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Autore: HellWill    20/01/2022    0 recensioni
(Ho visto questa challenge (goo.gl/XBoRTK) e non potevo non farla. L'ho iniziata nel 2015, ma era l'anno della maturità e mi sono fermato al prompt n°23.)
Una storiella che sarà presto inclusa in un freebie, in accordo con altri autori, sul tema "Tu chiamale, se vuoi, emozioni", (Lucio Battisti).
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie '365 DAYS WRITING CHALLENGE'
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20 gennaio 2022
Rock’n’Roll

Se c’era qualcosa che non gli apparteneva, era la calma.
Furioso e con dita leggiadre, quel pomeriggio cambiava accordi su accordi, insoddisfatto della canzone che stava componendo, con la penna fra i denti che scricchiolava tanta la rabbia che covava nel petto e gli avviluppava il cuore in una stretta morsa di fiamme.
La penna fu posata sul foglio su cui ogni tanto scriveva l’accordo giusto. Ian emise un sospiro, bevendo poi un sorso di caffè ormai freddo dalla tazza poggiata vicino il vasetto dell’aloe, e fissò la pianta con la fronte corrucciata.
«Che hai da guardare?» chiese con aria di sfida, poi riprese la penna fra i denti e seguitò a mettere gli accordi l’uno dopo l’altro, cercando incessantemente quello giusto, cercando continuamente quella perfezione che solo la musica poteva garantirgli.
L’oscurità calò nella stanza, man mano che la pioggia aumentava d’intensità fuori dalla finestra. Ma Ian non lo notò, preso com’era dalle dita che si muovevano a memoria sulla tastiera e sulle corde della chitarra elettrica.
Gliel’aveva regalata sua madre un paio d’anni dopo che suo padre se n’era andato di casa.
Il cuore gli si infiammò di nuovo d’ira. Premette con più forza le dita sulle corde, che gli lasciarono segni rossi sui polpastrelli. Lavorava da ore a quella stupida canzone, e ora ripensava pure a quella merda là.
L’oscurità nel buco di culo che chiamava “casa” calò in fretta. Erano solo le cinque di pomeriggio, ma sembrava ormai notte fonda. Quando si alzò per accendere la luce, disturbò Elvis che si era acciambellato sul divano, su cui aveva posato la chitarra. Il gatto si stiracchiò, e saltò giù dai cuscini credendo che Ian stesse andando a riempirgli la ciotola – nonostante fosse troppo presto, per quello, ma forse Elvis ci sperava comunque –, strusciandosi con un «Mrraow» di saluto sulle caviglie del ragazzo.
Ian, ventidue anni di emozioni represse e sentimenti troppo vividi, si chinò per grattargli il suo punto preferito, appena prima della folta coda.
«Sono proprio uno stereotipo, vero? Vivo in un cazzo di monolocale con te, un gatto nero, e una chitarra elettrica in mano a tutte le ore del giorno» borbottò il ragazzo, recuperando nel frattempo la tazza quasi vuota e riempiendola di caffè solubile. Era troppo disorganizzato per avere del latte in frigo, quindi utilizzò l’acqua calda direttamente dal rubinetto e sorseggiò quella mesta bevanda in silenzio, osservando lo scroscio della pioggia che spandeva goccioline sul davanzale interno della finestra aperta. Elvis miagolò, in cerca di cibo o forse attenzioni, e Ian recuperò dal tavolo un giochino che gli aveva comprato per non farlo deprimere come lui. Glielo lanciò e il gatto osservò il giochino atterrare poco più in là, poi rivolse uno sguardo interrogativo all’umano, come non sapesse che farsene di quella roba. Ian brontolò.
«Ci devi giocare, non mi guardare come un fesso» gli disse secco, e Elvis miagolò in risposta.
«No, è presto per la pappa».
A quelle parole, il gatto aguzzò lo sguardo e rizzò le orecchie, tornando a strusciarsi contro le sue caviglie con suoni di protesta, indistinti fra delle fusa un po’ ruffiane.
Ian lo prese in braccio e lo tenne sollevato davanti a sé, così da poterlo guardare negli occhi.
«Hai solo un anno, se poi diventi un ciccione chi la sente la nonna?» protestò, riferendosi a sua madre con quel nomignolo affettuoso: Elvis non era un semplice gatto, bensì il nipotino di Anne; e ciò, nonostante Ian non considerasse quell’animale come un figlio ma più come un coinquilino, o forse un amico, salvato dalla strada qualche mese prima.
