Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: FrancescaPenna    08/02/2022    0 recensioni
Possono cinque ragazzi non ordinari sperare di trovare il loro posto in una società dove l'essenza viene spesso sottomessa all'apparenza, dove le persone rincorrono una perfezione che non esiste per sottrarsi ai pregiudizi?
Casey e Satèle Johns sono due gemelli albini.
Markus Lancaster ama la lettura e odia le persone.
Johnnie Bailey è silenzioso.
Angel Hassler è un maschiaccio.
Cinque ragazzini diversi con cinque vissuti diversi, che si affacciano al contesto delle scuole medie diventando i protagonisti del primo atto di una storia che parla di diversità, accettazione, amicizie e primi amori, ma anche di bullismo, famiglie disfunzionali, autolesionismo e disturbi mentali.
Una storia in cui impareranno a conoscersi per come appaiono agli occhi di tutti, ma anche e soprattutto per come loro stessi si sentono dentro: strani.
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: De-Aging, Kidfic | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 11 – Storia di un (ex) bambino cattivo

 

Da tempo si vociferava che Markus Lancaster fosse lo studente più intelligente della scuola, praticamente un genio.

I suoi test valevano sempre il massimo dei voti, a prescindere dalla materia, e i suoi temi erano scritti in modo così impeccabile da non aver mai visto l’ombra di una correzione fatta con la penna rossa. Al contrario, spesso era lui a intervenire durante le spiegazioni per correggere i professori, che se da un lato storcevano il naso, dall’altro non potevano negare che quel ragazzino fosse più preparato di loro.

Tutti si chiedevano come facesse il suo cervello a contenere così tante informazioni, che metodo usasse per assimilarle e, non riuscendo a trovare una risposta altrettanto convincente, si accontentavano di sapere che fosse un genio e basta.

Dal canto suo, Markus la pensava diversamente: non era lui a possedere una mente brillante, ma gli altri – primi su tutti alcuni dei suoi professori – ad avere un basso livello culturale.

Ad ogni modo, certe supposizioni sul suo conto gli avevano fatto guadagnare notorietà. Tutti, almeno una volta, avevano sentito il suo nome. C’era chi lo esaltava e c’era chi, invece, lo infangava.

Al primo gruppo appartenevano i cosiddetti “secchioni”, coloro che – a differenza di Markus – pendevano dalle labbra dei professori, sottomettevano davvero la vita sociale allo studio e gli portavano rispetto, invitandolo non di rado a unirsi alla loro “cerchia” e ottenendo puntualmente un rifiuto come risposta; ma anche i furbetti che non avevano alcuna voglia di studiare e cercavano di comprare la sua amicizia solo ed esclusivamente per poter copiare i suoi compiti – una cosa che Markus non gli aveva mai permesso – e le ragazzine che ogni giorno lo aspettavano vicino al suo armadietto e che lui scacciava sempre con un gesto della mano e una domanda sarcastica: “Volete un autografo?”

Il secondo gruppo, invece, era formato dai tipi cosiddetti “ordinari”, che costituivano la massa, come i ragazzi tutto fumo e niente arrosto che, gelosi di tutte le attenzioni che riceveva dalle ragazze, lo chiamavano Ghostface perché sostenevano che il suo viso fosse troppo pallido e scavato e che somigliasse appunto alla maschera indossata dal serial killer di Scream, Beccamorto perché vestiva sempre di nero e Slenderman perché era alto e magrissimo.

Tuttavia, se pensavano di poterlo offendere assegnandogli quei ridicoli soprannomi, si sbagliavano di grosso, perché Markus gli rendeva pan per focaccia.

Infatti, al di là della sua preparazione, c’erano altre due caratteristiche alle quali era legata la sua fama: la lingua affilata e il dito medio sempre pronto per essere puntato verso eventuali seccatori.

Non si poteva di certo dire che Markus Lancaster fosse quel tipo di ragazzo che tutti desideravano avere come amico, anzi: scontroso, arrogante, talvolta cinico e refrattario alla presenza delle autorità, era piuttosto quel tipo di persona che molti preferivano tenere alla larga.

Anche i professori erano della stessa opinione: “È sveglio, intelligente, carismatico ed è pure un bel ragazzino. L’unica pecca che possiede è proprio quel caratteraccio!”, dicevano quando parlavano di lui agli altri colleghi.

A Markus, però, importava poco e niente del pensiero degli altri e se lo lasciava scivolare addosso così come, in passato, aveva fatto con i segni delle mani di chi gli aveva detto cose anche peggiori.

 

Il professor Miller aveva consegnato alla classe i test di matematica che aveva corretto.

Satèle aveva preso una C, la sufficienza, e ne gioiva con Angel perché sosteneva che fosse la prima volta in cui riusciva a ottenere quel risultato in matematica, una materia per la quale, ancor più delle altre, si era sempre sentita negata. Di certo il merito era soprattutto del professor Miller, che con il suo metodo d’insegnamento le faceva venir voglia, almeno ogni tanto, di aprire il libro.

Angel, invece, aveva avuto una B, ma entrambe sapevano già quale sarebbe stato il voto più alto di tutti.

“Ehi, Markus, tu quanto hai preso?”, domandarono al loro amico.

“A+”, rispose Markus senza entusiasmo, facendo voltare immediatamente Lucy Fox. Lucy Fox era sempre educata sia con i compagni che con i professori, studiava con costanza e non osava contraddire questi ultimi, per questo incarnava appieno il prototipo della studentessa modello anche se non riusciva mai a primeggiare su Markus.

Il ragazzo la vide alzarsi e avvicinarsi a sé.

