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Autore: Ciuscream    13/01/2022    8 recensioni
Tadashi lo guarda: le sue pupille sono ancora la superficie ferma di quello stagno immobile, non attraversato da nessuna emozione che può dirsi viva, che può dirsi tangibile. Ma sa che è una menzogna: sa che è la paura – della morte, della sconfitta – a nasconderlo dietro palizzate infinite, molto più alte di quei suoi già troppi centimetri.
[TsukkiYama – AoT!AU]
{Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2023 indetti sul forum Ferisce più la penna}
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kei Tsukishima, Tadashi Yamaguchi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Dentro le (sue) mura
 
 
Kei ha gli occhi di un colore che, a Tadashi, ricorda una polla d'acqua sporca e stagnante, riempitasi per caso in uno degli anfratti nascosti di Shiganshina. Ogni volta che lo guarda, che li guarda, ha l'impressione di poterci affogare, il terrore malsano di finirci risucchiato dentro. Lo stesso di quando, dentro quella polla, si specchiava e il fondo era distante e perduto, spaventoso, pieno di quei mostri che, da bambino, immaginava abitarla, immaginava attanagliargli le caviglie e trascinarlo giù. Lo stesso di quando, per gioco, lanciava sassi ad incresparne la superficie piatta ed immobile, a sperare di vedere vita (e non morte) in quell'ammasso d'acqua muschiosa.
Se lo chiede, ogni tanto, se il suo cuore, la sua voce, le sue mani potranno mai essere sasso in grado di increspare l'immobilità che legge nelle pupille di Kei – se ne saranno mai degni. Ma non si sofferma abbastanza a lungo da trovare una risposta: questa fa più paura di quel fondale nascosto.

 
 
“Hai visto i Giganti, quel giorno… eppure sei qua, perché?”
“Sono qua proprio perché li ho visti. Tu, invece, perché sei qui, Tsukki?”
“Per non doverli vedere mai

 
 
Kei, a Tadashi, pensa poco; da quando, del corpo di suo fratello, è tornata giusto un po’ di carne morta e pelle stropicciata, pensa poco a tutto. La guerra degli ingenui, fuori dalle mura, non è la sua. Perché questo è ciò che accade a chi dona tutto, pure il suo cuore – non torna indietro nulla, solo un feretro da piangere (la sua copia malridotta) e una pila di sconfitte.
A che serve combattere contro chi è superiore a noi?
A che serve combattere quando l’unico risultato è sempre la sconfitta?

Kei ha le sue risposte ma alle domande dei suoi compagni di addestramento, alle domande di Tadashi, non riesce (non vuole) darne alcuna.
 
*
 
Piove, piove in modo martellante e tagliente, e ogni passo è uno scontro contro quel muro d'acqua che si rovescia dal cielo e li investe, impietoso, inclemente. Hanno corso sotto quella cascata per ore – hanno combattuto, hanno cercato di stare in equilibrio, hanno cercato di diventare i migliori dieci. Kei è stanco ma non stremato, appoggiato al parapetto che dà sulla grande distesa fangosa che ora è il campo di addestramento. È al riparo ma non si è ancora asciutto: gocce gli piovono dai capelli alle guance, lacrime di un dolore che, in lui, non sembra esistere, anestetizzato, eroso. Sembra impermeabile a quelle gocce e all'impeto di eroismo che muove quelli che fatica a chiamare compagni.
Hinata e Kageyama corrono ancora, sotto la pioggia battente, affondano i piedi nel fango, faticano il doppio, soffrono, perché lo hanno detto, nei loro modi opposti – scomposti, integerrimi –, che loro li uccideranno, i Giganti, costi quel costi. Hinata lo ripete di continuo, con quel suo vociare elettrizzato e sbragato, che è lama tagliente di fastidio sui timpani di Kei. Diventerà più forte e li batterà. Volerà – con le Ali della Libertà impresse sulla schiena. Volerà. Come un corvo, volerà.

