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Autore: holls    30/12/2021    7 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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16. Ali di crisantemo

 

 

Non appena il caffè fu pronto, lo posai sul vassoio. Con quello erano sei: uno per Church, uno per Edmond e degli altri quattro ignoravo il proprietario; mi aveva chiesto Church di portarli.

Bussai alla porta di Edmond - che non mi sembrò più tanto terribile, dopo aver conosciuto il mio responsabile - e, mentre aspettavo una risposta, intravidi Ashton che passava i metal-detector in fretta e furia.

Quando fu dentro, mi salutò con un cenno del capo.

«Sei stato promosso a cameriere, vedo!»

Credo che il mio sguardo fulminante fu sufficiente come risposta.

Dalla stanza di Ed, intanto, non giunse alcuna voce.

Afferrai quello che doveva essere il suo caffè e lo porsi ad Ash.

«Tieni, per te.»

Lui mi guardò un attimo, prima di prenderlo.

«Sicuro che non sia un problema?»

«Sono un poliziotto, non servo ai tavoli. Bevilo pure.»

Lui non se lo fece ripetere due volte e ingurgitò la bevanda in un unico sorso.

«Il bicchierino me lo butto da solo, tranquillo. Ah, ricordati che c’è l’incontro con Church, oggi.»

«Me lo ricordo, non temere. A dopo.»

Lo salutai e finii il giro dei caffè.

Qualcuno, purtroppo, non arrivò mai al suo destinatario.

 

Church sciorinò una decina di fogli sul tavolo.

«Questi», e indicò una serie di tabelle stampate, «sono i tabulati di Michael Cossner. Ho evidenziato i numeri che compaiono più spesso e sono risalito al proprietario di ognuno. Forse non vi sconvolgerà sapere che, fino a due settimane fa, i rapporti tra Cossner e Clide erano molto fitti. Da quando Cossner è scomparso, le chiamate si sono diradate, ma continuano a tenersi in contatto. Che idioti.»

Church sospirò e alzò gli occhi al cielo.

Porte e finestre erano chiuse, il condizionatore spento. Avvertii una goccia di sudore scivolarmi lungo la schiena. Tenni a mente di non appoggiarmi allo schienale o avrei pezzato la camicia.

«C’è un altro aspetto interessante, comunque. Cossner, prima della sua scomparsa, riceveva regolarmente chiamate da un numero privato. La compagnia telefonica mi ha fornito il numero in chiaro e, sorpresa, sono tutti numeri diversi.»

Ash intervenne.

«Quindi si tratta di persone differenti?»

Church lo fulminò, forse perché il mio collega aveva osato interromperlo. Mi domandai quanto sarebbe resistito, là dentro. Essere pesci piccoli era molto pericoloso in quell’ambiente di squali, e Ash era l’ultimo arrivato, dopo di me.

«Sì e no. Il numero è intestato sempre alla stessa persona.»

«Questa è una buona cosa, no?»

Altra fulminata di Church, che era sul punto di sbroccare.

Sbroccare.

Era proprio una parola da Nathan. Già me lo immaginavo a raccontare la scena, con i Rayban incrociati nello scollo a V: “Church era lì lì per sbroccare. Un’altra parola e partiva il cazziatone!”.

Alla fine, in sua compagnia, avevo esteso il mio vocabolario a quello dei bassifondi di Manhattan.

«Posso finire, Stoner? Dicevo: i numeri di telefono dei tabulati appartengono tutti alla stessa persona, che però non risulta all’anagrafe di nessuno Stato. In altre parole, è un nominativo falso.»

Non so cosa avrei dato per un alito di vento. Church incrociò il mio sguardo per un attimo e sentii un’altra goccia fare compagnia alla precedente. A differenza di Ash, non avevo il coraggio di dire niente.

Church cercò nella pila di fogli e ne tirò fuori un altro: erano i restanti nominativi dei tabulati telefonici.

«Queste sono le altre persone con cui Cossner era in contatto.»

Church aveva evidenziato ogni nominativo differente con un colore diverso; scorsi tutte le righe, finché non ne trovai una interessante.

Ryan Stephen Goldwin.

Puntai il dito su di lui.

«Cossner e Goldwin si tenevano in contatto?»

Church annuì, poi ruotò il monitor del suo computer verso di noi. Con pochi click, ci mostrò una rete di collegamenti che aveva prodotto in automatico al computer: la prima schermata mostrava i nomi e le foto corrispondenti, le successive, invece, contenevano istogrammi sulla frequenza delle chiamate a ciascun destinatario e, selezionando varie spunte, era possibile individuare eventuali abitudini per quanto riguardava le telefonate. La panoramica, forse la sezione più interessante per avere un quadro completo, mostrava la foto di Cossner al centro, collegata con frecce ai suoi interlocutori, con una retta più spessa in corrispondenza di un maggior contatto. Dal grafico, era subito chiaro quali erano le persone che orbitavano intorno a Michael e quali erano le più importanti.

Risultò che il numero privato, Ryan e Clide erano le persone con cui aveva rapporti più assidui, benché piuttosto diradati a partire dalla sua scomparsa.

A quel punto, il collegamento tra loro era piuttosto evidente: Michael avrebbe potuto darci informazioni su Ryan e la rapina, e viceversa. Se fossimo riusciti a trovare Cossner, le indagini avrebbero subito senz’altro una bella spinta.

Church mi chiese il rapporto sulla nostra serata al Webster Hall, così cominciai a raccontare di come fossimo capitati per caso al locale la prima volta, e di come fossimo incappati casualmente in una piccola rissa per droga. Spiegai quello che avevamo visto il venerdì passato, del fatto che Ryan spacciasse, ma che, come appurato nell’incontro precedente, era meglio non fare mosse avventate, per non rovinare la pista.

Ashton fece il suo ingresso in scena trionfante. Raccontò di come aveva avvicinato un ragazzo che si era appena servito dallo spacciatore, chiedendogli dove comprare roba buona.

“Da Waitch”, gli aveva risposto.

Così, mi preparai per la mia grande rivelazione.

«Ho buoni motivi per pensare che “Waitch” altro non siano che le iniziali W.H., che potrebbero appartenere al locale “Webster Hall”.»

Aspettai che anche Church mostrasse quell’espressione sorpresa di chi non ha avuto lo stesso lampo di genio, ma passarono diversi secondi senza che il suo viso mutasse. Continuava a essere pensoso, lo sguardo perso nel vuoto.

«Non sono d’accordo, Scottfield.»

Mi preparai a essere stroncato. Sapevo che Church avrebbe rigirato la frittata a suo favore, per poi prendersi i meriti di una scoperta che era già divenuta un’ovvietà.

Quella volta, però, mi sbagliai.

