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Autore: Nariko_koi    03/01/2022    0 recensioni
Regione dello Hubei, 1939.
Dopo essere stato ferito sul campo di battaglia e congedato, Wang Yao, tenente dell'esercito Nazionalista, si trova costretto a scortare il proprio aguzzìno lontano dal fronte. All'incarico di per sé insolito si aggiunge il fatto che Honda Kiku, l'ostaggio, non è un volto nuovo nella vita di Yao. Dopo aver condiviso un'estate sulle sponde rigogliose del Fiume Azzurro, i due si ritrovano a distanza di anni a camminare fianco a fianco indossando divise di schieramenti tra loro opposti. Yao è sfuggente, impenetrabile e pieno di collera, una collera di cui Kiku, incorruttibile e legato alla propria causa, non comprende fino in fondo la motivazione. Due spiriti fratelli, entrambi brillanti e inquieti, un ricordo che emerge da dietro la devastazione attorno ai passi dei due soldati, due nazioni senza speranze.
Sulla strada per Chongqing, il passato tornerà a chiedere la resa dei conti, e Kiku e Yao saranno costretti ad affrontare i loro demoni, nel tentativo di preservare la loro scarna, sofferta, umanità.
[NiChu/ChuNi] [Accenni ad altre coppie e personaggi]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Cina/Yao Wang, Germania/Ludwig, Giappone/Kiku Honda, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Introduzione
 
Ovvero, un pippone iniziale necessario
 
La storia che state per leggere tratta fatti storici e accenna a pratiche culturali e posizioni politiche controverse. Nonostante ciò, l'autrice non mira a condannare o a mettere in cattiva luce la cultura orientale, né a esprimere un giudizio su base politica, bensì a rendere, per quanto possibile, la complessità del periodo storico all'interno del quale sono ambientate le vicende.
 
Occorre precisare che questo lavoro non è stato portato avanti da una persona di origini o cultura asiatica, ma da una ragazza italiana, che, nonostante coltivi un profondo interesse per la Cina e più in generale per l'Oriente, non ha mai vissuto la cultura cinese e giapponese dall'interno. Pertanto, la storia non parla e non vuole parlare dell'essere cinesi o giapponesi, ma di rapporti umani.
 
Inoltre, si avvisano i lettori che le fonti storiche sulle vicende trattate non sono facilmente reperibili, pertanto la storia potrebbe presentare delle incongruenze rispetto ai fatti reali. È il caso di sottolineare che le righe che seguono restano sempre e comunque fiction, ed è quindi inevitabile che determinati elementi vengano adattati per essere conformi al genere.
 
Prima di iniziare la lettura è bene tenere presente che la Cina del XX secolo è stata teatro di importanti mutamenti politici e culturali, impossibili da spiegare interamente all'interno del testo.
In fondo a ogni capitolo saranno presenti delle note per chiarire eventuali dubbi.
 
Questa fan-fiction non è stata scritta a scopo di lucro, i personaggi principali non mi appartengono.
 
T.W.: Nel testo sono presenti scene di violenza che potrebbero urtare la sensibilità del lettore; nonostante l'intento dell'autrice sia quello di rappresentare gli eventi col massimo rispetto, sia nei confronti delle tematiche trattate, sia nei confronti del pubblico, si consiglia ai lettori di ponderare attentamente se proseguire o meno la lettura.
 
Sulla lingua: per le trascrizioni di nomi di persona, toponimi e termini di lingua cinese e giapponese vengono utilizzati, all’interno dell’opera, rispettivamente il sistema pinyin e il sistema Hepburn. 
 
 


 
Versa dell'altro vino e rimani
non aver fretta d'andare via
Di tre parti si compone primavera:
due parti sono di tristezza
la terza parte di vento e di pioggia

I fiori sbocciano, i fiori muoiono:
nessuno arriva molto lontano -
allora smettila di lamentarti
 ma canta ad alta voce:
Chissà dove ci incontreremo ancora
l'anno venturo al tempo delle peonie.

-Ye Qingchen, XI secolo
 
 
 

 
Prologo
 
 
 
Provincia dello Hubei, 1939
 
 
È incredibile quante cose riusciamo a dimenticare.
Quasi sempre si tratta di piccoli dettagli, un odore particolare, la forma di un vecchio giocattolo, le parole di una canzone. Frammenti che precipitano nel vuoto, che muoiono in silenzio. Poi accade qualcosa, il caso si muove contro di noi, e la vita ti presenta il conto dei peccati che avevi dimenticato.
Yao ha un sapore terroso in bocca, un orecchio gli fischia mentre osserva il bersaglio attraverso il mirino del fucile. Il metallo dell'elmetto gli schiaccia la fronte, forse perde sangue dal naso. Appostato dietro a un cumulo di macerie che un tempo è stato una casa, non può sapere che l'usuraio sta per bussare alla sua porta. E l'usuraio in questione si annuncia subdolamente con un fischio dell'aria alle sue spalle, impossibile da percepire trai colpi delle mitragliatrici.
Quando la lama gelida cade sulla sua schiena Yao soffoca un grido. Il fucile cade a terra, e lui si ritrova con la guancia sul selciato. L'uniforme gronda di sangue, gli si incolla alla pelle. Yao digrigna i denti fino a sentirli stridere mentre si puntella sui gomiti: se proprio deve morire in quel modo ignobile allora vuole guardare in faccia il suo carnefice. È solo quando incontra il suo sguardo che Yao si rende conto che è arrivato il momento del contrappasso, e che non era preparato a pagare un prezzo tanto alto.
C'è un soldato giapponese ritto di fronte a lui, stringe in pugno una katana insanguinata. Le vene sul dorso delle mani gli pulsano per la tensione, sul volto ha un'espressione impenetrabile. Yao lo ha riconosciuto anche così, con la faccia ricoperta di lerciume, anche dentro a quell'uniforme da demone, lo ha riconosciuto eppure non sa chi è.
Si guardano in silenzio per un istante che sembra durare anni, nell'arco del quale Yao si chiede se anche l'altro stia osservando a ritroso le diapositive della loro vita, se anche lui si stia ponendo le sue stesse domande. Dove siamo stati? Cosa ci è capitato? Cosa ci siamo fatti?
Il loro muto dialogo viene interrotto dal calcio di un fucile che picchia contro la nuca dell'uomo. Due soldati cinesi sono apparsi dal nulla, o forse sono sempre stati lì. Uno dei due lavora per bloccare l'emorragia sulla schiena di Yao, l'altro punta l'arma contro il giapponese, pronto a far fuoco.
«Non ucciderlo!»
Il soldato ha quasi premuto il grilletto, se Yao avesse urlato con un millisecondo di ritardo il giapponese sarebbe già andato.
«Ma signore-
«Imbavagliatelo e legatelo finché è incosciente.»
I soldati tentennano un attimo prima di obbedire. Yao ha la gola secca, cerca di mettersi in piedi ma la suola dello stivale slitta all'indietro sulla ghiaia. Alla fine viene caricato su una barella. Mentre osserva il cielo livido, aspetta a cantare vittoria. Tagliarsi unghie e capelli¹ sarebbe troppo facile, la camminata verso il Golgota è appena iniziata.
 