“Scusami, Markus, posso dare giusto un’occhiata al tuo foglio? Voglio capire come mai io ho avuto una A mentre tu una A+”, gli chiese.

“Non ti serve guardare il mio foglio per capire io ho fatto 100/100 mentre tu 96/100”, disse Markus. Intanto Lucy fece marcia indietro e tornò a sedersi al proprio posto, al primo banco.

“Sei stato un po' antipatico con lei”, gli fece notare Angel.

Markus fece spallucce. “Non sopporto chi fa troppi paragoni. Essere o non essere la prima della classe non rende automaticamente Lucy una persona migliore o peggiore di me.”

“Anche questo è vero”, ammise Angel. Provò a dargli una pacca su una spalla, ma Markus si scansò proprio come fece quando Satèle fu sul punto di abbracciarlo dopo che lui le ebbe dato il regalo che le aveva preso per il compleanno.

“Ehi, che ti prende?”, chiese Angel allarmata. “Ho fatto qualcosa di male?”

“No, è solo che da un paio di giorni ho dolore alle spalle”, si giustificò Markus, mentendo perché sapeva che sarebbe stato difficile spiegare che da quattro anni si trascinava dietro la fobia del contatto fisico.

 

Le lezioni erano terminate. Angel e Satèle avevano deciso di tornare a casa a piedi; Markus, invece, avrebbe preso l’autobus perché prima voleva fare un salto in libreria, in quanto era rimasto a corto di libri da leggere.

Odiava i mezzi pubblici, ma la libreria più vicina a lui era comunque troppo distante da raggiungere a piedi, perciò gli toccava fare quel piccolo sacrificio. Fortunatamente aveva con sé gli auricolari e il lettore mp3. Gli bastò premere play e The Kill dei Thirty Seconds to Mars coprì tutti gli altri suoni fino alla fine del tragitto.

Ogni volta che entrava in una libreria, Markus provava la sensazione di trovarsi nell’unico posto che lo rendeva felice davvero, l’unico posto a cui sentiva di appartenere e l’unico posto in cui era libero di essere se stesso e non gli mancava mai il respiro.

Contò i soldi che aveva in tasca e si diresse verso il reparto di narrativa, pronto a trascorrerci anche l’intero pomeriggio se necessario.

 

Tony Baker aveva costretto la sua migliore amica Maddie ad accompagnarlo in libreria perché quest’ultima, in seguito a una scommessa che alla fine aveva perso, gli aveva promesso che avrebbe pagato pegno comprandogli il libro che voleva.

I due ragazzi stavano dando un’occhiata al reparto degli horror, uno dei generi preferiti di Tony, quando, all’improvviso, un ragazzino dai capelli neri che stava sfogliando un libro nel reparto di narrativa attirò l’attenzione di Maddie, la quale cominciò a fissarlo ignorando di conseguenza la voce del suo amico.

“Ehi, non mi rispondi? Posso sapere cosa stai guardando?”, le chiese Tony.

“Scusa, mi sono un attimo… distratta”, rispose la ragazza.

Tony seguì il suo sguardo e capì che fosse rivolto a un ragazzo situato a pochi metri da loro. Non ebbe bisogno di avvicinarsi a lui e guardarlo in faccia per riconoscerlo, perché gli bastò distinguere la sua figura esile e vestita di nero da lontano per capire che si trattasse di Markus Lancaster, un suo ex compagno delle scuole elementari.

“Lascia perdere quel ragazzo, Maddie.”

“Lo conosci?”, domandò la sua amica.

“Sì, era un mio compagno delle elementari. E non ho intenzione di incrociare il suo sguardo.”

“Perché?”

“Perché – credimi – è una delle persone peggiori che abbia mai conosciuto.”

 

Per qualche strana ragione, Markus si sentiva osservato. Posò il libro che fino a qualche minuto prima stava sfogliando e iniziò a guardarsi intorno alla ricerca di facce conosciute.

Per un attimo credette di star vivendo uno dei suoi soliti incubi quando riconobbe Tony Baker, quel suo ex compagno delle elementari che era stato capace di distruggere la sua reputazione in una manciata di secondi.

“È una delle persone peggiori che abbia mai conosciuto.” Sentendolo pronunciare questa frase, Markus capì subito a chi fosse rivolta: a lui.

 

“Si chiama Markus Lancaster e la prima cosa che c’è da sapere su di lui è che è cattivo nel vero senso del termine”, esordì Tony prima di procedere con la sua spiegazione.

“Avevamo tutti i corsi e tutte le maestre in comune, perciò me lo ritrovavo ovunque. Le maestre, in realtà, dicevano che eravamo tutti un po' cattivelli, ma nel senso scherzoso del termine: il massimo che io e gli altri miei compagni facevamo era cambiare posto senza permesso, creare un po' di confusione durante la ricreazione, tirare i codini alle bambine perché ci divertivamo a farle indispettire.

Poi c’era Markus Lancaster, che era il più cattivo di tutti.

Inizialmente pensavamo che fosse solo un po' timido, perciò lo invitavamo lo stesso a giocare. Presto, però, ci accorgemmo che non sapeva stare allo scherzo. Io e gli altri ci divertivamo a punzecchiarci lanciandoci gli aeroplanini di carta addosso durante la lezione, così un giorno iniziammo a lanciarli anche a lui per fargli capire che lo consideravamo uno dei nostri. Inutile dire che Markus li stracciava sempre e alla fine dell’ora andava a buttare tutto nel cestino. Una volta un mio amico provò a lanciargli una matita e lui la spezzò, allora ci convincemmo che dovevamo lasciar perdere perché evidentemente gli dava fastidio.