«È possibile che “Waitch” possa in realtà rappresentare le due iniziali W.H., ma non credo che indichino il locale “Webster Hall”. Rifletti un attimo: se davvero fosse quello il significato delle iniziali, il ragazzo interrogato da Stoner non avrebbe risposto “da Waitch”, ma semplicemente “qui”, visto che era già al locale.»

Non riuscii a controbattere. Non solo l’osservazione era brillante, ma era anche giusta. Church continuò, ma non sembrava voler infierire; piuttosto, stava ragionando con noi.

«Se davvero quella parola è la lettura delle due iniziali, sono più portato a pensare che siano quelle di una persona. Probabilmente è un nome in codice usato da uno spacciatore della zona.»

Ammettere che aveva ragione bruciava davvero. Cominciai a pensare che, se era il coordinatore delle indagini, forse c’era un motivo.

«Non abbatterti, Scottfield. Capita a tutti di fare degli errori, ma hai avuto comunque un’intuizione brillante.»

Non ero sicuro di aver capito bene ciò che Church aveva detto. All’improvviso, nei suoi occhi lessi quasi un rimprovero paterno, di chi è fiero di te nonostante i tuoi errori. Tre ore prima mi aveva mandato a prendere caffè, mentre in quel momento sembrava quasi trattarmi come suo pari. Mi domandai se non mi stesse sfuggendo qualcosa.

E comunque era una magra consolazione, perché l’intuizione l’aveva avuta Nathan, non io. Pensai che finalmente avevo fatto il grande salto - da semplice agente ad agente intelligente -, ma capii che non era ancora arrivato il momento.

Mi accorsi che la mia teoria, che vedeva la scomparsa di Michael legata al mondo della droga, cominciava a vacillare. Certo, Ryan era uno dei rapinatori, probabilmente spacciava droga ed era possibile che Waitch fosse davvero l’uomo che stavamo cercando, ma mancavano le prove. E sì, i simboli vandalici sull’auto di Michael sembravano la versione stilizzata del logo del Webster Hall, ma era sufficiente a stabilire un collegamento tra lui e la droga?

Esposi le mie teorie a Church, che non ne rise come temevo. Al contrario, appoggiò il mio sospetto che il movente della scomparsa di Michael potesse essere un debito di droga.

«Certamente, è tutto da verificare. Però, escludendo il movente passionale e quello della malavita, rimane quello economico, che ritengo il più plausibile. Ora come ora, la priorità è stanare Cossner e reperire informazioni su Waitch, oltre allo scoprire l’identità dietro ai numeri privati. Inoltre» e picchiettò con l’indice sullo schermo del computer, «come pensate di condurre l’interrogatorio a Clide? Sarà qui a momenti.»

Della sicurezza che in genere ostentavo non rimase traccia. Io ero il più esperto e toccava a me rispondere, solo che in quel momento riuscivo a pensare soltanto alla mia gola secca. E più i secondi passavano, più perdevo la capacità di articolare un pensiero.

«Stoner? Sto aspettando.»

Mi voltai verso Ash. Non capii perché si fosse rivolto a lui, che tutto sommato aveva ancora molto da imparare. Il mio collega alzò lo sguardo e lo sfidò; tra quei due non correva buon sangue, ma non era difficile intuire il perché. Ash non avrebbe permesso a nessuno di mettergli i piedi in testa, specialmente in quel modo arrogante.

Non volevo che si creassero altre tensioni, così intervenni.

«Senza dubbio cercheremo di capire se conosce il nascondiglio di Cossner, evitando domande dirette, ovvio.»

Church sapeva di non potersi mettere a discutere solo perché avevo risposto io al posto di Ashton, ma l’ultimo sguardo che i due si scambiarono aveva il sapore di una dichiarazione di guerra. Dopodiché, Church tornò a guardare me.

«E pensi che te lo dirà così, come se niente fosse? Ragiona, Scottfield.»

«Be’,» e stavolta fu la voce di Ash a parlare, «possiamo sempre tirare fuori la questione delle intercettazioni. Con quella, crolla di sicuro.»

«E cosa pensi che farà dopo il signor Clide? È ovvio che chiamerà Cossner e gli dirà di scappare, no?»

Sospirò e alzò gli occhi al cielo. Doveva trovarci proprio irritanti.

«Quello che dovete fare è esporvi, ma non troppo. Fate capire che avete delle informazioni, ma non lasciategli intuire come le avete ottenute. Se viene a conoscenza delle intercettazioni, è certo che non comunicheranno più al telefono, o che cambieranno numero. Invece, potreste lasciargli credere che avete degli informatori; persone, insomma. A ogni modo, credo che Clide non sia così stupido e che rafforzerà le sue misure di sicurezza, da oggi pomeriggio in poi; ma se non ci esponiamo, rimaniamo sempre al punto di partenza. Ricordatevi di osservare bene le sue reazioni facciali, perché spesso sono determinanti, molto più delle parole. Tutto chiaro?»

Io e Ash annuimmo.

«Ho già trovato un paio di agenti che ascolteranno le telefonate intercettate dal telefono di Cossner. Chiederò di poter mettere sotto osservazione anche quelli delle persone in contatto con lui, se ce ne sarà bisogno.»

Church riordinò le carte e sbatté sul tavolo il plico, in modo da pareggiare i fogli, dopodiché ce li consegnò.

«Ci aggiorniamo più tardi, allora.»

 

Come uscii da quella stanza, emisi un sospiro profondo. Mi liberai di tutta l’ansia che mi ero portato addosso in quei minuti e mi sentii nuovamente libero, leggero come non mai.

Io e Ash ci scambiammo un’occhiata di intesa e ci incamminammo verso l’ufficio che condividevamo. Nel corridoio incrociammo Sandra, sempre in mise elegante e con quei tacchi che riecheggiavano a ogni passo. Tic-toc, tic-toc.

Quando fu abbastanza lontana, richiamai l’attenzione di Ash.

«Ehi, sai chi è quella? La moglie di Church! Non l’avrei mai detto.»

«Aspetta, da quand’è che ti interessano i gossip?»

«Non è un gossip, è un dato di fatto.»

Ash si fermò e incrociò le braccia, poi mi scrutò.

«A te è successo qualcosa.»

«E cosa?»

«Che ne so? Ma sei decisamente migliorato da un mesetto a questa parte, prima sembrava che fosse morto qualcuno.»

Guardai Ash. Non ci fu bisogno di dire niente; sperai bastasse. Io tenevo la mano sulla maniglia della porta dell’ufficio, senza riuscire ad aprirla. Ash continuava a fissarmi; poi, quando fu passato un tempo sufficiente affinché capisse, aprii la porta ed entrai dentro.

