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Autore: Kodama_    18/02/2022    4 recensioni
[AtsuHina]
Quando Atsumu entra nella sua stanza, trova Shouyou seduto a gambe incrociate sul letto.
“Dovremmo ballare,” gli dice Shouyou, con gli occhi spalancati.
Atsumu rimane impietrito per qualche istante, perché non può essere vero, non può essere vero, non può essere vero.
Scuote la testa.
“Sono appena tornato dal tuo funerale.”
Shouyou fa spallucce. “Dovremmo ballare lo stesso.”
Fuori piove.
TW: morte, depressione
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Shouyou Hinata
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Se tutto dovesse andare storto



Per quanto tempo è per sempre?
A volte, solo un secondo.
(Alice nel Paese delle Meraviglie, Lewis Carrol)



Quando Atsumu entra nella sua stanza, trova Shouyou seduto a gambe incrociate sul letto.
“Dovremmo ballare,” gli dice Shouyou, con gli occhi spalancati.
Atsumu rimane impietrito per qualche istante, perché non può essere vero, non può essere vero, non può essere vero.
Scuote la testa.
“Sono appena tornato dal tuo funerale.”
Shouyou fa spallucce. “Dovremmo ballare lo stesso.”


Fuori piove.

*


Da quando è successo, la casa è stata inghiottita dal silenzio.
Adesso sono in tre a vivere lì dentro, ma è come se non ci fosse più nessuno. Si sentono estranei fra quelle pareti, perché la casa è cambiata, la casa è diversa, la realtà si è annacquata e sa di cenere e fogna.
È Sakusa a preparare la colazione la prima mattina. Bokuto appare insolitamente silenzioso, e c’è qualcosa di scoordinato nel modo in cui cammina. Piccoli spasmi, come quando un orologio si rompe e la lancetta dei secondi comincia a scattare in maniera irregolare prima avanti e poi indietro, avanti, indietro e indietro.
Atsumu si rifiuta di guardarlo negli occhi. Ha paura di trovarci dentro la conferma di un incubo. Perciò punta lo sguardo sulle sue ginocchia e pensa che l’andatura di Bokuto gli ricorda un insetto che striscia, un insetto morente.
Sakusa versa il caffè dentro quattro tazze - una blu, una viola, una rossa, una gialla. Le sistema intorno al tavolo, poi prende piatti e bacchette per il riso.
Atsumu si domanda perché cazzo Sakusa abbia apparecchiato per quattro - magari è stato un sogno, magari l’incubo è finito, magari finalmente si è svegliato. La speranza è una scintilla di sollievo che gli scoppia dentro al sangue.
Poi però Sakusa realizza. Sbianca, e Atsumu vede la paura, il dolore, paralizzargli le pupille.
“Merda,” dice, fissando agghiacciato il posto vuoto di Shouyou, con la tazza gialla fumante. “Merda,” ripete.
D’istinto, Atsumu guarda Bokuto. Vede l’orrore che gli scheggia il viso - perché non può essere vero, non può essere vero, non Shouyou.
Negli occhi di Atsumu, il vuoto.

Fuori piove.

(Non smetterà più.)


*


Trova di nuovo Shouyou seduto sul suo letto il venerdì successivo.
Atsumu non grida, quando lo vede. Si limita a chiudere la porta alle sue spalle in silenzio, senza staccargli gli occhi di dosso.
“Shouyou-kun,” dice.
Shouyou sorride.
Per un istante, Atsumu ha la certezza che non se ne sia mai andato. Per un istante, crede davvero che si sia trattato solo di uno scherzo, che Shouyou sia ancora lì, con lui, con loro, e ora deve correre a chiamare gli altri, perché Shouyou sta bene, Shouyou è vivo, Shouyou è-
Shouyou si alza dal suo letto con un piccolo balzo, senza emettere un suono. Atsumu nota che il suo corpo non proietta alcuna ombra.
“Dovremmo ballare,” gli dice, porgendogli le mani.
Atsumu lo fissa, poi gli fissa le mani. Piano, come se fosse in un sogno, sprofondato sotto l’acqua, ci poggia sopra le sue.
Non sente niente.
Atsumu chiude gli occhi, inspira, e quando li riapre vede che davanti a lui non c’è nessuno.
Sta tendendo i palmi al vuoto.


