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Autore: Soul Mancini    17/02/2022    4 recensioni
Ethan e il suo esilio, Ethan che per l'ennesima volta nella sua vita ha perso tutto e non sa dove andare.
Ethan, a cui non è rimasto nient'altro a parte le sue radici.
DAL TESTO:
«Chissà se il portoncino cigola ancora quando viene aperto.
Chissà se l’odore di cipolle e spezie si spande ancora in ogni stanza, incollandosi ai mobili.
Chissà se esiste ancora il ripostiglio dalle mura ammuffite in cui non si sente nessun rumore, nemmeno quello delle campane che battono forte il mezzogiorno.
Chissà se Thiago ha ancora quell’irritante sorrisetto di scherno di chi è consapevole di avere tutti dalla sua parte.
Si ferma.
Con quale faccia si presenta alla porta della casa in cui è nato dopo tutto quel tempo?»
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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Sono passati vent’anni da quando ha calcato quelle strade per l’ultima volta, ma da allora non è cambiato niente.
Ethan si ricorda perfettamente ogni cosa, ogni angolo di ogni via polverosa, ricorda gli edifici diroccati in cui Davi gli intimava di non addentrarsi – ma lui lo faceva lo stesso –, ricorda il negozietto di frutta e verdura dove a volte sua madre gli chiedeva di andare a comprare qualche zucchina, ricorda i murales ormai sbiaditi con cui alcuni ragazzini annoiati avevano marchiato le pareti di nessuno.
Il vociare che si diffonde nell’aria non è cambiato, così come il suono lontano della banda che passa per strada a ritmo di samba.
Fin da piccolo è sempre stato molto bravo a crearsi delle mappe mentali e orientarsi, se è stato in un posto sicuramente non se l’è scordato. E così, dopo due decenni in cui non ha calcato quell’asfalto trapuntato di solchi, si ritrova a procedere a passo sicuro in direzione del luogo che non avrebbe mai pensato di rivedere.
Ha perso il conto di quanti mezzi ha dovuto prendere – aerei, treni, pullman – per giungere fin lì, l’unica cosa certa è che si è sentito disorientato ovunque, in ogni momento. Della sua vecchia vita sono rimasti solo la chitarra classica che porta in spalla – la prima, la più vecchia, quella su cui ha imparato a suonare – e il borsone contenente qualche indumento e alcuni vinili. Tutti gli altri punti di riferimento sono evaporati, ha sentito il suolo cedere sotto i suoi piedi per la millesima volta nella sua vita.
Ci sono due oggetti che non avrebbe mai potuto abbandonare: la maglietta con il logo dei Led Zeppelin che Davi gli ha regalato per il suo undicesimo compleanno – ormai troppo piccola, sbiadita e incrostata di avventure – e il walkman che Ives gli ha comprato per Natale quando erano ancora ragazzini e avevano cominciato a racimolare i primi soldi grazie alla band – Ethan allora si era arrabbiato, non sopportava l’idea che il suo migliore amico spendesse così tanto per lui.
Fa male, ripensare a quei momenti gli apre una voragine nel petto, ma non vuole nemmeno cancellare tutto ciò dalla sua memoria. Non potrebbe in ogni caso: i ricordi sono un po’ come i tatuaggi che gli marchiano la pelle, cicatrici di una guerra che combatte contro il mondo da venticinque anni.
Quando è atterrato in Brasile ha regalato la sua vecchia giacca a un senzatetto – d’altro canto lui stesso non può considerarsi altro che questo, un uomo senza casa – perché non gli sarebbe più servita; l’aria bollente di Bahia non ha nulla a che vedere con l’inverno losangelino. Si sente stupido ad ammetterlo, ma in quel momento si è sentito come se gli avessero portato via un altro pezzetto di sé.
Ora che si ritrova a camminare sotto il sole forte della sua città, con la brezza umida che gli si attacca alla pelle, prova un misto di nostalgia, disprezzo e malinconia. Perché forse quello è sempre stato il luogo a cui appartiene – forse a quel luogo non appartiene affatto e la sua vera casa è Los Angeles.
Le sue sneakers consumate – non solo il tessuto, ma anche le suole cominciano a sbriciolarsi sotto i suoi passi – lo conducono fino a quella struttura maledetta, a quella facciata triste col portoncino in legno sfibrato e le due finestre sempre uguali, sempre senza tapparelle.
Chissà se il portoncino cigola ancora quando viene aperto.
Chissà se l’odore di cipolle e spezie si spande ancora in ogni stanza, incollandosi ai mobili.
