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Autore: holls    06/01/2022    7 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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17. Terra bruciata

                  

 

I materiali polimerici hanno una modesta resistenza meccanica a temperature elevate, tant’è che solo alcuni possono essere impiegati a temperature maggiori di 250°. Sono scarsamente solubili e hanno una densità modesta…

 

Stronzo.

 

… Sono scarsamente solubili e hanno una densità modesta, generalmente inferiore a 1,5 g/cm3, raramente sotto 1 g/cm3; solo il politetrafluoroetilene, comunemente detto teflon, ha una densità superiore ai 2 g/cm3.

 

Avevo fatto la cosa giusta.

 

… poli-tetra-fluoro…

 

Chiusi le dispense e sbuffai. Non era possibile studiare con la coscienza che ti fa la morale.

Sapevo di aver fatto la cosa giusta a mandare quel messaggio. Quello di Alan era stato l’ennesimo colpo basso ed era giusto che finisse così. E per quanto la mia mente continuasse a dirmi che era tutto una gran cazzata - grazie, mente -, io sapevo che avevo seguito l’unica scelta possibile.

Mi sventolai con la mano per scacciare il gran caldo, ma era impossibile: qualche pazzo aveva lasciato la finestra dell’aula aperta, tanto per allietare lo studio con afa e smog. C’era una puzza di discarica da far uscire di cervello e le imprecazioni che si sentivano dalla strada non aiutavano a concentrarmi. Ero costretto a rileggere più volte gli stessi paragrafi e spesso le solite righe - colpa del casino là fuori, mica di quello dentro la mia testa.

La mia era stata una decisione saggia, di quelle che avrebbe preso una qualunque persona con un po’ di sale in zucca.

Ma forse, in fondo, avrei fatto più bella figura a sparire direttamente. Nel momento in cui mi ero arrabbiato con lui, gli avevo fatto capire che ero interessato a quell’amicizia, morta ancora prima di cominciare davvero; e questo era o non era un colpo basso?

Per non parlare del fatto che ci avevo fatto la figura dello stizzito che se l’era presa e che stava ancora lì a rimuginarci su.

… Be’, sì, in effetti era così: rimuginavo nella speranza di trovare un modo per non farlo più.

Il problema era che più ci pensavo, più mi sentivo ferito nell’orgoglio, perché ancora una volta non riuscivo a fregarmene di quello che era successo e della sua reazione, non riuscivo a togliermi dalla testa che forse lo avevo ferito. Non la smettevo di preoccuparmi di quello che poteva provare e maledizione quanto mi odiavo!

Quanto!

Riaprii le dispense, pronto a ricominciare da capo.

Stappai l’evidenziatore e mi impegnai a sottolineare solo le frasi che leggevo davvero.

 

I materiali polimerici hanno una modesta resistenza meccanica a -- temperature maggiori di 250°. Sono scarsamente solubili e hanno una densità -- politetrafluoroetilene, comunemente detto teflon, ha una densità superiore ai 2 g/cm3.

 

Senza senso.

Cosa stavo leggendo?

Mollai l’evidenziatore e mi passai le mani sul viso, come se potesse aiutarmi a trovare la concentrazione che continuavo a perdere. Mancavano tre settimane a quella cavolo di prova e io ero indietrissimo, consapevole che lo sarei rimasto forse fino alla scadenza.

Osservai sconsolato i grafici sulla resistenza alla rottura dei materiali polimerici - una linea sinuosa che andava su e giù.

Sospirai di nuovo. Alzai gli occhi verso gli altri ragazzi presenti in quella stanza e desiderai essere uno di loro, uno qualunque, uno che non avesse tutta quella merda a cui pensare.

Perché non c’era solo Alan; c’era pure Harvey.

E io lì, da solo, a domandarmi dove fosse e in quale giro schifoso si fosse cacciato. Quella notte mi ero pure sognato il bigliettino; sognavo che la polizia entrava in casa e trovava un pacco, dove dentro c’era qualcosa di pericoloso - e il poliziotto non era Alan, ne ero certo. La sua faccia era più simile a una chiazza di melma scura che a un volto, ma non era lui. Nel mio sogno avevo tante di quelle tipiche certezze che non puoi considerare tali, ma che sai che sono vere perché le senti.

E poi c’era Ryan. Il cazzotto in piena faccia più doloroso di tutta la mia esistenza. Ripensavo all’amico ingrato che ero stato, perché forse definirmi “amico” era pure troppo.

Ryan non aveva mai fatto parte della mia vita, se non quando eravamo due ragazzini innocenti, quando io lo accompagnavo a guardare le partite di pallavolo delle ragazze. A fine partita si faceva notare da loro con una limonata ghiacciata e un paio di battute spiritose piazzate qua e là, ma era già su un altro mondo rispetto a me, che di quelle faccende non ci capivo nulla. Ogni tanto giocavamo a pallone, quando mio padre - altra vagonata di merda di cui facevo volentieri a meno - non mi portava a vedere le partite di baseball.

Ma cosa c’era mai stato più di quello? Cos’è che ci aveva tenuti uniti, in quegli anni?

Forse era il ricordo di qualcosa che era stato e che non sarebbe tornato più. Forse era il ricordo degli anni spensierati, che pensavamo di poter far tornare indietro solo stando insieme; e invece non ci eravamo accorti che l’orologio aveva continuato a ticchettare sopra le nostre teste, che eravamo stati messi di fronte a scelte che ci avevano portato su binari diversi. E io che spesso lo guardavo da lontano, nella speranza che i nostri treni tornassero a essere uno solo, ma non era possibile, perché ci saremmo scontrati e ci saremmo distrutti.

Ecco, indietro non potevo tornare.

Non potevo farlo con Ryan, né con mio padre, tantomeno con Alan.

Era una lezione difficile da digerire, ogni volta. Dovevo imparare a capire che le cazzate hanno un costo e che io sceglievo sempre quelle col prezzo più alto. Avevo trovato talmente tanti ragazzi disposti a perdonarmi tutto, come zerbini, che forse ci avevo preso un po’ la mano.

E poi arrivavano tipi come Alan e col cavolo che erano disposti a stare dietro ai miei cambi d’umore. Col cavolo che si sarebbero portati un po’ del mio peso.

Col cavolo, a dispetto di tante promesse.

Tanto era sempre così: arrivati al momento clou, scappavano tutti, e col cavolo che tornavano indietro.

 

La sedia accanto a me divenne occupata. Lanciai un’occhiata fugace e mi accorsi che era Steve Griffiths, altrimenti detto SteveMerda. L’ameba era tornata all’attacco, ma dovetti ammettere che quella mattina non aveva la solita aria da maniaco. Si sedette accanto a me, mentre io ormai sventolavo bandiera bianca, visto che studiare era impossibile, tantomeno con quella ciliegina sulla torta.

Lui si voltò verso di me e io mi sentii invaso da un senso di repulsione.

«Sei ancora arrabbiato con me, Nate?»

«Non chiamarmi in quel modo, lo odio.»

«Mi sembri un po’ agitato, o sbaglio?»

Presi un bel respiro e buttai fuori. Non gli risposi.

«Sei ancora arrabbiato per quella storia di Alan, scommetto. Che cattivo è stato, a dirmi che la vostra relazione era solo una farsa.»

Stetti zitto. Tra una chiacchiera e l’altra, Steve mi aveva detto che sapeva che Alan non era davvero il mio ragazzo e quindi, incuriosito, gli avevo domandato cosa glielo facesse pensare. Con sconvolgente tranquillità, mi aveva rivelato che era stato Alan stesso a dirglielo, la sera della festa.

E così mi ero arrabbiato.

No, macché: ero andato su tutte le furie.

Perché quando trovi una persona che fa della moralità il suo cavallo di battaglia, non ti aspetti che faccia il gioco sporco in quella maniera. Subito dopo avevo pensato che cose del genere potevano anche capitare, per poi ricordarmi l’attimo successivo del Webster Hall e di come si fosse finto interessato alla “questione Ryan” solo per portare avanti delle indagini.

Probabilmente, era stato lo stesso per la festa. Aveva accettato all’improvviso e dopo una telefonata, forse da qualche suo superiore. Io avevo creduto che ci fosse venuto volentieri almeno un po’, e invece era stata l’ennesima farsa; me lo aveva dimostrato spiattellando a Steve tutto il mio piano, mentre io cominciavo a considerarlo un amico e qualcuno di cui fidarmi.

Ci ero rimasto molto male.

Tutte le volte che lo avevo beccato a guardarmi stava sicuramente pensando quanto fossi stupido a credere a quella messinscena.

«Sì, sono arrabbiato con Alan, ma tanto è una cosa che non mi riguarda più.»