 
***
 
 
Provincia del Jiangsu, 1928
 
La prima volta che lo vide fu al tavolo della colazione.
Fu d'estate, quando suo padre, professore all'università di Nanchino, aprì le porte della residenza estiva a uno studente modello arrivato direttamente dal Giappone. Inizialmente Yao non era riuscito a comprendere l'euforia che aveva invaso tutti gli abitanti della casa. Nei giorni precedenti all'arrivo dell'ospite i corridoi avevano assistito a un via vai di domestici indaffaratissimi a eseguire gli ordini della signora Wang, anche lei in preda a un costante e nervoso movimento. Non che Yao vi avesse assistito di persona. Era rimasto a Nanchino per degli esami all'università e avrebbe raggiunto la sua famiglia contemporaneamente all'arrivo dell'estraneo. A raccontargli i turbamenti dei domestici e di mūqin² era stato suo fratello Honghui³, che, seppur riuscisse a camuffarlo bene, era stato preso dalla stessa tensione di tutti gli altri.
La prima volta che lo vide fu al tavolo della colazione.
Il suo ingresso a casa, la sera prima, era avvenuto con un importante ritardo, e l'ospite a quell'ora si era già ritirato. Comunque, tra un viaggio in treno interminabile e il pensiero di una lunga tesi da consegnare a breve e di cui non aveva scritto un solo carattere, il suo cervello aveva rimosso la storia del giapponese dall'elenco delle cose da ricordare. Pertanto, quando il mattino dopo se lo ritrovò seduto in religioso silenzio in sala da pranzo, mentre lui canticchiava tra sé una canzoncina idiota convinto di essere solo, salvo poi essere interrotto da un «Buongiorno, Yao-san» proveniente dal presunto posto vuoto accanto al suo, la sua prima reazione fu un balzo sul posto che quasi lo fece cadere dalla sedia.
Il ragazzo accanto a lui lo guardava tenendo le labbra serrate tra loro. Anche con quell'espressione serissima era palese che si stesse trattenendo un risolino. E per carità, anche a lui veniva da ridere se pensava che in soli trenta secondi era riuscito a presentarsi come un mentecatto. Neanche il tempo di formulare questo pensiero che gli scappò uno sbuffo dal naso. Serrò le labbra anche lui, il mento arricciato, ma alla fine non riuscì a impedirsi di scoppiare a ridere con una mano sugli occhi. Poteva essere il modo migliore per salvare la faccia. L'altro ragazzo si era trattenuto a malapena. Alla fine Yao si portò un ciuffo di capelli dietro all'orecchio con un sospiro e si girò a guardarlo.
«E così il nostro ospite ha un volto» disse.
L'altro chinò il capo. «Piacere di conoscerla, Yao-san
«Oh, ti prego, chiamami Yao – rispose mentre si sistemava sulla sedia – E tu devi essere Kiku. Finalmente ci conosciamo.»
Kiku forzò un sorriso. Yao lo osservò senza preoccuparsi di non darlo a vedere. Poteva avere al massimo diciassette anni; aveva un viso proporzionato dai lineamenti fini, bianco e morbido come una palla di riso, le labbra piene, l'espressione seria; portava i capelli più lunghi sulla fronte, in un taglio ordinato; indossava uno yukata indaco e teneva le mani sul grembo. Tutto in lui emanava un senso di incorruttibile disciplina. Yao si chiese da quanto tempo fosse seduto lì, solo a quel tavolo. Che si fosse alzato con largo anticipo per evitare di arrivare in ritardo? Più tardi ebbe modo di constatare che parlava un mandarino quasi perfetto, l'ombra dell'accento giapponese poteva palesarsi solo a un orecchio ben allenato.
Malgrado le sue origini, Yao era sempre stato abituato a faticare. Il che poteva sembrare strano, riferito al primogenito di una famiglia alto borghese, eppure a distanza di anni Yao ricordava ancora le lacrime di sfinimento sui libri a notte fonda già da bambino, così come ricordava i pomeriggi passati a farsi massacrare all'accademia di wushu⁴, solo per soddisfare l'ambizione di sentirsi dire: “sei stato bravo, xiao'er. Dunque, Yao conosceva la fatica, eppure quando provò a intavolare una conversazione di circostanza, quel tanto che bastava per riempire il silenzio in attesa che il resto della famiglia si riunisse a tavola, in quel momento fu davvero difficile provare a ricordare uno sforzo simile. Perché quel ragazzino sembrava del tutto incapace di rispondere con una frase di più di due sillabe, qualunque fosse il contenuto della domanda. Com'è andato il viaggio? Molto bene. La casa ti piace? È stupenda. Hai fame? Un po'. E basta, Palla Di Riso sembrava non voler fare un minimo sforzo per alleviargli il carico. Sul momento Yao non seppe dire se quel comportamento fosse dovuto a una mancanza di contenuti o al totale disinteresse nel creare un'intesa con lui. Alla fine il cielo doveva aver ascoltato le sue preghiere, perché dopo un po' vennero raggiunti dal resto dei Wang. 
Dicevamo, Yao non capiva lo stato di frenesia che infestava la casa da circa un mese fino ad allora, e continuava a non capire. Lo disse anche ad Honghui senza troppi giri di parole durante una partita a wéiqí⁶, quello stesso pomeriggio. Giocavano sul porticato che si affacciava sul fiume, il cielo era sereno.
«Allora- Honghui piazzò una pietra sulla scacchiera -come ti sembra il nostro ospite?»
Yao si prese un momento per osservare il goban, tenendosi il mento tra pollice e indice, poi fece la sua mossa. «Insignificante.» rispose lapidario.
Dalla sedia sulla quale leggeva, Mei⁷ si alzò con un fruscio di stoffa. «Sei solo invidioso perché per una volta non hai tutti gli occhi addosso.» e detto ciò si allontanò facendo ondeggiare le trecce.
Yao osservò la seta rosa sulla sua schiena attraverso il fumo della sigaretta. «Palla di Riso ha già fatto colpo.»
«Se dici così dai ragione a mèi-mei.»
Yao sbuffò in una nuvola di fumo. «È troppo sveglia per la sua età.»
«Comunque, ammetterai che è carino.»
«Ha un bel faccino, sì. Questo non spiega perché siate tutti così presi da lui.»
Honghui si sistemò gli occhiali sul ponte del naso con due dita, poi piazzò un'altra pietra sul goban. «È solo l'ebbrezza della novità, tutto qui. E poi fùqinvuole solo un altro erede da ammaestrare.»
Yao scrollò la cenere della sigaretta sul posacenere di porcellana, sorrise al fratello. «Tranquillo, dì-di¹⁰, il suo preferito resti sempre tu.»
E come poteva essere altrimenti? Malgrado la sua giovane età, Honghui era un asso dei calcoli e aveva un fiuto invidiabile per le buone occasioni. Mai una scelta mal ponderata, mai una parola fuori posto, l'immagine migliore che la famiglia Wang poteva sperare di dare al mondo. In due parole: l'erede perfetto.
Honghui dondolò la testa da una parte all'altra. «Vero, ma mǔqin preferisce te.»
«Questo non è vero.»
«Invece sì.»
«No, ti dico.»
«Sì, ti dico.»
«Honghui.»
«Yao.»
Si guardarono serissimi per un lungo momento, poi si misero a ridere.
«Calcoliamo il punteggio?»
«Non serve, hai vinto tu.»
Honghui era l'unico che riusciva a batterlo a wéiqí.
 