Un’altra cosa che ci piaceva era giocare a fare la lotta in cortile. Non ci facevamo male, ovviamente, a volte ci sfioravamo a stento. Un giorno, in prima elementare, un bambino con gli occhiali corse da Markus tirandogli dei pugnetti dietro la schiena per invitarlo a giocare ad acchiapparella con lui.

Markus ci fece spaventare tutti per come reagì: tolse gli occhiali a quel bambino e glieli tirò in faccia, colpendolo sul naso. Gli disse una parolaccia e se ne andò.

Fu allora che capimmo chi fosse davvero, i miei amici cominciarono a  a chiamarlo Bambino Cattivo e tutti insieme decidemmo che prima o poi l’avremmo smascherato davanti a tutti, incluse le maestre.

Non ci riuscimmo, però, perché Markus era tanto furbo quanto bugiardo e sapeva recitare bene la parte dell’alunno modello. In un certo senso lo era, perché – anche se mi secca ammetterlo – era incredibilmente intelligente.

Confesso che sono sempre stato un po' geloso di lui: puntavo a essere il primo della classe, eppure, nonostante dei due fossi io quello studioso, quello che passava tutto il giorno a fare i compiti, Markus mi superava sempre.

Quando la maestra di grammatica stava iniziando a insegnarci l’alfabeto, lui già sapeva leggere e scrivere. Quando noi imparammo a contare, lui già sapeva svolgere le divisioni a due cifre.”

“Era un genio, insomma”, commentò Maddie.

“Probabilmente lo è ancora”, rispose Tony. “Ma l’intelligenza non giustifica la cattiveria. E Markus ne aveva da vendere.

Era arrogante, cinico e conosceva tantissime parolacce; qualche volta l’ho sentito anche bestemmiare.

Era un tipo davvero strano, così tanto che io e i miei amici iniziammo addirittura a sospettare che al di fuori della scuola avesse una sorta di vita segreta.”

“Come mai?”, chiese Maddie.

“Adesso ti spiego”, disse il ragazzo. “Ricordo che in prima elementare si fratturò entrambe le braccia, prima il sinistro e a pochi mesi di distanza il destro. In generale, fino alla seconda veniva sempre a scuola con qualche cerotto in faccia. Spesso indossava gli occhiali da sole anche quando il tempo era nuvoloso, oppure si copriva mezzo volto con una sciarpa anche durante i mesi caldi.”

“Lo faceva per nascondere le ferite”, dedusse Maddie.

“Esatto”, confermò Tony. “Solo che nessuno, all’inizio, immaginava che Markus fosse una vittima. Piuttosto, credevamo che la sua famiglia fosse coinvolta in qualche brutto giro. E in parte era così.”

Fece una pausa, attendendo che fosse la sua amica a dirgli di proseguire, perché a parer suo la storia poteva tranquillamente concludersi così.

“Continua”, disse Maddie, timorosa perché dentro di sé aveva forse già intuito ciò che Tony stava per raccontarle. E non era niente di rassicurante.

“Credo che, a questo punto, tu abbia capito che tra me e Markus non scorresse buon sangue. Eppure… eppure ci sono state diverse occasioni in cui ammetto di aver provato pena per lui. Ne ricordo due in particolare. Nella prima ero in bagno e stavo per tirare lo sciacquone, quando, all’improvviso, sentii degli ansimi che provenivano da fuori. Uscii e vidi Markus ricurvo davanti al lavandino. Era lui che aveva il respiro affannoso. Mi avvicinai. Stava piangendo a dirotto.

Mi stupii di me stesso: avevo sempre pensato che, se un giorno avessi visto il suo lato vulnerabile, avrei riso pensando tra me e me che meritasse tutte le cose brutte che potevano essergli capitate, ma quando accadde non riuscii ad andarmene senza prima porgergli un fazzoletto per fargli asciugare le lacrime.

Era l’unica cosa che sentii di poter fare, perché sul lavandino c’era l’inalatore che usava quando gli venivano gli attacchi d’asma. E io, ovviamente, non sapevo come comportarmi in certi casi.

Nella seconda eravamo tutti fuori a giocare in cortile; Markus era in disparte. Per puro caso mi avvicinai a lui. Portava gli occhiali da sole, ma la montatura lasciava comunque intravedere un livido sullo zigomo destro. Presi coraggio e chiesi chi gliel’avesse procurato.

Non mi aspettavo che rispondesse, credevo piuttosto che mi cacciasse. Invece si tolse gli occhiali, mi guardò con certi occhioni languidi, quello destro circondato da un livido proprio come lo zigomo, e disse che era stato suo padre.

Era sempre stato suo padre a picchiarlo.

Ed era stato suo padre a rompergli le braccia.”

Quando interruppe la spiegazione, Tony si accorse di avere la pelle d’oca e gli occhi lucidi. Piangere per Markus Lancaster non era mai rientrato nei suoi piani, eppure stava accadendo.

Spesso, le persone decidono di fare ammenda dei propri sbagli solo quando è troppo tardi per porvi effettivamente rimedio. In questi casi non importa nemmeno quante parole lunghe e complicate esistano al mondo, perché, per l’essere umano, la più difficile di tutte da pronunciare sarà sempre e solo una: scusa.

Tony lo stava capendo in quel momento. Deglutì e si decise ad arrivare alla fine della storia una volta e per tutte.

“Qualche mese dopo, io e i miei compagni notammo che Markus non veniva a scuola da più di una settimana. Chiedemmo di lui alle maestre e ci dissero che non l’avremmo rivisto per i prossimi due mesi, perché aveva avuto un incidente e si era rotto quattro costole.

Almeno, così vollero farci credere.

Ma io sapevo la verità, io ero certo che fosse stato suo padre a rompergli le costole.

