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Autore: holls    13/01/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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18. Due Marlboro

 

 

Io a volte lo immaginavo. Quand’ero in macchina, soprattutto. Arrivavo a casa, parcheggiavo, ed ero sul punto di spegnere il motore, quando l’immagine si materializzava proprio di fronte a me. Spesso, in sottofondo, davano l’ultimo singolo di Sasha, If you believe.

Sasha mi chiedeva se credessi nell’amore e, anche se non poteva sentire la mia risposta, gli dicevo sempre che non lo sapevo. Guardavo fuori dal finestrino del passeggero e mi pareva di scorgerlo lì, con la schiena appoggiata all’auto, ma non troppo a lungo; perché poi avrebbe cominciato ad andare in su e in giù, a chiedermi di abbassare il finestrino per poter sentire la radio, e a rischiare di strozzarsi con quella tosse solo per urlarmi di alzare il volume. Mi avrebbe detto di scendere, di fargli compagnia e di godermi l’aria aperta e io gli avrei risposto che quell’aria puzzolente poteva tenersela per sé. Dopo un po’, si sarebbe finalmente calmato e sarebbe rientrato in auto, più rilassato e forse al contempo agitato, perché la sua dose di endorfine stava già calando.

Ogni volta mi domandavo perché immaginassi cose simili, così scacciavo dalla mente tutte le scene che si erano formate nella mia testa e aspettavo.

Non che dieci minuti potessero farmi guarire dalla malattia di cui parlava Sasha.

 

Non era ancora l’alba. La città stava dormendo, ma io ero sveglissimo. Riposare mi avrebbe fatto comodo, perché quella sarebbe stata una giornata impegnativa, ma non ci riuscivo. Dal balcone sul retro, potevo osservare la mia vita al ritmo che avrei voluto. Nelle mie notti non c’erano interruzioni, solo tanto tempo per pensare e per lasciare che il fantasma di Oliver mi spaventasse.

Lui, infatti, l’aveva capito. Aveva capito che a me Nathan mancava e in un modo che non era normale. Alla fine, pur conoscendolo da poco tempo, sentivo che era entrato a far parte della mia vita. Tenevo a mente i suoi impegni come se fossero stati miei: le materie plastiche, l’esame da dare, l’amico per cui preoccuparsi e le sigarette da comprare perché oddio, sennò mi viene l’ansia.

Mi rigirai tra le mani il pacchetto che avevo trovato sotto il divano. Dentro, c’erano solo due Marlboro.

Ne sfilai una e la scrutai. Mi tornarono subito alla mente le labbra di Nathan, che umettavano appena il filtro. La impugnai con pollice e indice e la avvicinai alla mia bocca, secca come poche.

Mi faceva paura.

La sigaretta era Nathan e io sentivo il bisogno di farla mia, anche se solo per gioco.

La misi tra le labbra e una scossa mi elettrizzò il corpo, fino al basso ventre.

La prima volta che avevo parlato con Nathan, stava fumando. Lo aveva fatto molte altre volte, ma ricordavo chiaramente che non riuscivo a staccare gli occhi di dosso da lui. Mi aveva come ipnotizzato.

Tolsi la sigaretta dalla bocca e la tenni tra le dita.

Mi ricordai del messaggio che mi aveva mandato e mi domandai se l’avrei più rivisto e, soprattutto, se ne avrebbe avuto così tanta voglia. Avevo sbagliato, compiuto un gesto da ragazzino, qualcosa che non era da me. Perché lo avevo fatto? Non riuscivo a trovare una risposta.

Aspettai che la luce dell’alba mi rischiarasse il viso, sperando che i raggi mi liberassero dai tormenti che mi avevano attanagliato per tutta la notte.

Gettai la spugna quasi subito.

 

Chiavi della macchina, fascicolo dell’indagine e una buona dose di tremarella addosso: ero pronto per la giornata. Avevo fatto il punto della situazione con Church e Ash, che mi aspettava fuori dalla centrale. Lui come al solito sembrava rilassato, come se ogni evento non lo toccasse davvero, o forse perché sapeva che io avevo gran parte delle responsabilità. Quello che dovevamo fare a Michael non era un vero e proprio interrogatorio, ma nemmeno una chiacchierata informale: lo scopo era strappargli qualche informazione utile all’indagine e, al contempo, cercare di non farlo stizzire. Non era qualcosa di complicato, ma Ash non avrebbe pagato nessuna scelta sbagliata; io sì. Mi sentii un po’ come un fratello maggiore, nel bene e nel male.

          Uscii fuori dall’edificio e sentii subito caldo. La divisa estiva non era realmente adatta al sole che ti picchiava addosso, e mi domandai perché non le avessero fatte bianche o grigie, invece che blu. Immaginai di dover ringraziare per il fatto che non fossero nere. Io avevo proposto di presentarci da lui in borghese, ma mi era stato risposto che Michael si sarebbe potuto insospettire.

          Salutai Ash, intento a mandare messaggi col cellulare.

          «Sei pronto?»

          Lui alzò appena lo sguardo, annuì e ripose il telefono.

«Certo, andiamo.»

Provai un po’ d’invidia per tutta quella tranquillità.

 

Superata l’insegna d’ingresso a Chinatown, la prima cosa che mi colpì fu l’odore di pesce. Annusai l’aria per seguirne la scia, che mi portò a voltarmi verso un mercatino ambulante gestito da cinesi, ovviamente, e che vendeva specialità di ogni tipo. Per poco più di due dollari potevi portarti a casa un’ostrica e con quattro potevi gustarti un granchio.