 
“A che ti serve diventare uno dei più forti a combattere i giganti se poi andrai nel Corpo di Gendarmeria?”
“Voglio diventarlo solo per non doverli mai combattere”
“Ma noi siamo qua per vincerli, Tsukishima”
“Io non sono come te – un illuso che ha fretta di morire”

 
 
Illusi. Lo ripete di continuo, ad ognuno di loro. Illusi. Perché non serve impegnarsi tanto, andare incontro così sfacciatamente alla morte, per una battaglia che è persa in partenza, è persa per costituzione, logica, capacità innate.
Perderanno sempre, nonostante il dolore, il sacrificio, il martirio. Perderanno. Ha perso suo fratello, hanno perso mille altri prima di lui – orde di illusi votati alla sconfitta.
Anche lui ha guardato con ammirazione il Corpo di Ricerca sfilare fuori dalle mura, lo scintillio fiero negli occhi del Capitano Ukai, le mascelle serrate, le sopracciglia aggrottate di chi, contro, non ha solo i raggi di un sole accecante, ma pure il peso di una vittoria dell'umanità intera – un manipolo di eroi a scudo di tutti gli altri, degli inermi, dei pavidi.
Ed è stato ancora più bruciante comprendere la verità, poi: la sconfitta fa male il doppio a chi crede che possa esserci davvero una vittoria. Kei non ci crede più; per questo nel corpo a corpo combatte senza convinzione, senza slancio. Per questo sta in equilibrio con facilità, per dote, ma non se ne compiace, non si scompone, non ulula come tutti gli altri di un giubilo scomposto. Lui è fermo, impassibile, compassato – Tadashi lo ammira per la sua rigida compostezza, per quel suo essere quasi al di sopra delle logiche pragmatiche, delle pulsioni che si affollano tra di loro, degli ormoni, delle sensazioni sfavillanti di adrenalina e invincibilità.

 
Kei è altro. E Tadashi lo ama proprio per questo.
 
*
 
Kei è altro. E Tadashi lo ama proprio per questo.
 
Questo pensiero lo aggrappa, alla base del collo, e lo arrossa di lame di fiamme che gli arrivano alle guance e le imporporano; avvampa. Non se n’era mai accorto, prima.
Non se n’è accorto il giorno in cui Kei è arrivato a difenderlo, senza volerlo, controvoglia, dallo scherno e dalla derisione degli altri – le armi più crudeli –, perché c’è poco di forte, poco di aggraziato, poco di risoluto in quel suo corpo gracile. Perché Tadashi non è altro, è meno. E, ne è sicuro, così tanto in basso i troppi centimetri di Kei non riescono a vedere.
Non se n’è accorto la sera che ha visto i suoi pochi muscoli, il petto magro, le braccia sottili e lunghissime di quel ragazzo che è fascio esposto al vento, al sole, alla pioggia; immerso in quella bellezza che a Tadashi sembra scolpita nelle pieghe del candore, protetta da quei modi calmi e schivi, taglienti, da quei muri dalle feritoie strette che, solo a lui, è permesso oltrepassare, per quel poco.
Non se n’è accorto il giorno che lo ha visto battersi la mano sul cuore – nono tra gli scelti, tra i prescelti – e lo ha sentito, per la prima volta, perduto e distante. Perché sarebbe finito tra le mura interne, salvo, al sicuro ma lontano, lontano da lui, che a quei dieci non si è nemmeno avvicinato. Divisi da migliaia di cuori, da mura spessissime, da speranze e ricchezze, da tormenti e desideri diversi.

Se n’è accorto, invece, un giorno che lo ha guardato, seduto in disparte, lo sguardo basso a perdersi nelle fughe dei massi che lasciano sbocciare margherite ritte e fiere – le più forti, quelle nate dalla pietra, nella pietra, a dispetto della pietra. Si è sentito come quel fiore bianco e stropicciato, sbocciato nonostante l’anima e il cuore di Kei siano apparentemente duri ed aridi come quei massi lisi, terreno infertile a far fiorire i sentimenti altrui.
Se n’è accorto e non ha più potuto farne a meno; se n’è accorto e, per quel poco tempo ancora a loro disposizione, è rimasto aggrappato allo spazio lungo e sottile della sua ombra, vi si è rintanato dietro, come ha fatto sempre da quando ha incrociato per la prima volta il suo sguardo.