*


I loro occhi devono abituarsi a un mondo in cui c’è meno luce.
È difficile per tutti.
Atsumu non credeva che un giorno avrebbe visto Sakusa piangere - Sakusa mentre piange è difficile persino da immaginare, con gli occhi gonfi e il viso zuppo di sale e le spalle sconquassate dai singhiozzi.
Eppure accade.
Sono in macchina, stanno andando ad allenarsi. Sakusa guida, mentre Atsumu e Bokuto sono seduti dietro perché a Sakusa disgusta avere qualcuno accanto. Shouyou era l’unico che godesse del privilegio di poter occupare il sedile anteriore, poiché, a detta sua, era l’unico che fosse sufficientemente pulito e disinfettato.
“È solo perché hai un debole per lui,” diceva Atsumu, un po’ divertito e un po’ geloso, e Sakusa arricciava il naso sigillandosi in un dignitoso silenzio e Shouyou rideva e tutti stavano bene, tutti erano felici.
All’improvviso, prima di un semaforo, la radio comincia a trasmettere una stupida canzone deprimente tutta pianoforte e violini che parla delle farfalle e della caducità della vita. Sakusa accosta al marciapiede, poggia la faccia contro il volante e scoppia a piangere.
Quello è un pianto straziante: uno di quei pianti che ti si avvinghiano attorno allo stomaco per poi rivoltarlo come un calzino, in cui ci sono più conati che singhiozzi. Sakusa sanguina, boccheggia di dolore e di disperazione, perché loro indietro nel tempo non ci possono tornare, perché il sedile a fianco a lui rimarrà vuoto per sempre, perché gli manca il colore rosso, gli manca la sua voce, perché non fa altro piovere e piovere e piovere.
Bokuto e Atsumu ammutoliscono. In parte per la sorpresa, in parte perché non esiste consolazione per quell’angoscia vomitata. Poi Bokuto sembra che riesca a ritrovare il proprio posto nel mondo, almeno per un attimo: si sporge in avanti e abbraccia Sakusa, come se quella fosse l’unica cosa giusta, naturale e possibile da fare.
Sakusa potrebbe divincolarsi, mollargli una testata sul naso, ucciderlo sul colpo, invece si lascia stringere vulnerabile come un gattino bagnato, singhiozzando nella curva del suo collo. Entrambi tremano come foglie.
Poi, con la stessa repentinità, Sakusa si quieta. Allontana Bokuto da sé e torna a stringere saldamente le mani sul volante.
Si limita a dirgli: “Spero solo che ti sia lavato.”
“Veramente no,” risponde Bokuto.
Sakusa rimane immobile per qualche istante, poi sibila una bestemmia e riparte.
Bokuto sorride appena.
Atsumu, in preda all’anestesia più totale, pensa: voglio morire.