          A Brighton il pesce non era certo una novità. Avevo circa quattro anni quando i nonni decisero di portarmi con loro per la prima volta sul molo, a fare scorpacciate di pesce per il pranzo del fine settimana. C’erano uomini che scaricavano numerose casse di merluzzi e sgombri, che emanavano un odore salino talmente forte da farmi coprire il naso con la maglietta. Quegli uomini mi sembravano giganti e quelle casse contavano una tale quantità di pesce che non riuscivo neanche a quantificarla. Anche dopo che il nonno mi ebbe tirato per la mano un paio di volte, io rimasi lì, col naso tappato e la pancia scoperta, ad ascoltare quello che allora mi parve un linguaggio in codice tra marinai e addetti allo scarico merci. Dovette intervenire la nonna a propormi gli anelli di totani, prima che riuscissi a distogliere lo sguardo da quell’ammasso di carcasse, che sembravano giganti rispetto al bambino che ero.

          Sulla baia c’ero cresciuto e il mare aveva fatto da sottofondo a più di un mio tormento. Mi aveva visto bambino e adolescente, aveva ascoltato le litigate per un giocattolo e le prime storie andate male; mi aveva fatto provare il desiderio di scappare, quando quella baia, quel molo e quelle persone, che conoscevo troppo bene, stavano cominciando a starmi strette. Avevo lasciato quella spiaggia e la sua tranquillità perché avevo preferito catapultarmi in una realtà caotica e frenetica, così diversa da quella in cui ero cresciuto. Lasciandomi la baia alle spalle, ci avevo lasciato anche un po’ della mia gioventù.

          A Manhattan avevo imparato cos’erano le responsabilità. Non c’era stato più spazio per il ragazzo che ero, ma ne andavo fiero. Quando però mi ricordai cosa ci facevo lì, in Chinatown, e misi da parte i ricordi dei miei nonni, mi sentii cogliere da una strana sensazione, accompagnata dal desiderio di non essermene mai andato.

          Osservai una conversazione tra il gestore del banco del pesce e un suo cliente. Il primo mugugnò qualcosa in cinese, l’altro cominciò a indicargli i gamberetti e gesticolarono un po’ per contrattare il prezzo, fino a che il cliente non riuscì a strappargli una manciata di gamberetti freschi per tre dollari soltanto.

          A Brighton non c’erano mai state contrattazioni. Si sceglieva e si pagava, e poi portavi a casa quello che credevi di aver conquistato. Se poi avevi fatto un buon affare, potevi saperlo solo tu e colui che ti eri lasciato dietro.

          Superammo il mercato e svoltammo in Baxter Street, quando ormai il ricordo della baia era già svanito. Mi ricordai che ero lì, che il caso era in mano mia e che, senza scherzare troppo, gran parte della riuscita dell’indagine dipendeva da me; non c’era nessuno a tenermi per mano, a strattonarmi per dirmi qual era la cosa giusta da fare.

          Quando arrivammo davanti alla palazzina rossa che stavamo cercando e lessi il cognome di Clide, provai una fitta allo stomaco. Ashton era già partito in quarta e non riuscii a impedire che suonasse il campanello. Immaginai Michael alzarsi dal divano, dove probabilmente era seduto, attraversare il salotto, giungere alla porta di ingresso, alzare la cornetta e chiedere: “Chi è?”. Tesi l’orecchio verso il citofono e pensai che avrebbe risposto prima che avessi finito di espirare tutta l’aria. Poi inspirai un’altra volta, trattenni il fiato senza che me ne accorgessi e buttai fuori.

          Silenzio.

          «Forse non è in casa», propose Ash, ma sapevo che non era così. Michael non poteva permettersi di uscire.

          «Io dico che dovremmo provare il piano B.»

Premetti un campanello qualsiasi, di cui non lessi nemmeno il nome, e avvicinai l’orecchio al citofono. Lo sentii friggere appena, poi rispose la voce di un’anziana donna, che gracchiava più del citofono stesso.

          «Chi è?»

          «Mi scusi, sono Clide, ho dimenticato le chiavi. Non è che potrebbe almeno aprirmi il portone giù?»

          La signora aprì senza dire niente. Udimmo solo il fruscio del ricevitore che veniva riagganciato e lo scatto della serratura.

          L’interno dell’edificio odorava di pesce. I passi rimbombavano e talvolta avevi la sensazione che le mattonelle ti tremassero sotto ai piedi. Salimmo gli scalini, consumati quanto il corrimano, ormai liscio, e notai diverse crepe sui muri. Se quell’edificio fosse stato sulla costa occidentale, non avrebbe resistito nemmeno a uno strascico di uragano.

          Vedere la porta dell’appartamento mi tranquillizzò. Quello era il mio mostro e avevo finalmente visto che faccia avesse. La paura si smorzò un poco per lasciare spazio all’adrenalina, alla voglia di dare il massimo per la causa a cui mi ero votato: la Giustizia.

          Suonai il campanello. Per un attimo pensai che la mia mente avrebbe lasciato ad Ashton questo compito, ma fui sorpreso: il dito si mosse senza che me ne accorgessi. Quando mi resi conto di ciò che stavo facendo, avevo già rilasciato il pulsante.

          Attendemmo un po’, ma Michael non rispose. Provammo a suonare di nuovo, senza successo; tentammo anche la carta del “Polizia, aprite”, ma non si fece vivo. Alla fine, rimaneva solo un asso da giocare.