Se n’è accorto – e, adesso, non riesce a vedere altro.
 
*
 
Tadashi lo guarda: il profilo spigoloso, lo sguardo altezzoso, distante, trincerato dietro mura più spesse di quelle che li proteggono e li intrappolano – che lo proteggono e lo intrappolano. Si dovranno separare, domani; l’ultima cena nel campo d’addestramento, l’ultima volta seduti a fianco, l’ultima notte che potrà immaginarlo nel letto sopra il suo – a sognare, sereno forse dietro le palpebre, diverso, morbido come non è durante il giorno. Ogni notte Tadashi ha impiegato sempre più tempo ad addormentarsi; ha ascoltato il respiro via via più profondo di Kei, si è beato di quella sensazione di vulnerabilità che può concedere solo il sonno, quando i muri si abbassano, crollano, sotto una forza più granitica di quella delle pietre di cui s’è contornato.
Tadashi lo guarda: le sue pupille sono ancora la superficie ferma di quello stagno immobile, non attraversato da nessuna emozione che può dirsi viva, che può dirsi tangibile. Ma sa che è una menzogna: sa che è la paura – della morte, della sconfitta – a nasconderlo dietro palizzate infinite, molto più alte di quei suoi già troppi centimetri.
Tadashi lo guarda: Kei scivola via, fluido, come sempre. Scivola via dal tavolo, dalla sala, dalla sua vita, come se nulla lo toccasse o lo scalfisse, come se nulla importasse davvero. E non può accettarlo, Tadashi, non questa volta. Magari le sue mani, la sua voce, il suo cuore non avranno la forza di quel sasso, sbaglieranno la mira. Ma lo sente che deve provarci, deve trattenerlo, perché lo perderà, altrimenti – perché l’umanità perderà.

Lo segue, con i passi che si affrettano uno dietro l’altro, si sommano, diventano corsa, via via sempre più urgente; lo chiama, lo raggiunge, lo aggrappa per la giacca, lo volta. Ne stringe i lembi di stoffa con una forza che ha le tinte della supplica, come se quello fosse l’ultimo appiglio alla speranza, ad una vita che non sia vuota di quegli occhi in cui sente sprofondare le gambe, frammento di una Shiganshina perduta, di una Shiganshina che lo ha visto bambino.

“Non puoi andare nel Corpo di Gendarmeria! Non puoi!

Kei sgrana gli occhi e un bagliore di emozione li attraversa, rapido come una stella che cade. La calma piatta delle sue pupille si smuove di qualcosa che Tadashi non saprebbe descrivere con precisione. Lo capisce, però, che per la prima volta le sue parole sono state sasso e il loro eco adesso si allarga di cerchi concentrici, dentro le stesse.
Lo ripete, ancora, con la voce che suona quasi stridula in quell’urgenza di uscire fuori, di urlargli quello che per mesi ha represso, schiacciato, sotto la divisa, tra le costole, a puntellargli il cuore.

“Non puoi! Sei forte, sei intelligente, hai l’istinto per combatterli! Non puoi rintanarti nelle mura! Non puoi essere un codardo! Non tu!”

Il sopracciglio di Kei si alza appena mentre solleva anche il mento, quasi ad allontanare il viso da quelle grida che sono verità in decibel, sono vento che lo investe sferzante. Il suo labbro trema e Tadashi non saprebbe dire di cosa – rabbia, impotenza, tristezza, dolore.
Lo scopre un attimo dopo, che le sue labbra vibrano perché parole stanno cercando di risalirgli la gola, ad investirlo, ad investire entrambi, della forza benefica di quella verità codarda, di sillabe pronte a sfondare muraglie con la forza del Gigante Colossale.
Grida, Kei, grida, con la mascella contratta, la rabbia a segmentarne i tratti.

“A cosa serve combattere, eh? Non potremo mai batterli! Saranno sempre più forti di noi! Perché continuare? Perché continuare a morire?”