 
***
 
 
Quando il secchio di acqua gelida gli viene svuotato addosso, Kiku si sveglia con un sussulto, i braccioli della poltrona sotto di lui scricchiolano. Il bavaglio che gli copre la bocca è sporco di sangue, lo costringe a sottomettersi a quel sapore violento di ferro. Gli hanno fatto saltare un molare e la lingua continua a toccare la gengiva scoperta, non riesce ad aprire del tutto l'occhio destro.
Non ha parlato, è stato bravo. Non ha parlato.
C'è un ufficiale cinese davanti a lui, seduto sui calcagni. A giudicare dalla divisa dev'essere un colonnello. Lo guarda mentre si sistema una sigaretta tra le labbra. «Bene bene, xiao Rìbĕn¹¹. Siamo alla resa dei conti.» Kiku sostiene il suo sguardo, non muove un muscolo neanche quando l'ingresso della tenda si apre. Con la coda dell'occhio vede che un soldato sta facendo il saluto.
«Riposo, tenente.» ordina con le labbra strette per trattenere la sigaretta.
«Voleva vedermi, signore?»
Un brivido lo scuote. Riconoscerebbe quel timbro anche in un coro, e malgrado si sforzi di mantenere un'espressione neutra l'ufficiale davanti a lui deve aver notato qualcosa, perché un angolo della bocca gli si piega verso l'alto. Alla fine si alza e si accende una sigaretta, dandogli le spalle e rivolgendosi al nuovo arrivato. «Come va la schiena?»
Kiku riesce a spostare lo sguardo quel tanto che basta per accorgersi che il tenente si regge su una stampella, ma non osa voltarsi verso di lui.
«Non è ancora del tutto guarita, signore.»
«Pare che dovremo rimandarla a casa, tenente. – e qui dà un lieve calcio col fianco dello stivale a un piede della sedia a cui è legato Kiku – il gǔizi¹¹, qui, ha fatto centro. Mi costringe a congedare il mio miglior ufficiale, razza di bastardo.»
«La ringrazio, signore.»
Kiku pianta le unghie nel legno dei braccioli. Una parte di lui gli grida di voltarsi a guardarlo, di sfidarlo, e quella parte di lui ha la voce d suo padre e degli ufficiali che lo hanno addestrato con un unico mantra: chi conosce la vergogna è debole¹².
«Comunque, temo che dovremmo approfittare ancora di lei, tenente.»
«Signore?»
«Oh, è un compito abbastanza semplice, glielo assicuro. Le basterà portare il prigioniero lontano dalle linee e fare rapporto sulla vostra posizione di volta in volta. Le illustreremo il percorso più sicuro, partirete domattina. È tutto chiaro tenente?»
«Sì, signore.»
Le unghie di Kiku graffiano i braccioli, ma lui non se ne accorge. Nella sua testa c'è un coro di voci che gli urla di piantare gli occhi addosso a quell'uomo, di difendere il proprio onore. Ma la sola idea di affrontare il suo sguardo gli gela ogni muscolo del corpo, gli immobilizza il respiro.
«Allora può andare. Si rimetta in forze per domani.»
Il tenente si mette sull'attenti e saluta il superiore. Quando alla fine Kiku solleva il volto verso di lui, fa appena in tempo a incontrare la sua nuca rasata, prima che un altro ufficiale richiuda la tenda alle sue spalle.
Il colonnello schiaccia con uno sbuffo di fumo il mozzicone nel posacenere, quando si volta apre la bocca per rivolgersi al soldato all'ingresso, ma s'interrompe di colpo, subito dopo aver guardato nella sua direzione. «Āiyā¹³, Zhao, da' un'occhiata a questo.»
«Ho visto, signore.»
Kiku si accorge solo adesso del sangue sui braccioli.
«È un disturbato, signore, come tutti i giapponesi.»
 