«Lascio a te l’onore», dissi rivolto verso Ashton. Lui era sicuramente più forzuto di me, merito anche dei pomeriggi in palestra. Fece sciogliere la spalla destra, si caricò molleggiandosi sui piedi e si schiantò contro la porta, che oscillò in modo piuttosto evidente, tanto che mi chiesi quanto ci sarebbe voluto prima che cascasse giù come una pera cotta.
          Il dubbio mi sarebbe rimasto per l’eternità, visto che bastarono una manciata di spallate per far accorrere l’inquilino dentro l’appartamento. Lo sentimmo far scorrere il chiavistello e sfilare la catena che teneva chiusa la porta, poi aprì. Un ragazzo sul metro e settanta, con uno spruzzo di capelli biondi in testa e un fisico mingherlino spuntò sulla soglia e ci fissò con uno sguardo tra il guardingo e lo spaurito.
          «Michael Cossner?»
          Il ragazzo spalancò gli occhi. Bastò quello per fugare ogni dubbio, sempre che ve ne fosse mai stato uno.

La casa rientrava nella media del quartiere. Muri con crepe talmente profonde da sembrare tuoni e improperi incomprensibili che venivano dal piano di sopra, uniti allo scalpiccio di una manciata di piedi che correvano da destra a sinistra.
          Michael ci offrì un bicchiere d'acqua, ma rifiutammo. Ci guardava con sospetto e si teneva a debita distanza da noi, benché cercasse di non darlo a vedere. Era chiaro che stava cercando di capire cosa ci facessimo lì e, soprattutto, come ci eravamo arrivati. Si capiva che aveva una voglia disperata di chiederlo, ma non sapeva quanto si sarebbe compromesso nel farlo. Alla fine, fu lui a rompere il silenzio.
          «Come posso aiutarvi?»
          Faceva scorrere i suoi occhi da me ad Ashton con fare frenetico.
          «Siamo qui per farle alcune domande sulla rapina avvenuta il trenta luglio, all'ufficio postale di Lexington Avenue.»
          Il suo sguardo si irrigidì.
          «Io non c'ero quel giorno.»
          Ashton intervenne.
          «Dov'era?»
          Notai un sorriso sardonico comparirgli sul viso. Sembrava quasi che provasse una sorta di sadico piacere nel metterlo in difficoltà.
          «Io...» cominciò con voce esitante. «Ero in malattia.»
          «Credevamo che fosse in viaggio per l'Europa.»
          Arricciò appena le labbra. Aggrottò le sopracciglia per un attimo, ma non passò inosservato. Stava pensando, ma sapeva che non poteva impiegare troppo tempo a formulare una risposta.
          «Avete parlato con i miei genitori?»
          Mi intromisi nella discussione.
          «Non sono informazioni che possiamo rivelarle.»
          Era palese che avevamo parlato con loro, anche agli occhi di Michael, ma a un indiziato era sempre meglio lasciare un dubbio che una certezza. Aveva smesso di guardarci e ipotizzai che stesse cercando di immaginare chi potesse averci dato quell'informazione al di fuori dei suoi genitori.
          «Che cosa sa dirci della rapina?»
          Ash continuò e notai ancora il sorriso beffardo sul suo volto. Mi chiesi dove volesse arrivare.
          Michael tirò un sospiro.
          «Be', come ho già detto, non c'ero.»
          Ash annuì e cominciò a guardarsi intorno. Osservò il soffitto e così feci anch'io, notando le chiazze di muffa che sembravano volersi allargare a macchia d'olio. Finalmente capii cos'era quell'odore pungente.
          «Chi le ha dato questa casa?»
          Michael esitò ancora. Era una domanda che non c'entrava niente con la rapina, o almeno non in modo diretto, e fu in quel momento che cominciai a capire.
          «Un amico.»
          «Sa che lei non potrebbe allontanarsi da casa, in quanto in stato di malattia?»
          Cominciai ad avvertire il panico negli occhi di Michael. Sembrava confuso, non riusciva a mettere in piedi una storia che Ashton gli faceva domande su tutt'altro. Il mio collega si rivelò molto astuto e fui felice di averlo avuto al mio fianco.
          Michael non rispose. Tentava di dire qualcosa, ma non muoveva un muscolo. Riuscì solo a muovere gli occhi nella mia direzione, ma di rimando gli suggerii con un'occhiata che Ashton aveva ragione.
          «Perché ha mentito ai suoi genitori dicendo loro che andava in giro per l'Europa?»
          Lo aveva preso di nuovo in contropiede. Lo scopo di Ash era quello di interrompere ogni linea di pensiero di Michael, farlo andare in cortocircuito, per così dire.
          «Perché...»
          Le parole non gli uscivano. Notai che le mani avevano cominciato a tremargli. Pensai che fosse vicino al punto di scoppiare. In quel momento, capii che era stata una buona idea quella di non fare una convocazione ufficiale: avrebbe avuto il tempo di prepararsi una storia alternativa. In quel momento, invece, era stato preso completamente alla sprovvista e stava crollando con una semplicità disarmante. Quel fatto confermò la mia impressione che Michael fosse solo una vittima, un ragazzo invischiato in una vicenda che non sapeva come gestire.
          «Forse le converrebbe dire la verità, non crede? Così come ha fatto il suo amico William Clide.»
          Nel sentire quel nome, tornò sull'attenti. Mi domandai cosa stesse frullando nella sua testa e immaginai che stesse pensando a cosa potesse aver rivelato Clide. In fondo, me lo stavo chiedendo anch'io: non ero sicuro che William ci avesse detto tutto, ma che al contrario avesse svelato solo quanto necessario.
          «È stato William a dirvi che mi trovavo qui?»
          «Sì, ci ha fornito lui l'indirizzo. Alla fine non se l'è sentita di mentire di fronte alla polizia e ci ha raccontato diverse cose.»
          La paura sembrò abbandonarlo completamente. Forse era il pensiero che non fosse l'unico con l'intenzione di parlare o forse c'era qualcos'altro che si stava agitando dentro di lui.
          «Cos'altro vi ha detto sulla rapina?»
          A me e ad Ash scappò una risatina. Dirglielo sarebbe stato stupido e gli avrebbe dato tempo di costruire una storia ad hoc; proprio per questo, quando Ash aprì bocca per rispondergli, pensai che quello avrebbe compromesso la nostra chiacchierata così brillante, almeno fino a quel momento.
         