Tadashi sgrana gli occhi, di sorpresa, di sgomento, di un fastidio che non pensava di poter provare per lui, che è sempre stato ispirazione e guida, ispirazione e malcelato amore. Si alza sulle punte, per sputarglielo dritto sulla pelle del viso, mentre lo stringe ancora per la giacca, lo tira, lo attira a sé. Verso la sua rabbia, verso il suo dolore, verso quella delusione che gli increspa i tratti.

“Che cazzo ti serve di più dell’orgoglio di smettere di vivere in trappola? Per cosa vuoi combattere, se non per la libertà?”

Kei schiude appena le labbra e strabuzza gli occhi, mentre si lascia scuotere sotto le mani dell’altro; vorrebbe ribattere ma quello che esce è soltanto un sibilo, un sospiro, colmo all’orlo di colpevolezza e di consapevolezza. Se ne accorge anche lui, in un istante, che il ragazzo che ha di fronte non è più quello spaurito e gracile che si è sempre rintanato dietro le sue spalle, diventandone l’ombra. Negli occhi di Tadashi c’è una luce nuova, che non conosce e non sa riconoscere. Una luce che gli afferra qualcosa alla gola, che gli mozza le parole e le strozza. Una luce che gli impedisce di ribattere con fredda calma, con quella distanza che è solito mettere tra lui e il mondo.

La presa sulla sua giacca si allenta appena, le dita si sciolgono dall'apice di quella tensione: Tadashi è a pochi centimetri dal suo viso. Può sentirne il respiro addosso, può sentirne il calore del fiato pizzicargli la superficie delle labbra screpolate, può sentirlo affannato quanto lui dalla fatica immensa di quello scontro. Lo sente talmente vicino che, per la prima volta, riesce a vederlo davvero. Lo vede, lo guarda, si immerge. Nota solo adesso le venature verdastre dei suoi occhi piccoli, le sparute lentiggini ad invadergli gli zigomi, le labbra dritte e sottili, piegate in una smorfia che è ancora rabbiosa.
Tadashi fa altrettanto mentre si perde in quella polla che sono le sue iridi: sente le alghe aggrapparlo alle caviglie, sente i mostri avvilupparlo. Ma non si sente trascinare in basso, verso il fondale. Piuttosto, li avverte spingere, sospingerlo, ad azzerare quei centimetri che dividono i loro visi, che separano le loro labbra, i loro respiri, i loro destini.
Non oppone resistenza, non ora. Lascia che le sue labbra tocchino quelle di Kei, lascia che ne sentano la consistenza ruvida, il loro calore sbiadito. Lascia che siano loro a supplicarlo al suo posto. Lascia che siano loro a sfondare le sue mura.
 

 

Note: Prima premessa: questa è la mia prima volta nel fandom di Haikyuu!! quindi l'OOC, per quanto abbia cercato di rimanere il più fedele possibile ai personaggi nonostante l'AU, è d'obbligo. Seconda premessa: ho visto l'anime fino alla S2E16; quindi, la mia interpretazione dei personaggi ricalca la loro evoluzione fino a quel momento della storia. Il dialogo finale è volutamente un remake (?) di quello avvenuto tra loro proprio nella seconda stagione.
Fine premesse ma piccolo fun fact. Questa storia nasce per puro caso: guardando questa fanart Eruri (di cui purtroppo non conosco i credit), ci ho visto troppo dentro Kei e Tadashi e, quindi, è grazie a questa se la storia esiste. Un grazie doveroso anche a Carmaux che, forse involontariamente, mi ha fatto pensare che potesse essere scritta davvero e grazie a Benni per aver risposto ad ogni mio dubbio.
Nella stesura, sono nati spontanei alcuni semi-parallelismi: Kei/Jean, Hinata/Eren, a cui infatti si rivolge citando testualmente “la fretta di morire” tanto nominata in AoT. E quindi nulla, eccola qui. Non so di preciso come/cosa sia uscito fuori ma grazie a chiunque sia arrivato fin qui e un abbraccio!
   
 
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