Quando Markus finalmente tornò, a scuola cominciò a circolare la voce che i suoi genitori si fossero separati. Sua madre aveva cacciato di casa suo padre perché aveva scoperto che picchiava Markus proprio quando l’aveva trovato a terra con quattro costole rotte. Era tornata prima dal lavoro, quel giorno. Il padre lo picchiava quando lei non c’era, per questo non se n’era mai accorta. E Markus non le aveva mai raccontato la verità, perché suo padre lo aveva costretto a dirle che fossero i suoi compagni di scuola a riempirlo di lividi e graffi.

Solo adesso lo capisco: ecco perché sua madre veniva spesso a implorare le maestre di scoprire chi fossero i bulletti che tormentavano suo figlio.

Ecco perché Markus mentiva.

Ecco perché non voleva che gli tirassimo le cose addosso, ecco perché non voleva mai giocare a fare la lotta.

Solo che eravamo tutti troppo piccoli per capire che il nostro gioco fosse la sua realtà.

Alla fine il padre venne arrestato, e Markus, da vittima di violenza, divenne in un certo senso un carnefice. A volte, per difendersi quando veniva infastidito, usava parole che alle orecchie di chiunque suonavano ancora più dolorose di tutti i pugni e gli schiaffi che aveva ricevuto lui.

Per questo motivo, volente o nolente, Markus si sentì chiamare Bambino Cattivo fino al suo ultimo giorno in quinta elementare. E forse – ma dico forse – cattivo lo era diventato davvero.

Ma io, dopo averti raccontato ciò che so, non la penso così. Non più. E solo adesso rimpiango di non potergli chiedere scusa.”

Detto ciò, Tony cercò conforto tra le braccia di Maddie e si abbandonò al lusso del pianto.

“Puoi”, replicò la ragazza. “Lui è qui.”

Un singhiozzo, il tonfo sordo di un libro che cadeva a terra e, in un battito di ciglia, Markus non c’era più.  

 

Respira, respira, respira.

Markus ebbe il suo primo attacco di panico a sei anni, a scuola, proprio quando venne visto da Tony Baker in bagno. Allora non conosceva nessun esercizio di respirazione, non usava l’inalatore e non assumeva ancora gli ansiolitici; quelli gli erano stati prescritti solo l’anno precedente dall’ultima psicologa da cui sua madre l’aveva portato.

Inutile dire che nemmeno lei era riuscita ad aiutarlo. A un certo punto aveva deciso di svincolarsi dal proprio impegno verso il ragazzo, sostenendo che procedere con la terapia cognitivo-comportamentale si sarebbe rivelata solo una perdita di tempo, perché Markus, a detta sua, era ormai “irrecuperabile”.

“Tuttavia, mi sento di consigliarle alcuni ansiolitici che potrebbero aiutarlo almeno a dormire meglio”, aveva detto poi alla madre.

Inizialmente, Emily si era mostrata contraria alla terapia farmacologica, perché temeva che gli ansiolitici potessero avere effetti collaterali anche gravi sul sistema nervoso di un bambino di dieci anni, ma alla fine aveva pensato che avrebbe fatto meglio ad affidarsi al parere dell’esperta della situazione, che a tal proposito l’aveva rassicurata dicendole che si trattassero di farmaci a base naturale e che Markus non avrebbe corso alcun rischio prendendoli.

Respira, respira, respira.

Ripetere quel comando nella propria testa gli tornava sempre utile in occasioni come quella, lo aiutava a distrarsi dal respiro corto, dalle palpitazioni e dalla nausea.

Markus aveva ingoiato una capsula dopo aver utilizzato l’inalatore per regolarizzare il respiro, accorgendosi di aver finito tutto il medicinale al suo interno. Nell’ultimo periodo, gli attacchi di panico si stavano manifestando con maggior frequenza, perché la crescita, per tutti, è sempre e inevitabilmente accompagnata dall’insorgere di nuovi problemi.

E Markus avrebbe fatto volentieri a meno di ricordare, grazie anche al racconto di Tony Baker, tutti quelli che aveva avuto in passato e che continuavano a ripercuotersi sul suo presente.

Respira, respira, respira.

A un certo punto, mentre Tony stava parlando, non ce l’aveva fatta più. Aveva mollato il libro che stava sfogliando ed era corso verso l’uscita, riversandosi sulla strada. Si era intrufolato nel bar più vicino e si era precipitato in bagno, infatti in quel momento era seduto sul coperchio del gabinetto e stava leggendo l’etichetta del barattolo che conteneva le pillole rosse, perché concentrarsi su cose più banali lo aiutava a rimanere calmo.

Assicuratosi di avere di nuovo tutto sotto controllo, uscì dal bagno, abbandonò il bar e riprese il cammino.

Faceva piuttosto freddo fuori, eppure Markus aveva ancora la fronte madida di sudore. Desiderava soltanto tornare a casa e cercare di rimuovere dalla propria mente quel racconto vero solo in parte; sì, perché la versione di Tony presentava diverse incongruenze, non rispecchiava appieno la realtà dei fatti.

Markus era sicuro di averlo sentito dire che avessero iniziato i suoi amici a chiamarlo Bambino Cattivo, ma in realtà era stato proprio lui a introdurre e diffondere quel soprannome, così com’era stato lui a spargere la voce che la sua famiglia fosse coinvolta in affari loschi.  

Seconda cosa, Tony non aveva sentito “circolare delle voci” sulla separazione dei genitori di Markus e sull’arresto del padre, ma si era recato personalmente dalle insegnanti per reperire quelle informazioni, che aveva poi diffuso e usato per rovinargli la reputazione.

Terza e ultima cosa, Markus non aveva mai sofferto di “asma”.