«Ci ha raccontato diverse cose, legate soprattutto a problemi che la riguardano.»

«Di cosa state parlando?»

Notai che Ash stava indugiando. Alla fine, Michael non era l’unico che aveva bisogno di seguire un filo logico, per portare avanti la conversazione. Stava perdendo tempo prezioso e cercai di trovare un’idea il più in fretta possibile.

«Non è autorizzato a conoscere queste informazioni. Credo anzi che le convenga dirci la verità, come ha fatto il suo amico Clide.»

Si sentiva che stava perdendo il senso della ragione, preso com’era dalla paura di inciampare in contraddizioni. Sentivo di essere vicino a un risultato, a qualcosa che non mi avrebbe fatto rimpiangere il giorno in cui avevo deciso di entrare in polizia. Avevo l’opportunità di non beccarmi l’ennesima sgridata di Church, sapevo che sarebbe bastato poco, lo sapevo! Sperai che Michael seguisse la conversazione che avevo creato nella mia mente, quello scambio di battute che mi avrebbe permesso di segnare il punto decisivo.

«Perché dovrei?»

«Le ricordo che ha un certificato di malattia per due settimane, palesemente falso, e che sta contravvenendo agli obblighi che impone lo stato stesso di malattia. Da questo ne possiamo dedurre che ci sia un medico compiacente, il cui ruolo non passerà certo inosservato, oltre al fatto che, alla luce di questi eventi, non è da escludere un eventuale coinvolgimento dei suoi genitori. Insomma--»

«Va bene, ho capito!»

Michael mi apparve come un uccello in gabbia. Lo avevamo messo alle strette ed era stato una preda facile. I suoi occhi ribollivano di rabbia, forse perché sperava di poter passare inosservato in quella faccenda, ma non sarebbe comunque accaduto. I debiti si pagano sempre, specie con certa gente, ed ero abbastanza sicuro che Waitch o chi per lui non si sarebbe dimenticato di Michael così facilmente. Avrebbe potuto continuare a nascondersi anche per l’eternità, ma avrebbe sempre avuto scagnozzi pronti a tendergli una trappola al minimo passo.

«Lei è coinvolto in qualche modo nella rapina, vero?»

Michael ci guardò un attimo, dopodiché fissò il pavimento. Emise un sospiro, si infilò le mani in tasca e si strinse appena nelle spalle, intento a pensare. Poi tornò a guardarci.

«Sono quasi certo che cercassero me. Ho un debito con loro, con questi spacciatori. Li aspettavo a casa da un momento all’altro, ma credo che abbiano usato l’ufficio postale per sviare i sospetti. Questo almeno è ciò che penso. Contenti?»

Io e Ash ci scambiammo un’occhiata. Michael aveva la stessa supponenza di Nathan, ma era molto più arrogante. Per certi versi, lo trovai odioso.

«Può dirci altro? Magari su un certo Waitch?»

Alla prima domanda sbuffò, per poi irrigidirsi sulla seconda. Mi bastò osservare il modo in cui si mise sulla difensiva per capire che sapeva qualcosa.

«Ve ne ha parlato William?»

«Qui non è lei a fare domande, signor Cossner.»

          In quanto a supponenza, Ash e Michael se la giocavano a pari merito.

«Ho capito, ho capito. Non ho idea di chi sia Waitch. È un pezzo grosso, ma non l’ho mai visto. È qualcuno che coordina le attività, quello che fa fare il lavoro sporco agli altri, se capite cosa intendo. Però, come dicevo, non l’ho mai visto. Forse qualcuno del giro lo conosce, credo.»

Osservai Michael e capii che era sincero. Il suo volto era più rilassato, come se parlare di Waitch alla polizia lo facesse sentire un po’ più sicuro, anche se ero certo che quella sensazione non gli sarebbe rimasta addosso troppo a lungo.

«Saprebbe dirci chi, secondo lei, conosce Waitch?»

Michael fece spallucce e scosse il capo.

«Forse saprei riconoscerlo, ma io sono infilato in questa vicenda quasi per caso. È più probabile che William sappia qualcosa, ma non mi conviene parlare senza un avvocato, giusto?»

Come sospettavo, nella mente di Michael cominciarono a figurarsi le possibili conseguenze di ciò che aveva detto, che comunque non avevamo intenzione di usare in modo sporco, e che non avremmo utilizzato contro di lui in nessun modo. Michael però si era infilato in un giro di persone che non guardava in faccia a nessuno e che non si sarebbe fatto scrupoli a ricordargli, se lo avessero trovato, che la bocca talvolta va tenuta chiusa. E mentre questi pensieri crescevano probabilmente nella sua testa, i suoi occhi si spalancavano e stringeva i denti sempre più; poi si guardò intorno, come se quelle mura non potessero più garantirgli l’incolumità - d’altronde, i criminali hanno occhi e orecchie dappertutto.