*


Quando Atsumu si sveglia nel pieno della notte, sa per certo che troverà Shouyou sdraiato accanto a sé. E difatti la sua sagoma balugina al buio come se fosse fatta di scintille, dorata come le medaglie che voleva vincere.
Ha gli occhi chiusi. Atsumu riesce a contargli le ciglia, per quanto è vicino.
“Shouyou-kun,” sussurra Atsumu.
Non si aspetta che Shouyou lo senta, o che in qualche modo risponda. Eppure Shouyou apre piano prima un occhio e poi l’altro.
“Atsumu-san,” dice.
Atsumu-san, Atsumu-san, Atsumu-san.
Atsumu si ripete dentro la testa la voce di Shouyou che pronuncia il suo nome, ancora e ancora e ancora. La respira come se potesse, in qualche modo, renderla eterna, cucendola a ogni millimetro di corpo e di anima. Atsumu-san, Atsumu-san, Atsumu-san.
La ripete ancora e ancora e ancora - potrebbe andare avanti così per tutta la vita - finché si accorge che Shouyou lo sta chiamando per davvero.
“Atsumu-san,” ripete. “Atsumu-san.”
Atsumu chiude gli occhi - non può essere vero, non può essere vero, non può essere vero. Poi li riapre. Shouyou è ancora lì, davanti a lui.
“Shouyou-kun. Shouyou-kun. Shouyou.
Per un istante, Atsumu vede il dolore manifestarsi sulla sua fronte, le labbra gli tremano come una pozzanghera. È quel tipo di dolore ineluttabile, che non si può curare.
Shouyou sorride, ma è un sorriso triste, un sorriso che Atsumu non gli ha mai visto fare prima.
“Non sono vivo,” spiega.
Ma io ti vedo, vorrebbe rispondergli Atsumu. Sei proprio qui, davanti a me.
Shouyou scuote la testa, come se l’avesse sentito. Atsumu prova a toccargli la guancia.
Percepisce solo aria, sotto le sue dita. Il nulla.
“Te l’ho detto,” ripete Shouyou. “Non sono vivo.”
Se davvero non è vivo, allora Atsumu dovrebbe domandarsi cosa veda. Cosa, come e perché. Non dovrebbe parlare con i fantasmi, è decisamente sicuro che quello sia il modo più sbagliato e preoccupante per affrontare ciò che è accaduto. Forse dovrebbe chiamare suo fratello, forse dovrebbe chiamare un’ambulanza, forse dovrebbe andare a svegliare Bokuto, oppure Sakusa, forse, forse, forse-  
“Non te ne andare,” gli dice invece. “Non scomparire come fai sempre.”
Shouyou lo scruta pensieroso, per un lungo momento. Infine annuisce.
“Non lo farò.”

Fuori piove.
Ogni goccia che picchietta sul tetto rappresenta il ticchettio dell'orologio che avanza. Atsumu però in quel momento non sente nulla, neanche la notte, neanche la fatalità della vita, perché c’è Shouyou vicino a lui, Shouyou che ripete il suo nome.


(Ma è una menzogna, solo una menzogna, perché il passato è oramai passato e i ricordi sono spini nel cuore che non possono essere estratti e che rimarranno con te perennemente, senza però esserci mai per davvero, perché non li potrai più toccare, non li potrai più rivivere, è solo una nostalgica scia di un tepore che hai perduto per sempre, una stella cadente paralizzata nel cielo.
E il tempo non si ferma.
Non si ferma, non si ferma.
Non si ferma.)


*


Atsumu non sa da dove cominciare, a rimettere a posto quello che ha intorno.
A rimettere a posto quello che ha dentro.


*


Il silenzio soffocante si tramuta in polvere. Si sedimenta dentro la tazza gialla di Shouyou, sopra il suo cappotto ancora appeso all’appendiabiti all’ingresso, sul suo ombrello un po’ rotto che però si è sempre rifiutato di buttare - 'perché funziona ancora,' diceva, 'pure se è un po’ storto.'
Probabilmente, la polvere si sedimenta pure sopra i mobili della sua stanza.
Nessuno di loro è mai riuscito a entrarci: né lui, né Sakusa, né Bokuto. Soltanto Natsu era entrata nella camera di Shouyou un pomeriggio, aveva riempito una piccola busta di oggetti e poi era andata via - e loro tre avevano provato a non guardarle i capelli, a non guardarla negli occhi.
Quella stanza deve rimanere invisibile. Forse così farà meno male.
Eppure, alla fine, quella stanza è tutto il contrario dell’invisibilità, perché è una pugnalata costante che raggiunge la parte più recondita e vulnerabile del cuore, l’essenza dell’anima. È un memento, la testimonianza di qualcuno che era e che adesso non è più, del sole che all’improvviso si è spento.
Shouyou era molto di più di tutti loro messi insieme. Ed è per questo che dietro di sé ha lasciato una voragine, è per questo che abbassano lo sguardo quando attraversano il corridoio, tentando in tutti i modi di non guardare la sua porta.
Ma è inutile, non serve, il fantasma di Shouyou è il fantasma dell’estate, una non-presenza perpetua e opprimente, lui che prima aveva la leggerezza dell’aria.
Un giorno, però, dopo che hanno finito la colazione, Bokuto sciacqua la sua tazza gialla impolverata. La sciacqua e con mani tremanti l’appoggia accanto alle altre tre. Sakusa e Atsumu lo guardano senza dire nulla.
C’è qualcosa, nella tazza di Shouyou che luccica vicino alle altre come se fosse stata appena utilizzata, di tremendamente giusto. Uno sprazzo di come le cose sarebbero dovute andare.