Chissà se esiste ancora il ripostiglio dalle mura ammuffite in cui non si sente nessun rumore, nemmeno quello delle campane che battono forte il mezzogiorno.
Chissà se Thiago ha ancora quell’irritante sorrisetto di scherno di chi è consapevole di avere tutti dalla sua parte.
Si ferma.
Con quale faccia si presenta alla porta della casa in cui è nato dopo tutto quel tempo? Dopo essere scappato all’età di cinque anni insieme a tre dei suoi fratelli e aver lasciato sua madre e la sua sorellina minore a soffrire per mano di un violento alcolista. All’epoca voleva solo fuggire, stare con le persone che lo facevano sentire al sicuro.
Là dentro nessuno lo riconoscerà, l’ultima volta che l’hanno visto era un bambino.
Si sente quasi in colpa, si sente uno schifo a essere lì, ma è l’unico luogo che gli è venuto in mente quando ha appreso che sarebbe dovuto scappare dagli Stati Uniti.
Scappare, ecco la parola chiave della sua esistenza.
Si muove in automatico, con la mente annebbiata di chi non ha più la forza di pensare: si avvicina all’ingresso e bussa. Non si chiede cosa succederà, chi aprirà o cosa dirà; non è mai stato abituato a speculare sulle proprie azioni.
Trascorrono alcuni minuti, poi il portoncino si schiude e Ethan lo riconosce, quel cigolio familiare che stride fin dentro le orecchie. La luce accecante del tardo mattino illumina la figura esile di una ragazza sui vent’anni, dai lunghi capelli lisci e neri e due occhi grandissimi, identici a quelli di Ethan.
Non appena scorge il nuovo arrivato, sobbalza e si porta una mano davanti alle labbra, intimorita; forse aspettava qualcun altro, forse si aspettava qualsiasi cosa tranne di ritrovarsi davanti uno sconosciuto che però le somiglia così tanto.
Ethan pensa che sia bellissima, ma non nello stesso modo in cui l’ha pensato di tutte le ragazze che si è portato a letto: è bella in modo puro, genuino, quasi familiare.
Lília?” ha il coraggio di spezzare il silenzio lui. Non gli capita spesso di sentirsi così a disagio e insicuro nel rivolgersi a qualcun altro.
Lei continua a squadrarlo da capo a piedi, esaminando ogni suo minimo dettaglio in cerca di un indizio che le fornisca qualche risposta. Dopo un lungo e teso silenzio, esala: “Tu sei uno di quei fratelli che sono fuggiti”.
Non è una domanda. Ha riconosciuto il sangue del suo sangue, Ethan glielo legge nelle iridi scure.
“Ethan” afferma lui annuendo, quasi timoroso di rivelare la sua identità e scoprire la reazione di sua sorella: gli urlerà di andarsene, lo spingerà via, lo guarderà con disprezzo.
Ma lei non fa nulla di tutto ciò. I suoi occhi sono ancora sgranati, sul suo volto giovane e bello da togliere il fiato è dipinta l’indecisione. “Perché sei tornato?” sussurra infine.
Ethan non glielo vuole dire, non vuole raccontarle che il loro fratello più grande – uno dei più importanti spacciatori di Los Angeles – è stato arrestato dopo vent’anni in cui ha venduto a milioni di ragazzi un biglietto di sola andata per la loro fine. Non vuole spiegarle che è dovuto fuggire per non essere collegato a lui in alcun modo e perché non gli è rimasto più niente – Davi era tutto, colui che lo manteneva, l’unico a cui importava ancora di lui, la persona che non l’ha buttato in mezzo alla strada nonostante negli ultimi tre anni abbia solo bevuto come una spugna.
“Sei Lília?” ripete quindi, sperando di riuscire a sviare il discorso.
“No, sono Ofélia. Quando ve ne siete andati, mamma era incinta di me.” Le sue parole sono piatte, quasi glaciali.
Allora Ethan ricompone i pezzi del puzzle e si sente ancora peggio: si trova davanti alla sorellina che non ha mai visto nascere, che ha abbandonato ancora prima di poterla accogliere. Non aveva nemmeno idea che fosse una ragazza e non un ragazzo.
Non sa cosa dire. Non è mai stato bravo in questo.
Ofélia ha il respiro accelerato e il viso leggermente pallido. “Senti,” riprende la parola con voce rotta, “io non so se posso farti entrare, non so cosa… devo chiedere a mamma. E Lília non è ancora tornata… aspetta un attimo.” Detto ciò, socchiude l’uscio e scompare nel corridoio immerso nella penombra che – da quel poco che Ethan è riuscito a scorgere – non è cambiato per niente.