«Loro mi troveranno, vero? Lo faranno. Se William ha parlato con voi, perché non dovrebbe farlo con loro? Racconterà la versione che gli permetterà di uscirne pulito e lascerà me e tutti gli altri nella merda. Scommetto che non ha fatto accenno al fatto che c’è dentro fino al collo, vero? Ha spalato merda su di me solo per salvarsi il culo, lo so. Lo so!»

Non seppi se rispondere, ma sapevo che dovevamo calmarlo il prima possibile. Intervenne Ashton, con meno esperienza di me, ma con una lingua certamente più lunga.

«Si calmi, Michael. Potrà raccontare tutto in commissariato. Le arriverà una lettera di convocazione nel giro di qualche giorno, così potrà contattare un avvocato e vedremo se e come farla rientrare in un programma di protezione. Se deciderà di collaborare, sono certo che troveremo il modo di risolvere il piccolo disguido sul suo certificato di malattia.»

Michael ci fissò con il cipiglio offeso e incrociò le braccia. Sospirò, indeciso se risponderci o meno, ma optò per il silenzio. Ash si voltò verso di me e mi domandò se avessi altro da dire. Risposi che potevamo andare e il mio collega rifilò a Michael il suo biglietto da visita, dopodiché gli intimò di non fare cavolate, come il tentare la fuga. Ero abbastanza fiducioso sul fatto che si sarebbe presentato in commissariato, ma non potevamo dare niente per scontato. Se avesse deciso di uscire allo scoperto, si sarebbe dovuto guardare dai nemici, ma non meno dagli amici.

 

Quando uscimmo di lì, mi sembrò di aver perso dieci chili. Improvvisamente ritrovai il piacere di vivere, di pensare alla serata che mi si prospettava o anche solo a cosa preparare per cena; le immagini catastrofiche su Church, sulla mia vocazione e sui problemi della mia vita erano state spazzate via dal sole che splendeva e sembrava sorridermi, come a ricompensarmi di tutta l’ansia che mi ero portato dietro.

Cominciammo a percorrere a ritroso la strada che avevamo fatto dalla macchina e lasciai che i cinesi di passaggio mi importunassero con la loro merce, come i venditori ambulanti dell’antica Tebe che avevo visto qualche anno prima in un cartone animato. Si paravano davanti, spalancavano la giacca e sfoderavano una quantità incredibile di orologi falsi, attaccati alla fodera interna, per poi richiudere tutto nell’attimo in cui notavano la scritta “Polizia” sul taschino. Li vedevi scappare via talmente veloci che quasi si lasciavano un polverone dietro.

La macchina non era lontana, ma tutto quel caldo, complici le maniche lunghe, mi fece sudare la schiena. Non appena sentii la brezza dell'aria condizionata sul viso, mi sentii riavere.

Avevamo ottenuto informazioni interessanti e conferme più o meno prevedibili. Michael si stava nascondendo ed era un pesce piccolo, all’oscuro delle decisioni dei piani alti. Trovai credibile quella versione e mi convinsi che i coniugi Cossner fossero del tutto estranei alla faccenda. Il personaggio che al momento trovavo più ambiguo era William Clide, cantante dei Wit Matrix. Sentii che era come ci aveva detto Michael: William rifilava versioni diverse a seconda delle esigenze; non diceva il falso, semplicemente ometteva alcuni dettagli, e lui si sarebbe sempre potuto difendere con la scusa che non era stato sollecitato su certi argomenti. Mi segnai mentalmente il fatto che avremmo dovuto preparare delle domande che non avrebbero lasciato zone d’ombra.

«L’hai sentito?»

Mi guardai intorno.

«Cosa?»

Il traffico era quello di sempre: nessuno schianto, solo una colonna infinita di macchine che somigliava a una processionaria.

Ash ridacchiò e intuii il senso della sua domanda nello stesso istante in cui mi rispose.

«Sto parlando di Nathan.»

Persi un battito, forse per lui, forse per l’incidente quasi sfiorato davanti ai nostri occhi. Mi tornò in mente l’appuntamento che avevo quella sera, con Nelly. Non sapevo bene neanch’io perché l’avessi chiamata, io che solo qualche settimana prima avrei voluto chiudermi in una bolla di vetro.

«No, ancora no.»

«Non dovevi chiedergli di uscire?»

«Dovevo chiedergli di vederci», ribattei seccato.

«Vabbè, nel vostro caso è la stessa cosa.»

Per fortuna a guidare non ero io e pensai che Ash dovesse ritenersi fortunato per il fatto che la mia pistola era al sicuro nella fondina.

«Cosa vorresti dire?»

Ci fermammo al semaforo. Una Chevrolet si fermò accanto a noi e l’odore del profumatore al pino selvatico arrivò fin dentro al nostro abitacolo.

«Secondo me, state bene insieme. Se non fosse che ti è successo quello che ti è successo, penso che ti avrei spinto a conoscerlo un po’ meglio.»

Passammo davanti a un gruppo di afroamericani impegnati in un’esibizione di break-dance. Poi rientrammo in quella parte della città che era un nugolo di persone confuse, uomini d’affari col telefono in mano, madri che portavano a spasso i figli piccoli e gli irriducibili con birra e patatine in mano. Che accoppiata.