Lui mi seguì a ruota e chiuse la porta dietro di sé. Si avvicinò, mentre io ordinavo ancora una volta il plico che ci aveva consegnato Church.

«Non sono sicuro di aver capito bene.»

Un paio di colpi al plico e i fogli furono perfettamente ordinati.

«Hai capito benissimo.»

«Cazzo» e si riprese subito. «Scusa! Scusa.»

Calò il silenzio tra noi. La pila di fogli non necessitava di ulteriori attenzioni.

«È successo da molto?»

«Circa nove mesi fa.»

Mosse la testa in un gesto di sorpresa. Non era passato molto tempo, in effetti.

«Era una persona importante?»

Il fruscio del vento fece cigolare un’anta della finestra, che si aprì completamente. Il sudore sul collo fu baciato da un alito di brezza.

«Sì. Molto.»

Il mio sguardo gli fece intuire il rapporto che c’era tra me e Oliver.

«Mi dispiace. Per tutto, davvero.»

Feci spallucce.

«Non ti preoccupare, non potevi saperlo.»

Ash continuò a fissarmi per qualche secondo, poi il suo sguardo si perse nel vuoto.

 

Nel tempo che seguì, rileggemmo il fascicolo relativo all’indagine. Al suo interno erano presenti tutti i dettagli seguiti alla rapina, che comprendevano anche le persone interrogate e le testimonianze rilasciate. Sorrisi leggendo quella di Nathan e ripensai al momento in cui si era ripresentato in centrale: ebbi come la sensazione che fossero cambiate diverse cose da allora.

Sfogliai ancora il fascicolo e incappai nella descrizione che avevo fornito del ragazzo incappucciato e col tatuaggio sulla mano, circondante una voglia, che, come avevo sospettato, era lo stesso ragazzo nella foto del giornale scandalistico Rumors, dove si scorgeva piuttosto chiaramente anche la figura di William.

Alla luce dei tabulati telefonici, era abbastanza probabile che tra lui e Michael ci fosse un collegamento; ma come avremmo potuto fare per farlo parlare? Di certo non potevamo far domande troppo dirette: avremmo corso il rischio di bruciarci una sua collaborazione. Come aveva detto anche Church, dovevamo stare attenti a non sbottonarci troppo riguardo le modalità con cui avevamo ottenuto certe informazioni e, in fondo, potevamo pure permettercelo. Alla fine eravamo noi quelli autorizzati a fare domande, non Clide.

Il dipartimento di New York era abbastanza all’avanguardia per quanto riguardava le tecniche di interrogatorio. Quando ero entrato, credevo che si svolgessero faccia a faccia con l’interrogato, ognuno al suo lato della scrivania. Come mi disse Edmond, avevo visto troppi film. Poter osservare una persona nel suo insieme era essenziale e il nostro scopo, più che ascoltare le parole, era captare tutto quel non detto che la gestualità esprime, spesso in modo involontario e istintivo.

Per questo, avevamo fatto delle indagini sulla vita privata di William. Era originario del Maine e si era trasferito a Manhattan a diciassette anni, per via della sua carriera che ne aveva fatto un astro nascente. Fin da subito, infatti, era stato notato da una casa discografica, la Universal Records, che lo aveva eletto la rivelazione dell'anno 1991.

Escludendo la musica, la vita di William era quella di un qualunque ragazzo di ventisette anni: due genitori affettuosi, una sorella e un cane di nome Arrow, che lo aveva seguito fino a Manhattan.

Non risultava implicato in nessuna indagine, nemmeno finanziaria; sotto quel profilo era completamente pulito - cosa piuttosto rara per una personalità così in vista.

I miei occhi scorsero altre informazioni di poco conto su William, quando fui interrotto dal trillo del telefono.

«Sì?»

«Clide è arrivato. Lo faccio accomodare?»

«Sì, grazie, Cynthia. Fallo mettere sulle poltrone comode. Arriviamo subito.»

Coccolare William sarebbe stato il primo passo per farlo parlare; per questo esistevano le poltrone comode.

 

Il problema delle personalità famose era la discrepanza tra le foto sulle copertine e la realtà. Negli ultimi giorni, ogni volta che ero passato davanti a un'edicola, non avevo potuto fare a meno di soffermarmi sulle riviste che ritraevano William, al solito nella sua forma più smagliante: capelli lucidi e vigorosi, pelle priva di imperfezioni e altre caratteristiche che lo catalogavano come un dio sceso in terra.

Quello davanti a me, invece, era un essere umano come tutti: occhi pesti per qualche nottata di musica, capelli spettinati, sguardo frenetico per via dell'ansia.

Church precedette me e Ashton, e ci liberò dall’imbarazzo delle formalità. Spiegò rapidamente a Clide che volevamo solo fare due chiacchiere con lui, riguardo a un suo amico scomparso. Church fu davvero bravo a cancellargli dalla faccia quell’aria di chi ha le mani nella marmellata, fingendo di non essersene accorto. Se possibile, tentò pure di arruffianarlo, parlando della tournée e del singolo che il suo gruppo aveva auto-prodotto; in sede privata, ovviamente, era di tutt’altra opinione.

Non appena Clide si fu definitivamente rilassato, lo mollò a noi. Church mi lanciò un’occhiata di intesa, che non gli avevo visto fare molte altre volte.

 

Non appena entrammo nella stanza, Ashton, Clide ed io, sentii le gambe diventare due budini. Era ora di mettere in pratica tutto quello che avevo letto nelle dispense, e non c’era nessuno che potesse aiutarmi o correggermi. Certo, Church era disponibile a essere contattato in caso di necessità, ma doveva trattarsi proprio di qualcosa di estremo.

La stanza era asettica. Al muro a cui Clide dava le spalle, erano appesi un paio di quadri minimalisti, e a far loro compagnia c’era una pianta bisognosa d’acqua, talmente dimenticata da voler esser quasi un monito per chi si apprestava a dire la verità. Il resto della stanza era volutamente vuoto: non doveva distrarre l’interrogato.

Gli unici elementi importanti erano le tre sedie e la scrivania, che, come previsto, era posta vicino a noi, ma sufficientemente lontana da William.

Tirai indietro la sedia e lo stridio delle gambe riecheggiò in tutta la stanza. Cercai di fare meno rumore possibile, ma rimbombava anche il mio respiro.

Non appena fummo seduti, presi qualche istante per rilassarmi un po’. Non appena ebbi ritrovato il sangue freddo, sfoderai un sorriso di circostanza.

«Buonasera, signor Clide. Il mio nome è Alan Scottfield», e allungai la mano verso di lui, che ricambiò, «mentre questo è il mio collega Ashton Stoner.»