«Oh! Sono felice di sentirtelo dire.»

«Perché così ho qualche speranza di interessarmi a te?»

Steve ridacchiò.

«No, carino, stavolta non c’entri. Anzi, a esser sincero, non mi importa più di te.»

Sono sicuro che, in quel momento, il mio cuore perse un battito.

Finalmente mi sarei sbarazzato di Steve, era vero, ma…

«Come sarebbe?»

«Il mondo mica ruota intorno a te, sai? Voglio provarci con Alan.»

Mi scappò una risata con pernacchia.

Quella cosa non aveva alcun senso, figurarsi se Alan avrebbe accettato di frequentare uno come Steve! Già me lo immaginavo, mentre l’ameba cercava di palpargli il fondoschiena o gli sussurrava frasi sconce da vero camionista.

«Sei fuori, Steve. Alan non accetterà nemmeno tra un milione di anni.»

«Ne sei sicuro?»

Sì che lo ero - Alan era troppo preso da Oliver per pensare a qualunque altro uomo. E poi, Steve non era proprio il suo tipo.

«Abbastanza.»

«Strano, perché gli ho mandato un messaggio e ho pure ricevuto una risposta.»

Per un attimo mi allarmai anche, la mia mente fu un guazzabuglio di pensieri.

Alan e Steve? Ma fatemi il piacere.

Che risposta gli aveva dato?

Mi aveva fatto due scatole così con la storia di Oliver e ora accettava di uscire col primo che capitava?

… In effetti, però, io non glielo avevo mai chiesto.

Avrebbe accettato?

«Frena, Steve, non fare il furbetto con me. Chi ti avrebbe dato il suo numero?»

Mi si avvicinò un po’ e mi guardò con uno sguardo che non mi piaceva. Aveva una risposta e non era inventata sul momento.

«Fai male a lasciare il cellulare incustodito, carissimo Nate.»

Mi sentii su un ring, steso a terra per il colpo finale. L’arbitro aveva cominciato a contare: dieci, nove, otto… Sarebbe arrivato presto allo zero.

Mi mancavano le parole.

Io ero stato a mandare messaggini con tono di guerra per una stronzata - grazie, mente -, e lui aveva approfittato di quell’attimo per infilarsi tra di noi.

«Non ci credo. Fammi vedere.»

Lui rise ancora e somigliò molto al cattivo di turno dei film, che sa di avere il coltello dalla parte del manico e ti deride per il tentativo di portarglielo via.

Immaginai che avrebbe inventato qualche scusa per ritardare il momento in cui mi avrebbe mostrato il messaggio, e invece mi passò il telefono con un sorriso beffardo sul viso.

«Ecco qua.»

Il messaggio c’era. Diceva: “Mercoledì alle 17:30 va benissimo. Alan.”

Non era suo, non poteva essere. Sì, in fondo c’era la sua firma e quello era un suo tratto distintivo, ma non poteva essere suo.

Non poteva e non doveva.

Allora mi venne in mente di controllare il numero e corsi frettolosamente tra quei menù per poter vedere i dettagli. Scorrevo le cifre e speravo sempre che la successiva fosse sbagliata, diversa da quella che ricordavo e che era salvata sul mio telefono.

E invece no.

Il numero era quello, il messaggio esisteva e chiedeva a Steve di incontrarsi.

Gli resi il telefono senza dire niente; non alzai nemmeno lo sguardo.

«Quindi uscite insieme?»

La voce mi aveva tremato ed ero quasi certo di aver balbettato.

L’avevo sentita - cavolo! - e avevo balbettato come a gennaio quando hai la mascella congelata che batte da sola.

«Chi lo sa. Sei curioso?»

Steve si avvicinò a me, con una rivincita negli occhi che non gli avevo mai visto.

«Come ci si sente a essere messi da parte, Nathan? Come ci si sente ad essere dalla parte degli sfigati?»

Ero sul palcoscenico vuoto, di nuovo. C’era silenzio, come sempre. Ora non c’erano più neanche i pop-corn per terra, segno che nessuno passava di lì da molto, molto tempo. Però, se stavo in silenzio, qualcosa sentivo: erano le battute del teatro accanto, erano gli applausi dei genitori fieri dei loro figli, erano le acclamazioni di successo di quelli che ti stanno intorno.

Tutto quel rumore era un’eco. E il mio teatro era talmente vuoto che la solitudine faceva da cassa di risonanza.

«Tanto, figuriamoci se durate.»

«La ruota gira sempre, vero? E come sarebbe divertente se qualcuno venisse a scoprire il tuo piccolo segreto?»

Uno, due, forse anche cinque battiti andarono persi.

Il mio segreto - panico.

Panico-panico-panico.

«Non lo faresti mai.»

E la voce mi tremava ancora - cavolo!

«No, non lo farò. Ma non osare intrometterti, hai capito? Tu non sei nessuno, Nathan, e non mi pare che ad Alan importi così tanto di un bambino viziato come te.»

«Sei venuto qui solo per dirmi questo?»

«Sì. Volevo darti la bella notizia di persona. Bye-bye, Nate.»

Steve se ne andò, così come era arrivato, lasciando che il treno della sua notizia mi passasse sopra senza troppi complimenti.

 

Rimasi imbambolato per almeno dieci minuti a fissare il vuoto e a domandarmi com’era potuta succedere una cosa del genere.

Avevo creduto di essere io il fiore raro, il treno da non perdere e invece era Alan che era partito senza nemmeno il fischio del capotreno.

Non me ne ero neanche accorto.

Alan e Steve.

E io che a lui non ci avevo neanche pensato in quel senso, visto tutte le cose che mi aveva raccontato! Avevo lasciato da parte tutto il suo fascino per lasciare che si riprendesse dal suo lutto.

Quanto mi si era capovolto il mondo?

Nemmeno una settimana prima avevo come l’impressione che tra noi due ci fosse un’affinità impalpabile, un’intesa incredibile che potevi solo vivere, perché non c’erano parole per descriverla.
          Ora, però, c’era Steve.

Sarebbe diventata la sua nuova distrazione - per quanto a lungo non era dato saperlo; e chi si sarebbe mai ricordato di Nathan, quel ragazzino stupido che fa solo battute stupide, che scrive solo messaggi stupidi, perché - cazzo!

È

STUPIDO

!

Avrei dovuto essere sincero fin dall’inizio, un po’ meno orgoglioso e provare a risolvere la questione civilmente.

Ma poi, quale questione? Quella stupidata della festa?

Seriamente?

Avevo raggiunto una nuova vetta di pateticità.

Mi meritavo la solitudine. Mi meritavo di essere invidioso delle vite degli altri. Mi meritavo di guardare da lontano qualcuno che non avevo saputo tenermi stretto e che si stava rifacendo una vita.

Il capotreno aveva fischiato, in verità; ma io ero stato troppo preso da me stesso per poterlo sentire.

 

Avrei condotto la mia indagine da solo. Alan mi serviva per il suo occhio clinico, se così lo si poteva definire, ma ero abbastanza certo di essere altrettanto dotato di un cervello e che il suo aiuto non fosse così essenziale.

Uscii dall’università in fretta e furia e, non appena fui abbastanza vicino a un fast food, qualcosa mi fece attorcigliare le budella. Gettai un’occhiata rapida all’interno e per un attimo immaginai di vederli lì. Alan e Steve, a chiacchierare amabilmente, o, più probabile, a sparlare di me. Avrebbero riso della mia ingenuità, di come erano stati bravi a farmela sotto il naso.

Stronzi, tutti e due.

Tirai di lungo e mi ripromisi di non allungare gli occhi su locali dov’era possibile conversare e decisi di concentrarmi solo sul mio obiettivo.

La metro mi portò rapidamente sulla trentaquattresima. Camminavo sul marciapiede con gli occhi bassi, forse perché temevo che qualcuno mi riconoscesse. Sapevo che in quel locale non girava niente di buono, ma c’erano troppe cose che volevo capire, e la cattiva fama non mi avrebbe scoraggiato.

Non appena misi piede all'interno, rimasi sorpreso dall'arredamento. La volta che ero venuto con Harvey non ci avevo fatto caso, o forse non mi sembrava così strano che un McDonald avesse sgabelli da bar colorati e tavoli di plastica lucida così ben tenuti; eppure, nonostante la clientela che circolava lì dentro, l'ambiente era accogliente e pulito. Non c'erano cartacce per terra o chiazze appiccicose da scansare con slalom atletici, ma, al contrario, il pavimento era ben lucido, i tavolini lindi e non c'era una lampadina bruciata. L'ambiente colorato del fast-food aveva la stessa lucentezza di un qualunque locale di quel tipo nelle zone più ricche.

