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Autore: Delsin98    01/02/2022    5 recensioni
- Siamo abituati a credere che la terra sia nostra, ignari di essere solo un granello di polvere nell'ecosistema del tutto -
Dopo un cataclisma di origine sconosciuta che ha decimato quasi l'80% della popolazione mondiale, i governi decisero di mettere mano agli arsenali e di scatenare una guerra su vasta scala per il controllo delle poche risorse rimaste ancora intatte, cambiando radicalmente la struttura stessa del pianeta, o almeno era quello che si pensava....
In questo desolato contesto si immerge un cacciatore di taglie dal passato misterioso e senza alcuna memoria dello stesso, il quale intraprende un viaggio, attraversando ciò che rimane del continente americano, alla ricerca di informazioni che lo aiuteranno a svelare la terribile verità che lo circonda. Pericoli e minacce di ogni sorta sono dietro l'angolo, pronti a ghermirlo in ogni momento. Riuscirà a sopravvivere e riportare alla luce un temibile segreto rimasto celato per secoli?
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 1  

 

“Siamo creature stupide e incostanti, con la memoria corta e un grandissimo talento per l’autodistruzione” 
(Suzanne Collins) 

 


 


 2017: Penitenziario di San Quintino...... 

 


 


 La pioggia scrosciava forte quel giovedì mattina nella contea di Marin, a circa 38 miglia dalla grande metropoli di San Francisco. Un’ombra cupa e malinconica vi aleggiava, inghiottendola quasi completamente. L'unico suono udibile era l’infrangersi delle gocce sull'asfalto; né una macchina, né gli uccellini, né il parlottare delle persone ed i rumori che producevano i loro piedi nell'acqua, né le risate di un bambino. Nulla. D'altronde che razza di genitore lascerebbe giocare il proprio figlio dinnanzi ad un penitenziario? 

Già, il famoso Penitenziario di San Quintino, luogo dimenticato da Dio, se mai una divinità ci fosse stata, ove erano rinchiusi i criminali della peggior specie e divenuto famoso per i metodi poco ortodossi applicati ai propri detenuti. Nell'ala ospitante i peggiori reietti della società, tra le urla incessanti di chi pretendeva una libertà che non gli apparteneva, un uomo trascorreva il suo tempo ad osservare con occhi sgranati il soffitto della propria cella. Era quasi come se fosse calmo, incurante dell’inferno che avveniva intorno a lui. 

L’aria fredda che giungeva dalla minuscola finestrella posta in alto contribuiva a riempirgli i polmoni, accompagnata dal nauseabondo odore di muffa proveniente dalle pareti spoglie ed umide della sua lugubre stanza, che come lo stesso sospettava, avevano visto giorni migliori. Un neon sfasciato, posizionato proprio dirimpetto al cubicolo, oscillava avanti e indietro, trasmettendo una luce soffusa e giallognola, proiettando le ombre dei secondini impegnati in attività alquanto discutibili, facendoli apparire agli occhi dei malcapitati di turno come demoni assetati di sangue. 

Pensieri pericolosi e strazianti se si fosse trattato di qualcuno attaccato alla propria vita, ma egli non era mai appartenuto a quella categoria, e qualsiasi cosa gli fosse successa, non sarebbe stata poi così importante. 

«Voglio vedere il prigioniero 204» tuonò una voce proveniente dal fondo di quell’abisso, riscuotendolo da quella torbida riflessione.  

Esatto, era questo il numero attribuitogli, non che ci fosse alcunché di male in esso. Ma per quanto si fosse sforzato e avesse affrontato anche l’inenarrabile, alla fine era stato semplicemente ridotto ad un numero, e che numero poi. Che diamine, avrebbe preferito qualcosa di un po’ più serio.

Nel penitenziario quella cifra era ormai divenuta oggetto di timore, quasi come se fosse pervasa da un sottile alone di leggenda, specialmente se correlata al personaggio che la rappresentava. Qualcuno da cui era meglio stare alla larga se non si era in cerca di guai o se si avesse avuto a cuore la propria incolumità. Quindi, chi sarebbe stato così stupido da volerlo disturbare? 