Non appena Clide strinse la mano ad Ashton, notai che il suo volto si rilassò. Avevo capito che ispirava simpatia nelle persone; d’altronde, era successo anche con Nathan.

«Bene, possiamo cominciare.»

Tirai fuori il plico e il viso di William si irrigidì. Capii che avevo già commesso il primo errore: ero stato troppo precipitoso nel saltare tutte le formalità e le chiacchiere di circostanza, forse per via del desiderio che quell’interrogatorio finisse il prima possibile. Sapevo che ogni mossa falsa poteva costarmi cara, così tentai di rimediare.

«Certo che fa veramente caldo, oggi. Ash, potresti aprire la finestra?»

Avrei voluto dirgli di più, ma Clide ci fissava, come a voler scoprire di che morte doveva morire. Ash si alzò e William ne monitorò ogni movimento, fino a che non si limitò davvero a spalancare la finestra e a far entrare un po’ di vento. Il rumore stradale era sicuramente una fonte di distrazione per l’uomo di fronte a me, ma era il prezzo da pagare per aver commesso un passo falso.

Con mia sorpresa, però, Ash non tornò a sedere. Capii un attimo dopo che il motivo per cui si era messo lì, appoggiato al muro e con le braccia conserte, era solo per poter osservare meglio William nel suo insieme. Una mossa astuta. Di tanto in tanto, buttava qualche sguardo verso la quercia che, con la sua imponenza, ci faceva ombra, per non dare l’idea di essersi messo là per un motivo ben preciso.

«Bene, William», e cominciai a sfogliare il fascicolo, nella speranza che le domande venissero fuori da sole. «Ho letto che ha un cane di nome Arrow. Di che razza è?»

Al sentir nominare il suo amico a quattro zampe, i suoi occhi si illuminarono.

«È un labrador, un maschio di trentadue chili. Ha già dieci anni: i miei me lo regalarono quando mi trasferii qui dal Maine. Ci sono veramente molto affezionato, ma immagino che non mi abbiate fatto venire qui per parlare di Arrow.»

Mi scappò un risolino, che però rese l’aria più informale.

«No, ovviamente. Il motivo per cui l’abbiamo convocata riguarda la scomparsa di Michael Cossner.»

Un attimo dopo mi chiesi se non avessi fatto una mossa falsa, dicendo che Michael era scomparso; ma poi mi ricordai che la notizia era apparsa sui giornali e che, se davvero i due si conoscevano, William era sicuramente a conoscenza della vicenda.

La mia supposizione fu confermata dal cenno di assenso che mi rivolse Clide, il quale lanciò un’occhiata ad Ash, forse in cerca di una rassicurazione in più.

«Come le ha detto prima anche il mio collega, lei è qui solo come persona informata sui fatti, non ci sono indizi di colpevolezza nei suoi confronti. Insomma, si tratta di una chiacchierata informale volta a far luce sulla scomparsa di Cossner. Mi dica, qual è il rapporto tra voi due?»

William tirò su col naso, poi si stropicciò le mani sui pantaloni. Cercò le parole nel vuoto, poi alzò lo sguardo verso di me.

«Conosco Michael da circa dieci anni. Mi ero appena trasferito a Manhattan, dopo aver ricevuto un contratto con una casa discografica, e intanto mi esibivo in qualche bar. È stato in questa occasione che ci siamo conosciuti, perché lui frequentava alcuni locali dove facevo le serate. Abbiamo cominciato a parlare della musica, degli strumenti, cose così.»

Durante la sua dichiarazione, William mi aveva sempre guardato negli occhi, il busto sporto in avanti. Le mani erano state ben salde sulle ginocchia, senza strofinamenti di sorta. La sua dichiarazione era senz’altro veritiera, perché non aveva mai vacillato e, anzi, le sue parole erano state piuttosto salde e decise.

Mi appuntai nella mente tutte queste informazioni, pronto per la prossima domanda.

«Capisco. Come definirebbe quindi il vostro rapporto?»

Ero stato tentato dal chiedergli: “Quindi siete molto amici?”, ma mi ricordai in tempo che dovevo cercare, per quanto possibile, di fare domande aperte.

William inarcò le spalle, come se fosse stata una domanda così ovvia da non avere risposta.

«Be’, siamo molto legati.»

Io lo osservai, in attesa che dicesse altro. Capire il rapporto che c’era tra loro era fondamentale.

«Ci sentiamo circa due, tre volte la settimana, è un rapporto abbastanza fitto.»

Sentii il mio petto ingrossarsi e sperai che nessuno lo avesse notato. William era caduto nella sua stessa trappola e mi sentii trionfante. Michael era sparito ormai da poco più di un mese - trentasette giorni, per l’esattezza -, un tempo sufficiente per poter parlare delle loro abitudini al passato; William, invece, ne parlava al presente, come se il loro rapporto non si fosse fermato con la scomparsa, ma fosse continuato.

Si era trattato di un lapsus o le sue parole rispecchiavano la realtà?

Dovevo cercare di scavare in quella direzione e di farlo nella maniera corretta: avevamo già perso troppo tempo a causa della nostra inesperienza.

«Quando ha scoperto della scomparsa di Michael Cossner?»

William mi guardò un attimo, poi alzò gli occhi verso destra - stava cercando un ricordo. Ogni tanto strizzava appena le palpebre e, senza accorgersene, schiudeva le labbra, ma senza parlare.

«Da non troppo, in realtà. L’ho saputo dai giornali circa due settimane fa.»

«Quindi, nonostante vi sentiate così di frequente, non aveva idea che fosse scomparso?»

Clide aprì la bocca e si strofinò le mani sulle cosce.

«In un certo senso.»

Smise di strofinare le mani e fece scorrere il suo sguardo da me ad Ashton.

«Si spieghi meglio, per favore.»

I suoi occhi si abbassarono verso sinistra, sintomo che stava elaborando. Fece un bel respiro.

«Sapevo che Michael si era preso una specie di pausa, per così dire, dalla vita di tutti i giorni, ma non credevo che fosse considerato scomparso, ecco.»

Impiegai qualche secondo per riprendere il bandolo della matassa di quel labirinto intricato che era stata la sua dichiarazione.

«Potrebbe essere più preciso sulla data in cui ha scoperto della scomparsa?»

La mia domanda lo colse alla sprovvista, ma io avevo necessità di riavvolgere il nastro. La madre di Michael aveva tenuto fede alla richiesta del figlio e non aveva divulgato informazioni sulla sua scomparsa; solo in seguito alla rapina si era sparsa la voce e quel dettaglio poteva essere utile per capire il ruolo di Clide in quella faccenda.

«Oddio, non ricordo. Era circa la fine di luglio o l’inizio di agosto.»