Quando due soldati lo scortano sul furgone, Kiku è ancora legato e imbavagliato. Solo protetto dal buio dell'abitacolo trova il coraggio di azzardarsi a osservare il tenente che barcolla verso di loro, aggrappato alla stampella. Anche con quel passo sbilenco conserva la sua fierezza da imperatore, il sole bianco sul cappello luccica al sole. Sembra strano vederlo coi capelli corti, gli fanno sembrare il viso ancora più lungo del solito, e forse mettono un po' troppo in risalto le orecchie. Ora che ha la faccia pulita dalla terra e dal sangue Kiku può vedere l'alone dorato dell'abbronzatura sul naso e sotto agli occhi.
Il soldato -forse caporale- seduto accanto a lui lo squadra dall'alto verso il basso, poi si rivolge al commilitone senza staccargli gli occhi di dosso. «Mi chiedo perché Wang abbia deciso di risparmiarlo.»
L'altro non sembra granché interessato, e risponde senza distogliere lo sguardo documenti che sta controllando: «Dicono abbia informazioni sensibili. È il figlio di Honda Takeshi, hai presente?»
«Il generale di brigata?»
«Nh
Il caporale pare pensarci un attimo, assottiglia lo sguardo. «O forse Wang vuole restituirgliele con gli interessi.»
«Non mi sembra il tipo.»
Il caporale gli mette una mano dietro al collo, lo strattona verso di sé. Kiku avverte il suo respiro sull'orecchio. «Di' un po', huàidàn¹⁴, lo sai chi è quello?»
«Non può risponderti, idiota.»
«Wang Yao è il tenente più giovane di tutta la divisione. C'è un motivo se lo chiamano Miao Dao¹⁵ Wang. Fossi in te mi sparerei un colpo alla prima occasione.»
«Non è educato parlare degli assenti, caporale.»
I soldati schizzano sull'attenti come frustati, Yao sbuffa una risatina. Gli basta allungare il braccio perché quei due si precipitino ad aiutarlo, e così sale sul rimorchio con una certa fatica. Poco dopo il furgone parte, sollevando una nuvola di povere dietro di sé. Sotto al telo verde militare, l'abitacolo trasuda un odore di umanità spezzata, di stalla. È l'olezzo degli animali da macello che si mischiano gli uni agli altri per confortarsi prima della sentenza, che si manifesta tra le chiacchiere di quei soldati che si scambiano le fotografie. Non ci vuole un genio per notare l'ammirazione sui volti dei sottoposti. Kiku si prende un momento per osservare quella scena rilassata, il caporale che allunga a Yao il ritratto di una bambina di quattro anni, lui che sorride mentre accarezza col pollice gli angoli della fotografia, l'altro sottufficiale che sbuffa una battuta.
«Com'è carina, non sembra neanche tua figlia.»
«Vaffanculo.»
Il furgone si ferma per farli scendere solo un paio d'ore dopo. I soldati si premurano che Yao riesca a camminare con lo zaino sulle spalle, lo salutano come si fa con un fratello. Pochi minuti dopo il furgone è già ripartito, sono soli in mezzo a una strada fangosa di campagna, attorno a loro esiste solo una piatta distesa di terra e ciuffi di sorgo selvatico. Yao si gratta il mento con due dita, poi tira fuori un pugnale dal fodero.
«Vediamo di farla finita» borbotta, e prima che Kiku possa dire o fare qualcosa Yao ha già tagliato la corda che gli lega i polsi e il bavaglio.
«Ma che fai?»
«A te cosa sembra?»
 Kiku rimane a osservarlo per qualche secondo mentre si sistema lo zaino sulle spalle. Si guarda intorno. «Non hai paura che scappi?»
Yao si lascia scappare un sorriso storto, solleva le braccia, stampella compresa, a indicare la desolazione attorno a loro. «Per andare dove? Con quell'uniforme, poi.»
Kiku contrae la mascella. Sono praticamente in mezzo al nulla, persi tra le risaie e a chissà quanti chilometri dal centro abitato più vicino, e se per qualche assurdo motivo dovesse mettersi a correre Yao gli sparerebbe puntando alle gambe. Si prende un attimo per osservarlo con un'occhiata veloce: ha addosso un fucile, un miao dao, granate...
«Se pensi di rubarmi una granata per farti saltare in aria allora devi sperare di morire sul colpo, perché giuro che se sopravvivi ti spremo come un mandarino.»
Ovviamente non può sapere quanto c'è di vero in questo, ma in ogni caso Kiku preferisce non metterlo alla prova. Tenta un'ultima strada:
«Non hai paura che mi morda la lingua?»
«L'avresti già fatto. Ora muoviamoci.»
Yao regola la cinghia del miao dao e si rimette in marcia senza guardarlo. A Kiku serve ancora qualche secondo prima di mettersi a camminare verso di lui. Dopo un centinaio di metri, però, pianta di nuovo le suole a terra.
«Tutto questo non ha senso.»
«Ci muoviamo?»
«Prima fammi capire una cosa.»
Yao fa un sospiro e tira fuori le sigarette dalla tasca. Senza guardarlo ne tira fuori una, se la mette tra le labbra e dopo averla accesa borbotta un “ti ascolto”, accompagnato a un gesto della mano. Kiku sposta il peso da un piede all'altro, braccia conserte. «Quanti prigionieri di guerra terminano un interrogatorio con solo un occhio pesto e un dente spaccato? E senza dire una parola, per altro.»
Yao alza gli occhi al cielo come a volerci pensare, poi soffia fuori il fumo, «uno» e lo indica con la sigaretta.
«Avrebbero potuto rompermi un osso.»
«Tra le altre cose, sì.»
«Perché non l'hanno fatto?»
Yao dondola il collo a destra e a sinistra con uno scricchiolio. «Per lo stesso motivo per cui hanno messo un invalido a scortare un prigioniero giapponese in mezzo al nulla, e che per altro sembrano avere conti in sospeso.»
Kiku resta ad osservarlo in silenzio per un lungo secondo, quando si decide a parlare ha l'impressione di star leggendo ad alta voce qualcosa di scritto a lettere cubitali di fronte a loro. «Vogliono farti fuori.»
Yao si gratta sotto al cappello. «Diciamo che potrebbero farci girare a vuoto finché uno dei due non tira le cuoia. In ogni caso hanno solo da guadagnare.»
«Uno dei due? Che succede se io –
«Succede che nel peggiore dei casi mi mettono di fronte al plotone d'esecuzione.»
«Il colonnello diceva che sei il suo uomo migliore. Perché eliminarti?»
«Molto probabilmente era sincero, ma sospettano che abbia contatti coi comunisti, perciò... – lascia in sospeso la frase, il tempo di inspirare un'altra volta il fumo della sigaretta – meglio un uomo in meno che un tǔgòng¹⁶ tra le fila.»
Dopo aver scrutato con attenzione la punta dei propri anfibi, Kiku si schiarisce la gola, solleva il mento. «Ed è vero?»
Prima di rispondere Yao lo fissa per qualche secondo con la sigaretta davanti alle labbra serrate. Poi dà un ultimo tiro e infine lancia il mozzicone a terra, schiacciandolo con il tacco dello scarpone. «Chiariamo una cosa- comincia, avanzando verso di lui con la mano sul fianco -io non sono un tuo cazzo di commilitone, né un compagno di merende con cui stai andando a fare una gita per scambiare confidenze e raccogliere margherite. Sono un tenente dell'Esercito Nazionale e tu sei l'ostaggio a cui sono stato assegnato. E sappi anche che se servirà sarò pronto a trascinarti di peso da qui fino a Chongqin¹⁷. Sono stato chiaro?»
Yao ha soffiato le ultime tre parole a pochi centimetri dalla sua faccia, il suo alito sa di tabacco. Kiku ha addosso un'espressione piatta che tira fuori in momenti del genere. «Cristallino» risponde.
«Bene – si sistema il cappello sulla fronte – in marcia.»
 