*


(Ogni tanto, Atsumu crede ancora che Shouyou stia per tornare. Soprattutto quando gioca, quando alza la palla, si aspetta una saetta rosso vivo schizzargli nel campo visivo. Si aspetta Shouyou sorridere e gridare al mondo che si è trattato solo di uno scherzo, e che adesso è ritornato, che sta bene, che non se n’è mai andato per davvero.
E tutto tornerà dritto. Sakusa smetterà di piangere, Bokuto smetterà di barcollare come se avesse perso il senso dell’equilibrio, e il buco a forma di Shouyou dentro il cuore di Atsumu tornerà a riempirsi di luce. Riaggiusteranno le bussole, succhieranno via l’inchiostro in cui stanno sprofondando, torneranno a essere felici.)


*


Per favore, no.
Prendete chiunque, prendete me, ma non Shouyou.
Non Shouyou.

Per favore.


*


Shouyou comincia ad apparirgli di notte sempre più spesso. Oggettivamente, Atsumu crede che dovrebbe dirlo a qualcuno, parlarne almeno con suo fratello, perché non va bene, non può essere una cosa normale.
Però non lo fa. E non per vergogna, ma per paura che qualcuno glielo porti via. Non vuole smettere di vederlo, di sentirlo parlare, non di nuovo.
Shouyou non esce mai dalla sua stanza. Atsumu lo trova seduto sul suo letto dopo cena, oppure si sveglia di soprassalto e lo trova rannicchiato accanto a lui.
Atsumu non gli chiede per quanto tempo rimarrà, oppure dove vada quando non è nella stanza con lui. È come se stesse provando a dimenticare che quello che ha davanti è solo lo spettro di un ricordo, come se volesse credere che Shouyou sia davvero tornato, sia davvero lì.
Shouyou, al contrario, lo tartassa di domande. Gli chiede di Natsu, di sua madre, di Kenma, di Bokuto, di Sakusa, di Kageyama, dei Black Jackals, della classifica. Atsumu tenta di rispondere in maniera più completa e dettagliata possibile, nonostante i contatti con molti degli amici di Shouyou siano praticamente assenti.
“Perché da me?” gli domanda una notte Atsumu. “Perché sei qui e non dalla tua famiglia?”
Shouyou incurva le labbra in un sorriso triste che Atsumu, da vivo, non gli ha mai visto addosso.
“Secondo te?”
“Non ne ho idea,” risponde, stringendo le spalle. “Però è meglio così.”
Almeno posso vederti. Almeno posso parlarti.
Shouyou non risponde. Chiude gli occhi. È buio, ma sembra che qualcosa gli bagni le guance. Atsumu prova ad accarezzargli il viso, ma sotto i polpastrelli non c’è nulla, solo il vuoto e il ghiaccio delle lenzuola.


Poi un tuono, e lo scroscio della pioggia.