«È stato prima o dopo la rapina all’ufficio postale di Lexington Avenue, avvenuta in data 30 luglio?»

Clide sospirò e scosse appena il capo.

«Dopo, probabilmente. La rapina ha acceso i riflettori sulle poste ed è lì che è saltata fuori la faccenda. Sì, direi dopo.»

Avevo fatto un buco nell’acqua. Mi chiesi se non avessi dovuto chiedere semplicemente di restringere il campo delle date, senza usare la rapina come spartiacque.

«Torniamo un secondo al rapporto tra lei e il signor Cossner. Prima ha detto che Michael si era preso una pausa dalla vita di tutti i giorni. Perché lo avrebbe fatto?»

«Aveva dei problemi, diciamo così.»

Ebbi come il sospetto che la risposta stringata non fosse dovuta al semplice pudore di Clide per gli affari altrui.

«Che genere di problemi?»

Si bagnò le labbra e deglutì facendo rumore. Teneva la schiena dritta e il capo alzato, senza concedersi mai un cedimento dalla sua postura.

«Voleva prendersi una pausa dal rapporto con alcune persone.»

«Intende dire una fidanzata?»

Mi resi conto che Clide aveva parlato di persone, al plurale, e immaginai che Cossner non fosse poligamo, ma volevo avere la certezza.

«No, persone con cui aveva dei problemi.»

Clide sapeva che avrei insistito per avere più informazioni sui problemi di Michael, così non aspettò nemmeno che gli facessi la domanda.

«Questioni di soldi, credo. Ma non sono sicuro. Non so se Michael fosse invischiato in qualche giro poco raccomandabile, se è questo che vuole sapere.»

William si stava sbottonando. Mi sembrò quasi che avesse avuto fretta di aggiungere informazioni per evitare che gli facessi domande più precise, ma non ne avevo bisogno. Il movente economico era quello già ipotizzato e la rapidità con cui Clide aveva snocciolato quelle informazioni poté solo confermare quanto pensato.

«Dove si trova il signor Cossner? Saprebbe dircelo?»

Ripensai all’immagine su Rumors e alla sera del concerto della band di William, i Wit Matrix. Non potevo avere la certezza di essermi imbattuto proprio in Michael, quella volta, ma avevo il sentore che fosse proprio così.

«Sì, certo. Gli ho dato io il posto dove stare.»

Le mie sinapsi fecero un incidente.

«Prego? Potrebbe spiegarsi meglio?»

«Come le ho detto, Michael voleva prendersi una pausa dalla sua vita, perché aveva problemi di varia natura. Mi ha chiesto un posto dove andare e così gli ho dato un mio appartamento in Chinatown, dove stare per un po’.»

C’era qualcosa che non mi quadrava. Perché William aveva ammesso una cosa del genere? Era l’informazione a cui ambivo di più e l’avevo ottenuta con così poca fatica. Forse era solo un’impressione, ma la sua dichiarazione mi parve strana.

Chiesi a Clide l’indirizzo della casa e lo appuntai sul taccuino.

«Quindi, per tutto questo tempo, ha sempre saputo dov’era il signor Cossner? Perché non lo ha detto subito?»

William fece spallucce.

«La chiami lealtà, se vuole. Michael non voleva assolutamente che si sapesse della sua scomparsa, tantomeno del luogo dov’è rifugiato adesso.»

«Però lei lo ha detto.»

«Ho dovuto. Non mento di fronte allo Stato. Mi ha chiesto dov’è Michael e io le ho risposto.»

Sì, era chiaro: se avesse detto di non saperne niente, avrebbe dichiarato il falso. C’era comunque qualcosa che mi sfuggiva, un pensiero sottile che non riuscivo ad afferrare.

«Bene», e congiunsi le mani, chiedendomi se non stessi dimenticando qualcosa, «direi che possiamo considerare concluso questo colloquio. La ringrazio molto, signor Clide.»

William mi strinse la mano a sua volta e lo stesso fece con Ash, poi chiamai Cynthia affinché lo scortasse all’uscita. Lui se ne andò con uno sguardo rilassato e mi chiesi se il mio pensiero sfuggente non se ne fosse andato via con lui.

 

Non appena la porta si fu chiusa, calò il silenzio. Rileggevo le informazioni in mio possesso e mi sembrava di non riuscire a disegnare un quadro completo della situazione.

William sapeva dove si trovava Michael e lo aveva ammesso senza tentennamenti di sorta. Dunque era molto probabile che il ragazzo incontrato la sera del concerto fosse davvero Michael, così come quello apparso su Rumors. Era evidente che, come aveva lasciato intendere William, non si stava nascondendo dalla polizia, ma da persone con cui era inguaiato - e dovevano essere guai grossi, se non era venuto a sporgere denuncia.

Quella parte filava abbastanza bene, ma l’atteggiamento di William continuava a sembrarmi strano. Alzai gli occhi verso Ash e gli feci cenno di avvicinarsi.

Lui si rivolse a me.

«Pensi anche tu che sia stato fin troppo facile, vero?»

Annuii.

«C’è qualcosa che non riesco a far quadrare. L’ha ammesso troppo velocemente.»

«Sì, sono d’accordo. Proviamo un attimo a riflettere, però.»

Mano a mano che i miei pensieri crescevano, il rumore dei clacson là fuori svaniva. Riuscivo a sentire le mie preoccupazioni sfrecciare da un lato all’altro della testa, spesso scontrandosi e generando così qualche accenno di mal di testa.

Ash riprese a parlare.

«Proviamo a metterci un attimo nei suoi panni. Michael è andato da lui per dirgli che aveva problemi di natura economica e che aveva bisogno di un posto dove stare, possibilmente lontano da tutti. È evidente che i problemi citati sono nei confronti di altre persone, come un debito, altrimenti non avrebbe avanzato una richiesta tanto precisa. Fin qui mi segui?»

Feci di sì con la testa.

«William nasconde Michael, avviene la rapina e si scopre che Michael è scomparso.»

Un particolare mi attraversò la mente.

«Aspetta! Il capo delle poste, quel giorno...»

Afferrai il fascicolo e cominciai a sfogliarlo, in cerca delle testimonianze.

«… Sì?»

Quando trovai la pagina, la puntai con l’indice.

«Guarda qua. “Il rapinatore continuava a gridare “Dov’è?” e pensavo che si riferisse a me o ai contanti in cassa.”»

Scorsi col dito un po’ più sotto.

«“Importante: a chi o cosa si riferiva?”»

Ero eccitato come un atleta prima della premiazione. Anche sul volto di Ash vidi quell’espressione interrogativa tramutarsi in un sorriso abbozzato, che si aprì presto in un paio di labbra stupefatte.

