.
Lo sai che, perché ci sia speranza, devi scendere quelle scale.

La speranza è una luce fioca ma immortale – le risposte sono ad un passo ma si allontanano sempre un po’ di più. È un gioco a rincorrersi, è un gioco a fallire – un vuoto a perdere. Ma tu il fondo della tua anima ormai lo hai grattato – trovi crudeltà, trovi una cieca e categorica risolutezza; non c’è niente che non sacrificheresti, per quella verità. Non c’è niente che non daresti in pasto ai giganti, non daresti in pasto alla morte. Loro – tutti loro, soldati che credono in te, nelle sole tue parole di vittoria e di speranza, di martirio, di follia – e te stesso. Verso la sconfitta certa, con i pugni sul cuore e la morte a splendere in fronte – più accecante del sole, nel cielo – a chiudervi gli occhi bagnati di lacrime. E chi non ha paura della morte, chi la affronta con così poco pudore, può essere solo qualcuno che sa già che il suo posto è pronto, all’Inferno – un Demone.
 
“La mia morte, la morte di tutti loro, se falliremo, non avrà avuto senso”
“Gliene daremo uno”
“E se rifiutassi?”
“Non ti sto offrendo una scelta”
 

III. LE ALI
libertà, l’ho vista dormire nei campi coltivati
 
Grazie all’amore – per colpa del cielo.
Levi intreccia le dita alle ciocche dorate di Erwin e chiude gli occhi. Sotto la pelle, ad incastrarsi nei solchi delle impronte digitali martoriate dai calli inspessiti dalla stretta ferma sulla spada, quei fili sottili gli ricordano quelli di Isabel – i suoi occhi spalancati e morti sono ancora incubo e sconfitta, sono ancora marchio impresso a fuoco dietro le palpebre. Così, si costringe a fissare quel colore che gli ricorda quello del grano, quello coltivato nei fazzoletti di terra dentro le mura – quanto posto vi sarebbe, là fuori? – e che prima che lui lo facesse ascendere a quella vita libera, non aveva mai visto davvero. Non aveva mai visto il sole battere sopra le spighe, infrangersi, rilucere e screziarsi, in geometrie di chiarori vari. È stato fissando il grano che si è chiesto quanto – quanto! – vi fosse da riprendersi, da riconquistare, da sottrarre alla furia devastatrice e scomposta dei giganti. È, adesso, fissando quel colore nelle ciocche di Erwin che si chiede quanto – quanto? – potranno davvero aspirare ad avere, quanta speranza stanno sprecando.

“Ti sei mai pentito di questo?”
“Nemmeno una volta nella vita”
“E se succedesse?”
“Vuol dire che, per me, è arrivato il tempo della morte”
 
Erwin incastra le iridi in quelle di Levi e questo, come sempre, dentro vi scorge il cielo. Dalla prima volta, in quel luogo in cui il cielo è un’ipotesi remota e perduta, lui gli ha spalancato di fronte gli occhi e la vita, gli ha riversato addosso quell’azzurro impregnato da una calma categorica, da un gelo perentorio e ferino, una promessa che sa di minaccia – in cui è nascosto qualcosa, qualcosa per cui combattere, qualcosa che non si può spiegare, a parole. A Levi è sempre assomigliato all’amore, ad Erwin al bisogno – di lui, della sua spada, della sua forza. Non hanno tempo, però, per dirselo; ci saranno altri giorni, quelli della pace, quelli della vittoria, per lasciarsi andare a fiumi di parole – mai di lacrime. Adesso hanno entrambi la gola secca, asciutta dalla perdita, dal dolore, dal prosciugarsi di un tempo che cercano di strappare – giorno a giorno, ora ad ora – mangiandosi la vita, sottraendola a quelle bocche enormi, letali, buie. Le uniche bocche che vogliono ricordare, quando la sera chiudono gli occhi color cielo o ripiegano con maniacale dovizia l’amore, sono le loro, che si incrinano in un sorriso involontario, raro, libero, che si destinano in un silenzio scomposto, agitato, vibrante.
 
 
 

Note: Come anticipato in introduzione, questa storia partecipa alla Challenge “Questioni di voci e stile” indetta da Rosmary sul forum “Ferisce più la penna”. È la mia prima volta nel fandom de L’attacco dei giganti e, quindi, sono stata piena di dubbi ed incertezze fino alla fine, su questa storia. Non solo per i personaggi ma anche per le difficoltà che imponeva l’iniziativa. Infatti, questo era il compito:
“Scegliete una coppia e scrivete una raccolta di tre flashfic così articolata:
● una flashfic incentrata totalmente sul personaggio A della coppia che racconti A nella sua singolarità, ne mostri la sua voce come singolo;
● una flashfic incentrata totalmente sul personaggio B della coppia che racconti B nella sua singolarità, ne mostri la sua voce come singolo;
● una flashfic incentrata sulla coppia A/B che mostri la voce della coppia, capace di mostrare il legame che intercorre tra i due personaggi e il loro modo di viverlo e stare insieme.
Dal punto di vista stilistico, invece, devono essere rispettati questi limiti:
● i dialoghi, se presenti, devono essere autonomi, cioè è vietato completarli con “disse/chiese/insinuò/vari”, esclusi quindi anche tutti gli aggettivi utili ad esprimere il tono della battuta (ad esempio, non è possibile scrivere “«Sei qui,» salutò triste.”, ma solo «Sei qui.»). La sfida è far emergere la “voce” del personaggio affidandosi totalmente alle sue parole quando si è in presenza di un discorso diretto.
È obbligatorio inserire almeno un dialogo nella terza flashfic (quella di coppia);
● ogni flashfic deve avere una persona narrante diversa: una deve essere in prima persona, una in seconda persona e una in terza persona. È a vostra scelta quale scrivere in prima eccetera. Nessuna limitazione sui tempi verbali.”
Spero che la storia non sia un buco dell’acqua totale e specifico che sia il titolo della storia che i sottotitoli ad ogni flash provengono dall’album “Non al denaro non all’amore né al cielo” di Fabrizio De Andrè. Rispettivamente, dal titolo e dalle canzoni Un giudice, Un chimico e Il suonatore Jones.
Ringrazio ogni coraggioso arrivato fin qui e vi mando un abbraccio! A presto
 
 
 
 
   
 
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