 
***
 
 
La prima volta che lo vide fu attraverso la finestra della stanza degli ospiti.
Era stato invitato da un professore di Nanchino a soggiornare per l'estate in una residenza estiva nel Jiangsu, a pochi chilometri dalla capitale. Quando aveva deciso di partecipare a quella specie di concorso non immaginava che proprio lui, su tutti quei partecipanti, avrebbe fatto colpo più di tutti sul suo futuro ospite. In quella circostanza suo padre si era complimento, ma Kiku sapeva che non era entusiasta all'idea di mandarlo in Cina per quasi tre mesi. Suo padre, come altri che frequentava, i cinesi non li amava, e aveva costretto Kiku a infilarsi nella valigia tutta una serie di articoli per l’igiene personale nel timore che il figlio rimanesse lontano dal sapone per mesi.
«Non pensi che abbiano già del sapone?»
«Coi cinesi non si può mai sapere. Renderai un grande servizio all'impero, musuko¹⁸.»
E invece i Wang di sapone ne avevano in abbondanza, e avevano anche l’acqua corrente che nella casa di Kyoto mancava.
Comunque, Kiku non si sarebbe mai immaginato che un professore, seppure di un certo prestigio, potesse permettersi una dimora storica di tale bellezza. Si trattava di una serie di edifici dai muri bianchissimi e dai tetti scuri, arrampicati gli uni sugli altri e addossati alla riva rocciosa del fiume.  Le dimensioni della casa non erano tanto diverse rispetto a una qualsiasi abitazione borghese della zona, tuttavia entrando per la prima volta Kiku aveva avvertito qualcosa che nella silenziosa machiya¹⁹ di Kyoto non aveva mai assaporato. All'inizio non aveva compreso la natura di quella sensazione, solo in prossimità della partenza seppe dargli un nome. Comunque, appena arrivato aveva appreso dell'esistenza di un figlio primogenito non ancora presente in casa.
La prima volta che lo vide fu attraverso la finestra della stanza degli ospiti.
Si era ritirato quasi subito dopo aver salutato i residenti con l'opportuna cortesia, e si era gettato sull'ampio letto a baldacchino, così diverso dal futon a cui era abituato, senza neanche togliere le coperte e i vestiti. Verso sera era stato svegliato dal borbottio del motore di un'automobile. Si era alzato dal letto con la forma del cuscino sulla guancia e aveva accostato la tempia al muro vicino alla finestra, quel tanto che bastava per vederlo scendere dalla macchina e salutare il conducente con un gesto cordiale. Non era come se lo era immaginato. Magro, slanciato, vestiva all'occidentale e portava i capelli lunghi, in netto contrasto con la moda di quegli anni. Posò a terra le valige solo per salutare la domestica afghana che era venuta ad accoglierlo, posandole le mani sottili sulle spalle curve, carezzandole le braccia. Se Kiku non avesse saputo che lei era una sua dipendente, avrebbe pensato che fossero parenti. Poi lei fece per raccogliere le valige, ma Yao fu più svelto a chinarsi e a sollevarle. Dovette insistere un po' ma alla fine fu lui a portarle dentro casa. Aveva una postura ritta e dei modi composti da aristocratico, ma senza artificialità o arroganza, e sapeva mostrarsi cordiale senza diventare ossequioso. Sembrava così sicuro.
Il mattino dopo se lo era trovato seduto a fianco per puro caso. Si era alzato in anticipo per non farsi aspettare al tavolo della colazione, e poi la sera prima era andato a dormire talmente presto che all'alba era già sveglio. Doveva essere andata così anche per Yao.
«Tu devi essere Kiku. Finalmente ci conosciamo» lo disse con estrema naturalezza, sollevando le sopracciglia scure sugli occhi da gatto. Durante quell'incontro Kiku notò che arrotava l'ultima sillaba di ogni frase, producendo una sorta di “èr”, in un curioso accento pechinese²⁰.
Nel trovarselo così vicino, con quel volto rilassato e il sorriso asimmetrico e quello stesso atteggiamento di completa sicurezza della sera prima, Kiku non era riuscito a pensare a nulla se non a evitare qualsiasi brutta figura. Così alla fine non era riuscito a sfruttare gli spunti offerti da Yao per costruire una conversazione decente, e quando lo vide sistemarsi sulla sedia e volgere lo sguardo altrove, arricciando il naso, capì di aver sprecato una grande occasione.
 