Al bancone c'era sempre lui, il vecchio burbero della scorsa volta. Di lui mi ricordavo bene visto il modo in cui mi aveva trattato. Avevo ancora stampato nella mente lo sguardo truce che mi aveva rivolto, e mi resi conto che era lo stesso che mi aveva incollato addosso da quando avevo messo piede nel suo locale. Mi bastava muovere un passo perché le sue sopracciglia si aggrottassero e i suoi occhi diventassero molto più simili a una minaccia. Alla fine, decisi di non guardarlo più e di farmi gli affari miei.

La clientela era sempre la stessa, con quello sguardo perso di chi ha in testa solo la dose successiva, come se non sapesse guardare più in là. Seduto a un tavolino, da solo e col giornale sportivo in mano, ogni tanto era possibile scovare qualche signore in giacca e cravatta che, con ogni probabilità, lavorava in uno dei grattacieli nei dintorni.

Quel giorno ce n'era uno solo, che mordeva l'hamburger mentre leggeva le ultime imprese dei New York Mets. Non si era neanche accorto che gli era rimasta un po' di insalata incollata sulla faccia.

Io avevo voglia di uscire fuori da quel posto il più velocemente possibile. Mi feci largo tra i tavolini colorati, occupati da quelli che potevo considerare zombie, e indirizzai i miei passi verso il bagno. Come poggiai la mano sulla maniglia, notai tracce di polvere bianca.

Come già avevo sospettato, lì dentro non si vendevano solo patatine. La domanda, però, rimaneva la stessa: chi vendeva loro la cocaina? E il bigliettino che avevo trovato c'entrava qualcosa?

Non appena fui lontano da occhi indiscreti - non che quegli occhi ciechi fossero pericolosi -, estrassi il foglietto dalla tasca dei pantaloni. Provai a rileggere quanto c'era scritto, ma quelle parole non mi dicevano niente, tantomeno le cifre. Alan aveva ipotizzato una lettura per righe, ma centoventi dollari per una lattina di soda mi parevano un po' eccessivi, a meno che la soda non fosse qualcos'altro.

Ficcai nuovamente il bigliettino in tasca e aspettai che uno degli occupanti uscisse dal bagno. Come avevo già avuto modo di appurare, non aveva tirato lo sciacquone prima di uscire, né si era lavato le mani.

Ero curioso di dare un'occhiata, così mi infilai dentro al bagno. Non appena entrai, cominciai a sospettare che la porta fosse in realtà un portale per un'altra dimensione. La prima cosa che ti colpiva come un boomerang a tutta velocità era la puzza incredibile. Non appena mi fui richiuso la porta alle spalle, mi accorsi che la luce della lampadina andava e veniva; e, quando illuminava l'ambiente, si poteva notare la seggetta piena di pedate, capelli incrostati e residui non meglio identificati.

Per avvicinarsi al gabinetto bisognava avere fegato o il naso turato. Quell'ultima osservazione mi fece capire che forse la mia affermazione non era tanto lontana dalla realtà di coloro che circolavano in quei bagni.

Mi guardai intorno e non notai niente di strano, se si escludeva la porta piena di scritte, talmente fitte che ormai non si riusciva più a vedere lo strato di vernice originale. Decisi di uscire e di tornare in quel luogo che, al confronto, sembravano quelli di una reggia.

Io però avevo bisogno di informazioni. Quello era il posto dove mi aveva portato Harvey, e io sapevo che sniffava cocaina, per quanto avessi voluto negarlo. Lo avevo sempre saputo, dovevo solo ripeterlo ad alta voce nella mia testa e imparare ad accettare il presente per come era.

Harvey sniffa cocaina.

In quel momento ebbi come una rivelazione, che arrivò così fulminea da paralizzarmi per un attimo. Anche se ormai mi appariva come un’ovvia verità, mi resi conto che il ragazzo con cui uscivo non mi avrebbe portato niente di buono e che grazie all’impulso di un momento avevo perso l'unico amico che credevo di avere. Nonostante questo, però, sentivo ancora il desiderio di capire le motivazioni che avevano portato Harvey e Ryan in quel giro, nonché di scoprire cosa avrei potuto fare per loro.

Mi piazzai quindi nell'antibagno e, non appena sentii la serratura scattare, mi misi sull'attenti. Dalla porta uscì un ragazzo sui trent'anni, con la barba a chiazze e gli occhi iniettati di sangue. Non sembrava molto reattivo, ma provai comunque a fermarlo.

«Ehi, scusa.»

Non parve aver sentito, così lo afferrai appena per un braccio.

«... Eh?»

Il tipo mi guardava, ma poi distolse subito gli occhi, forse attratto da qualcosa che vedeva solo lui.

«È buona questa roba?»

Gli uscì qualcosa di simile a una risata e notai i suoi denti, anneriti forse dal catrame.

«È buona sì, fratello. La migliore in circolazione.»

Un altro scoppiato entrò in bagno e lo osservai mentre si chiudeva in uno di quei cunicoli dell'altra dimensione. Non lo sentii sbottonarsi i pantaloni e tirare giù la zip.

«Dove la posso comprare?»

Lui mi fece un mezzo sorriso, mosse gli occhi verso qualcosa che non riuscii ad afferrare, poi mi rispose.

«Tra la decima e l’undicesima. C’è un tizio, un messicano, pantaloni larghi e cappellino… Un tipo.»

Tirò su col naso e se lo grattò, mentre gli occhi continuavano a inseguire una preda invisibile.

«Lui la fa meno di tutti», continuò. «Quello sulla tredici è un bastardo. Se ne approfitta perché è una zona migliore. Ci vanno i fighetti, lì...»

Il suo capo oscillò appena, come se il collo non fosse più in grado di sostenerlo per bene. Poi si riprese.

«… I fighetti, sì. Quelli in giacca e cravatta, con la puzza sotto al naso. Però pagano bene e quel ciccione se ne approfitta.»

Ridacchiò di nuovo per conto suo. Farfugliò qualcosa, ma non fui in grado di capire le sue parole.

«Be’, ti ringrazio.»

Non appena fui certo che non avrebbe detto altro, tirai giù la maniglia del bagno e spinsi la porta.

Davanti a me, Ryan.

Il mondo colorato del McDonald divenne di un grigio pastello e il sottofondo di All Star lasciò spazio ai battiti del mio cuore, non appena posai lo sguardo sul marcantonio che era in piedi accanto a lui. Gli lanciai una rapida occhiata e mi ricordai che era lo stesso tipo che avevo visto al Webster Hall; mi mise paura come la prima volta.

Immaginai che parlare fosse pericoloso. Una parola sbagliata e quel tizio mi avrebbe fatto sentire la potenza dei suoi bicipiti, ne ero certo. Ma poi, anche se avessi voluto, non avrei spiccicato parola. Avevo la gola completamente secca e la mano ancora appoggiata alla maniglia del bagno. Allentai piano la presa, aspettando una loro reazione, ma non arrivò; così la lasciai del tutto e richiusi la porta.

Nessuno sembrava aver fatto caso al nostro terzetto, ma non me ne stupii più di tanto.

«Nathan, mi pareva di essere stato abbastanza chiaro.»

Lo guardavo, eppure non provavo più nostalgia, sulla scia di quella consapevolezza che mi aveva colpito pochi minuti prima. Non lo rivolevo indietro, né rimpiangevo la nostra amicizia ormai sbiadita. Vedevo solo un ragazzo distrutto, preso dal suo mondo e da se stesso, perché ormai era la sola cosa che gli era rimasta. Osservavo il suo naso screpolato e provavo solo tanta pena.

«Ti avevo detto di non ficcare il naso in questa faccenda.»

«Che c’è, non posso nemmeno più venire al McDonald?»

Lui mi si avvicinò e per un attimo ebbi paura.

«Non in questo.»

Lui era lo spettro di ciò che sarei diventato anch’io, se in più di un’occasione avessi ceduto. A volte mi avevano offerto roba pesante. Si parlava di LSD, ma anche di cocaina, che però costava di più. Era troppo per le mie tasche e non volevo infilarmi in qualche casino, probabilmente quello in cui si era cacciato Ryan.

E in quel momento, mentre lo guardavo, vedevo nei suoi occhi l’unica cosa di cui gli importava davvero e fui grato alle mie tasche per essere sempre state vuote. Quello era ciò che sarei diventato, e mi sentii, per la prima volta, fiero di ciò che ero.

«Chi ti vende la roba, eh? Il messicano tra la decima e l’undicesima? Oppure il ciccione sulla tredici?»

«Smettila, non sono affari tuoi.»

Stavolta fui io ad avvicinarmi a lui.