Non può biasimare Ofélia e la sua incertezza: avrà al massimo vent’anni e sul viso ha ancora l’innocenza dell’adolescenza, si ritrova a fronteggiare una situazione che non aveva mai preso in considerazione e a decidere se fidarsi di qualcuno che per lei è uno sconosciuto.
Ethan non aveva sperato di essere riaccolto come un figliol prodigo, non è affatto deluso dalla piega che stanno prendendo gli eventi, tutt’altro; si sente fortunato per il fatto che non gli sia stata sbattuta la porta in faccia all’istante.
L’aria attorno a lui è tesa, sente il peso della chitarra e del borsone ancora più pressante sulle spalle. Cerca di affinare l’udito per cercare di carpire qualche stralcio di conversazione dalle viscere dalla casa, ma non sente niente. Per un attimo gli pare di riconoscere la voce di sua madre – se la ricorda ancora dopo tutti questi anni? – e la trova strana, come preda di un lamento.
Gli vengono i brividi.
Dopo qualche minuto ecco che Ofélia compare nuovamente sulla soglia, l’espressione tirata di chi non è riuscito a venire a capo di un problema. “Vieni dentro. Lília tornerà a momenti per il pranzo, sarà lei a decidere.”
Vorrebbe chiedere cosa ha detto la madre a riguardo, ma fare domande non è da lui.
In casa tutto è rimasto uguale, ma a Ethan sembra tutto più piccolo; si ricorda ancora quando era costretto a mettersi in punta di piedi per osservare i poveri e scarni oggetti che erano ordinatamente disposti sulle mensole in legno.
Là dentro non c’è niente, non è stato aggiunto né tolto un granello di polvere. L’unica differenza è il silenzio surreale che striscia in ogni stanza – quando era piccolo lui non esisteva la pace, c’erano sei figli in giro per casa.
Ofélia lo conduce fino alla piccola cucina deserta, come a presentargliela per la prima volta. Effettivamente si sente proprio come un ospite, non si permette nemmeno di poggiare i suoi bagagli o di prendere posto. Si guarda attorno spaesato come se fosse appena stato catapultato dentro una vecchia cartolina.
E improvvisamente si rende conto dell’assenza di suo padre. Si ritrova a ringraziare il dio in cui non crede per questo, perché se se lo ritrovasse davanti ora lo potrebbe uccidere a mani nude.
“Mamma sta riposando, è in camera sua” rompe il silenzio Ofélia, probabilmente nel tentativo di stemperare l’atmosfera. “Sai… lei… non sta molto bene ultimamente.”
Ethan la osserva mentre mette in ordine gli utensili da cucina, passa lo straccio sul tavolo e sul piano cottura, sciacqua alcuni pentolini e porta fuori delle verdure dal frigorifero. Tiene sempre lo sguardo basso, non si volta mai a guardarlo.
C’è una straordinaria delicatezza in tutto ciò che fa – Ethan si ritrova a pensare che Ofélia somigli tanto a Olivia, la sua adorata sorella maggiore.
“Non so quando sia cominciato, forse quando papà è morto o forse addirittura quando ha perso Cristóvão…”
“Nostro padre è morto?” la interrompe bruscamente Ethan, sollevando forse eccessivamente il tono di voce.
La ragazza sobbalza. “Sì, ormai sei anni fa. Stava male. Noi gliel’abbiamo detto di smettere di bere, ma…”
Ethan si ritrova a sorridere, mentre un’ondata di euforia e soddisfazione lo invade. Non poteva ricevere notizia migliore: l’uomo che ha creato una famiglia per poi distruggerla, che ha picchiato i figli e lasciato in loro cicatrici ancora più profonde, che ha maltrattato, massacrato e messo incinta la moglie anche quando lei non ne poteva più, aveva smesso di esistere. Non solo Ethan ne è felice, ma quelle sensazioni non lo fanno sentire affatto in colpa.
Proprio in quel momento Ofélia si volta e i loro occhi si incrociano; quelli della ragazza sono velati di tristezza. Ethan si domanda se veramente stia soffrendo al ricordo del padre.
“Era un pezzo di merda” afferma quindi, per mettere in chiaro il suo punto di vista. Forse non il miglior modo per fare una buona impressione sulla sorella che non ha mai conosciuto prima, ma non riesce a fingere ed essere incoerente con se stesso.