L’eco di passi pesanti si fece incessante, riecheggiando lungo il tunnel, mentre degli anfibi logori e sporchi calpestavano un liquido rossastro e a tratti pallido. Nessuno sapeva spiegare cosa fosse quella brodaglia, anche se i prigionieri qualcosa avrebbero potuto intuire, se non fossero stati troppo spaventati per accorgersene.  

Si rese conto di non riconoscere nessuno dei passi in avvicinamento e sospirò: non aveva una gran voglia di fare nuove amicizie. In quel momento un senso di disagio lo invase stringendogli lo stomaco: conosceva quella sensazione, spesso gli aveva salvato la pelle, sentirla non era mai una buona cosa. Un brivido di apprensione gli corse lungo la spina dorsale: brutto segno. 

La porta si spalancò di colpo, rivelando alla luce due energumeni piuttosto nerboruti e nientemeno che il direttore Levinson. Quest’ultimo fece un passo avanti, mostrandosi agli occhi del prigioniero come un ometto alto non più di un metro e settanta, ma sembrando ancor più basso se paragonato alla stazza del galeotto o a quella delle sue guardie.Aveva folti capelli nerastri tirati indietro dal gel ed un feticismo quasi comico per le canottiere bianche dai bordi ingialliti per il sudore, che egli teneva infilata in pantaloni cargo dall’aspetto militaresco.  

D’altra parte, l’uomo si alzò dal letto, esponendo il fisico massiccio e ben definito, tipico di chi si fosse sottoposto a tempranti ed estenuanti allenamenti, lasciando ricadere i lunghi ricci disordinati sul lato destro del viso, lì dove una non troppo vistosa cicatrice aveva appena fatto capolino. Si portò la mano destra sul collo, massaggiandolo delicatamente, probabilmente era ancora indolenzito dal trattamento riservatogli il giorno prima. 

«Bene, bene» esordì il direttore guardando l’uomo con un mezzo sorriso «Sembra che per finire in questo posto di merda tu abbia fatto arrabbiare un bel po’ di gente, o magari qualche bel pezzo da novanta. Ma parliamo di cose serie, come ti è sembrato finora il soggiorno?»

Il tipo non accennò ad alcuna risposta, limitandosi a spostare lo sguardo sull’ambiente che lo circondava, evitando al contempo di incrociare i loro occhi, probabilmente privi del più basilare briciolo di umanità. Non era preoccupato e nemmeno spaventato, anzi, avrebbe accolto con gioia qualsiasi sorte gli fosse toccata. 

 «Oh, oh, abbiamo un duro » continuò Levinson voltandosi verso uno dei secondini «Fisk, fagli vedere chi è che comanda qui dentro»

In pochi istanti, qualcosa di solido impattò contro la superficie del suo stomaco, facendolo accasciare sul freddo pavimento, ma nonostante questo, egli non emise né un suono né un flebile lamento, somigliando più ad un automa che a un vero essere umano. Nemmeno fece cenno di volersi rialzare «Voglio sperare che tu abbia finalmente capito. Non mi sono mai andati a genio i tipi come te, ovvero quelli che vogliono sembrare cazzuti a tutti i costi, ma che dentro stanno piangendo come farebbe una mammoletta»  

Il corvino continuò a rimaner fermo e immobile, doveva avere una discreta dose di autocontrollo o magari aveva un’attitudine pacifista, disposto a tutto pur non di non lottare e reagire. Il piccoletto gli si avvicinò, afferrando il colletto della divisa lacerata color oltremare e tenendola saldamente stretta tra le mani, mentre un altro colpo gli veniva inferto: «Io sono il direttore Levinson, bastardo. Farai bene a tenerlo a mente, e buona permanenza nel lussuoso Penitenziario di San Quintino» concluse lasciandolo in balia di quelle belve feroci, ansiose di sfogare un po’ di rabbia repressa, mentre con nonchalance si avviava fischiettando verso l’uscita. 

 

 

 

 Due ore dopo...... 