Tanto sanno tutti che alle persone conviene sempre escludere da una storia le parti in cui sono colpevoli, perché chiunque, sapendo che esistono tantissimi modi per non assumersi le colpe, e che uno di questi è proprio addossarle a qualcun altro, farebbe del male gratuitamente. Me compreso, pensò Markus.

E dire che lui ci aveva provato, a dimostrare a chi aveva avuto intorno di essere una persona migliore, ma nessuno ci aveva creduto e – probabilmente – nessuno lo avrebbe mai fatto.

Dopotutto, chi crederebbe a una menzogna inoccultabile? si chiese.

Insieme a tante inesattezze, una verità dalla bocca di Tony Baker era uscita: Markus si prestava alla parola cattivo così come la parola cattivo si prestava a Markus. Forse lo era stato, forse lo era ancora e forse avrebbe continuato a esserlo, così come avrebbe continuato, purtroppo, a essere il figlio problematico di quel bastardo di Chris Lancaster.

Raggiunse la fermata dell’autobus e infilò di nuovo gli auricolari quando salì, riproducendo la stessa canzone che aveva ascoltato all’andata e pensando a quanto gli si addicesse, soprattutto la strofa che precedeva l’ultimo ritornello.

 

I tried to be someone else

But nothing seemed to change

I know now, this is who I really am inside

I've finally found myself

Fighting for a chance

I know now, this is who I really am

 

Markus fece appena in tempo a chiudersi la porta di casa alle spalle, a giudicare dal temporale che si stava preparando all’orizzonte. I lampi squarciavano il cielo plumbeo, il vento fischiava senza pietà smuovendo le chiome degli alberi e le acque del Rock River. Si udì il boato di un tuono e in men che non si dica iniziò a piovere.

A Markus piaceva osservare le goccioline d’acqua abbattersi sui vetri delle finestre, il problema sorgeva quando veniva a piovere mentre era in strada e non aveva con sé l’ombrello. Era completamente solo, non c’era nessuno in casa. Sua madre era a lavoro e non sarebbe tornata prima del tardo pomeriggio, portando con sé Lily dopo essere passata a prenderla a casa di un’amichetta di scuola.

Da quando i suoi si erano separati, sua madre aveva cominciato a fare i doppi turni perché suo padre, se avesse potuto decidere, non le avrebbe mandato neanche l’assegno di mantenimento per lui e Lily, infatti lo mandava sempre in ritardo. 

Emily non voleva far mancare niente ai suoi figli, ma lavorare di più significava anche passare meno tempo con loro. Alcune volte tornava addirittura solo per l’orario di cena.

Markus si era abituato alla sua assenza, sapeva che fosse determinata dalla necessità, perciò aveva anche imparato a badare a se stesso e alla sorellina, facendo quello che qualcuno avrebbe potuto definire “bruciare le tappe”, ma in realtà anche lui aveva bisogno della sua mamma proprio come qualsiasi altro ragazzino della sua età, perché era lei la sua ancora di salvezza in quella famiglia sfasciata.

La pioggia aumentò e con essa anche il vento. Viste quelle condizioni, Markus volle scongiurare che sua madre fosse per strada, così la chiamò sul cellulare, ma il suo numero risultava irraggiungibile. Attese e riprovò un paio di volte, ma niente da fare.

Che fosse per la mancanza di linea dipesa dal maltempo oppure no, a Markus poco importava: ogni chiamata persa lo gettava nel panico… e nella rabbia.

“Schiatta!”, urlò al cellulare prima di scagliarlo contro il pavimento. Non controllò se si fosse rotto, anche di quello non gl’importava niente. Non aveva mai chiesto a sua madre di comprarglielo, era stata lei a prendere l’iniziativa.

“Tutti, alle medie, pregano i genitori affinché gli comprino un cellulare con cui poter chattare con gli amici. Sai meglio di me come sono i ragazzini di oggi: comincerebbero a darti dello sfigato, se sapessero che sei l’unico a non averlo”, gli aveva detto.

“Grazie”, aveva risposto Markus, “ma non so a quanto potrebbe servirmi. Tanto mi daranno dello sfigato a prescindere.”

Comunque, quel maledetto aggeggio non si era rotto. Lo raccolse da terra e andò nella sua stanza, o meglio la stanza sua e di Lily.

I suoi genitori avrebbero voluto fermarsi a un solo figlio, per questo avevano acquistato una casa che possedeva soltanto due camere da letto, ma le cose erano andate diversamente. Ciò non toglieva che sua madre, in passato, gli aveva anche detto che, se avesse desiderato avere una camera tutta per sé, lei avrebbe sempre potuto far innalzare un muro per dividere lo spazio in due stanze distinte e separate, ma Markus aveva sempre ritenuto che non fosse necessario, perché a lui piaceva condividere la stanza con sua sorella così come a lei piaceva condividerla con lui.

Nonostante la differenza d’età e di sesso, Markus e Lily andavano d’amore e d’accordo, rispettavano a vicenda gli spazi l’uno dell’altra e allo stesso tempo gli piaceva fare alcune attività insieme. Qualche mese prima, infatti, Lily aveva chiesto a Markus di insegnarle a leggere e scrivere, così, quando l’anno successivo avrebbe iniziato le elementari, sarebbe stata l’unica bambina della sua classe a saperlo fare, proprio come lui.

Markus era contento di star riuscendo a trasmetterle il suo amore per i libri, proprio nella loro stanza aveva una libreria su cui ne erano esposti di ogni genere.

Su di lui, la lettura aveva sempre esercitato una sorta di potere salvifico. Immergersi nelle storie di personaggi sempre nuovi gli impediva di pensare, almeno per un po', alla sua, di storia.