Il campanello suonò, con un rumore acuto e gracchiante al tempo stesso, e spaventò Elvis che si divincolò dalla sua presa e saltò sul tavolo; scese subito, poiché a Ian non andava che salisse sulle superfici su cui mangiava, e gli aveva insegnato a non usarle. Che poi ci salisse e sfregasse il suo bel culetto su ogni superficie disponibile quando lui era a lavoro, o alle prove della band, non gli importava: la cosa fondamentale, si diceva, era che Elvis lo stimasse abbastanza da rispettare quella regola in sua presenza.
Ian andò ad aprire, e Elvis si sporse curioso a guardare la persona che saliva per le scale.
«Cazzo, Ian, ma un ascensore, in questa bettola, di merda, no?» e alle virgole corrispondevano gli sfiati di Seth, che pur essendo in forma aveva appena salito cinque piani e dieci rampe di scale per raggiungere il monolocale di Ian.
«Dici sempre la stessa cosa, e ti rispondo ancora una volta: se fossi così ricco da permettermi qualcosa di meglio di questa topaia, di certo casa mia avrebbe l’ascensore» borbottò Ian, accogliendo l’amico con una pacca sulla spalla e un mezzo abbraccio. Dietro di lui, si arrampicavano per i ripidi gradini Simon e Mark, rispettivamente batterista e voce della band. Come fosse possibile che entrassero tutti e quattro nell’appartamento di Ian rimaneva un mistero, ma il ragazzo si grattò la nuca e chiuse la porta mentre Seth apriva il frigo.
«Fra, devi fare la spesa cazzo. Ma di che ti nutri?» protestò, vedendo che nel frigo c’era un mezzo limone ammuffito, una tazzina con dentro del bicarbonato e uno yogurt scaduto.
«Semplice, noodles istantanei. Cinquanta centesimi al pacco» rise Ian senza allegria, poi scosse la testa. «Col lavoro e le prove, fare la spesa è l’ultima cosa per la quale mi rimane tempo. Pensa che mi pulisco il culo con la carta da cucina» ironizzò, e Mark scosse la testa.
«Guarda che ti vengono le emorroidi».
«Pensavo mi sarebbero venute perché mi faccio scopare come non ci fosse un domani, pensa te» Ian scoppiò a ridere, e Mark lo guardò divertito, scuotendo poi la testa. Simon, il più tranquillo di quel gruppo stranamente assortito, si chinò per carezzare Elvis e grattargli dietro le orecchie, rimanendo in silenzio.
«Non ce l’hai qualcosa da bere?».
«Oh, sì! Ho ben due scelte: acqua di rubinetto e caffè solubile fatto con la suddetta» Ian allargò le braccia. «Welcome to my silly life!» disse, citando una canzone famosa.
Simon inarcò le sopracciglia a quelle opzioni.
«Beh, allora facciamo un caffè per tutti. Vi va?» chiese Seth, mettendo già le mani in uno sportello divelto della credenza per tirarne fuori tre tazze, adocchiando quella già in uso di Ian.
«Quanto ne hai già bevuto?» domandò allora Mark, critico, seguendo lo sguardo di Seth e identificando i diversi segni di caffè sul bordo della tazza come il segno che ne avesse fatti già una decina quel giorno.
«E chi lo sa» rispose Ian. «Mica sto a contare i caffè che bevo» borbottò, andando a sedersi di nuovo sullo sgabello che usava per comporre, vicino la finestra aperta: stava iniziando a spiovere, e Elvis si era appollaiato sul davanzale interno, fissando l’esterno senza spostare lo sguardo da un punto preciso ma completamente vuoto, come di solito fanno i gatti.
Ignorando l’animale, Ian afferrò la chitarra e si schiarì la voce: i battibecchi riguardo il caffè solubile di schifosa sottomarca di infima qualità e l’acqua piena di calcare e cloro e chissà cos’altro si esaurirono in fretta: tutti lo fissarono in silenzio, improvvisamente attenti.
«È tutto il pomeriggio che cerco di scrivere la base per questa fottuta canzone» confessò Ian. «Ed è tutto il pomeriggio che strimpello e scrivo accordi e cambio note e mi improvviso scienziato della musica, quando in realtà non so che fare per rendere orecchiabile questa cazzo di base» disse, un po’ arrabbiato per l’implicita richiesta di aiuto.