 “Era pur sempre nostro padre” ribatte lei.
“Era un uomo egoista che non ha fatto che maltrattare la sua famiglia. Questo è ciò che ho vissuto io.”
Ofélia ora ha il capo ben sollevato e un atteggiamento risoluto. “Mamma ci ha insegnato a volergli bene nonostante tutto. Bisogna sempre perdonare, solo così Dio ci avrà in gloria.”
Ethan si trattiene dal riderle in faccia; ha già capito che quel discorso è destinato a concludersi lì, è appena andato a sbattere contro il muro della cieca fede che lui non ha mai avuto. “Cosa stavi dicendo prima? nostra madre, la sua salute…”
Ofélia abbassa nuovamente lo sguardo e prende ad affettare una carota. “Non sta bene, la sua testa… non funziona più come prima. A volte dice delle cose senza senso, a volte vede cose che non esistono… a volte si sveglia nel cuore della notte e inizia a lamentarsi senza motivo. Abbiamo chiamato un medico, gli abbiamo chiesto di visitarla per capire cos’abbia, ma lui ci ha detto che non si può fare niente e si deve solo avere pazienza.”
Quelle parole a Ethan fanno veramente male, forse è la prima vera emozione forte che prova da giorni: evidentemente sua madre è impazzita per il troppo dolore accumulato durante l’arco della sua vita, il suo perenne stato di sottomissione ha dato il colpo di grazia a una mente fragile e incapace di ribellarsi. E nemmeno l’idea che l’artefice di tutto ciò sia morto lo conforta, perché ha lasciato tracce troppo profonde del suo passaggio.
Ethan sente la rabbia montare dentro sé e non riesce a trattenere alcune imprecazioni – in inglese, in modo che Ofélia non possa capire.
Lei gli lancia un’occhiata in tralice, attende che il silenzio cali di nuovo e poi riprende a parlare: “Le siamo rimasti solo noi: io, Lília e Thiago. Voi quattro siete andati via e Cristóvão, povera creatura…” La voce le si incrina appena sulle ultime parole. Lascia cadere il coltello sul tagliere e afferra una patata.
Ethan è tentato di tacere come al solito, ma si sforza di dar voce ai suoi dubbi: “Un altro figlio?”
“L’ultimo. Quando è nato io ero molto piccola, ma ricordo che era così fragile e magro… aveva dei problemi di salute, non respirava bene e anche il suo cuore non si era ben formato, c’erano degli interventi che doveva fare ma noi non avevamo tanti soldi e mamma non poteva spostarsi da casa per troppo tempo, io e Lília eravamo piccole… mamma si è presa cura di lui come ha potuto, ma poco dopo aver compiuto un anno Cristóvão è morto.” Si può percepire una profonda commozione nelle sue parole.
Ethan non sa bene cosa ribattere. Si ritrova amaramente a pensare che, sia che fosse rimasto a Bahia e sia che fosse fuggito a Los Angeles, il dolore l’avrebbe comunque seguito ovunque.
Proprio in quel momento il cigolio del portoncino d’ingresso annuncia l’ingresso di un nuovo arrivato e Ethan tira un sospiro di sollievo; non attendeva altro che un’occasione per uscire da quella situazione scomoda.
“Sono a casa!” annuncia una voce femminile e allegra, rimbombando appena tra le pareti spoglie dell’ingresso.
Ethan e Ofélia fanno in tempo a scambiarsi appena uno sguardo prima che Lília compaia sulla soglia della cucina.
Lui la riconosce all’istante, nonostante siano passati due decenni: capelli castano scuro raccolti, occhi penetranti, viso affilato e quella cicatrice sulla guancia, quella che le ha lasciato suo padre quando l’ha picchiata da piccola. Ethan se lo ricorda ancora, l’aveva difesa e alla fine era stato lui a soccombere e attirarsi addosso l’ira dell’uomo.
È diversa dalla madre e dal resto delle sorelle: ha i fianchi stretti, la carnagione pallida ed è più magra del dovuto; nulla in lei trasuda cattiva salute, ma tutto in lei trasuda preoccupazione.
Si immobilizza all’ingresso della stanza e lancia occhiate stranite alternativamente a lui e alla sorella.
“È Ethan, nostro fratello. L’ho fatto entrare perché non sapevo che fare…” si affretta subito a spiegare Ofélia, mettendosi in piedi.
“Ethan?!” sbotta lei in tutta risposta, puntandosi le mani sui fianchi.