Non ci aveva messo molto per capire che la presenza di Yao era ovunque in quella casa, anche quando il suo corpo non era lì. Era nella segreta ammirazione di Honghui, e negli elogi non tanto velati della signora Wang. Era nel luccichio negli occhi dei domestici quando lo sentivano bussare alla porta della cucina. Era anche nei commenti piccati di Mei, che anche quando cercava di distogliere l'attenzione da lui alla fine finiva comunque per tirarlo in ballo in un modo o nell'altro. Perfino Li, che sembrava tra tutti il più indifferente rispetto al fratello, sembrava del tutto ignaro di quanto la sua vita fosse piena di lui, lui che emergeva dai libri che Li citava a memoria e dalla sua tendenza naturale di rivolgergli lo sguardo quando una discussione si faceva interessante.
Era una figura immensamente ambigua. Chi non lo conosceva poteva pensare che fosse un controrivoluzionario, visto come portava i capelli – lunghi, ma non rasati sul davanti come un Manciù²¹ –, ma bastava parlarci pochi minuti per capire che si trattava di un progressista fatto e finito. Aveva letto il Daodejing a soli dodici anni e conosceva a memoria tutto il Lunyu²², e non si sa come riusciva a citarli insieme a Marx. Passava tutto il giorno chiuso nella sua stanza a compilare la sua tesi infinita, usciva solo per fumare sul portico e sfidare Honghui a go.
 
Alla mattina, Kiku si svegliava quando ancora la casa era avvolta nel silenzio. Una delle finestre della sua stanza si affacciava sul cortile interno, e da lì poteva vedere l'edificio principale, dove i Wang custodivano l'altare degli antenati²³. A quell'ora l'unico rumore udibile era lo scorrere lento dello Yangze, la nebbia violacea avvolgeva le gole e sfumava i contorni delle cose, così che i riflessi verdognoli e bluastri del fiume si confondessero coi primi raggi dorati del giorno. Attraverso quella coltre umida, il buio dell'edificio principale veniva a un tratto rischiarato dal bagliore rosso dell'incenso appena acceso, che gettava morbide ombre sul profilo sottile di Yao. Kiku lo osservava chinarsi in silenzio accanto alla grande finestra esagonale, morbide ciocche scure cadevano dalla sua schiena oltre le sue spalle come una pioggia d'inchiostro. Poi sollevava il viso pulito e si sistemava i capelli dietro alle orecchie in assoluta compostezza, difficile pensare che non sapesse di essere osservato, e spariva nella penombra, lasciando posto al riflesso di Kiku sul vetro.
 