«Stavano cercando lui! Cercavano Michael!»

«È esattamente quello che penso. E se davvero Michael ha a che fare col Webster Hall e col giro di droga che c’è là dentro, è probabile che la rapina fosse un modo per saldare i conti. Se questa ipotesi fosse confermata, potremmo risalire alla banda di spacciatori.»

«Due reati al prezzo di uno, insomma.»

Scoppiai a ridere e la mia mente si rilassò.

«C’è una cosa che non mi torna, Alan: se Michael è benestante, perché non hanno rapinato casa sua, invece dell’ufficio postale?»

Ci pensai un attimo e temetti che quella domanda avrebbe sgonfiato il mio entusiasmo, ma la risposta mi arrivò fulminea.

«Potrebbe essere stato un tentativo di depistaggio. Se si fossero diretti subito a casa di Michael, sarebbe stato più semplice, per la polizia, ipotizzare un legame tra le due cose.»

Il mio collega annuì e sembrò convinto dalla mia risposta. Continuai a ricapitolare le informazioni in nostro possesso.

«E che mi dici di Clide? Dov’eravamo rimasti?»

Ash si grattò il mento.

«Giusto. Se volessimo seguire l’ipotesi appena formulata, potremmo dire che Michael aveva bisogno di un posto dove nascondersi dagli spacciatori con cui aveva contratto un debito. Per non destare sospetti, aveva cercato di far passare la cosa in sordina.»

Riordinò un po’ i pensieri, poi proseguì.

«Ora, Clide è la persona a cui Michael ha chiesto una casa. Proviamo a pensare: se avesse mentito oggi, cosa sarebbe successo?»

Feci picchiettare la penna sul tavolo, ma mi accorsi ben presto che mi stava distraendo.

«Avrebbe dichiarato il falso, ed è un reato.»

«Diventa un reato quando la polizia ti scopre.»

Quell’affermazione mi fece ridere. Bel senso della giustizia!

«Dicevo: se Clide ha ritenuto opportuno dire la verità, forse è perché pensa che la polizia sia già sulle tracce di Michael o possa trovarlo piuttosto facilmente. E a quel punto, cosa sarebbe successo se il ragazzo avesse fatto il suo nome?»

«Si sarebbe scoperto che la sua dichiarazione era falsa.»

«Mettendolo in mezzo, sì.»

Ce l’avevo sulla punta della lingua. Era lì, lo sentivo, eppure non riusciva a venir fuori. Il comportamento di William aveva una spiegazione e i pezzi della soluzione erano sparsi nel mio subconscio. Sfortunatamente avevo perso la colla.

Il telefono sulla scrivania squillò: era Church che aveva visto Clide andare via e ci chiedeva di fare rapporto.

Sissignore.

 

Quella fu una lunga giornata. Church ci trattò con la sua solita aria di sufficienza, ma non come pezze da piedi.

Gli esponemmo le nostre perplessità riguardo Clide e anche lui era del nostro stesso parere. A differenza nostra, però, propose subito di mettere anche lui sotto osservazione con le intercettazioni e sperò che fosse sufficiente.

 

Non appena misi piede fuori dalla centrale, il mal di testa cominciò a mordermi la tempia destra. Tempo di arrivare al parcheggio e aveva agguantato anche la sinistra e tutto ciò che c’era in mezzo. Stavo scoppiando.

Mi sentii chiamare da dietro; mi voltai e scorsi Ash, che riprendeva al volo le chiavi della macchina che aveva appena lanciato.

«Che fatica, eh?»

«Puoi dirlo forte. Mi sta venendo un’emicrania.»

La luce del sole era ancora potente. Non forte come quella del mezzogiorno, ma abbastanza da costringermi ad affusolare lo sguardo e a farmi rifuggire tutti i riflessi sulla lamiera.

«Vai a casa, adesso?»

«Penso proprio di sì. Credo che mi distenderò sul letto per un po’.»

Un uccellino abbandonò un ramo e fece sfrigolare le sue ali contro una foglia. Fu l’unico rumore a riempire quella colata d’asfalto, così silenziosa da sembrare un mondo parallelo.

«Senti, volevo scusarmi con te. Sono stato un idiota in tutti questi mesi.»

«Te l’ho già detto, non c’è problema. D’altronde, non lo sapevi.»

«Nathan lo sa?»

Meno cercavo di pensare a lui e più ritornava in qualche conversazione. Era uno di quei pensieri che non ti abbandona mai, che gratta la coscienza quando è buio e le tue preoccupazioni sono a tormentare qualche sogno.

«Sì, lo sa, ma forse sarebbe più corretto dire che l’ha scoperto.»

«È successo più o meno dopo quel vostro appuntamento combinato, vero?»

Io lo guardai sospettoso, come quando intuisci che c’è una fregatura, ma non hai ancora capito quale; e allora per sicurezza ti muovi cauto, un passo alla volta.

«Cosa te lo fa pensare?»

Ash fece spallucce.

«Non so. Come dire, da quel giorno è come se foste decollati.»

«Decollati?»

Lui ridacchiò e tornò a gingillarsi con il mazzo di chiavi.

«Nathan di qui, Nathan di là.»

Aveva cercato di farla passare come un’affermazione innocente, ma non lo feci nemmeno continuare.

«Aspetta un attimo, cosa vorresti insinuare?»

Ash rise di gusto, lo sguardo rivolto verso il cielo.

«Niente, niente. Soprattutto non dopo quello che ho scoperto oggi. Però...»

«Cosa?»

Sapevo dove voleva andare a parare: aveva cercato di farci avvicinare fin dal primo momento. E in fondo era anche successo, sebbene non nel modo in cui sperava lui. Quella che univa me e Nathan era una delle amicizie più strane che avessi mai avuto, ma non andava più in là di quello.

«Non so. Secondo me ci tieni.»

Sbuffai.

Sbuffai perché in un certo senso era vero e forse non volevo che lo fosse. Non avevo mai pensato troppo al fatto di tenere o meno a Nathan, ma di certo la sua assenza era un qualcosa che si faceva sentire. Mi stavo abituando a lui?

Vibrò il telefono. Lo estrassi fuori dalla tasca dei pantaloni e osservai lo schermo: era un sms di Nathan.

«Parli del diavolo…!»

Digitai la sequenza di sblocco e aprii il messaggio.

I miei occhi scorsero rapidamente quelle cinque parole. La prima era “stronzo”. Le altre mi provocarono un terremoto tale che non riuscivo nemmeno a ripeterle nella mente.

Il mio petto cominciò a ingrossarsi a un ritmo irregolare, su cui non avevo il controllo.

Stronzo.

Ripensavo a cosa potessi avergli fatto di male e non trovavo un perché. Cominciai ad agitarmi e le tempie furono sul punto di esplodere.