«Mah, siamo così diversi. Non penso che potrebbe esserci qualcosa in quel senso.»

Il mondo mi scorreva davanti agli occhi come una trottola impazzita, troppo veloce perché potessi distinguere qualcosa. Persi rapidamente interesse per quelle immagini e mi rifugiai nella mia mente, poi mi intrufolai tra i miei ricordi.

Era la sera del diciotto agosto. Lui era arrivato in casa e io avrei voluto solo scappare. Aveva aperto le dispense sulle materie plastiche… sì, poi eravamo arrivati ad arrotolare le sigarette. La sua lingua era scorsa sulla cartina, da destra a sinistra, un paio di volte. In quel momento, qualcosa dentro di me si era mosso. Poi ci eravamo seduti sul divano… io gli avevo accarezzato le gambe. Dopo c’erano un sacco di ricordi inutili, finché non arrivavo al suo profilo, in quel parcheggio, quella nicchia dove forse avevo pensato, per un attimo…

«Io invece penso che qualcosa tra voi potrebbe nascere. E poi, secondo me, tu a lui piaci.»

La trottola mi sbatté dritta in faccia.

«Te l’ha detto lui?»

«Ah-ha», rispose lui, con un tono che lasciava sottintendere qualcos’altro. «Vedi che ti interessa?»

«La mia è semplice curiosità. E comunque non siamo compatibili. Siamo due opposti, finiremmo per litigare su tutto.»

Con la coda dell’occhio riuscivo a vedere il sorrisetto stampato sul viso di Ash. Lui si era piccato con questa storia fin dall’inizio, con la storia del finto appuntamento, ma in quel momento capii che ci si era proprio incaponito.

«Puoi saperlo solo se ci esci. Oppure se hai il potere di prevedere il futuro, ma allora non saresti solo un semplice agente.»

Rise della sua battuta e lo stesso feci anch’io. La mia era solo una risata esterna, però. Cos’era che mi impediva di chiedere a Nathan di uscire? Cos’era che me lo impediva davvero?

«E comunque lui sta con Harvey.»

«Intendi il ragazzo-fantasma? Ma dai, è solo una scusa.»

Una scusa? Forse. Nella mia testa, c’ero io che chiedevo a Nathan di vedersi. Una cosa informale, tra amici. E poi, all’improvviso, c’era tutto: l’atmosfera, il momento, quello sguardo nei suoi occhi… Non era un bacio a tradimento come lo era stato il suo: io sapevo che sarebbe successo e lo sapeva lui, così io mi avvicinavo, finché non riuscivo a sentire pure il suo respiro, la pelle del suo naso contro il mio, ora il suo odore, ora il mio… E lui si allontanava. “Forse non è il caso”, e mi liquidava così. Con quale coraggio avrei potuto guardarlo ancora negli occhi?

«Alan?»

«Mh?»

«Guarda che non ci sarebbe niente di male. Nathan è un tipo a posto. Capisco le tue paure, ma certe occasioni capitano una sola volta nella vita ed è meglio non farsele scappare.»

Tutto ciò che volevo dire si tradusse in un sospiro secco. La verità è che non avevo speranze. Se anche in qualche modo mi fosse interessato, di certo non sarei stato all’altezza degli standard di Nathan in fatto di uomini. Io non ero niente di speciale, quasi insignificante e, per certi versi, spesso apatico. Lui era un turbinio di colori e di emozioni, e se mi fosse stato troppo vicino avrei finito col spegnere la sua luce.

Guardai fuori dal finestrino e sospirai di fronte all’amara verità: Nathan si meritava molto, molto di più.

 

La vecchia libreria non era cambiata molto, dall’ultima volta che ci ero stato. L’intonaco verde marino era scrostato come sempre e, laddove aveva resistito alle aggressioni del tempo, lo strato di coppale stava lasciando posto alla vera natura della vernice, opaca e fragile. Il bandone, semi-abbassato, presentava ancora quelle vere e proprie conversazioni tra i teppistelli della zona: c’era chi affermava la supremazia del gruppo Shiva, chi invece rivendicava una presunta superiorità su di esso, firmandosi con una svastica all’incontrario.

          Abbassai la testa ed entrai. La libreria del padre di Nelly, passata poi alla figlia, odorava di muffa come sempre, forse per via di un’intera sezione di libri antichi che si trovava al piano superiore. Chi entrava per dare uno sguardo cercava l’ultima uscita; ma chi aveva lo spirito di addentrarsi, di lasciarsi alle spalle quella città moderna e frenetica, saliva quegli scalini, ne apprezzava il cigolio, ed entrava in quello che per il vecchio Bartz era sempre stato l’odore del paradiso. “Non c’è bisogno di morire, per trovare l’eden”, diceva sempre. C’era uno scaffale, all’angolo sinistro vicino alla finestra, davanti al quale c’era un panchetto di legno a tre gambe, appartenuto alla loro famiglia da secoli. Si era rotto già in un paio di occasioni e, tutte le volte che il vecchio Bartz ci si sedeva, mandava sempre una preghiera a Dio e al Superattack. Ripeteva sempre che la sua schiena non avrebbe retto un’altra caduta.

          Seduto sul panchetto, con un libro in mano, potevi tornare indietro nella storia di qualche decina d’anni - o di secoli, se eri fortunato. C’era narrativa, ma soprattutto saggi, ristampe impreziosite di qualche opera famosa o anche solo le novelle della propaganda americana nel periodo della guerra. C’era di tutto dentro quel piccolo angolo di paradiso, l’orgoglio del padre di Nelly.