 
***
 
Hanno trovato una casa vuota. Il sole era sparito dietro alle montagne da un po' e il villaggio era ancora lontano. Poi un unico blocco di pietra bianca, sormontato da un tetto ricurvo, ha fatto la sua comparsa sull'acqua torbida della risaia abbandonata. Si sono guardati in silenzio per meno di un secondo e sono entrati senza dirsi una parola. La porta era socchiusa, così quando Yao ha bussato si è aperta con un cigolio. Al centro della stanza c'è un tavolo quadrato con due sedie, due letti agli angoli della parete di fronte a loro; sulla destra, una credenza e un telaio affiancano un focolare sporco d fuliggine; sulla sinistra un tavolo più piccolo macchiato di cera rossa dev'essere stato un altare per i defunti. A parte questo, la stanza è completamente vuota. Yao guarda bene sotto ai letti, controlla che non ci sia una cantina o altri possibili nascondigli per un soldato giapponese che potrebbe aver avuto la loro stessa idea. Niente. Non c'è sangue sulle pareti o sui pavimenti, le uniche persone a essere state lì prima di loro devono essere scappate appena ne hanno avuto l'opportunità.
Dopo aver acceso la lampada a gas, Yao tira fuori le razioni alimentari dallo zaino e le distribuisce sul tavolo senza troppe cerimonie, poi si mette a sedere. Dopo un po' si accorge che Kiku non l'ha imitato, è fermo in mezzo alla stanza a guardare un angolo. Yao alza un sopracciglio.
«Non ti siedi?»
«Non ho fame.»
Cazzate. Yao ha sentito il suo stomaco lamentarsi per tutta la durata del tragitto, quel ragazzino sta cercando di lasciarsi morire di fame.
«Hai cinque secondi per sederti e iniziare a mangiare, dopo di che giuro che ti imbocco io a forza.»
Se c'è una cosa che detesta è assistere alle umiliazioni altrui, e più di questo detesta farne parte. Perciò spera che Kiku non lo metta alla prova, e rilassa i muscoli delle spalle quando dopo il suo «uno...» l'altro decide di mettersi a sedere.
Consumano in silenzio le rispettive porzioni di riso scotto con verdure, c'è una scatoletta di tè nelle razioni, ma Yao non ha voglia di perdere tempo a scaldare l'acqua. Uno, è sicuro che se anche trovasse una teiera lì dentro, quasi sicuramente sarebbe coperta di polvere e bisognerebbe camminare fino al pozzo più vicino per poterla sciacquare; due, si sente già un intruso seduto a quel tavolo spoglio dove altre persone hanno condiviso pasti, brindato e digiunato sedute al suo posto, non se la sente di accendere il focolare. Berranno l'acqua delle borracce²⁴.
Kiku lo sta fissando.
«Che c'è?»
«Nulla, riflettevo.»
«Mh.»
«Perché ti chiamano Miao Dao
Yao manda giù un boccone, gli pianta gli occhi addosso. «Perché ho decapitato quaranta ufficiali giapponesi col miao dao a Changsha. Non hanno fatto in tempo a fare seppuku.²⁵»
Kiku ricambia lo sguardo, forse è colpa della stanchezza ma questa volta non riesce ad alzare il solito muro tra loro. Dal modo in cui abbassa di nuovo gli occhi è chiaro che lo scambio di battute l'ha scosso.
Tenendo il capo curvo e sollevando gli occhi può spiare il ragazzo di fronte a lui. Ha sempre la stessa corporatura minuta, la stessa espressione (quasi) impenetrabile. Gli hanno tagliato i capelli cortissimi anche sul davanti. Yao scuote la testa. I capelli non glieli hanno rasati a forza, non lo hanno costretto a indossare l'uniforme, ha scelto lui di farlo. Ha scelto lui di andare in un paese straniero armato fino ai denti a fare strage di civili. Ha scelto lui di aprirgli la schiena come per sventrare un pesce. Come ha fatto a riconoscerlo sul campo di battaglia? Adesso non può vedere che un automa di fronte a sé, uno di loro, uno fra tanti. Il ragazzo con lo yukata indaco che ha conosciuto nel Jiangsu non esiste più, il tempo e la distanza l'anno cambiato. O forse è sempre stato così, e lui non se n'era mai accorto. Forse è questa la sua penitenza: guardare un pezzo di se stesso e fingere di riconoscerlo.
Kiku solleva il capo su di lui, si è accorto di essere osservato. Yao sostiene la sua occhiata interrogativa senza battere ciglio. «Va' a dormire, domani si riparte all'alba.»
Liberano in fretta il tavolo e poi Kiku si siede su un letto per levarsi gli anfibi. Intanto Yao si spoglia della parte superiore dell'uniforme e prepara il disinfettante e le bende per pulire la cicatrice. Ma dopo i primi tentativi fallimentari di raggiungere la ferita da sé diventa palese che gli è impossibile medicarsi la schiena da solo, e senza neanche l'ausilio di uno specchio. Si lascia sfuggire un'imprecazione quando le bacchette che reggono un batuffolo di cotone gli scappano dalle mani. Un bel respiro. Evidentemente la sua espiazione non è ancora finita.
«Ehi, sei sveglio?»
Un fruscio di coperte dietro di lui.
«Più o meno.»
Yao si passa una mano sul viso. Non può rischiare che la ferita si infetti, e poi ormai lo ha chiamato.
«Non riesco a medicarmi da solo. Mi serve aiuto.»
Umiliante. Kiku però si alza senza fare commenti, e sempre in religioso silenzio si siede dietro di lui e si disinfetta le mani. Almeno non deve guardarlo in faccia. Il contatto col cotone imbevuto brucia come un fuoco, ma Yao non emette un suono. Sa che l'uomo dietro di lui sta trattenendo il respiro, che sta evitando il contatto diretto tra le sue mani e la pelle della sua schiena. Sa che prova ancora vergogna.
«Ho finito» sussurra. Yao si strofina la punta del naso, prima di alzarsi dalla sedia su cui stava a cavalcioni, poi inizia a frugare nello zaino. Quando si volta, Kiku distoglie lo sguardo. Yao posa un cambio d'abito sul tavolo.
«Tieni.»
«Come?»
«Domani arriveremo a un villaggio che è stato liberato dai giapponesi solo ieri. Senti, detesto assistere alle umiliazioni e credimi, se arrivati lì avrai ancora addosso quell'uniforme, allora ne vedremo un paio.»
Kiku rimane in silenzio per un po'. La lampada a gas gli getta ombre gravi sul viso, e mentre Yao si allunga per riprendersi la canottiera lo sente parlare.
«No.» Sembra davvero sicuro.
«No?»
«Questa uniforme è il simbolo della mia lealtà all'imperatore. Se questo significa subire la rabbia dei civili allora sopporterò con onore.»
Yao lo guarda aggrottando la fronte, ci mette un po' a processare il senso di ciò che ha appena sentito. «Onore?»
Kiku prende un respiro, addolcisce lo sguardo come se dovesse spiegare un concetto di fisica quantistica a un bambino di quattro anni. «Lo so che non condividi. Il governo ci dipinge come invasori e barbari, ma la verità è che stiamo dalla stessa parte. Vogliamo ridare all’Asia la dignità che gli europei ci hanno tolto, capisci? Lottiamo anche per voi. Il resto è propaganda-
«Ma di che cazzo stai parlando?»
Kiku ha cercato di non darlo a vedere, ma ha sussultato. Yao avanza verso di lui.
«Le vite di chi, avete migliorato? Degli orfani di guerra?»
«Dei sacrifici sono necessari –
«Sacrifici? Quello che è successo a Nanchino²⁶ vuoi chiamarlo sacrificio?»
«Yao –
«Vuoi chiamarli sacrifici tutti i ragazzini che vi siete divertiti a infilzare con le baionette in mezzo alla strada?» Nel giro di una frazione di secondo Yao gli afferra le guance con la mano destra e il colletto dell'uniforme con la sinistra, sollevandolo a qualche centimetro dal pavimento e costringendolo spalle al muro.
«Yao!»
«Mai, in tutta la mia vita, ho visto corpi trattati con la stessa crudeltà che avete riservato a quella povera gente.»
«Mi fai male!»
«Non avete avuto rispetto neanche per i cadaveri! Erano persone, razza di bastardo, e non hanno avuto pace neanche da morte! Come puoi anche solo pensare di potermi parlare di onore, vestito come uno di loro?»
«Lasciami!»
«E tu sei uno di loro! Tu e la tua gente, siete dei demoni!»
Ha perso la presa, Kiku è crollato in ginocchio. La mano destra gli slitta sul muro in cerca di un appiglio e si abbatte sul pavimento. Tutto il suo corpo trema, e i suoi respiri pesanti talvolta terminano in gemiti.
Yao arretra di un passo. Sposta lo sguardo dalla figura rannicchiata addosso al muro sui palmi delle proprie mani. Trema anche lui. Sente il cuore martellargli nel petto come a voler esplodere, la gola gli brucia. Non si era accorto di urlare tanto forte da graffiarsi le corde vocali. Si porta una mano al collo, lancia una breve occhiata a Kiku prima di voltargli le spalle. Raccoglie la canottiera da terra e si passa una mano sul petto.
«Ripartiamo all'alba. Va' a dormire.»
Kiku tira altri due respiri tremanti, dopo di che deglutisce rumorosamente e si schiarisce la gola. Si solleva con una certa fatica; Yao vorrebbe aiutarlo, ma non trova il coraggio di guardarlo, di toccarlo.
Cosa si sono fatti?
Avrebbe dovuto lasciare le cose come stavano, avrebbe dovuto ringraziarlo per avergli ripulito la ferita, mettersi a dormire, e non toccare niente.
 