«Beh» Seth si grattò la barba, poi fece un gesto con la mano che non reggeva la tazza, «Illustraci cos’hai in mano, facci sentire quello che sei riuscito a comporre finora. Magari ti diamo una mano».
Ian sentiva il petto bruciare. Non era certo che bere tutto quel caffè fosse stata una buona idea, ora che gli faceva male lo stomaco. Iniziò a suonare comunque.
I tre membri della sua band ascoltarono in silenzio i pochi accordi, racimolati come monetine da un barbone, e Mark si strinse nelle spalle.
«È un inizio, di certo. Perché non riesci ad andare avanti?».
«Non lo so, mi sembra tutto… tutto già fatto, già sentito, già composto e decomposto. Io voglio fare una musica che si ricorderanno per epoche. Voglio che la suonino ai funerali e alle orge. Voglio che la gente si sballi e ascoltandola pensi “wow che trip”. Non so se mi spiego» disse Ian concitato.
Seth scoppiò a ridere, e Mark e Simon sorrisero.
«Pretendi troppo da una singola canzone. Rilassati. Hai decisamente bisogno di uscire un po’ e staccare dal comporre, e dalla musica» suggerì Mark.
«Sì, ma dobbiamo presentare il nuovo pezzo alla serata fra un mese. E dobbiamo averlo intero, base, testo, e tutto quanto… e dobbiamo provarlo, fino allo sfinimento, finché non è perfetto per la serata».
«È solo una stupida serata in un pub… non vale la pena rovinarsi la salute per una cosa simile» Seth prese un sorso di caffè. «Mmm. Terribile» disse, e fece per versarlo nel lavandino.
«Non ti azzardare a buttarlo» Ian gli puntò il dito contro, ringhiando. «Quella roba la pago cara e amara!».
«Amara di certo!» protestò Seth, ma posò la tazza ancora piena sull’isola della cucina.
«Beh, che si fa?» chiese Mark, guardando gli altri.
«Filmetto e merenda?».
«Io vado a comprare gli snack» si offrì volontario Simon, e Ian deglutì: si sentiva incompreso anche da loro, i suoi più cari amici, ma non era il momento di farglielo presente.
Quando Simon ritornò, i tre rimasti avevano finalmente scelto un film degno di essere visto: avrebbero riguardato il classico dei classici, l’intramontabile film d’animazione, l’unico e il solo: Shrek.
Fra birre e risate, il pomeriggio e la serata passarono in fretta.
Quando Ian richiuse la porta di casa dietro l’ultimo componente della band che si avviava per le scale, si lasciò scivolare seduto a terra con un sospiro. Elvis venne subito da lui, trotterellando ed emettendo un suono interrogativo. Ian lo accarezzò distrattamente, e il gatto gli mordicchiò le dita, cercando di fargli capire che era ora della pappa. Ian si alzò e brontolò qualcosa sui gatti approfittatori, versando un bicchiere di croccantini nella ciotolina del cibo secco e una metà bustina in quella del cibo umido.
Una volta fatto ciò, lanciò un’occhiata quasi nostalgica alla chitarra abbandonata sul divano: era troppo tardi per riprendere a suonare. Anche con gli amplificatori al minimo, rischiava che i bassi disturbassero i vicini.
Per cui, decise di andare a letto.
Ma stette lì, fra le coperte avviluppate attorno al corpo come un sudario, per ore intere. Senza chiudere occhio, ovviamente. Elvis ronfava sul suo petto, occasionalmente facendo delle sorde fusa, per cui Ian non si decideva ad alzarsi e a fare qualcosa che non fosse pensare, e pensare, e pensare ancora.
Quella merda umana di suo padre era il tipico tizio che “vado a comprare le sigarette” e poi non si fa più vedere.
Ian aveva sette anni quando lui era sparito dalle loro vite; da allora, Anne aveva faticato a tener su la casa, che pur essendo di sua proprietà cadeva un po’ in malora. Ma ce l’aveva sempre fatta, per amor di suo figlio che nulla di male aveva fatto nella vita per meritare di perdere il padre, la casa o qualsiasi altra cosa.
Due anni dopo quella specie di tragedia, Anne aveva racimolato e risparmiato abbastanza soldi da regalare ad Ian una chitarra elettrica, per cui lui aveva iniziato a consegnare giornali nel vicinato, risparmiando a sua volta per degli amplificatori da quattro soldi, che solo da adulto avrebbe poi effettivamente sostituito con altri.