«E invece un po’ lo sono, sai? Perché anche Harvey è finito in questa merda e voglio sapere chi cazzo vi vende questo schifo.»

Come sentì il nome di Harvey, si irrigidì. Forse non si aspettava che sapessi. Ma io sapevo tante cose, e mai come in quel momento mi fu chiaro.

«Vattene. È meglio. Ci sono cose che non vorresti sapere.»

«Ah sì? E cos’è che non vorrei sapere? Che tirate su la coca da mattina a sera? Non è certo un segreto!»

Ryan si voltò verso l’armadio. Lui scrocchiò le dita e fece qualche passo verso di me.

«Ah, adesso si fa così? Mandi avanti il tuo amico spaccaossa perché sei troppo debole per affrontarmi tu stesso?»

Il tipo venne avanti davvero. Cominciò a sciogliere una spalla, poi l’altra, e non riuscivo a capire se fosse per figura o se perché aveva davvero intenzione di mollarmi un gancio piazzato bene.

Cercai una soluzione sensata. Li guardai entrambi e sorrisi.

«Va bene, come preferite. Ma sappi che non finisce qui.»

Non gli dissi nient’altro. Rivolsi loro un’ultima occhiata, poi mi avviai a grandi passi verso l’uscita.

 

Il tempo passato in quel locale mi aveva quasi fatto sentire un diverso, come se quello sbagliato fossi stato io. Lì, in mezzo a lavoratori, studenti e bambini, capii che quella era la società a cui volevo appartenere. Io, a differenza di Ryan, ero capace di vedere oltre le quattro mura di quel McDonald, riuscivo a vedere lontano e, per la prima volta, al futuro.

Poi, mi fermai. In mezzo agli spintoni della gente, troppo frenetica per accorgersi della mia presenza, mi resi conto che c’erano diverse cose, nella mia vita, che avevano bisogno di essere sistemate.

Per primo mi venne in mente Alan. Ero stato uno stupido con lui, che invece si era dimostrato tanto paziente nei miei confronti. Scusarmi era il minimo che potessi fare. Poi mi tornò in mente l’appuntamento con Steve e sentii un macigno piombarmi addosso tutto insieme. Mi piaceva il modo in cui Alan mi trattava, le attenzioni che aveva per me, la sua continua preoccupazione nei miei confronti. Non avevo mai conosciuto nessuno così.

La verità era che forse volevo più di un’amicizia, ma sapevo che per lui non era il momento e che non mi avrebbe mai guardato con quegli occhi. Essere amici in fondo mi bastava e forse avrei dovuto farmelo bastare per sempre.

Perché si sa che, una volta entrati, da quella zona lì non c’è più scampo.

         

Decisi di fare due passi a piedi. Per strada non c’era quasi nessuno, se si escludevano le persone vicine alle fermate della metro; bastava però allontanarsi un attimo da quei punti per svoltare in qualche vicolo solitario, dove l’unico sottofondo era il tintinnio delle lattine calciate per sbaglio, che rotolavano sull’asfalto finché non sbattevano contro i cestini dell’immondizia.

          Mi infilai tra i grattacieli e lasciai che quelle chiazze gialle che erano i taxi mi sfrecciassero accanto. Osservai un paio di turisti orientali con una cartina in mano, mentre indicavano il MoMA, e intanto giravano la cartina per esser sicuri di non sbagliare strada.

          Scansai un cane e il suo padrone, poi mi passò accanto una mora con occhiali scuri e caffè di Starbucks in mano. Mi fermai e alzai gli occhi al cielo, così azzurro e crepato da una manciata di nuvole.

          «Nathan!»

          Spostai lo sguardo in direzione della voce e notai che sulla soglia di una libreria, con un volume in mano, c’era Nelly. Capelli legati in una piccola coda e tuta da ginnastica che le dava comunque un tocco di eleganza. Mi avvicinai a lei e la salutai.

          «Che ci fai da queste parti?»

          «Niente, facevo due passi.»

          Un passeggino mi passò dietro e Nelly mi fece cenno di salire sul gradino che portava all’interno della libreria, lo stesso su cui era lei. Adesso che ero salito anch’io, avevamo smesso di essere alti uguali.

          «Allora, che mi racconti? Oggi sono passata dal mini-market, ma Molly mi ha detto che ti eri preso il pomeriggio libero.»

          Abbassai lo sguardo e notai un mozzicone di sigaretta sul gradino; lo scacciai col piede.

          «Sì, diciamo che avevo delle faccende da sistemare.»

          Nelly sorrise.

          «Che tipo di faccende?»

          Il suono di un clacson ci fece girare all’improvviso. Evidentemente, qualcuno non aveva rispettato la distanza di sicurezza e stava per fare un bell’incidente.

          «Guarda, è meglio non parlarne.»

«Perché? Non mi dire che hai avuto di nuovo problemi con tuo padre!»

In un pomeriggio di aprile, Nelly aveva avuto la sfortuna di assistere a una delle sfuriate di mio padre. Era venuto in negozio con Jimmy, perché lui aveva insistito, e al momento di salutare mio fratello mi aveva minacciato di non “infettarlo”. Non ricordo nemmeno più cosa gli risposi; so solo che, una volta che se ne fu andato, mi infilai nel retrobottega e ne uscii solo dopo mezz’ora.

«Mah, sì e no. Diciamo che ovunque mi giro ci sono dei problemi. La mia famiglia, l’università, un paio di cazzate che ho combinato...» Ripensai all’annuncio di lavoro che avevo trovato una decina di giorni prima. «A volte vorrei solo fare le valigie e andarmene da qua.»

Nelly emise un mugolio pensieroso. Una voce all’interno della libreria chiamò il suo nome, ma lei non la degnò di considerazione.

«Be’, e cosa ti frena?»

«Non so, mi sembrerebbe di lasciare le cose in sospeso, di scappare. Non voglio andarmene da perdente.»

«Ma è della tua felicità che stiamo parlando. Devi fare ciò che ti fa stare meglio, e se mollare questa città rientra tra le cose da fare… perché no?»

La voce la chiamò ancora. Forse la sua pausa era finita da un bel pezzo.

«Vai, Nelly, non preoccuparti.»

«Purtroppo devo. Però pensaci, va bene? Secondo me non è una cattiva idea. E non saresti affatto un perdente, capito?»

Feci di sì con la testa e la salutai, poi la osservai sparire dentro alla libreria.

Mi presi un attimo per ripensare alle faccende che avevo definito in sospeso e inevitabilmente pensai alla mia famiglia. Mi chiesi come avrebbe reagito mia madre alla notizia di una mia eventuale partenza e la immaginai a supplicarmi di non andarmene per il bene della famiglia. Poi mi domandai come avrebbe reagito mio padre e mi chiesi se la mia partenza non potesse essere una buona carta da giocare. Avrebbe perso il suo giocattolino su cui sfogare ogni frustrazione, l’essere umano da schiacciare per sentirsi migliore.

Nella mente cominciai a pregustare lo spettacolo… ma mi sentii ancora meglio quando mi resi conto che in fondo niente mi impediva di renderlo realtà.

 

Mi ero quindi trascinato fino al 437 della novantaquattresima, nel quartiere di Queens. Avevo visto la macchina parcheggiata e sapevo che lui era in casa, ma in quel momento non me ne importava niente. Anzi, l’idea di fargliela pagare alimentò un piacere che non provavo da troppo tempo.

Suonai il campanello senza tentennare. Non mi importava di cosa avrebbe potuto dire o fare, perché il suo sbraitare e le sue parole come lame, per quanto fossero una pugnalata ogni volta, erano il segno che qualcosa, per me, lo provava. Io ero il figlio che lo aveva deluso, che era diventato qualcun altro, ma era una faccenda che lo faceva soffrire. Quantomeno, lo faceva arrabbiare.

Fu mia madre ad aprirmi la porta. I suoi occhi si spalancarono quando capì che ero piombato lì senza preavviso, senza lasciarle il tempo di mandare via mio padre con qualche scusa. Quando fece per richiudere la porta con sguardo rassicurante, io la fermai con un cenno della mano.

Non c’era bisogno di nascondermi, non volevo più farlo.

Sentii la sua voce in lontananza.

«Chi è, Elizabeth?»

Da quanto tempo non la chiamava più “Liz”? Quante cose avevo rovinato nelle vite degli altri? Quanti equilibri avevo rotto e quante persone facevo soffrire?

Come mi intravide, si fece severo, come ogni volta che mi fissava, ma io non ricambiai. C’era solo una cosa che volevo, e non era litigare.

Mia madre aveva il viso stanco; chissà da quant’è che passava notti insonni, forse a rassicurare mio fratello.