Dal canto suo, lui si sente parecchio a disagio; vorrebbe scusarsi per la sua presenza, ma subito reprime quel pensiero. Non è da lui, non lo farebbe mai.
“Ciao” butta lì infine. Ciò non lo fa sentire meno fuori luogo.
“Ah. Così, all’improvviso, dopo vent’anni. Ma con quale faccia ti presenti qui, eh?” Lília fa un passo avanti, il volto distorto da una rabbia e una determinazione che, per qualche ragione, a Ethan è familiare.
Non è una domanda banale: con quale faccia si è presentato lì? Se lo chiede dal momento in cui la sua vecchia casa è entrata nel suo campo visivo quel giorno.
“Questa è anche casa mia” sentenzia Ethan con risolutezza. Non ammetterà mai di essere nel torto, va contro ciò che ha imparato per poter sopravvivere: il contrattacco è la miglior difesa.
“Ah, è casa tua. Improvvisamente ti sei ricordato di avere una casa in Brasile dopo mezza vita, mmh? E fammi indovinare: ti sei pure ricordato di avere una famiglia. Di avere una madre che in questo momento giace in un letto in preda alle allucinazioni? Ti sei ricordato di avere un padre che se ne sta in una tomba da più di cinque anni? Ti sei ricordato di avere delle sorelle che sono state costrette a lavorare fin da quando erano piccole per sopravvivere e che si devono prendere cura totalmente da sole di una donna demente? Tutto ciò mentre tu e quegli altri andavate a fare la bella vita in America…”
A Ethan viene da ridere e non riesce a trattenersi. Sa che è fastidioso se qualcuno ti ride in faccia quando sei su tutte le furie, ma non può fare altrimenti. “La bella vita… per favore!”
Lília gli lancia un’occhiataccia, nello stesso identico modo in cui lo farebbe lui. Quando la guarda gli sembra di vedersi allo specchio, ha le sue stesse identiche reazioni; addirittura le sue mani tremano per la rabbia e Ethan sa che sta cercando di trattenersi dal mettergliele addosso. “Se così non fosse, non sareste partiti. O sareste tornati molto prima, esattamente come hai fatto tu adesso. Cos’è successo, il vostro castello è crollato? Sono cominciati i casini e improvvisamente avevi bisogno di un luogo dove rifugiarti?”
Ethan sta cominciando a perdere la pazienza: detesta quell’interrogatorio a cui non ha alcuna intenzione di rispondere, detesta essere squadrato con quello sguardo giudicante – cosa ne può sapere lei di quello che ha vissuto? – e di essere trattato come se non avesse alcuna dignità. A tutto c’è un limite.
E soprattutto non sopporta che quelle parole così vere gli trafiggano il petto.
“Senti un po’: non starò qui a farmi fare la predica da te per qualcosa che avevo il diritto di fare. Io, Davi, Arthur e Olivia avevamo la stessa possibilità di andarcene che avete voi; farlo o meno è una scelta soggettiva. Vuoi biasimarmi solo perché ho avuto coraggio?” Prova a mantenere dei toni pacati e civili, ma le sue parole sono già venate di nervosismo e il suo corpo ha già assunto un atteggiamento di sfida.
“Facile parlare dopo essertene fregato per anni.”
“Ah, io non posso giudicare le tue scelte ma tu puoi parlare come se sapessi ciò che è successo a Los Angeles. Questo ragionamento non fa una piega, complimenti.”
Vorrebbe gridarle che da quando sono arrivati in California le cose sono andate di male in peggio, che la famiglia si è smembrata in fretta, che Davi è entrato sempre più a fondo in un giro losco e hanno vissuto per anni nell’illegalità, che non hanno mai avuto una bella vita nonostante i soldi non mancassero, che negli ultimi anni si è ritrovato nel suo peggior incubo perché ha visto la vita scivolar via da una delle persone che amava di più al mondo. E vorrebbe anche dirle che l’ha amata tanto, che quando erano piccoli l’ha sempre protetta nonostante lui stesso fosse un bambino, che si sarebbe fatto ammazzare per la sua sorellina e che se avesse potuto l’avrebbe portata con sé, ma aveva solo cinque anni e non aveva alcun potere decisionale.
Ma non fa nulla di tutto ciò.
Lília muove un altro passo avanti. La sua espressione non accenna a mutare. “Non ti è venuto in mente che poteva esserci bisogno di te qui?”
“Ma aveva cinque anni, come poteva pensarlo?” prova a intromettersi Ofélia debolmente. Per tutto il tempo è stata zitta, con lo sguardo basso, ad affettare le verdure per il brodo.