Dopo averlo riletto almeno cinque volte, le ultime parole di Ashton mi rimbombarono nella testa; e ogni volta che ripercorrevo quel messaggio, l’ultima più incredula della precedente, non facevo che confermare la sua affermazione.

Alzai gli occhi verso il mio collega e tutto quello che riuscii a fare fu porgergli il telefono, affinché leggesse anche lui.

A ogni lettera che scorreva, spalancava gli occhi sempre di più.

«Sicuro che non abbia sbagliato destinatario? Prova a chiamarlo.»

Ripresi il telefono senza dire una parola. Perché il mio corpo stava reagendo in quel modo? Cos’era quel sudore che sembrava trasudare da ogni poro della mia pelle? Non riuscivo a dare una spiegazione a quel messaggio e il non avere un indizio a cui aggrapparmi mi faceva sentire la testa vuota e smarrita.

La parola “indizio” mi fece tornare in mente che Nathan se l’era presa parecchio quando aveva capito che ero andato al Webster Hall per lavoro più che per lui, ma la faccenda mi sembrava risolta.

Alla fine, seguii il consiglio di Ashton: forse si era trattato davvero di un disguido.

Composi il numero e mi portai il telefono all’orecchio. Quando la linea cominciò a squillare, mi sentivo abbastanza tranquillo, certo che avrei chiarito presto; ma a ogni segnale di libero sentii farsi strada dentro di me la sensazione che non aveva affatto sbagliato numero.

Quando però lui rispose dall’altra parte, mi mancarono improvvisamente le parole.

«Che vuoi?»

Tutta la sicurezza che in genere ostentavo sparì come petali al vento.

«Ciao. Ho ricevuto il tuo messaggio.»

«Ah, bene.»

La sua voce era fredda, quasi metallica. La comunicazione faceva schifo. E quella era la prima volta che litigavamo.

«Vorrei avere delle spiegazioni.»

Lo sentii sbuffare dall’altra parte. Io continuavo a non capire e ringraziai almeno per il fatto che avesse risposto. Cominciai a cercare sassolini sull’asfalto per poterli calciare, ma senza successo. Erano troppo piccoli.

«Vuoi delle spiegazioni? Va bene.»

Adesso era stizzito e io cominciai a pensare a tutto ciò che avevo potuto fare di male. Non mi venne in mente niente, nulla che potesse scatenare una reazione del genere.

«Ho parlato con Steve e sai cosa mi ha detto? Che sapeva che la faccenda della festa era tutta una messinscena.»

Io finii di elaborare un attimo dopo, poi cercai di trattenermi per non sbottare dalla rabbia.

«E tu mandi un messaggio del genere per una cretinata come questa?»

Avevo fallito nel mantenere la calma, ma lui non si scompose.

«Credi che sia una scemenza? Forse. Ma non me l’aspettavo da te, il paladino della Giustizia, quello che vuole sempre comportarsi in maniera corretta e pretende che gli altri facciano lo stesso.»

Quelle parole mi spogliarono di ogni spavalderia. Aveva ragione.

Fino a quel momento mi sembrava di aver avuto in mano le sorti della discussione, di poter decidere il destino della mia amicizia con Nathan solo con una sentenza; ma più ripensavo alle sue parole, più capivo che il coltello dalla parte del manico ce l’aveva lui. Cominciai a spaventarmi appena. Io e Nathan non ci conoscevamo poi da così tanto tempo, ma le sue parole mi avevano ferito nell’orgoglio.

«Sai, Alan, mi hai proprio deluso.»

Stoccata finale, uno a zero per lui. Non ebbi il coraggio di ribattere, né di inventare scuse. La verità era pura e semplice: mi ero comportato male con lui.

«Mi dispiace.»

«Ah, certo, ti dispiace. Mi dai almeno un buon motivo per cui l’hai fatto?»

Ecco, un buon motivo.

Mi sforzai di trovarne uno; ma l’unica immagine che riuscii a richiamare erano loro due, alla festa, e il modo in cui seminavano smancerie a ogni passo. Harvey aveva avuto Nathan in tutto e per tutto. Lo aveva baciato, lo aveva spogliato, aveva fatto scorrere le dita umide sulla sua schiena e poi giù, in mezzo alle natiche…

Non significava nulla, però. Harvey non c’entrava niente. Avrei potuto tirare fuori il fatto che avevo bevuto, ma sapevo che non era vero.

«Non so perché l’ho fatto. Mi dispiace, scusa.»

Lui non rispose. Forse si aspettava una risposta da me, forse l’aspettavo anch’io. Solo che quella risposta non arrivò. Anche io, come lui, continuai a chiedermi perché avessi fatto una cosa del genere.

«Vabbè. Ciao.»

Riattaccò. Non aspettò nemmeno che lo salutassi.

Mi voltai verso Ash e mi sembrò che tutto fosse perduto. Mi avvicinai a lui, che mi chiese cos’era successo; gli raccontai della telefonata. Poi lo guardai dritto negli occhi, perché non sapevo che pesci prendere.

«Che devo fare?»

Avevo vissuto nove mesi di apatia più o meno profonda. Delle persone non mi era importato poi molto in quel periodo, e quella situazione improvvisa mi gettò nel panico. Era come se avessi dimenticato come gestire ogni rapporto umano, come chiedere scusa e farsi perdonare.

«Fermi tutti. Punto primo: ti interessa davvero scusarti con lui? Perché se non ti interessa, allora la cosa finisce qui.»

«Credo che mi interessi.»

Lui alzò gli occhi al cielo.

«Ah, be’. Avrei potuto rispondere io per te a questa domanda. Punto secondo: in torto sei effettivamente tu e devi fare qualcosa. Idee?»

Il primo pensiero fu quello di andare a casa sua. Avrei potuto aspettarlo al portone e farci una figura patetica, anche se con ogni probabilità avrebbe salvato la situazione. La nostra amicizia avrebbe superato il primo grande ostacolo e sarebbe tornato tutto come prima; serviva solo mettere da parte l’orgoglio, accettare di sentirsi dire in faccia qualcosa di spiacevole, litigare, forse urlare, e godersi poi la quiete dopo la tempesta.

Ma quando mi sentii il petto squarciato, capii che Ash aveva ragione: io ci tenevo. Tenevo a Nathan e alla nostra amicizia, e quella conversazione mi stava stritolando l’anima. Lo conoscevo da tre settimane e il suo potere su di me era incredibile, perché mi si era attaccato addosso con una rapidità che non credevo possibile.

«Niente che non sembri una scena da telenovela.»