«Mamma.»

Fu l’unica cosa che riuscii a dire. Mi accarezzò una guancia, come se cercasse di capire.

«Tesoro, che c’è? Che cos’hai?»

Deglutii, ma all’improvviso divenne tutto più difficile. Era tutto bloccato. Avevo qualcosa in gola.

«Posso entrare?»

Mio padre aggrottò le sopracciglia per un attimo, il tempo di studiare le conseguenze di quella domanda. Mia madre si voltò verso di lui, smarrita, poi mi fece di sì con la testa.

Guardai i loro volti. Mio padre, col mio stesso taglio degli occhi, ma con una sensibilità che non mi apparteneva - sempre che ne avesse mai avuta una; mia madre e quel perenne fantasma di preoccupazione sul viso, che la faceva sembrare più vecchia di quanto non fosse in realtà.

Lei mi accarezzò ancora, ma io mi scostai in modo repentino. Mio padre non se l’aspettava e cominciò a fissarmi. Incrociò le braccia come se si fosse messo sulla difensiva.

Osservai la foto sul mobiletto accanto alla porta: ritraeva mio padre, mia madre e, ovviamente, Jimmy. Io non c’ero.

«Sono venuto a dirvi che sparirò per sempre dalle vostre vite.»

Passarono alcuni secondi di silenzio. Studiai la reazione di mio padre, ma non mi stupì non notarne neanche una.

«Tesoro, ma che ti prende?»

«Per favore, mamma, non chiamarmi “tesoro”!»

Mia madre si avvicinò a me; lui, invece, rimase piantato lì dov’era, continuando a osservarmi. Mi ritrovai ad ascoltare il mio stesso respiro e mi accorsi che facevo fatica a espirare senza fare rumore.

Lei non rispose. Il suo viso si fece più duro.

«Va bene, Nathan, dimmi cosa sta succedendo.»

«Te l’ho detto: me ne vado per sempre. Potrete finalmente far finta di non conoscermi ed evitare quelle odiose formalità come gli auguri di compleanno. Per voi, sarà come se non fossi mai esistito.»

Mio padre ancora non tradì alcuna emozione. Continuava a starsene lì, con le braccia incrociate sul petto, le labbra strette e gli occhi piantati su di me.

«È uno scherzo? James, digli qualcosa!»

Si era voltata verso mio padre, ma lui ovviamente non rispose. Fece scorrere il suo sguardo da lei a me, e io, forse per la prima volta, non mi lasciai intimidire. Lui sembrava rilassato, probabilmente perché di tutta la faccenda non gliene importava niente; anzi, vedeva il suo sogno finalmente realizzato. La sua reazione mi provocò una fitta di calore in tutto il corpo. Strinsi i pugni senza accorgermene.

Mia madre tornò a guardarmi. Ogni tanto aggrottava le sopracciglia per attimi impercettibili, come se stesse cercando di capire.

«Nathan, che storia è questa? Spiegami, per favore.»

«Non c’è niente da spiegare. Non verrò più qui, non ci vedremo più. Potrete vivere la vostra vita cancellandomi per sempre. È questo che volevate, no?»

Mio padre sembrava una statua di sale, impassibile a ogni parola che dicevo. Mi fissava con le braccia conserte e gli occhi fermi, mentre io sostenevo il suo sguardo, come mai ero riuscito a fare. Non faceva nulla per zittirmi; lì, muto, osservava la situazione. Quell’ondata di calore che mi aveva travolto si incanalò in una stizza crescente. Il mio respiro crebbe. Sentii le unghie ficcarsi nei palmi delle mani.

Mia madre invece cercava di dire altro, ma non ci riusciva, il respiro sempre più affannoso.

«Come puoi dire una cosa del genere?»

Notai che le sue labbra tremavano, nel tentativo forse di trattenere le lacrime.

Alzai gli occhi verso quello che un tempo era stato mio padre.

«A lui non hai mai fatto questa domanda, eh?»

Quelle parole erano uscite da sole, ma mia madre sapeva di non poter ribattere. Aveva sempre finto di non vedere, aveva sempre lasciato che mio padre mi ricoprisse di insulti e, qualche volte, di schiaffi.

La verità era che non contavo niente per lei, esattamente come per mio padre.

«Tu sei un’ipocrita, mamma. Ti comporti come se ti importasse qualcosa di me--»

«Mi importa, di te!»

Ero stufo dell’ennesima bugia.

«Non hai mai fatto niente per me! Non mi hai mai difeso, non hai mai preso le mie parti!»

«Che ne sai tu di cosa ho fatto per te?!»

Le sue labbra smisero di tremare, e, un attimo dopo, alcune lacrime cominciarono a rigarle il viso.

Lo stesso fecero le mie parole, che continuarono a uscire senza che potessi fermarle.

«Vedi? Ti nascondi dietro a queste frasi, solo per tenerti pulita la coscienza. Ma sai cosa ti dico, mamma? Che almeno lui è stato sincero nel dirmi in faccia quello che pensava, a differenza tua!»

«Sei mio figlio almeno quanto Jimmy, Nathan. Tu lo sai che ti voglio bene e sai anche che non potrei vivere senza di te.»

L’istinto mi portò a scuotere la testa e a stamparmi un sorriso amaro in faccia.

Mia madre mi aveva cercato in tutti quegli anni solo perché ero suo figlio, non perché ero Nathan. A lei di me non importava niente. Forse non sapeva nemmeno cosa studiavo o dove vivevo, né cosa mangiavo per cena.

«Tu credi che volermi bene significhi vederci di nascosto? Dirmi quando lui non c’è, pensando di farmi un favore? Sono stufo di tutto questo, sono stufo di te, di lui e della vostra falsità!»

«Avresti preferito se ti avessi abbandonato?»

«L’hai fatto!»

La sua espressione, da contratta che era, si fece seria. Per un attimo non lessi più nei suoi occhi l’affetto che tanto andava sbandierando. C’era una luce diversa, in quel momento, forse la stessa che infiammava mio padre quando mi insultava.

Repulsione.

La crocchia, che aveva fatto per liberarsi dall’impiccio dei capelli, ora si era sfatta tutta. Nei suoi occhi c’era il caos. La sua bocca, da schiusa che era, divenne serrata. Le lacrime smisero di rigarle il viso.

Fece un paio di passi verso di me e sostenne il mio sguardo senza tentennamenti.

«Sai una cosa, Nathan? Per tutti questi anni ti ho voluto bene, ma forse ora è il caso di darci un taglio.»

Lei e mio padre, per anni così distinti, ora erano uguali.

Lui mi fissava accigliato, nella stessa posizione assunta pochi minuti prima. Lei aveva il suo stesso sguardo, anche se non poteva vederlo.

Pensai ai momenti che avevo trascorso con lei e con Jimmy, momenti che mi aveva concesso. Anni che aveva passato a nascondermi da mio padre, per poi farsi sputare solo veleno in faccia. Era stata debole contro di lui, ma aveva lottato, anche se non capivo bene come. E io le avevo detto che era un’ipocrita, che di me non le importava niente. Allentai i pugni e lasciai che il mio corpo si liberasse dalle briciole di rabbia rimasta. Capii solo in quel momento che per me non c’era davvero più spazio.

Se in quel momento avessi tentato di abbracciarla, mi avrebbe mandato via. Se l’avessi chiamata “mamma”, mi avrebbe risposto di non chiamarla in quel modo.

Ero orfano.

«Sei ancora qui, Nathan

Il distacco con cui sottolineò il mio nome fece più male di qualunque dolore fisico.

«Vattene. Non sei più il benvenuto in questa casa. In fondo, non era questo che volevi?»

Alzai lo sguardo verso mio padre, ma non c’era tono di sfida.

Lo stavo supplicando.

Gli stavo chiedendo di dire qualcosa, ma lo avevo rimproverato di aver parlato fin troppo in tutto quel tempo. Se ne stava ancora ritto in piedi, le braccia conserte. Forse pensava che me lo meritassi.

Non ci fu nessun intervento da parte di mio padre.

Non ci fu più amore, per quella sera, da parte di mia madre.

Rimasi solo io, vagabondo, l’ombra dei miei sbagli.

 

Non ricordo bene come tornai a casa. Forse avevo preso la metro, forse avevo fatto una lunga camminata. Sapevo solo che ero seduto sul divano di casa mia, lo sguardo fisso sui bordi della TV che osservavo sfalzarsi per poi perdere forma e diventare un grumo indefinito. C’era qualcosa tra me e la TV che prima era a fuoco e poi fuori fuoco, a fuoco e fuori fuoco, fino a che gli occhi stanchi non lasciarono spazio ai pensieri.

          Cos’era successo con mia madre? Non capivo.