Tuttavia, la lettura non era esattamente la sua più grande passione. Soltanto sua madre e Lily sapevano che amasse scrivere più di qualsiasi altra cosa, infatti l’avevano visto portare a casa innumerevoli volte il premio da vincitore del concorso Piccoli Scrittori a cui la sua scuola elementare partecipava ogni anno, eppure nemmeno loro erano a conoscenza del suo ultimo progetto, un progetto che lo teneva impegnato già da qualche mese.

Per la prima volta in vita sua, Markus stava lavorando a una storia diversa dai racconti brevi che aveva scritto per il concorso. Stavolta si trattava di una storia più complessa, vera: l’autobiografia della propria infanzia.

L'idea fu un suggerimento che gli venne dato al termine della quinta elementare dalla bibliotecaria della sua scuola, la signora Scheel, che per Markus era sempre stata un'importante figura di riferimento.

Ricordava perfettamente di quell'ultimo giorno di scuola, del momento in cui si era recato in biblioteca per salutarla e ringraziarla di tutti i libri che le aveva prestato e regalato durante gli anni, dei preziosi consigli che aveva saputo dargli nei momenti tristi, e lei aveva ricambiato regalandogli una copia de Il Piccolo Principe con tanto di dedica.

Ricordava di quel preciso istante in cui l'anziana bibliotecaria si era rivolta a lui dicendo: “Sai, Markus, vorrei tanto che un giorno, su questi scaffali, ci fosse qualcosa di tuo. Non hai mai pensato di scrivere un libro?”

Markus aveva fatto spallucce, rispondendo: “E su che cosa dovrei scriverlo?”

“Scrivi di qualcosa che ti sta a cuore, che ti appartiene. Scrivi di te. Provaci, un giorno mi farai sapere.”

Così, Markus aveva accettato quella proposta e durante le vacanze estive si era cimentato nella stesura di quella storia, della propria storia, scrivendo su un quaderno dalla copertina blu tutto ciò che gli era rimasto in mente senza abbellimenti o trascuratezze.

Scrivere di sé si stava pian piano rivelando terapeutico, perché soltanto su carta riusciva a parlare di fatti di cui nessuno era conoscenza, nemmeno sua madre. Ecco perché non le aveva parlato del libro.

In quel momento, seduto scrivania, stava rileggendo il paragrafo che aveva scritto per accertarsi che non ci fossero errori. Sebbene avesse intenzione di tenere segreto quel racconto, desiderava scriverlo al meglio per semplice soddisfazione personale.

La signora Scheel gli aveva detto che sarebbe diventato sicuramente un best-seller; Markus, invece, non pensava che la sua storia potesse un giorno finire sugli scaffali di una libreria, infatti non aveva mai pensato a cambiare i nomi o quantomeno omettere i cognomi di tutte le persone che avevano fatto parte di quel periodo della sua vita in vista di una eventuale pubblicazione. Addirittura, non aveva mai pensato a darle un titolo.

Almeno, non fino a quel momento.

Riflettendoci su, perché no? Dopotutto, era anche un modo per ricordarla senza fare troppi giri di parole.

Finito di rileggere il pezzo che aveva scritto quel giorno, passò a sfogliare le pagine precedenti, cercando la frase più ricorrente, il gruppo di parole che ripeteva più spesso e che individuò subito.

Come ho fatto a non accorgermene prima? pensò.

Fu allora che, senz’ombra di dubbio, decise di intitolarla Il Bambino Cattivo.

Dopotutto, è questo che sono stato. È per questo che ho meritato tutte le botte che ho preso.

Il rumore della porta d’ingresso che si apriva dall’esterno lo distolse da quel pensiero, gli fece ricordare che avrebbe fatto meglio a nascondere il quaderno dalla copertina blu nel solito posto: sotto la rete del materasso.

Sua madre era tornata e presto fece capolino nella sua stanza, sedendosi accanto a lui.

Venne raggiunta da Lily, che subito corse da suo fratello per mostrargli un disegno che aveva fatto a scuola.

“Wow, che bello!”, esclamò Markus. “Diventi sempre più brava”, le disse, e lo pensava davvero. Nonostante avesse solo cinque anni, Lily possedeva un talento innato per l’arte, era capace di rispettare inconsapevolmente le proporzioni anatomiche come facevano i veri artisti.

“Markus ha ragione”, concordò la madre. “Adesso, però, vai a toglierti il cappotto e lavati le mani. Fra poco mangiamo.”

“Va bene, mamma”, obbedì la bambina, uscendo dalla stanza.

Allora Emily si rivolse a Markus. “Tesoro, scusa se non ho risposto alle tue chiamate. Le ho notate soltanto adesso, in ufficio la linea cadeva in continuazione a causa di questo brutto temporale”, esordì. “Stai bene? Dovevi dirmi qualcosa di importante?”, chiese poi.

“L’avevo capito”, disse Markus, rispondendo alla premessa. “Tutto okay, volevo solo assicurarmi che tu e Lily foste al riparo”, aggiunse, rispondendo alle domande.

“Tranquillo, come ti ho detto, io ero in ufficio e tua sorella era a casa di Abby. Stiamo bene”, lo rassicurò Emily, scrutandogli attentamente il volto. “Però non direi lo stesso di te. Sembra quasi che tu abbia pianto. È successo qualcosa a scuola?”

“Non mi è successo niente a scuola”, rispose Markus.

“Però non neghi che ti sia successo qualcosa”, constatò sua madre. “Hai avuto un attacco di panico, tesoro?”

Markus rimase zitto.

“Coraggio, sai che a me puoi dire tutto.”

Markus annuì. “Ho incontrato un mio compagno delle elementari in libreria.”