Sua madre non aveva soldi per pagargli delle lezioni, così Ian si era messo a spulciare internet e youtube, in cerca di video lezioni gratuite sugli accordi base per la chitarra elettrica. Aveva imparato da solo a suonare quello strumento, troppo grande per le sue dita da bambino. E man mano era cresciuto, con quello strumento in mano in ogni istante libero della sua vita, strimpellandolo finché non aveva conosciuto, al liceo, quelli che sarebbero poi diventati i suoi amici nell’età adulta: Mark, Seth e Simon, come lui, suonavano o cantavano; e tutti loro condividevano gli stessi gusti musicali, quindi quando Ian aveva proposto di metter su una specie di rock-band loro si erano dimostrati subito entusiasti.
Elvis si stiracchiò sul suo petto e balzò giù dal letto, diretto chissà dove. Non che avesse granché spazio in cui andare: da lì si vedevano il divano, la cucina, e anche la chitarra poggiata sui cuscini come un’amante crudele che riposava.
Ian rimase a fissarla, e sentì le emozioni che quei pensieri gli avevano causato acuirsi fino a far male, come stringere troppo forte in mano un riccio di mare.
Il ragazzo si alzò, andò alla finestra e si sedette sul davanzale, con le gambe penzoloni nel vuoto. Elvis lo raggiunse a passo svelto, e si strusciò contro il suo fianco. Ian lo carezzò senza veramente pensare a lui.
La strada era deserta. La pioggia era cessata, e tutto splendeva di riflesso sotto la luna quasi piena. Il cielo era incredibilmente terso, ma non una stella era visibile nel cielo inquinato dalle luci della città. Ian si sentì, come al solito quando era insonne, incredibilmente perso e solo.
Non una cosa, nella sua fottuta vita, aveva il minimo senso.
Non era come nei libri che divorava da bambino, in cui tutti i personaggi prima o poi tornavano e chiudevano le proprie sotto-trame. Non era tutto costruito in modo che i personaggi avessero archi di trasformazione; non tutto si avviava verso un ovvio lieto fine. Non tutto si avviava verso la minima conclusione, a dire il vero.
Nella realtà, tutto era lasciato al caso.
Un pensiero del genere poteva avere due effetti su un’anima tormentata come la sua: il primo, che non era per niente da lui, era che calmasse quella solitudine e quell’ansia che si portava dietro da sempre; se nulla aveva un senso, e tutto era casuale, che senso aveva preoccuparsi?
No, lui era più il tipo di persona che subisce il secondo effetto: il solo pensiero che tutto fosse casuale e nulla avesse un senso lo gettò nella disperazione più nera. Avrebbe voluto strapparsi la pelle di dosso, scavarsi con le dita nel petto, estrarne il cuore con il sangue sotto le unghie frastagliate, e farlo cessare di battere.
Quei pensieri violenti avevano fini violente, lo mise in guardia la sua testa, che ora minacciava di scoppiare: gli era venuta un’emicrania terribile, che lui imputò al silenzio che regnava di notte, sofferto come una condanna a morte.
«Non m’importa delle fini violente» mormorò Ian, ed Elvis miagolò piano come in risposta. Si prese la testa fra le mani e chiuse gli occhi. L’aloe lo guardò mettersi in piedi sul davanzale della finestra aperta.
La brezza invernale gli carezzava il viso in modo dolce, promettendogli pace. Si prese le mani in mano, deglutì, e aprì gli occhi sul cielo.
Miliardi di stelle splendevano ora sulla tela bruna che era il cielo.
Le guardò stupito.
Si allungò verso la calda casa per rientrarvi.
Scivolò a piedi nudi sul davanzale bagnato dalla pioggia.
Batté la testa cadendo dalla finestra, proprio accanto ad Elvis.
«Non è poi così difficile morire» mormorò fra sé e sé, un po’ divertito dal pensiero che solo pochi secondi prima stava giusto per rientrare in casa, stava giusto per dare alla vita un’altra possibilità.
Chissà cos’avrebbe pensato sua madre.
Dio, è proprio vero che ti passa la vita davanti quando cadi.
E in un ultimo guizzo si arrabbiò con se stesso perché non avrebbe mai finito quella stupida canzone; nulla più che sette accordi stonati messi alla rinfusa su un foglio, e quelli, solo quelli, sarebbero stati la sua eredità.
   
 
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