          Lo stomaco gorgogliò.

          D’istinto sbattei le palpebre e trovai gli occhi secchi. Ripetei l’azione un paio di altre volte per umettarli meglio, ma erano rimasti aperti troppo a lungo perché non mi provocasse dolore.

          La TV tornò a essere una chiazza nera. Poi i bordi si sfilacciarono ancora e tornarono presto a essere un grumo senza contorno. Di nuovo, l’eco dei miei pensieri si infilò tra me e la televisione.

          Volevo solo sfidare mio padre, provocare una sua reazione, e invece non era accaduto niente di tutto ciò. Niente.

          Un’altra morsa allo stomaco. Per la fame, forse, o magari solo per la solitudine che provavo. Alzai lo sguardo verso l’intonaco screziato del soffitto e mi ricordai perché vivevo lì, in quel bilocale che cadeva a pezzi. Non ero riuscito a tenermi nessuno accanto - né la mia famiglia, né gli amici -, e quale sistemazione poteva descrivere meglio ciò che ero? Solo quella mattina mi sentivo migliore degli altri, degno della parte più pulita della società, volevo fare il paladino della giustizia per togliere Ryan e Harvey dal fango, ma la verità era che non potevo fuggire da me stesso e dalla nullità che ero. Mi venne quasi da chiedermi quanto, in realtà, fossi davvero migliore di loro, quanto meritassi davvero più di loro.

          Ripensai alle ultime volte in cui mi ero trovato in difficoltà. Avevo preso il telefono e avevo composto sempre il solito numero, solo che questa volta non avrebbe risposto nessuno. Non per darmi conforto, almeno. Non meritavo Alan e non meritavo la sua amicizia, tantomeno la sua disponibilità nei momenti difficili come quello.

          Come avrei potuto affrontare un’altra giornata e un’altra ancora, senza la mia famiglia, senza Alan e senza l’illusione di sentirmi dalla parte giusta?

          Forse l’unica soluzione era sparire. Una parola che mi sembrava così melodiosa e così facile. Due cose in un borsone e un biglietto di sola andata.

          Sparire…

          Spa-ri-re.

          Qualcuno se ne sarebbe accorto? E dopo quanto?

Poi avrei dovuto anche guadagnarmi da vivere, ma come? Ero solo un commesso annoiato o un architetto mancato, a seconda dei punti di vista. Non avevo ancora risposto all’annuncio per la California e non avevo molti soldi da parte.

          Mi resi conto che nell’ultimo periodo, anche se me ne accorgevo solo in quel momento, ogni volta che ero in difficoltà era sempre arrivato un principe sul cavallo bianco a salvarmi. Solo che poi avevo avuto la grande idea di scoccare un paio di frecce al principe e di far scappare il cavallo - bella mossa, sì.

          Spostai lo sguardo verso la porta d’ingresso, insieme a quella piccola, flebile speranza che il principe avesse comunque ritrovato la via a piedi e che venisse a salvarmi.

          Niente, ovviamente. Ma poi udii dei passi. Qualcuno stava salendo le scale. Un gradino, due, tre, sempre più vicino. Spalancai gli occhi quando quei passi si fermarono proprio davanti al mio portone. E spalancai anche la bocca quando sentii bussare con insistenza.

          Mi alzai di volata dal divano e in poche falcate fui davanti alla porta. Non guardai nemmeno dall’occhiello, feci scorrere il chiavistello e aprii la porta, sicuro di trovare…

«Ciao, Nate. Ti va di guardare un film insieme?»

… Harvey. Con due videocassette in mano.

«… Cosa?»

Lui sorrise. Io non sapevo bene l’espressione che avevo in quel momento. Mi sventolò le cassette davanti al viso e l’unica cosa a cui riuscii a pensare era che forse avrei potuto scoprire qualcosa di più sul giro in cui lui e Ryan si erano infilati. Se solo ne avessi avuto le forze...

«Nathan? Sveglia? Mi fai entrare?»

Il pilota automatico che si era impossessato del mio corpo decise di scuotere la testa.

«No. Cioè, non so. Che ci fai qui?»

«Volevo farti una sorpresa e guardare qualcosa insieme. Aspettavi qualcuno?»

Non riuscivo a guardarlo negli occhi. Mi sembrava quasi una mosca fastidiosa che ti ronza intorno mentre cerchi di concentrarti.

«No», risposi, e il volto di Alan attraversò per un attimo la mia mente. «Non proprio.»

Harvey avvicinò il suo viso al mio. Pensai che volesse baciarmi e d’istinto feci mezzo passo indietro.

«Ehi, stai bene?»

Ma quante domande faceva? Volevo liberarmi di lui. Poi l’occhio mi cadde sui film che aveva preso e mi venne un’idea su come terminare in fretta quella giornata infinita.

«Sì, sto bene. Dai, entra.»

 

Harvey aveva portato “Scary movie” e “Ti presento i miei”; scelsi il secondo. Tirai fuori dalla dispensa un pacco di popcorn e ne versai un po’ in una ciotolina, poi raggiunsi Harvey sul divano proprio al momento dei titoli di testa.

          Porsi la ciotola con i popcorn ad Harvey, mentre io presi posto sul divano, semi-disteso su di lui. La sua spalla non era un granché come cuscino, ma avrebbe servito lo scopo.

          «L’hai già visto questo?», mi domandò.

«No, ma sembra carino.»

In effetti era divertente. Ben Stiller era simpatico e le gag mi facevano ridere. Ma ogni tanto la tv tornava a essere un grumo e le voci del film solo un rumore di fondo. Provai a chiudere le palpebre e trovai presto conforto in quell’oscurità.

          «Stai già dormendo? Lo sento da come respiri, sai.»

          Riaprii gli occhi e subito dopo ridacchiai. Il pensiero che mi conoscesse così bene da riconoscere i miei respiri mi fece venire un tuffo al cuore. Poi pensai a come lo avevo sentito respirare io le ultime volte. Cosa provava Harvey dopo aver sniffato? Mangiai un altro paio di popcorn per placare quella morsa allo stomaco.

          Guardai qualche altro minuto di film e continuai a trovarlo simpatico. E di nuovo comparvero il grumo e i rumori di fondo. Chiusi ancora gli occhi.

          C’era la conversazione con mia madre. C’era l’indifferenza di mio padre. C’era l’addio che non avevo dato a Jimmy. C’ero io incapace di reagire. O forse incapace e basta.

          Un movimento brusco mi fece spalancare gli occhi. Sbattei le palpebre un paio di volte e vidi che era solo Harvey che si risistemava sul divano.

«Ehi, che cos’hai?»

          Harvey afferrò il telecomando e abbassò un po’ il volume della tv. Io non risposi.

«Lo vedo che sei strano. Casini con tuo padre?»

Sospirai. Forse un po’ troppo forte, a giudicare dall’espressione sul volto di Harvey, quella del lo sapevo!. Già, lui sapeva tutto. Forse gli era bastato osservare le smorfie sul mio viso per capire quello che mi frullava nella testa.

«Non mi va di parlarne.»

Harvey sbuffò, poi riprese il telecomando e mise in pausa il film. Quel gesto mi innervosì, visto che l’unico motivo per cui l’avevo fatto entrare era solo per potermi addormentare, non certo per parlargli.

«Hai di nuovo perso tempo con tuo padre, non c’è bisogno che tu me lo dica. Ma cosa ti avevo detto anche l’altra volta? Lascialo perdere, non ne vale la pena.»

«Mi stai facendo la paternale?»

Harvey si prese una manciata di popcorn dalla ciotolina che gli avevo dato e li sistemò sul palmo della mano.

«Ti sto solo dicendo cosa è meglio per te.»

Ci volle una frazione di secondo perché la mia insofferenza nei suoi confronti schizzasse oltre il punto di non ritorno.

«Vaffanculo.»

Lui di tutta risposta alzò le spalle e cominciò a ficcarsi in bocca i popcorn. Presi il telecomando e feci ripartire il film, anche se non riuscivo a concentrarmi. Per la verità non riuscivo a fare niente, neanche pensare; sapevo solo che dentro avevo una morsa che mi stava consumando e facendo a pezzi come un tritacarne. E sapevo anche che non volevo tornare a dormicchiare su Harvey.

Sistemai quindi il capo sul poggiatesta, incrociai le braccia e sperai che il sonno giungesse presto. La stizza nei confronti di Harvey rese l’impresa più complicata, ma non impossibile. Lasciai che le palpebre si chiudessero e che il sottofondo di voci e musica mi cullasse.

Un silenzio improvviso mi fece aprire gli occhi. Mi voltai e vidi Harvey spegnere la TV. Quanto tempo era passato? Forse il film era finito. Lui si avvicinò a me con un sorrisetto che non mi andava proprio a genio.