 

 


 

 Numerosi detenuti affollavano la mensa, ce n’era per tutti i gusti, dal pluriomicida al famoso ladro un tempo ricercato persino dall’Interpol, e ora costretto a scontare la pena inflittagli. Il giovane teneva la testa china sul proprio vassoio, mentre un rivolo di sangue gocciolava dalla ferita ancora fresca comparsa poche ore prima sul sopracciglio sinistro, lì, nell’angolo più remoto di quella stanza, lontano da occhi indiscreti. Nessuno osava avvicinarsi a lui, forse per timore o altro, ed egli stesso sembrava non gradire troppo la compagnia di un altro suo simile, ammesso che fosse ancora umano.  

«Ehilà compare, sembra che tu necesitas de un poquito de aiudo» Un tizio piuttosto magro e mingherlino si sedette di fronte ad esso, costringendo il misterioso individuo ad alzare il capo sulla sua figura, squadrandolo attentamente.  

Si trattava probabilmente di un gringo messicano, non seppe dire con certezza da cosa lo avesse dedotto, se dal suo accento o per quegli inconfondibili baffoni che parevano usciti direttamente da quei vecchi film degli anni ‘60 che adorava guardare da ragazzo, quelli che narravano storie di cowboy che scappavano verso il confine in cerca della libertà. Già, la stessa che ora gli veniva negata.  

Avrebbe voluto trovarsi all’interno di uno di quei racconti piuttosto che in questa topaia. Tutto era meglio di qui, ma immaginava che il karma fosse un’amante tutt’altro che tenera. 

«Non me dire che il gato te ha morsecato la lingua» continuò imperterrito l’uomo, esplodendo in una piccola risata.  

A giudicare da quanto stesse ridendo sguaiatamente, avrebbe dovuto trattarsi di una battuta, peccato che però nessuno a parte lui si stesse divertendo, o quantomeno l’avesse capita, sopratutto quell’individuo così apatico e freddo che gli si parava dinanzi. 

«Oh dios mio, tu no tienes el sienso dell’umorismo» affermò il messicano «Io soy Alejandro, ma tutti me llamano Sinaloa, y tu?» domandò lui tendendogli la mano  

«Non sono cazzi tuoi» ribatté secco il glaciale, lasciando sbigottiti tutti i presenti che nel frattempo avevano spostato l’attenzione su di loro

La sua voce si presentava come avrebbero tutti immaginato: roca e adatta per qualcuno della sua taglia. 

Probabilmente si trattava dello scoop del secolo, visto che non proferiva parola sin da quando era stato portato in quella struttura, circa una settimana prima. Chiunque ora gli scoccava occhiate interrogative e curiose, chiedendosi che cosa avesse intenzione di fare quel tizio che sembrava voler sfidare la morte stessa. 

 «Bien “Non sono cazzi tuoi”» replicò con nonchalance l’altro «Es un placer conoscerte. Come mai te trovi aqui?»  

Quel tizio stava cominciando veramente ad infastidirlo e avrebbe utilizzato le sue tenere ossicine come stuzzicadenti se ne avesse avuto voglia. Peccato che l’obiettivo iniziale fosse quello di mantenere un basso profilo, giusto per evitare possibili complicazioni 

«Omicidio» rispose lui tornando ad assaporare quella sbobba che osavano chiamare pasto, probabilmente andato a male da un paio di giorni.  

«Imagino che quinquiera sia stado, lo abbia meritato»  continuò l’uomo imperterrito. 

 Numerosi brusii si levarono da ogni angolo della stanza, criticando quello strano soldo di cacio e la sua pericolosa mania di suicidio  

«Nulla di che» replicò lo sfregiato portandosi alla bocca un’altra cucchiaiata «Solo ficcanaso che non lasciavano che consumassi questo schifo» 

 Il riferimento era piuttosto evidente, cosa che il messicano trovò estremamente divertente «Me gusta el tuo espirito» dichiarò nuovamente «Quiere saber porque estoy aqui?» 

«Non me ne frega un cazzo ma continua pure» affermò il primo continuando a mangiare la sua porzione. Aveva un retrogusto familiare, qualcosa che gli ricordava copertoni bruciati e liquore, un vizio piuttosto restio ad andarsene. 