Sua madre gli sorrise dolcemente. “Non preoccuparti, quel periodo è passato e non tornerà più. La vita va avanti, Markus. La tua non è più quella che avevi fino all’anno scorso.” Poi gli chiese: “Cos’hai comprato in libreria?”

“Niente. Mi sono accorto di aver lasciato i soldi nel salvadanaio quando ero già là”, mentì Markus.

“Oh, che peccato. La prossima volta ricordati di controllare prima”, gli raccomandò Emily. Si alzò dalla sedia e fece per lasciare la stanza.

“Vado a preparare la cena”, disse.

Prima che si chiudesse la porta alle spalle, Markus la chiamò e la fece voltare nuovamente verso di sé.

“Ho finito il medicinale nell’inalatore”, confessò.

“Domani passo in farmacia e lo compro”, lo rassicurò sua madre.

 

Anche a tavola, Markus non riuscì a nascondere il malumore. La prima ad accorgersene fu Lily.

“Che succede, Markus, sei triste?”, gli chiese.

“Non sono triste, solo un po' stanco”, rispose il fratello.

“Com’è andato il test di matematica?”

“Bene. Ho preso A+.”

“E quando avevi intenzione di dirmelo?”, intervenne sua madre. “Complimenti!”, esclamò. Provò a stampargli un bacino sulla fronte, ma suo figlio, come aveva premeditato, lo schivò.

Emily non volle forzarlo ad accogliere le sue effusioni. Significava che non avesse ancora superato il trauma.

D’altronde, era questo il metodo che usava Chris per fargli del male: prima gli faceva credere di volergli fare una carezza, poi lo picchiava a sangue.

“Che bravo!”, le fece eco Lily, che da sempre nutriva una profonda ammirazione nei confronti di suo fratello.

“Invece Satèle che voto ha avuto?”, chiese poi.

“C”, rispose Markus.

“Satèle, quella tua amica?”, chiese curiosa sua madre.

“No, è la sua fidanzatina!”, lo canzonò Lily.

“Zitta!”, rispose acido Markus. “È una mia amica e basta.”

“Ma tu me ne parli sempre!”, continuò Lily.

Nel frattempo, Emily assisteva divertita alla scena, perché era della stessa opinione della piccola.

Markus stava attraversando quella fase in cui un po' tutti i ragazzini rifiutano le cose smielate e commentano “Che schifo” quando vedono un bacio tra due innamorati in televisione. Eppure, lei era convinta che, se avesse dovuto dare un bacio a Satèle, non gli avrebbe fatto poi così “schifo”.

“Ma non è vero!”, protestò Markus, facendo ridere la sorellina, che subito cominciò a canticchiare: “Markus ama Satèle, Markus ama Satèle!”

Per farla smettere, Markus le tirò addosso una mollica di pane. Per rivincita, Lily fece lo stesso. Poi entrambi scoppiarono a ridere e Lily fu contenta di essere riuscita almeno un po' a tirarlo su di morale.

 

“Chiedi scusa!”

“No.”

Uno schiaffo.

“Markus, chiedi scusa!”

“No. Non ho fatto niente.”

Un altro schiaffo.

“La prossima volta che ti permetti, ti straccio questa brutta lingua che tieni. Hai capito?”

Con le mani di suo padre strette intorno al collo, Markus tossì e, con gli occhi ridotti a due fessure, rispose per l’ennesima volta, in tono di sfida: “No!”

Un altro schiaffo, ancora più doloroso dei precedenti.

Markus resistette finché suo padre non lo mise spalle al muro, inibendogli qualsiasi tipo di movimento. Incassò tutti i pugni nello stomaco, tutti i calci nei fianchi e le tirate di capelli senza lamentarsi. Non voleva dare a quello stronzo la soddisfazione di farsi vedere piangere.

Una ginocchiata nell’inguine fece piegare Markus in due, una spinta lo fece cadere a terra.

“Adesso che mi dici, piccolo bastardo?”

Markus – anche se non aveva la più pallida idea del perché dovesse pronunciare quella parola, anche se sapeva che pronunciarla non gli avrebbe risparmiato le percosse, perché ci era già cascato una volta – dopo aver sputato un dente da latte, finalmente disse: “Scusa.”

 

Markus si svegliò di soprassalto, ansimando forte. Il cuore avrebbe potuto schizzargli fuori dal petto da un momento all’altro; coprì la bocca con una mano perché si sentiva di vomitare.

Rimase seduto al centro del letto e attese che gli passasse la nausea. Nel frattempo osservava Lily che dormiva tranquilla, sollevato che lei fosse stata risparmiata da quelle violenze.

 

Anche Emily si era svegliata all’improvviso, quella notte, ma perché le erano venute le mestruazioni. Dopo essere stata in bagno, approfittò per affacciarsi nella camera dei suoi figli e controllare se stessero dormendo. Lily sì; Markus, invece, era seduto al centro del letto e tirò un sospiro di sollievo quando la vide affacciata alla porta.

Emily si avvicinò al suo capezzale. “Amore, non ti senti bene?”, sussurrò.

“Non riesco a dormire”, spiegò Markus.

“Vuoi che ti prepari una camomilla?”

“No, sai bene che non mi aiuta.”

Emily avvicinò cautamente, cercando di non svegliare Lily, la sedia della scrivania al letto.

“Cosa fai?”, chiese perplesso Markus.

“Resto un po' qui con te. Forse parlare potrebbe riuscire a conciliarti il sonno”, spiegò sua madre. “Dunque, tu e questa Satèle andate molto d’accordo…”

“Mamma”, tagliò corto Markus, “è solo un’amica.”