Ethan non riesce a spiegarsi come mai Ofélia, una persona che non l’ha mai visto prima di quel giorno, abbia deciso di prendere le sue parti; soprattutto non sa se questo lo faccia sentire compreso o lo mandi su tutte le furie. Non è abituato a essere difeso, non ha mai avuto qualcuno che parlasse al posto suo.
Lília rivolge un’occhiataccia alla sorella minore. “Anche noi, quando avevamo cinque anni, non pensavamo a niente. Subivamo e basta. Sopravvivevamo. Ma ora siamo ancora qui, siamo rimaste.”
“Quindi, fammi capire” riprende la parola lui, sempre più spazientito, “sei incazzata con me perché secondo te ho avuto più fortuna di voi? Quindi dovresti essere perennemente incazzata con chiunque sia più ricco, fortunato, bello, abbiente e colto di te? Che vita di merda si vive a odiare mezzo mondo senza nessun motivo?” Ormai i toni sono accesi, ha perso il controllo sul volume della sua voce, non riesce più a calibrare i termini e le parole da utilizzare. E sente caldo, molto caldo.
Lília scuote la testa e gli si fa più vicina di un altro passo, puntando lo sguardo fisso nel suo – appare davvero minacciosa, nonostante sia così esile e suo fratello la superi di almeno dieci centimetri. “Non sono incazzata con te perché te ne sei andato, ma perché sei tornato. Pensi di essere riaccolto dopo tutto questo tempo come se niente fosse, mmh?” Le sue parole sono appena un sibilo, ma risultano affilate come coltelli.
“Io veramente non ti ho chiesto un cazzo.”
“E cosa sei venuto a fare allora, una visita di cortesia? Se così fosse, non avresti aspettato per vent’anni. Non pensare di ingannarmi così facilmente: so che le cose si sono messe male per voi, so che Davi è stato arrestato, ne parlano tutti qui.”
Lui si stringe nelle spalle, cercando di ostentare una calma che non possiede. “Ripeto: se la mia presenza non è gradita, tolgo il disturbo. Vivo per strada da venticinque anni, non mi spaventa affatto non avere una casa.” Detto questo, cerca di scansare la sorella per accennare qualche passo verso l’uscita – detesta la presenza della ragazza così vicina a sé, si sente in trappola.
“No! Rimani almeno per il pranzo, sarai stanco per il lungo viaggio” prova a fermarlo Ofélia, sollevando una mano nella sua direzione.
Ethan scuote il capo. “Non ci penso nemmeno.” Si sistema meglio i bagagli in spalla, poi improvvisamente gli viene in mente qualcosa e si volta nuovamente verso le sorelle. “Posso almeno vedere mia madre, o sono troppo stronzo anche per questo?”
“No. Non la vedrai” sentenzia Lília con fare perentorio.
Ethan si aspettava qualsiasi risposta, ma non quella. Come può Lília, quella che lui ricorda come la bambina più dolce del mondo, essere diventata così cattiva da non permettergli nemmeno di rivedere la donna che l’ha dato alla luce? Non lo accetta, nella sua testa non esiste che qualcuno gli dia degli ordini.
Un’ondata di rabbia lo assale per l’ennesima volta quel giorno ed è costretto a stringere i pugni per frenare il tremito alle mani. Prende un profondo respiro per calmarsi, poi sorride appena con scherno. “Mi fa piacere sapere che non sei d’accordo. Peccato che sia mia madre e io la possa vedere quando voglio.”
“Ma non hai nemmeno un briciolo di sensibilità allora! Ti sembra il caso di presentare a una donna già fisicamente e mentalmente debole il figlio che non vede da più di vent’anni? Ti rendi conto dell’effetto che questo potrebbe avere sulla sua salute? Quanto sei egoista…” lo attacca subito sua sorella, rivolgendogli un’occhiata colma di un odio e un disprezzo che forse nessuno gli aveva mai riservato.
“Cosa pensi, che morirà sul colpo non appena mi vedrà? La cosa potrebbe farla felice, ritroverebbe almeno un figlio dopo averne persi cinque. E mi pare che l’egoista tra i due non sia io” sputa lui velenoso. Non lo farà sentire in colpa, non lo impietosirà con un paio di parole ben scelte e studiate.