 «Ho fatto un certo lavoretto a Guadalajara, y soy estado arrestato porque uno dei miei companeros es un hijo de puta»   

«C’entri con quel casino?» domandò il giovane visibilmente interessato nell’apprendere quella particolare informazione «Fossi in te non me ne vanterei in giro, c’è ancora qualcuno che vorrebbe farti fuori»  

«Ma allora tu non eres completamente estupido» esclamò lo striminzito soggetto attirando le attenzioni delle guardie, che gli rivolsero occhiate non proprio pacifiche «In realtà tu sei piuttosto enformado» Stava cominciando a dare spettacolo, e la cosa non gli andava totalmente a genio. 

 «Y ahora que tu me estas simpatico, te svelerò un piccolo segreto» mormorò il tipo abbassando notevolmente il tono della propria voce, giusto per non attirare figure indesiderate «Ho in programma una evasion. Te piacerebbe venir conmigo?»  

« Sono tutto orecchi» replicò l’uomo, desideroso di scoprire quali altre cazzate potesse mai sparare un tipo del genere. Tuttavia, la prospettiva di lasciare quell’immondezzaio era parecchio allettante 

«Todo esta nel farsi spedire nella celda de isolamento, de ali, el dado es trato. Todavia,  dei dubbi si stanno cominciando ad insinuare nella mia cabeza, come podemos hacer?» 

«Non credo possa essere un problema» ribatté lui alzandosi velocemente in piedi «Ehi, coglione!» gridò rivolgendosi ad un detenuto seduto circa tre metri più in là, mandando volontariamente al diavolo ogni proposito di mantenere un basso profilo, se questo avesse potuto contribuire al proprio salvataggio.  

Quel tipo si voltò verso di lui, scoccandogli un’occhiata che comunicava pericolo in ogni sua forma. Era calvo e dal fisico massiccio, con un minaccioso tatuaggio raffigurante Jormungandr, il famigerato serpente del mondo, che percorreva tutto il braccio sinistro e una vistosa cicatrice che svettava lungo tutto l’occhio destro. Insomma, qualcuno con cui era meglio non attaccare briga «Se i cazzi fossero pannocchie, tua madre sarebbe una mietitrebbia»  

A quelle parole, chiunque si trovasse in quella stanza scoppiò in una fragorosa risata, con la conseguenza di far colorare di un rosso vivo il volto del detenuto, che rassomigliava sempre di più ad un vulcano in eruzione, quasi sul punto di esplodere. Egli lo guardò torvo, aggrottando le sopracciglia ed emettendo qualcosa di non molto simile ad uno spaventoso ringhio, avanzando velocemente verso la sua posizione. 

Pochi decimi di secondo e sarebbe scoppiato il finimondo........ 

 

 

 
Mezz’ora dopo....... 

 

 


 Quella stanza dalle pareti imbottite, di un bianco sporco e freddo, priva di finestre, era persino peggio della precedente. Un'aria ancor più fetida vi aleggiava e il silenzio poi, Dio, quasi rimpiangeva le urla degli altri internati; prima, almeno, aveva ancora la sensazione di far parte di un piccolo residuo di mondo. 

Era questo il premio per aver causato quella tremenda rissa, conclusasi con la maggior parte delle guardie ancora prive di sensi e qualche costola rotta, in effetti trovava che il più delle volte fosse molto fortunato.  

Ma se il piano dello smilzo avesse funzionato, presto egli sarebbe ritornato a godere delle fresche e leggere brezze sul viso, nonché del sapore dolciastro di quella libertà che tanto a lungo aveva agognato, avrebbe dovuto attendere solo un altro paio di ore.  

Anche se dalle esperienze passate aveva ormai imparato a diffidare delle situazioni che parevano semplici e perfette, già, troppo perfette..... 

Avrebbero potuto volerci anche ore prima di poter evadere da quel buco che chiamavano penitenziario, quindi trovare un bel modo per passare il tempo nell’attesa era quasi d’obbligo. A poco a poco le serie di flessioni passarono da dieci a trenta, finché non si udì un rumore di passi arrestatosi proprio davanti alla sua porta. 