«Allora, che si fa?»

Mi strusciai gli occhi, che cominciavo a sentire sempre più pesti.

«In che senso?»

Ridacchiò.

«Be’, siamo qui io e te da soli, e dato che non vuoi parlare, forse potremmo...»

Non potevo crederci.

«Ma fai sul serio? Davvero? Ma hai visto come sto?»

«L’ho visto. E pensavo ti servisse un diversivo.»

Emisi un gemito di stupore e cominciai a scuotere la testa con la bocca spalancata. Non potevo davvero crederci.

«Vaffanculo, Harvey. Sul serio. Non ti è venuto in mente che forse volevo solo essere consolato?»

Lui di tutta risposta tirò un sorriso. Poi fece qualcosa che non mi sarei mai aspettato: mi avvicinò a sé e mi strinse in un abbraccio. Cominciò ad accarezzarmi la schiena e io mi aggrappai alla sua maglietta senza pensare. Tutta la stizza che avevo provato per lui fino a quel momento sparì e lasciò spazio a un antico sentimento di gratitudine, forse di necessità, che sentivo nei suoi confronti. Ogni volta riusciva a sorprendermi, ogni volta riusciva a dimostrare a modo suo che a me ci teneva. Il suo affetto riuscì a rompere la diga che aveva retto le mie emozioni fino a quel momento, e fui travolto da un rigurgito di pensieri confusi e dolorosi.

«Sono così stanco di questa situazione. Vorrei solo che tutto questo sparisse.»

Una lacrima cominciò a rigarmi il viso e nascosi la testa nell’incavo che Harvey mi aveva offerto. Fu seguita da molte altre. Mi sentii vulnerabile tra le braccia di Harvey, che continuava a massaggiarmi la schiena, e al contempo si fece strada in me il calore del suo conforto, che mi ricordò tanto quello dei miei diciotto anni.

Per il resto, ero vuoto dentro. Ma non mi sentivo più come un guscio di noce, no; ora ero direttamente una noce marcia, piena di vermi, così repellente da far schifo anche a me stesso. L’unica cosa che riuscivo a fare era piangere e scuotere il mio corpo con un singhiozzo dietro l’altro.

«Vorrei tanto non essere mai nato. O magari far sparire Nathan Hayworth dalla faccia della Terra. Lo stupido, inutile Nathan.»

Le mie parole erano spezzate solo dai miei singhiozzi. Harvey allora mi accarezzò la testa e cominciò a lasciarmi una scia di baci sulla tempia. Quel gesto in parte mi calmò, ma mi sentivo ancora uno schifo. Ero uno schifo.

Mi staccai dall’abbraccio e lasciai che gli ultimi singhiozzi mi scuotessero appena. Poi lo guardai in viso, perché volevo vedere con che occhi di disgusto mi fissava. Lui però aveva un sorriso rassicurante e uno sguardo benevolo. Mi asciugò le lacrime e mi diede un buffetto. Io sorrisi a mia volta e lui avvicinò il suo volto al mio, fino a quando la distanza tra noi non divenne minima.

Cominciò a lasciarmi dei baci umidi sul lato del viso, a partire dalla tempia e poi giù fino alla guancia, per poi arrivare all’altezza delle labbra; fu in quel momento allora che mi voltai e lasciai che mi infilasse la lingua in bocca, mentre con una mano dietro la nuca mi teneva ben saldo a sé.

Continuò a baciarmi con voracità e io ricambiavo con altrettanta foga; poi fece scorrere la sua mano libera dallo sterno fino al basso ventre, quasi tracciando un percorso, che si concluse nel momento in cui raggiunse il bottone dei pantaloni. Mi staccai da lui e lo aiutai a sbottonarlo, per lasciare che si intrufolasse sotto le mie mutande. Provai imbarazzo quando fu chiaro che mi era venuto duro, e ben da prima che mi toccasse.

Liberò la mia erezione e cominciò a masturbarmi. I miei gemiti iniziarono a riempire l’aria e mi avvicinai alle sue labbra per mordicchiarle, ma lui si scostò. Sul suo viso comparve quel sorriso compiaciuto che gli avevo visto un milione di volte, perché io ero la sua creatura, quella che avrebbe plasmato a sua immagine e somiglianza, quella con cui avrebbe potuto giocare quanto voleva. E se il più delle volte quel pensiero mi aveva fatto incazzare, in quel momento mi eccitava. Mi stava offrendo, a modo suo, un supporto per liberarmi di tutta quella merda… e io mi sentii protetto.

All’improvviso, Harvey interruppe ciò che stava facendo. Già immaginavo l’ennesima scusa con cui se ne sarebbe andato, invece si alzò in piedi e si posizionò davanti a me. Sul suo volto comparve un sorriso malizioso, poi afferrò pantaloni e mutande e me li sfilò. Vederlo lì in piedi, vestito e quasi tranquillo, davanti a me che invece ero semi-nudo ed eccitato mi provocò ulteriore piacere e un rinnovato desiderio di essere suo.

Sapevo di essere il suo giocattolo, ma lui era un perfetto burattinaio e io avevo bisogno di una guida. Era il meglio che potessi desiderare in quel momento e in fondo non era così male: almeno mi avrebbe fatto dimenticare tutta la merda di quella giornata e dopo il sesso sarei stato così stanco da addormentarmi subito. Si sarebbe preso cura di me, in un certo senso.

Cominciai a pregustare la sua prossima mossa, a immaginare le sue dita su di me e quelle labbra su qualche parte del mio corpo, ma non avvenne. Infilò invece una mano nel taschino della camicia, afferrò qualcosa e lo tirò fuori. Un sacchettino trasparente. Con della roba bianca dentro.

«Cos’è?»

Mi sventolò il sacchettino sotto gli occhi. Capii l’attimo dopo.

«Neve, Nate. Voglio che la nostra serata sia speciale.»

Non disse nient’altro. Faceva scorrere quella bustina di plastica trasparente da destra a sinistra e io mi accorsi che la seguivo con gli occhi a ogni movimento. Sentii un fremito di eccitazione scorrermi in corpo e anche un filo di paura. Cocaina.

Scossi la testa.

«Non mi interessa quella roba.»

«Sicuro? Ci hai pensato tanto prima di rispondere. E comunque non è per te.»

Lui aspettò una risposta di qualche tipo che non arrivò, mentre io ancora fissavo quel sacchettino. Mi provocò di nuovo eccitazione e non sapevo se fosse per via di quello che mi aveva fatto Harvey poco prima o per ciò a cui stavo per assistere.

Alzai gli occhi verso Harvey e notai che mi fissava, mentre un sorrisetto cominciò a crescergli in viso. Sapeva cosa stavo provando e sapeva quanta eccitazione mi stava mettendo in circolo.

Non avevo mai visto Harvey sniffare e quella bustina nelle sue mani rendeva ancora più reale la consapevolezza che avevo avuto quella mattina.

Harvey sniffa cocaina.

Si allontanò da me sventolando la bustina e si inginocchiò davanti al tavolino poco più avanti. Picchiettò appena il sacchettino e la coca cominciò a uscire sul ripiano. Come la vidi provai qualcosa che non era eccitazione. Forse era paura… la stessa che avevo provato quando mi aveva messo la mia prima sigaretta in bocca. E forse anche quando mi aveva messo in bocca qualcos’altro.

Nel frattempo Harvey aveva preparato quella che sarebbe stata la sua striscia, lì, stesa in mezzo al tavolino. Io la guardavo imbambolato e provai a immaginarmi cosa avrebbe sentito. Euforia? Leggerezza?

(Schifo?)

«Forza, vieni qui.»

Il modo in cui mi diede quell’ordine mi eccitò ancora e stavolta non era possibile nascondere ciò che provavo. Mi liberai anche della maglietta e mi misi completamente nudo inginocchiato sul tappeto, davanti al tavolino, con un’erezione da paura che lui osservava con fierezza.

«Ti ho già detto che non mi interessa quella roba.»

Harvey tirò fuori dalla tasca una banconota stropicciata, che arrotolò con un gesto esperto.

«E io ti ho già detto che non è per te. Anche se sarebbe un po’ come con le sigarette, no? Una cosa nostra. Cazzo, ma ci pensi? Mi sono preso la tua verginità, il tuo bel culetto, le sigarette e ora questo. Voglio farti mio anche con la coca, Nate.»

Quell’ultima frase mi fece scorrere un brivido in tutto il corpo. Voleva che fossi suo, completamente suo. Non volevo farmi, non ne avevo mai sentito la necessità… ma se mi fossi fatto, mi avrebbe amato di più?