«Le scuse non le ha accettate, quindi ci vuole qualcosa di più forte. Escludiamo mazzi di fiori e serenate sotto casa, scenate patetiche del tipo: “Ti prego, perdonami!”»

«Queste mi sembrano più cose da coppiette adolescenziali.»

Ash fece roteare gli occhi.

«Appunto.» Mi fissò per un attimo. «Andiamo avanti.»

«Il problema, Ash, è che non lo conosco da così tanto tempo da poter fare pazzie in una situazione del genere, ma nemmeno da così poco per poter lasciar perdere tutto.»

Lui incrociò le braccia e annuì, mentre fissava l’asfalto. La testa continuava a dondolargli in senso d’assenso, poi finalmente la fermò e mi guardò con gli occhi di chi ha avuto un’idea.

«Non ti piacerà.»

Lo guardai sconsolato. Il fatto che lui prendesse la situazione alla leggera rincuorava anche me, facendomi pensare che forse non tutto era perduto.

«Sentiamo.»

Ash sorrise, come se stesse per dire la frase più ovvia del mondo.

«Invitalo da qualche parte. A cena fuori, per esempio.»

Per un attimo lo immaginai quasi. Io e lui, soli, a mangiare qualcosa in un ristorante. E quasi dimenticavo che si sarebbe tastato le tasche e avrebbe tirato un sospiro di sollievo nel sentire addosso il suo tesoro; e che saremmo entrati con dieci minuti di ritardo perché aveva da calmare la sua ansia perenne, che mi avrebbe buttato il fumo addosso, e ne avrebbe riso.

Eppure, già quelle scene appartenevano al passato. Qualcosa tra me e Nathan si era rotto. I cocci si potevano riaggiustare, a meno che non si fossero sbriciolati completamente.

Perché della cenere non rimane altro che l’odore.

Quel brivido di un’amicizia che è o che sarebbe stata, che forse poteva ancora essere, chissà.

«Avrebbe tutta l’aria di un appuntamento. Potrebbe fraintendere.»

Ash fece spallucce e mi guardò.

«Forse.»

Già, forse. Potevo chiedere a Nathan di uscire con me senza che ci intravedesse un secondo fine?

Forse.

Due persone che escono insieme non necessariamente lo fanno per questioni sentimentali, in fondo.

Alla fine, dissi ad Ash che ci avrei pensato. Nathan ne sarebbe stato felice e mi sarei liberato di quel terribile senso di colpa.

Ringraziai Ash per i consigli e mi avviai verso la macchina. Abbassai il finestrino, partii e lasciai che il vento mi mescolasse i pensieri.

Mi fermai al semaforo.

Il sole cominciava già a nascondersi dietro i grattacieli e le note della radio mi stuzzicarono la memoria, con quella melodia che avevo già sentito, ma non ricordavo dove.

All’improvviso, alle voci di quella canzone si sovrappose quella di Nathan che cantava a squarciagola; quella voce mi graffiò i ricordi, talmente tanto da spingermi a spegnere la radio di prepotenza, mentre gli ultimi stralci della melodia svanivano dalle mie orecchie.

La situazione era seria; e no, non stavo pensando alla nostra discussione.

Ciò che mi impensieriva erano le mie reazioni, ogni volta più incisive, e la mia mente sempre concentrata su di lui, quasi distratta, o immersa in odori che talvolta credevo di sentire davvero.

La mia Opel Astra avanzava a passo di lumaca nel traffico e i colpi di clacson non si contavano più.

La fila alla mia sinistra scorse e pensai che di Nathan potevo sentirne anche l’odore. Quando mi voltai, però, c’era solo un tizio su una Chevrolet e una sigaretta in mano; ma non appena scorsi la sagoma rossa del pacchetto di Marlboro, cominciai a pensare di avere un problema.

Nathan era importante per me, perché aveva riempito un vuoto. Cominciai a pensare che le cose sarebbero andate molto diversamente, se ci fossimo conosciuti in un altro periodo o in un’altra occasione. Il nostro incontro era quello che mi piaceva chiamare un momento irripetibile, un insieme di frangenti che, in un altro momento, o in un altro luogo, non si sarebbero evoluti allo stesso modo; forse non sarebbero nemmeno esistiti.

Nathan era il mio momento irripetibile e le nostre vite si erano incastrate l’una nell’altra con precisione millimetrica, in una congiunzione pressoché perfetta. Forse non avrei mai più vissuto un’esperienza del genere in tutta la mia vita ed era quell’impressione, dal sapore di una certezza, che mi faceva desistere dal mandare tutto all’aria.

Ripensai a Oliver e cominciai a domandarmi cosa sarebbe accaduto se non fosse morto. Mi sforzai di pensare a lui, ai suoi lineamenti, al suono della sua voce, ma non era più come lo ricordavo, e non volevo neanche sforzarmi di farlo.

Avevo sfogliato i nostri album di foto, qualche sera troppo solitaria: e mentre scorrevo i nostri ricordi, io osservavo anche la mia immagine allo specchio e notavo quella ruga che, sulla foto, non c’era ancora.

Lui era sempre uguale. Lo sarebbe stato per sempre.

E avrei provato a immaginarlo un po’ più vecchio, con la voce un po’ più roca e gli affanni dell’età, ma sapevo che non ci sarei riuscito ancora per molto, perché la verità era che Oliver stava diventando sempre più sfocato, e presto avrebbe lasciato posto a qualcun altro.

Il sole tramontò dietro i palazzi. Petali deviarono il loro volo verso il parabrezza, per poi riprendere a librarsi verso il cielo, lontani dalla caciara dell’umanità.

Avvertii un tocco sulla coscia e abbassai lo sguardo: c’era una chiazza sui pantaloni.

Era pioggia, sicuramente.

Eppure era estate.

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

In questo capitolo vediamo un po’ di progressi per quanto riguarda le indagini e il rapporto con Ashton, mentre quello con Nathan subisce una regressione! XD D’altronde io credo che lui abbia problemi a fidarsi realmente delle persone e che stia solo cercando una scusa per allontanarsi, nel bene e nel male. Le cose andranno realmente così o proverà a prendere il toro per le corna? Chissà, chissà.

Ah, ne approfitto anche per avvisarvi che nel prossimo capitolo ci sarà una scena un po’… fortina? XD In realtà l’ho riletta l’altro giorno e tutto sommato non era così traumatica, anche se abbastanza al limite del rating rosso, ma se qualcuno di voi avesse qualche trigger warning a cui è sensibile e lo volesse sapere in anticipo tramite messaggio privato, per me non c’è problema ^__^

Io intanto sto continuando a scrivere il capitolo 29, l’altra sera ho scritto quindici righe… So che non sono molte, ma ce la sto mettendo tutta!

 

A giovedì,

holls

 

   
 
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