Poi un giorno un ictus stroncò il povero Bartz e la libreria passò alla figlia, perché Oliver non ne voleva sapere, troppo preso dal suo sogno di diventare medico. Non lo si poteva certo biasimare, ma quella libreria era una rarità e un gioiello, in un tempo dove tutto scorre, forse fin troppo, così tanto da non lasciarti niente.

Nelly aveva la stessa meticolosità del padre. Era curva sulla scrivania, la testa illuminata a fare ombra al foglio dove stava appuntando chissà cosa.

 «Ciao, Nelly.»

Lei alzò la testa e mi sorrise. Si alzò in quella penombra e mi venne incontro, poi mi gettò le braccia al collo.

«Alan! Che piacere vederti.»

Ci guardammo, come a volerci dire altro, ma nessuno dei due continuò. La sua espressione mutò ed ero certo che riuscisse a leggere qualcosa dentro di me, nonostante non ci fosse così tanta luce. Dalla strada provenivano rumori indistinti e ovattati, un cicaleccio di persone rinchiuse in una scatola.

«Pensavo che non saresti più passato, sai?»

«Lo pensavo anch’io.»

Osservai i libri negli scaffali. In quello subito accanto alla cassa c’erano un paio di volumi inclinati per non far cadere il resto. Immaginai che fossero così da molto tempo e che lo sarebbero stati per altrettanto. Pensavo che sarei rimasto così anch’io, un libro vecchio e ammuffito, che poteva solo rievocare il fascino dei ricordi.

Invece ero lì, perché a New York tutto scorre, e io stavo scorrendo con lei; ma in mezzo a quel fiume in piena io avevo bisogno di fermarmi un attimo, di tornare in quel luogo che aveva il sapore di uno spazio eterno e immobile. Ci sono cose che cambiano, come i sentimenti, immutabili solo per chi ormai non vive più; e poi c’erano dei fatti che sarebbero rimasti tali, come il legame di fratellanza che legava Nelly e Oliver.

«Sei passato a prendere quella cosa di Oliver?»

Io la guardai per un attimo. Lei non aspettò una mia risposta e cominciò ad andare verso il bancone.

«No», risposi, e lei si fermò di scatto. «Non sono venuto per Oliver.»

Tornò verso di me, a passi lenti; poi, quando fu abbastanza vicina, mosse appena il capo in uno scatto, come a dirmi di parlare.

Non sapevo bene perché lo stessi facendo, né se fosse giusto. Sapevo solo che lei era l’unica persona, su un totale di sei miliardi, a cui avrei potuto confidare tutto ciò che stavo per dire.

«Ho bisogno… » cominciai, ma le parole uscivano a fatica. «… di te.»

Nelly schiuse le labbra. Mi sorrise, poi annuì. Lasciammo che l’eternità dei libri ci risucchiasse, mentre i nostri occhi scandagliavano il mondo interiore dell’altro, senza bisogno di parole. Lì, sospesi in un attimo di tempo che non poteva esistere, comunicavamo tutto ciò che sentivamo dentro, talvolta con un sorriso, talvolta no.

«Tu credi che sia troppo presto?»

Nelly fece spallucce.

«Questo lo puoi sapere solo tu. Io non posso sapere quanto ti coinvolga.»

«Sì, ma…», incespicai nel trovare le parole. «Tu credi che nove mesi siano pochi per…»

«Alan. Tu non mi stai chiedendo se nove mesi siano pochi per te, lo sai? Mi stai chiedendo se siano abbastanza per la gente, perché non pensino che tu abbia già dimenticato il tuo grande amore. Sbaglio, forse?»

Io non riuscii a rispondere. Nelly aveva ragione e sapevo quale fosse la vera natura dei miei tormenti, ma volevo una conferma o, al contrario, una smentita.

«Tu mi stai chiedendo il permesso per innamorarti. E chi sono io per dirti di no? Tu stai provando delle emozioni e questo significa che sei vivo. Sei vivo, Alan.»

Ero vivo, da un mese a quella parte. Molte emozioni si erano risvegliate in me, emozioni che credevo perdute per sempre. Nathan mi aveva strappato dall’apatia, mi aveva fatto rinascere dalle ceneri sotto cui mi ero sepolto, e ora ero lì, davanti a Nelly, a chiederle se fosse sbagliato innamorarmi di lui, se fosse lecito anche solo pensarlo. Guardai oltre, nella penombra, e mi parve di vedere due occhi, rossi e severi, che avrebbero scagliato su di me l’apocalisse se avessero potuto.

Io sapevo a chi appartenevano quegli occhi.

«E Oliver?»

«Oliver è morto, Alan. Puoi costruirti castelli in aria col suo ricordo, ma non puoi costruirti una vita con lui. Nessuno ti criticherà per questo.»

«E se…», provai a dire, prima che il groppo in gola mi bloccasse ogni parola. Non era Nathan il problema, non era nemmeno Oliver: ero io. Io e i miei sentimenti, nemici del mio ordine pubblico, della mia salute mentale.

«E se mi innamoro di lui e poi scopro che…»

Non potevo dirlo. Era un crimine. Sarebbe stato come investirlo due volte, uccidere la sua memoria, la nostra memoria.

«Che cosa?»

Cercai di frenare una lacrima, che invece scivolò e mi rigò la guancia destra. Abbassai lo sguardo, perché non potevo macchiarmi di quell’omicidio guardando Nelly negli occhi.