Fa per voltarsi e dirigersi in corridoio – non ha bisogno che qualcuno lo guidi, sa perfettamente dove si trova la camera della madre – ma Lília è più veloce di lui: con un movimento rapido lo supera, sgattaiola fuori dalla cucina e si frappone esattamente tra lui e la porta della camera matrimoniale. I suoi occhi fiammeggiano come quelli di un felino pronto ad attaccare, la determinazione e la fierezza la rendono ancora più maestosa di quanto normalmente non appaia. Non appena se lo ritrova davanti, non accenna ad abbassare lo sguardo. “Non osare avvicinarti. E non provare a toccarmi. Ne ho prese fin troppe nella vita per farmi spaventare da te.”
In mezzo alla furia che lo sta assalendo, Ethan trova la forza di riflettere sul fatto che, a parti invertite, lui avrebbe agito nello stesso identico modo per difendere una persona amata. Evidentemente è qualcosa che fa parte del loro DNA, si è sviluppato parallelamente in loro nonostante non siano cresciuti insieme.
“Io, picchiarti? Ma mi hai preso per quel pezzo di merda di tuo padre?” le grida contro, punto sul vivo da quelle parole. Lui le donne non le sa certo abbracciare e amare, ma non si sognerebbe nemmeno di metter loro le mani addosso con l’intento di ferirle; non esiste orgoglio o ira che lo porterebbe a compiere un gesto del genere.
“Ecco, non hai niente da fare qui! Fuori! Esci da casa mia!” Stavolta anche Lília perde la pazienza, si squarcia la gola pur di dimostrargli che, dentro quella casa, sarà sempre lei ad avere la voce più alta.
“Lília. Lília! Cosa sta succedendo?” Una voce sommessa e allarmata giunge alle spalle della ragazza, sorprendendoli entrambi.
Con la coda dell’occhio, Ethan nota Ofélia comparire sulla soglia della cucina e precipitarsi nella camera della madre, quasi terrorizzata all’idea che la donna si agiti.
Qualcosa scatta in Ethan e lui realizza, forse per la prima volta in vita sua, che non ha senso in quel momento continuare a essere così ostinato: la sua presenza là dentro sta creando solo scompiglio e per il momento non può fare tanto altro.
“Me ne vado, ma soltanto perché sono io a volermene andare, sia chiaro. E sappi che questa non è l’ultima volta che vedrai la mia faccia” alza bandiera bianca, ma con la fierezza di chi sa di aver perso una sola battaglia, non l’intera guerra.
“È Thiago? Perché state litigando con Thiago?” sente biascicare dalla camera matrimoniale.
Gli viene quasi da ridere. Thiago, l’unico suo fratello maggiore che ha deciso di rimanere in Brasile quando tutti gli altri sono partiti, il bravo bambino che faceva qualsiasi cosa per compiacere suo padre e averlo dalla sua parte, il traditore che chiudeva entrambi gli occhi quando vedeva la madre venir maltrattata e i fratelli massacrati di botte. Thiago, che non pareva avere un cuore e un briciolo di empatia, frequenta ancora quella casa. Può vedere sua madre. Lei lo ricorda e sicuramente gli vuole bene nonostante tutto.
E Ethan è sempre il figlio peggiore, quello che se n’è sempre fregato anche se è l’unico a cui è sempre importato.
Gli viene la nausea a stare in quel luogo così marcio e ingiusto, in cui ancora una volta viene accusato di non aver fatto niente, di aver fallito, di non aver amato abbastanza.
Come è successo con Ives.
Se Lília gli risponde, lui nemmeno se ne accorge; le ha già voltato le spalle, si è diretto all’ingresso ed è uscito, tornando sotto il sole cocente del pomeriggio brasiliano, con i suoi ridicoli bagagli che ora sembrano pesare il doppio.
Prende la prima strada che gli viene in mente, quella che lo condurrà alla fermata del bus.
Non sa bene cosa sia accaduto, è successo tutto troppo in fretta – è una sensazione che ha spesso, la sua vita va sempre di corsa e lui non ha il tempo per metabolizzare. Forse è lui che non si dà occasione di riflettere su ciò che fa, agisce d’istinto e non sa darsi delle risposte, ha il costante bisogno di essere sempre in mezzo a qualcosa.
Perché, tra tutti i luoghi del mondo in cui si sarebbe potuto rifugiare, ha scelto proprio Bahia, la sua città natale? Non lo sa. Quando ha saputo dell’arresto di Davi, è semplicemente entrato nella prima agenzia di viaggi e ha detto il primo luogo che gli è venuto in mente. Forse, se si fosse soffermato sui suoi pensieri, ora saprebbe anche il perché.