“L’ho capito. Proprio perché siete tanto amici, vorrei conoscerla anch’io. Che ne diresti di invitarla a passare un giorno qui?” gli propose sua madre.

Markus rifletté. “Sì, sarebbe una buona idea”, decise infine. “E sarebbe anche la prima volta che porto un’amica a casa.”

“Appunto, non ne sei contento? Finalmente non sei più solo.”

“Sì… credo.”

“È così, Markus, fidati”, lo rassicurò sua madre. “E senti, le hai mai raccontato qualcosa di te? Qualcosa di più personale, intendo…”

“Non ancora. Dici che dovrei farlo?”

“Perché no? Se vuoi che la vostra amicizia duri, devi pur raccontarle qualcosa del tuo passato. Insomma, se verrà qui più volte e vedrà che siamo sempre io, tu e tua sorella, capirà da sola che io e tuo padre non stiamo più insieme, invece sarebbe meglio che glielo raccontassi tu. Non trovi?”

“Non lo so, mi vergogno.”

“Tesoro, so che è ti difficile aprirti, ma fa parte della crescita. Se Satèle ti vuole bene davvero, non si allontanerà da te dopo che le avrai raccontato del tuo passato. Tu ti fidi di lei?”

“Abbastanza.”

“‘Abbastanza’ è troppo poco.”

“Sai che non mi fido mai delle persone. Sono cattive.”

“Non è vero, Markus, non tutte lo sono. Non devi fare di tutta l’erba un fascio perché guardi solo alle tue esperienze passate. Tu hai conosciuto una fetta di questa realtà, non puoi giudicare la parte che resta senza prima conoscerla.”

“Va bene, mamma. Grazie dei consigli”, disse Markus, sbadigliando.

“Ti è venuto sonno?”

“Credo proprio di sì.”

“Bene, allora stenditi.”

Emily gli rimboccò le coperte e promise che avrebbe vegliato su di lui finché non si sarebbe addormentato.

“Buonanotte”, disse Markus, chiudendo pian piano gli occhi e permettendo così a sua madre di stampargli sulla fronte il bacio che non era riuscita a dargli quando erano a tavola.

Emily rimase a guardarlo mentre dormiva sereno come quando era bambino, ma prima che suo marito, dal quale avrebbe definitivamente divorziato dopo la sua scarcerazione, si trasformasse in un mostro.

Nel frattempo, un ricordo si fece spazio fra i suoi pensieri.

 

“Signora Lancaster, l’ho convocata per parlarle di cosa ho visto fare a Markus in classe stamattina”, esordì la maestra Mulligan, seduta alla cattedra con le mani giunte.

Era il 16 settembre 2006. Emily teneva suo figlio per mano e cercava il suo sguardo, ma lui continuava a girarsi dalla parte opposta.

“Signora Mulligan, anche se non so ancora cosa abbia potuto fare mio figlio, le chiedo scusa. Markus è un bravo bambino, mi creda, ultimamente è solo un po' nervoso. Le prometto che farò in modo che non ripeta più il suo errore”, supplicò Emily.

La Mulligan sorrise e agitò una mano come per ordinarle di tacere. “Credo che lei mi abbia frainteso”, rispose. “Stia tranquilla, signora, Markus non ha fatto quasi niente di male.”

“In che senso ‘quasi’?”, ripeté Emily. “Non capisco…”

La signora Mulligan prese un biglietto accartocciato e lo distese davanti agli occhi della madre dell’alunno. Al centro del biglietto c’era una scritta: “Stronzo!

“Markus l’ha tirato a un compagno che lo stava infastidendo mentre facevo lezione”, spiegò la maestra.

A quel punto Emily tirò il bambino per un braccio, costringendolo a guardarla. “Markus, è una brutta parola! Non ti permettere mai più!”, lo rimproverò.

“Si calmi, signora, è evidente che ancora non le è chiaro ciò che sto cercando di dirle”, l’acquietò la signora Mulligan. “Siamo d’accordo sul fatto che sia una parolaccia, ma non è questo il punto.”

“E allora qual è?”, chiese Emily, rasentando l’esasperazione.

La maestra aprì un libricino e lo mise nelle mani di Markus, indicò una frase e gli domandò cosa ci fosse scritto.

“Il sole brilla”, lesse Markus.

“Benissimo”, convenne la maestra, poi gli diede un gessetto e lo mandò alla lavagna.  “Adesso scrivi: ‘il cane abbaia’.”

Markus impugnò saldamente il gessetto e scrisse in corsivo quanto richiesto.

La Mulligan si fece avanti e allargò le braccia. “Perfetto!”, disse solenne. Si rivolse nuovamente alla madre del bambino, che sembrava alquanto confusa.

“Signora Lancaster, suo figlio ha cominciato da poco la prima elementare e sa già leggere e scrivere perfettamente. Né io né le mie colleghe l’abbiamo ancora insegnato al resto della classe. Se ne rende conto?”

“Signora Mulligan, non so che dirle”, dichiarò commossa Emily, che a quel punto non poté che essere orgogliosa di lui.

“Quindi non gliel’ha insegnato lei”, dedusse la maestra.

“No”, ribadì Emily. Si rivolse a Markus e chiese se fosse stato il padre. Lui negò con la testa.

“È impossibile che l’abbia…”

“Markus”, lo chiamò la signora Mulligan, “chi ti ha insegnato a leggere e scrivere?”

Markus, con il gessetto ancora in mano e un sorrisetto beffardo stampato in volto, posò lo sguardo sul sillabario attaccato alla parete di fronte a sé, che era identico a quello che tre anni prima aveva trovato in uno scatolone nel ripostiglio di casa sua e usato di nascosto per imparare, e rispose, un po' fieramente: “Io.”

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: FrancescaPenna