 
 
 
 
_____
Note (sì lo so che è un papiro, abbiate pazienza):
 
  1. Cito Treccani: «In Cina quando una grave sciagura opprimeva il paese, il sovrano faceva per scritto dichiarazione dei suoi peccati, si ritirava fuori della città, e si tagliava unghie e capelli.»;
  2. mūqin: “madre”, termine un po' più alto rispetto al colloquiale mā-ma;
  3. Honghui: il nome che ho scelto per Macao;
  4. wushu: nome che indica le arti marziali cinesi in generale;
  5. xiǎo 'er: “figlio”, “figliolo”;
  6. wéiqí: più conosciuto come go, è un gioco da tavola per due simile agli scacchi, il cui scopo è il controllo di una zona del goban (scacchiera) maggiore di quella controllata dall'avversario;
  7. Mei: Taiwan;
  8. mèi-mei: “sorellina”, “sorella minore”, da non confondere con “Mei”, che anche se si pronuncia in maniera simile è un nome proprio e si scrive con un carattere diverso;
  9. fùqin: “padre”, anche in questo caso si tratta di un registro alto;
  10. dì-di: “fratellino”, “fratello minore”;
  11. xiǎo Rìběn / guǐzi / Rìběn guǐzi: letteralmente, “piccolo giapponese”, “demone”, “demone giapponese”, sono tutti appellativi dispregiativi usati contro i giapponesi durante la Seconda Guerra Sino-Giapponese;
  12. Estratto dal Senjinkun (codice militare giapponese dell'epoca): «Chi conosce la vergogna è debole. Pensa sempre a [preservare] l'onore della tua comunità e sii un vanto per te e la tua famiglia. Raddoppia i tuoi sforzi e rispondi alle loro aspettative. Non vivere mai per provare la vergogna di essere prigioniero. Morendo eviterai di lasciare una macchia sul tuo onore.»
  13. Āiyā: questa è un po' scontata, si tratta di un'esclamazione che esprime stupore o meraviglia;
  14. huàidàn: letteralmente “uovo marcio”, “uovo andato a male”, da tradurre come “bastardo”;
  15. Il/la miao dao è un'arma bianca simile a una katana, parte dell'equipaggiamento di alcuni degli ufficiali cinesi durante il secondo conflitto;
  16. tǔgòng: termine dispregiativo che indica i comunisti;
  17. Chongqin è una città del Sichuan che dopo la caduta di Nanchino (allora capitale) per mano dei giapponesi venne istituita capitale dai nazionalisti;
  18. musuko: “figlio”, “figliolo”;
  19. machiya: case tradizionali di città che insieme alla noka (abitazione di campagna) costituiscono i due tipi di architettura vernacolare giapponese;
  20. Giuro che quando ho scoperto questa cosa ho avuto una sorta di illuminazione; in pratica i pechinesi hanno la tendenza ad arrotare le ultime sillabe delle frasi, e questo spiega perché nell'anime Yao ha questo tic verbale (ricordiamo che in giapponese la “u” di aru dovrebbe essere muta);
  21. I Manciù (o Manchu, mancesi o Jurchen) erano un'etnia di stirpe mongola che a metà del XVII secolo sconfisse i Ming e occupò la Cina, instituendo la dinastia Qing; durante il periodo di regno dei mancesi per gli uomini era obbligatorio portare i capelli rasati a zero sul davanti e lunghi, intrecciati, sulla nuca, chi tagliava i capelli o li lasciava crescere anche sulla parte anteriore del capo veniva condannato a morte; dopo il crollo dei Qing nel 1912 e l'instaurazione della Repubblica, chi portava i capelli lunghi veniva visto come “controrivoluzionario”; dunque, lo so che i capelli lunghi di Yao in 'sto periodo storica sono proprio un dito in un occhio, però non mi piaceva l'idea di eliminare questo elemento nel design del personaggio, e in più credo possa servire a descrivere la sua natura un ambigua, a cavallo tra rivoluzione e tradizione;
  22. Andiamo con ordine: il Dàodéjīng (scritto anche Tao Te Ching), ovvero “Libro della Via e della Virtù”, è un testo taoista composto tra il IV e il III secolo a.C.; il Lunyu, tradotto come “Dialoghi”, è una raccolta di citazioni, pensieri e conversazioni di Confucio, curata dai suoi allievi dopo la sua scomparsa (e che nell'era di internet hanno finito per essere condivise in massa dai boomers su Facebook su sfondi con foto di tramonti e con un font orrendo tipo papyrus); in entrambi i casi si tratta di testi cardine per lo studio del pensiero cinese, e la cui eco è presente anche nella società cinese contemporanea, e più in generale su tutto l'Estremo Oriente;
  23. Parte fondamentale del pensiero confuciano è la devozione alla famiglia e agli antenati, motivo per cui ancora oggi nelle case degli orientali (in particolare in Cina, ma non solo), è possibile trovare altarini con foto e ritratti di parenti defunti con salti generazionali importanti, di solito arricchiti con candele e offerte;
  24. In Cina bere acqua a temperatura ambiente o fredda durante i pasti non si usa, ecco perché nei ristoranti cinesi tradizionali si trova sempre una teiera sul tavolo, a meno che non si ordini una zuppa, che viene servita e consumata come una bevanda;
  25. Questa molti di voi la sapranno già, altri avranno intuito leggendo l'estratto del Senjinkun; comunque, il seppuku o harakiri è il suicidio rituale giapponese, eseguito dai samurai (poi anche dai prigionieri di guerra giapponesi) in seguito a una sconfitta o a un forte disonore, che prevedeva l’esecuzione di una ferita profonda all’addome con un pugnale (tantō); per preservare ulteriormente l’onore del samurai, interveniva la figura del kaishakunin, un fidato compagno che aveva il compito di decapitare il suicida in modo che il dolore provocato dal taglio non sfigurasse il volto di quest’ultimo;
  26. Il massacro di Nanchino, conosciuto anche come stupro di Nanchino, è stato un insieme di crimini di guerra commessi dall'esercito giapponese tra il 1937 e il 1938; in sole sei settimane, i soldati giapponesi uccisero 300.000 persone, e attuarono le violenze più atroci contro civili e prigionieri di guerra; scusate se non inserisco altre informazioni, ma temo di non essere in grado di rendere giustizia alla gravità dei fatti accaduti in poche righe; se l'argomento vi interessa Wikipedia ha una pagina molto dettaglia, ma ne sconsiglio la lettura a persone sensibili.
 
 
  
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