Degli strani personaggi in divisa irruppero nella stanza, lo agguantarono e trascinarono al centro della cella, dove una sedia parzialmente ammaccata lo attendeva e gli incatenarono mani e piedi per evitare che potesse giocare qualche brutto tiro, non prima ovviamente di avergli dato una bella scarica di destri nel tentativo di calmare il prigioniero che si dimenava come un forsennato. Non era mai stato un granché a seguire gli ordini e non avrebbe di certo cominciato adesso 

Dalla penombra sbucò fuori un individuo che definire inquietante sarebbe stato un eufemismo: si trattava di un uomo anziano e alto, ben più di lui, dal viso pallido e scavato. Gli occhi infossati gli donavano un aspetto ancor più scheletrico e dei capelli lunghi, ondulati e candidi come la neve appena caduta, gli ricadevano sulle spalle. Un camice bianco fasciava quel fisico magro e slanciato. Ad occhio e croce avrebbe potuto essere un medico o addirittura uno scienziato, se il corvino avesse voluto azzardare un'ipotesi. 

«Ha scatenato un bel putiferio là sopra» esordì avanzando ancora di qualche passo «Cosa aveva intenzione di fare, eh?» le lunghe dita affusolate sfogliavano quello che aveva tutta l’aria di essere un fascicolo e, a giudicare dalle pagine un po' consumate, probabilmente l’aveva rigirato tra le mani per molto tempo.  

L’interrogato osservò la stanza in cerca di qualcosa, e alla vista di quel gesto, sul volto del dottore comparve un piccolo sorrisetto «Se sta cercando strumenti di tortura, non ne troverà. Sono qui in cerca di risposte, non per farle del male»

Il detenuto rimase piuttosto perplesso: per la prima volta nella sua vita si trovava faccia a faccia con l’unico essere umano che non stesse cercando di eliminarlo o che volesse qualcosa da lui, oltretutto, quello strano individuo aveva un tono gentile e posato, capace di tranquillizzare anche il più burrascoso dei mari. Che fosse semplicemente una trappola per fargli abbassare la guardia? Molto probabilmente, e come egli stesso aveva imparato sin da piccolo:“Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio” 

«Quindi» l'uomo col camice prese una sedia, posizionandola proprio di fronte al soggetto «Ricominciamo da capo. Sono il dottor Myers e tra le altre cose mi occupo di Bioetica ed Eugenetica. Lei invece è il signor....?»

«No entiendo» ribatté il prigioniero, imitando alla perfezione l’accento del complice che a quest’ora lo avrebbe già dovuto liberare. Probabilmente l’aveva preso per il culo o se l’era già data a gambe, lasciandolo al suo triste destino.  

«Vede» continuò lui «Se fossi stato il direttore Levinson, probabilmente starebbe già implorando perdono, lui adora la parte del “No entiendo”, lo rende ancora più sadico di quanto non sia. Fortunatamente per lei non sono dello stesso avviso , ed in questo momento non mi troverei di fronte a lei se non avessi bisogno del suo aiuto. Sono giunto sin qui da Washington e data la sua vasta esperienza, l’ho reputata perfetta per ciò che sto cercando»

«Fottiti» biascicò il detenuto, ancora provato dalla forza di quei gorilla. I polsi ormai cominciavano a dolergli, arrossati a causa di quelle dannate manette. 

Sicuramente si trattava di un élite speciale debitamente addestrata, viste le tecniche utilizzate. Forse membri del JSOC o peggio ancora della CIA, la stima che provava nei confronti di quest’ultimi era pari alla sua simpatia per quell’immonda pietanza che chiamavano sushi, ovvero zero.  

«Almeno sta parlando la mia lingua, è già qualcosa» affermò lo studioso alzandosi in piedi e dirigendosi verso la grata di spesso acciaio, utilizzata per impedire qualsiasi tentativo di fuga o peggio «Mi creda» continuò lui voltandosi «Sarebbe più opportuno che lei collaborasse. Le assicuro che godrà di una posizione di prestigio quando noi entreremo nella storia» 

 



 

 

2019: Indonesia.... 

 
 

 

 

«Occhi aperti, ingaggiate solo se siete sicuri di non mancare l’obiettivo e cercate di fornire fuoco di copertura» 

Il sole tramontò oltre le folte chiome dei grandi alberi tropicali. L’oscurità calò sulla foresta in modo spaventoso, inghiottendo qualsiasi cosa. Il silenzio amplificò la paura che suscitava quella vista terribile e magnifica allo stesso tempo. Ovunque ci si voltasse, il buio vi regnava sovrano. 