«E se scopro che lo amo più di lui? Più di Oliver? Non dico ora, ma tra qualche anno… Sai…»

La prima lacrima fu seguita da molte altre. Nelly mi gettò le braccia al collo, in un abbraccio dalla sorella che era sempre stata per me. Mi donò un conforto privo di giudizio, ma solo pieno di affetto e vicinanza per quello che sentivo. Le opinioni di Nelly erano sempre oggettive per quanto possibile, e la sua imparzialità, il suo comprendermi, mi fecero sentire in pace.

Le lacrime cessarono poco dopo, mentre raccoglievo i cocci del mio animo spezzato, violato da quell’unica paura che, a quel ritmo, non avrebbe impiegato molto a diventare una certezza. Lei calmò il mio animo con carezze lente sulla schiena, mentre mi sussurrava all’orecchio di non preoccuparmi.

Poi ci sciogliemmo dall’abbraccio e passò i pollici sulle mie guance, per ripulirmi dalle prove del mio crimine.

«Forse amerai qualcuno più di Oliver, sì. E sai cosa? Forse sarebbe stato qualcuno che non avresti mai conosciuto se Oliver non fosse morto, e allora ringrazierai il destino, con un po’ di amarezza, per quello che ti ha riservato. Vedila così.»

          «Già.»

          «E poi chissà, magari esiste qualcuno di più giusto di Oliver per te. Potrebbe essere proprio questo ragazzo nuovo. Come si chiama?»

          Ripensai all’immagine che mi si era formata in testa, in macchina con Ash. Era veramente difficile pensare a Nathan come a qualcuno di più giusto di Oliver, a partire dal semplice fatto che non era interessato a me. Nathan aveva il cuore giovane, di chi ha voglia di cambiare ed è disposto a farlo, ed ero abbastanza convinto che una vita con me l’avrebbe annoiato. Non c’erano speranze per me; non ce ne sarebbero mai state.     

          «Si chiama Nathan.»

          «Ah, che nome adorabile! Mi ricorda un ragazzo che conosco. E poi? Dai, racconta.»

          Le raccontai qualcosa su di lui, del fatto che eravamo completamente agli antipodi e che avrei dovuto trovarlo insopportabile per quel motivo, e invece la situazione era quella che era. La feci divertire con la trovata di Ashton - “Voglio proprio conoscerlo, questo genio!” - e fu la prima persona a cui raccontai del bacio che ci eravamo scambiati.

          Fu una lunga chiacchierata, in cui non ci fu spazio per i sensi di colpa.

          «Dunque siamo arrivati al punto dove tocca a te fare la prossima mossa, e questo ti ha mandato in crisi. Corretto?»

          «Corretto, come sempre.»

          «Qual è il problema?»

          «Il problema è capire in che direzione voglio far andare questa storia. Non so se invitarlo da amico o se… »

          Mi riempii di imbarazzo. Parlarne in quei termini era qualcosa di nuovo e sconvolgente insieme.

          «Quante storie. Invitalo da amico e poi, se la situazione lo permette, fai un passettino in avanti. Un regalo, un’offerta, magari ci scappa pure un bacio.»

          Schioccai la lingua per canzonarla.

          «Tu e Ash andreste sicuramente d’accordo. E non è questo il punto. È che a lui ci tengo, e preferisco rimanere amici che subire una delusione. C’è qualcosa tra di noi, Nelly, qualcosa che non riesco a spiegare. Un’intesa che non ho mai provato con nessuno. È qualcosa di magico, da qualunque prospettiva tu la veda, e non voglio perderlo.»

          Nelly rise di gusto.

          «Deve averti proprio stregato. Sarei curiosa di conoscerlo, l’uomo che ha fatto capitolare il nostro Alan. Senti, vuoi un consiglio? Buttati. Non sta mica lì ad aspettare te, sai? E se poi andrà male, potrai sempre venire a piangere sulla mia spalla.»

          Il suo ragionamento filava; eppure, ciò che continuava a preoccuparmi era la magia che c’era tra me e lui, che con ogni probabilità con un bacio si sarebbe spezzata.

 

Io e Nelly passammo una buona serata. Lei non fece altro che dire quanto mi brillavano gli occhi quando parlavo di lui, che era tanto felice per me e via discorrendo. Io non sapevo se ero felice per me stesso. L’unica certezza era la paura che quella situazione mi metteva. Stavo uscendo sul campo di battaglia senza armatura, senza spada, pronto a farmi pugnalare, se era così che dovevano andare le cose. Dovevo solo trovare il coraggio di rendere tutto reale, ma non ero sicuro di averlo, quel coraggio.

No, non ero sicuro per niente.

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti! Tante rivelazioni in questo capitolo, tra indagini e sentimenti J A quanto pare ci sono già un paio di persone che cercano di dare una spintarella a questa coppia ahahah XD Le cose andranno per il verso giusto? Oppure succederà un casino di dimensioni bibliche? :P

 

Ne approfitto anche per aggiornarvi sulla revisione: sono a buonissimo punto, mi manca solo da revisionare il 30 e poi finalmente passerò alla scrittura del 31, 32 e 33. Confesso che le settimane mi stanno passando velocissime e a questo punto ho quasi il terrore di non riuscire a finire la stesura in tempo, ma voglio (e posso) farcela!

 

Ancora una volta ne approfitto per ringraziare tutte le persone che hanno deciso di dare una possibilità a questa storia, vi giuro che mi rendete felicissima ç__ç

 

A giovedì prossimo, allora, e grazie per il sostegno <3

holls

   
 
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