Raggiunge la fermata, attende in piedi, si guarda attorno senza realmente vedere ciò che lo circonda. Arriva un bus, lui lo prende e non sa nemmeno quale sia la destinazione del mezzo.
Perché si è presentato a casa sua dopo tutti quegli anni? Cosa sperava di ottenere? La domanda di Lília continua a frullargli in testa, fastidiosa, perché non è riuscito e tuttora non riesce a trovare una risposta. Forse era stufo dei continui cambiamenti che l’hanno accompagnato per tutti quegli anni, voleva un minimo di stabilità, qualcosa di conosciuto, dei volti noti. Non gli è rimasto più niente a parte le sue radici, ma anche quelle ora sembrano volerlo tradire e lasciarlo senza appigli ancora una volta.
Certe volte si domanda come mai, quando da bambino ha assistito a quella sparatoria in un angolo sudicio del suo quartiere a Bahia, non gli abbiano piantato una pallottola in testa e posto fine ai suoi problemi già in partenza. Eppure lui è così aggrappato a quella vita che non gli ha mai dato niente di bello.
Scende dal mezzo scassato e brulicante di anime povere come la sua, si accorge di trovarsi in centro. È ora di pranzo, gli ambulanti vendono cibo a poco prezzo, per le strade si spande l’odore di frittura e aceto, ma lui non ha fame. Entra in una piccola bottega e compra una bottiglia di Jack Daniel’s, la sua unica fonte di salvezza da quando aveva quattordici anni. La berrà tutta, da solo, a stomaco vuoto, con la solita stupida convinzione che questo lo aiuterà – non succede mai.
Era davvero pronto a rivedere sua madre, a leggere i segni che il tempo e il dolore hanno lasciato sul suo viso e a constatare quanto la vita l’abbia effettivamente distrutta? Non lo sa, forse non è così tanto coraggioso – forse non sarà mai davvero pronto. Ma ha bisogno di quello shock, di quella scossa elettrica, nella speranza che questo faccia scattare qualcosa in lui e gli faccia prendere una giusta decisione, per una volta nella vita. Non è disposto ad ammetterlo, ma probabilmente negli occhi di quella donna vuole ricercare anche un briciolo d’amore, per avere la certezza che esista almeno una persona al mondo a cui importa ancora di lui.
Una ragione per andare avanti.
Eppure è da una vita che non ha bisogno di nessuno, non necessita di essere amato, è in grado di reggersi in piedi con le sue sole forze.
Si siede sul gradino di un marciapiede sul ciglio della strada, stappa la bottiglia e fa l’unica cosa che gli viene bene: suonare.
Prende tra le braccia la sua chitarra classica, quella su cui le sue dita si sono mosse per la prima volta, e lascia che quel turbinio di note spazzi via ogni altro suo pensiero. Non gli importa di chi gli sta attorno, se qualcuno lo stia guardando o ascoltando, se a qualcuno piaccia la sua musica; in quel momento c’è solo lui e la sua chitarra.
Nessuno se ne accorge ma, se ci si concentra a fondo, tra quegli accordi stridenti si possono udire i suoi singhiozzi.
 
 
 
 
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Erano mesi, forse più di un anno, che avevo in mente questa shot e finalmente sono riuscita a metterla per iscritto.
Ma soprattutto erano mesi che non scrivevo su questa serie. Sono riuscita a tornare, non so se il risultato finale sia accettabile o meno ma questo è relativamente importante: ricongiungermi al mio adoratissimo Ethan mi ha fatto stare immensamente bene. E sono tornata anche al mio caro vecchio dramma!
So che forse questo scritto risulterà un po’ più “pesante” del solito per l’enorme preponderanza di introspezione, ma era proprio questo il taglio che volevo darle: mi sembrava giusto soffermarmi sui pensieri e le sensazioni di Ethan in un momento così delicato, un momento in cui si ritrova a ricominciare tutto da capo e, allo stesso tempo, decide di tornare dove tutto è cominciato.
La storia risulterà sicuramente ostica per chi non conosce il “fandom”, ma non me la sentivo di appesantire il tutto con spiegazioni troppo elaborate, e soprattutto mi serviva scrivere a briglia sciolte senza nessuna preoccupazione. Spero comunque, per i coraggiosi che si sono avventurati da queste parti, che sia tutto chiaro ^^
Grazie di cuore a chiunque sia giunto fin qui e… grazie ai miei personaggi per esserci sempre e non tradirmi mai ♥
 
 
   
 
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