«Ricevuto. Procediamo con cautela»  

Un discreto manipolo di uomini in tenuta nera pattugliava la boscaglia in cerca di qualcosa o qualcuno, puntando i propri Mak 223 verso ogni rumore che riuscivano a cogliere, persino quello più impercettibile. Si trattava probabilmente di mercenari, giunti fin lì per eliminare qualche bersaglio rifugiatosi nel folto della foresta. Erano piuttosto comuni in quelle zone.  

Un urlo agghiacciante squarciò la quiete che vi dimorava. Difficilmente poteva non appartenere ad un uomo. Proveniva da nord, nel cuore di quella fitta giungla, ove un amalgama di tronchi robusti, intricate ed intriganti ramificazioni, tenere e rigogliose fronde ne rendeva arduo l’attraversamento. 

La milizia si mosse a passo svelto verso l’origine di quel suono, quando altre grida ancor più strazianti si levarono alte nel cielo, questa volta dalla direzione opposta, oltre il ripido dirupo, seguite da uno stridio gutturale che pareva uscito da un film horror. Era come se qualcosa stesse banchettando con i resti del povero malcapitato. 

«Quartier Generale, qui Jager» parlò il biondo caposquadra alla ricetrasmittente posta sul suo orecchio.  

La sua compagnia, la Manticorp, era da sempre avvezza a questo genere di cose. Ma ora, la faccenda sembrava puzzargli troppo. Perfino i suoi superiori erano stati piuttosto vaghi su quell’argomento. Gli occorrevano più informazioni possibili, non volendo compromettere l’incolumità dei suoi uomini.   

Una voce maschile gracchiò all’altro capo «Qui Prophet, parli pure capitano»  

Un terzo urlo di terrore risuonò non molto lontano dalla loro posizione, costringendo i soldati a voltarsi in più direzioni. Era il segno che si stavano effettivamente avvicinando all'obiettivo. 

«Ripeto, parli pure capitano, passo» gli intimò l’uomo aumentando sensibilmente il tono della propria voce  

 Il biondo mise mano al fucile, mirando avanti a sé mentre continuava lentamente a muoversi «Con che diavolo abbiamo a che fare? Non credo siano banali terroristi o narcotrafficanti» 

«Non mi sorprenderebbe se fossero stati attaccati da qualche tigre o leopardo nebuloso. Ho sentito dire che ce ne sono un bel po’ qui intorno» aggiunse vicino a lui l’uomo conosciuto col nome in codice di “Storm”  

 «Ignorante» lo apostrofò il compagno alla sua destra «Non lo sai che qui non ci sono tigri? Al massimo potrebbero esserci degli orsi»  

«Silenzio, voi due!» li zittì il leader  «Allora, Prophet, cos’è che non ci sta dicendo?» domandò ancora una volta.

Il suo superiore esitò un attimo prima di rispondere, quasi come se volesse omettere qualche dettaglio particolare «Si tratta di informazioni assolutamente top secret di cui nemmeno io sono al corrente, immagino si tratti del solito ordine dall’alto. Quello di cui sono al momento informato è l’ordine impartitovi di ripulire l’area e mettere al sicuro eventuali ostaggi, nulla di più, nulla di meno» 

«E secondo lei dovrei berla?» domandò il giovane ancor più confuso dalle sue parole  

«Lo farà quando arriverete a destinazione. Passo e chiudo»  

Il capitano scosse la testa e sospirò «Dannato capitalista» 

 

 

La foresta era così calda e soffocante da sembrare di essere all’inferno. Il capitano Jager aveva gli abiti fradici e l’aria era talmente umida che il sudore non riusciva nemmeno ad evaporare, limitandosi a gocciolare dalle dita e dal naso, o a colare lungo tutto il corpo, confluendo nei punti in cui la stoffa toccava la pelle dei soldati. Ad ogni passo fatto, gli stivali si impantanavano nelle pozze di fango che si trovavano lungo la via, rendendo ancora più ostico ogni tentativo di raggiungere la meta. 