«Non mi interessa la coca» ribadii, anche se ogni volta che buttavo un’occhiata a quella striscia sentivo l’erezione ingrossarsi ancora, «ma puoi avermi in altri modi, se vuoi.»

Poggiai i gomiti sul tavolo finché la mia testa non fu all’altezza della striscia. La mano di Harvey schiaffeggiò appena le mie natiche e d’istinto rizzai il bacino, per facilitargli qualunque cosa volesse fare col mio corpo.

All’improvviso sentii qualcosa di umido sulla mia apertura. Qualcosa che me la stava massaggiando… le dita di Harvey. Gemetti e cominciai a toccarmi, poi mi voltai verso di lui in cerca di approvazione e mi bastò un suo cenno del capo per capire che stavo andando bene. Intanto la pressione delle sue dita si fece più insistente, finché una non entrò appena dentro di me. Poco dopo il suo dito scese più in profondità e gemetti di piacere.

Lo osservai avvicinarsi al tavolo con la banconota arrotolata poco prima, che posò proprio all’inizio della striscia. Poi cominciò a tirare su facendo scorrere la banconota e la cocaina sparì a poco a poco con sniffate secche e decise. Sul tavolo rimasero solo delle briciole, perché ormai il resto era dentro di lui. Chiusi gli occhi con quel pensiero mentre il cuore mi batteva a mille, e cominciai a muovere il bacino perché lui si facesse strada dentro di me.

(Fermati)

«Bravo, così.»

Sentii un altro dito avvicinarsi ed entrare di getto fino in fondo. Mi bruciò e gemetti di nuovo, stavolta di dolore. Rizzai il mento mentre Harvey muoveva le dita su e giù in un movimento lento e mi ci volle qualche istante per abituarmi. Pensai che di lì a poco mi sarei dovuto abituare a qualcosa di molto più grosso e quel pensiero mi provocò una scarica di piacere.

Buttai un’occhiata ad Harvey e lo trovai in estasi, il viso rivolto verso l’alto, un sorriso da parte a parte senza nessuna ragione apparente. Sembrava libero da ogni preoccupazione, quasi felice, e con la coda dell’occhio diedi una sbirciata alle briciole che erano rimaste sul tavolino.

Lui mi prese il mento e mi costrinse a guardarlo.

          «Ah-ha, quella non è roba per te, piccolo Nathan.»

Mi aveva beccato e mi sentii avvampare.

«Ma forse, se fai il bravo...»

Il terzo dito si avvicinò alla mia apertura e d’istinto provai ad allontanarmi, ma le dita di Harvey erano diventate così secche che fu più saggio stare fermo. Lui sembrò ignorare il mio segnale, e continuò a massaggiarmi col terzo dito per trovare un punto di ingresso, mentre con l’altra mano mi teneva ancora il mento, per godere di ogni mia smorfia per il lavoretto che stava facendo.

Sentii la stretta sul mento allentarsi appena, poi un paio di dita mi picchiettarono le labbra. Io le aprii e lasciai che le dita mi entrassero dentro, poi richiusi la bocca e cominciai a succhiare e leccare. Lui mi fissava compiaciuto e mi stringeva il mento ogni volta che il mio sguardo si spostava dal suo.

«Sei proprio una gran puttanella, lo sai?»

Harvey tolse le dita dalla mia bocca, con un rivolo di saliva che continuò a seguirle e per un attimo mi vergognai di avergliele leccate in quella maniera. Poi un’immagine mi sfrecciò nella mente, una realtà parallela dove Alan spalancava la porta di casa e mi trovava in quel modo, con Harvey a godere delle mie espressioni e due dita in culo. Fui travolto da una vampata di vergogna. E non perché i suoi occhi mi avrebbero visto in una situazione intima o in qualcosa di trasgressivo, no.

Quante volte ero finito in una situazione del genere, durante i miei diciotto anni? Quante volte avevo permesso ad Harvey di fare di me ciò che voleva? E quante volte mi ero ripromesso di mandarlo a fanculo perché valevo molto più di così?

E quindi che stavo facendo in quel momento?

Cosa cazzo stavo facendo?

Sentii il terzo dito che voleva decisamente troppo da me, qualcosa che non ero più disposto a dare. L’eccitazione mi era sparita in un battito di ciglia e rilassare i muscoli stava diventando complicato. Tornai alla realtà e la presenza di Harvey dentro di me mi provocò improvviso disgusto. Con uno scatto mi liberai dalla sua presa sul mio volto.

«Esci. Togli le dita.»

«Che ti prende? Dai, ci stavamo divertendo.»

«Ti ho detto di uscire.»

Lui mi fissò per un attimo, durante il quale non distolsi mai lo sguardo.

«Uhm. Come desideri, principessa

Mi allargò le natiche, tirò via le dita in un colpo secco e mi fece molto male… ma pensai che era niente di fronte al male che stavo per fare a me stesso.

Mi vergognai di essere nudo. Guardai la striscia e mi vergognai pure di aver pensato, anche solo per un attimo, che quella fosse la soluzione. Facevo pena, ma non quanta ne faceva Harvey.

Mi alzai in piedi, raccolsi mutande e pantaloni per coprimi alla meno peggio, scavalcai Harvey e mi avviai verso la camera.

«Nathan--»

«Niente “Nathan”. Vattene. Per favore.»

Lui mi fissò incredulo. Rimase zitto, ma solo per un attimo.

«Ti posso chiamare domani?»

La testa mi scoppiava. Uno, due, tre - booom! - sarebbe esplosa.

«No. Non mi chiamare più. E intendo mai più.»

Harvey schioccò la lingua e si alzò lentamente, con circospezione, come se avesse avuto in mano una bomba pronta a esplodere. Io volevo solo che la giornata finisse.

All’improvviso mi salì su qualcosa. Avevo finito di vomitare parole e ora volevo solo vomitare nuovamente lacrime. Ma non davanti a lui, no.

Proseguii verso la camera, nella speranza che non mi seguisse e che non cercasse di trattenermi, e per una volta i miei desideri furono esauditi. Mi buttai sul letto, faccia in giù, senza preoccuparmi di mettere la testa sul cuscino.

Passò qualche istante di silenzio, poi lo sentii solo sistemare il divano, ripulire il tavolino con una sniffata e tirare fuori la cassetta dal videoregistratore per rimetterla nella custodia. Poco dopo aprì la porta e uscì, lasciandomi solo con me stesso.

Schifo.

Harvey aveva solo giocato con me, come faceva ogni volta, come aveva sempre fatto. Non mi aveva abbracciato per consolarmi, ma solo per rendermi più docile a ubbidire ai suoi ordini. La cocaina era stato solo l’ennesimo tentativo di sentirsi più potente di me, e per di più si era divertito a ficcarmi due dita dentro solo per godere della mia sottomissione. Come ci ero potuto ricascare in quel modo? Perché gli avevo permesso di giocare con me e con il mio corpo in quella maniera?

Un singulto mi scosse il petto. Poi un altro, e un altro ancora. Ma non era tristezza, né vergogna: era rabbia. Rabbia perché il solo fatto che pensasse di potermi manovrare mi faceva andare fuori di testa. E il modo in cui aveva cercato di farlo era disgustoso, perché sapeva che ero vulnerabile.

Meritavo di più di uno come Harvey. Meritavo di più in generale.

La sua cocaina poteva tenersela e ficcarsela su per il culo… più o meno letteralmente.

 

 

 

Angolo autrice

Ehm, salve a tutti! XD Innanzitutto mi scuso per la durata infinita di questo capitolo, vi consolerà sapere che nella stesura originale era pure più lungo, poi con un po’ di taglia&cuci e di pietà per voi lettori l’ho sfoltito!

Devo dire che questo capitolo mi impensieriva un po’, le scene erotiche non sono mai facili da scrivere perché scivolare nella volgarità è un attimo. Spero di non esserci cascata pure io, l’ho letto e riletto fino allo sfinimento e l’ultima scena mi è sembrata ok, ma… ai lettori l’ardua sentenza!

Detto ciò, qui si nota che quando Nathan rimane emotivamente solo è capace anche di fare del male a sé stesso… per fortuna che, anche se in forma incorporea, il nostro Alan è arrivato ancora una volta a dargli una sonora svegliata. Però a me piace pensare che sia stato anche l’amor proprio di Nathan a fargli da salvagente 😊

 

Come al solito ringrazio infinitamente tutti voi che siete arrivati fin qui e ringrazio dal profondo del cuore anche coloro che hanno lasciato una piccola recensione, conoscere la vostra opinione mi rende strafelice ç__ç

 

A giovedì allora!

holls

 

 

   
 
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