Dopo una buona mezz’ora passata ad attraversare quel luogo così inospitale, i soldati giunsero a destinazione: un ampio campo base all’apparenza desolato, delimitato da una spessa rete metallica sulla cui sommità correva del filo spinato, a ridosso della trappola ecologica chiamata Kalimantan, ma comunemente nota come Borneo.  

Il caposquadra fece un piccolo cenno ai suoi uomini, indicando una sorta di breccia nella recinzione.  

«Che razza di creatura può aver mai fatto una cosa simile?» domandò l’uomo conosciuto come “Firecrotch”, osservando stupefatto come una parte della recinzione fosse stata squarciata e deformata come burro, e quelle che all’apparenza sembravano venature di ruggine, in realtà erano macchie di sangue.  

«Non una di questo mondo» replicò il capitano infilandosi all’interno del perimetro 

 

L’accampamento appariva completamente deserto e disabitato, nessuna traccia di civili o di malviventi ed una strana tranquillità sembrava albergarvi. Come Jager aveva ormai appreso nel corso delle sue innumerevoli missioni, l’assenza di suoni non era mai un buon segno, specialmente in un territorio come quello. 

I soldati continuarono la loro avanzata verso il centro di quel luogo così spettrale, trovando la carcassa di un orso del sole di grandi dimensioni che giaceva sul terreno, immersa in una pozza di sangue. Presentava tre profondi graffi sul dorso e la giugulare era stata lacerata, forse a causa di un morso. 

«Cosa cazzo sta succedendo?» sbottò uno degli uomini alla vista di quell’orrore

«Non ne ho idea» replicò il biondo guardandosi intorno «So solo che non mi piace. Inoltre, il segnale sembra disturbato, quindi contattare la base potrebbe essere più difficile del previsto» 

«Cosa ci suggerisce di fare?» domandò un altro dei suoi commilitoni  

«Siamo in un territorio ostile, alla mercè di un nemico sconosciuto e senza copertura» affermò il capitano improvvisando velocemente un mini briefing «Quindi, controllate armi e munizioni e tenetevi pronti»

 «Dov’è Spitter?» la domanda di uno dei più giovani della compagnia attirò la loro attenzione, voltandosi verso di lui 

Di quell’uomo non vi era più alcuna traccia e la cosa parve piuttosto strana al capitano, considerando che l’uomo appena menzionato non era solito sparire senza alcuna ragione apparente

«Sarà andato a pisciare» ironizzò “Storm”, ma non ebbe nemmeno il tempo di finire la battuta che il soldato avanti a sé venne trascinato nell’oscurità in un istante da una forza invisibile e sconosciuta, lasciando i presenti completamente sbigottiti. 

«Fuoco di soppressione !!!» urlò il biondo sperando di colpire quella cosa che aveva appena portato via uno dei suoi uomini.

Ben presto si ritrovarono circondati e a nulla valsero i tentativi di centrare quelle creature, poiché esse si muovevano ad una velocità piuttosto innaturale, tale da farle sembrare invisibili. Tra il fragore della battaglia e lo stridio dei bossoli che come pedine cadevano al suolo, la squadra venne decimata in un nanosecondo, lasciando il capitano Jager solo e sprovvisto di difese. I compagni che avevano affrontato con lui mille battaglie e che rappresentavano il meglio del meglio, erano stati spazzati via in un lampo, quasi come se fossero carta da qualcosa che non riusciva nemmeno ad identificare. 

Cosa poteva essere e perché erano stati mandati a morire? Queste erano le domande che affollavano la sua mente e ora, nel buio più totale, si ritrovava a riflettere sulle prossime mosse da attuare. Non era mai stato un codardo e se avesse dovuto incontrare il suo creatore l’avrebbe fatto con onore. Gli rimaneva quindi una sola opzione praticabile, la sua ultima “Alamo”.  

Tirò fuori la sua Kap 40 dalla tasca destra, voltandosi velocemente e puntandola verso l’alto, tra i rami degli alberi posti proprio sopra di lui. Qualcosa di mostruoso lo scrutò famelico prima di avventarglisi contro, mentre il comandante cominciò a vomitare una raffica di proiettili. 

Non trascorse nemmeno un decimo di secondo, poi fu il buio...... 

   
 
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