*


Shouyou era luce, e la luce riesce a infiltrarsi ovunque, trapassando persino dal pertugio più sottile. È per questo che Atsumu ricorda pure se non vuole ricordare.
Inciampa nella memoria onnipresente, memoria tagliente come vetro, sparpagliata per tutto il pavimento, un nugolo di immagini fuori controllo che gli ronza dentro la testa.
Ricorda Shouyou mentre preparava la colazione, mentre meditava e sembrava teletrasportarsi in un’altra dimensione, mentre gli decolorava i capelli, mentre gli rubava di soppiatto le maglie dall’armadio e se le nascondeva dietro la schiena per non farsi scoprire (Atsumu ovviamente lo scopriva sempre, ma glielo lasciava fare, gli avrebbe lasciato fare qualunque cosa, qualunque cosa tranne una, tranne andare via per sempre).
Ricorda Shouyou sul campo, i sorrisi affamati e le grida di gioia, ricorda quando gli poggiava la testa sulla spalla e si addormentava così, con il naso nel suo collo durante i viaggi in autobus. E ricorda le ore passate a guardare i match di pallavolo dal tablet, e le serate con la squadra a mangiare onigiri da ‘Samu, a giocare a Mario Kart - insospettabilmente, era Sakusa quello a vincere sempre.
Ricorda Shouyou da solo, Shouyou con loro, Shouyou con lui.
Ricorda Shouyou di notte, Shouyou che ogni tanto aveva una paura febbrile e irrazionale, che si intrufolava nella sua stanza a passo felpato come quello di un gatto, per poi sdraiarsi accanto a lui.
“Mi calmi,” gli spiegava nel buio, senza imbarazzo. “Non so dirti perché, ma mi fai stare meglio. Posso restare?”
E Atsumu diceva di sì. E la notte smetteva di fare paura.

Poi ricorda che Shouyou non c’è. Che non ci sarà mai più. Che quel vuoto improvviso che gli è scoppiato sotto i piedi e dentro le orecchie è perenne.


Non ce la farà mai, ad accettare.


*


È venerdì quando Sakusa decide di pulire la stanza di Shouyou. Ammucchia tutti gli attrezzi per il corridoio: scopa, paletta, strofinacci, scovolino per la polvere, disinfettanti vari. Con un coraggio che Atsumu per un istante gli invidia, Sakusa poggia lo sguardo sulla porta che si sono strenuamente impegnati a evitare per mesi. Poi si infila un paio di guanti di gomma e stringe le dita intorno alla maniglia.
“No,” sibila Atsumu, fissandolo dalla cucina. “No,” ripete, a voce più alta.
Sakusa si immobilizza. “Cosa?”
“Non lo fare.”
“Perché?”
Perché finché quella porta rimane chiusa, Shouyou potrebbe essere ancora nella sua stanza. Perché finché quella porta rimane chiusa, Atsumu può immaginarlo lì dentro, mentre legge One Piece in portoghese, mentre videochiama Kenma, o Pedro, o Kageyama.
Perché se Sakusa apre quella porta, se trovano la stanza vuota e il pavimento coperto di polvere e silenzio, allora significa che è accaduto, significa che Shouyou è davvero-  
“Miya,” dice Sakusa, avvicinandosi. “Io devo pulire la sua stanza.”
Che significa ‘è il mio modo per accettare che lui non sia più qui’.
“E devi farlo proprio adesso? Non puoi aspettare?”
“Aspettare che cosa?”
Che il tempo torni indietro, pensa Atsumu. Che non ci sia più bisogno di spolverare le sue cose. Perché Shouyou tornerà, deve tornare, non può essere, non può-
Per favore.
Forse Sakusa è psichico, o più probabilmente Atsumu ha l’espressione di qualcuno a cui sta crollando di nuovo il mondo addosso.
“Domani,” dice dunque, afferrando la paletta. “Pulisco domani. Ma domani lo faccio sul serio.”
Poi Sakusa si avvicina, e senza preavviso gli strofina sul viso lo scovolino per raccogliere la polvere. Atsumu tossisce e fa un passo indietro,  starnazzando un ‘ma che cazzo, Omi-kun!’, e per un istante dimentica quella sofferenza che lo attanaglia.
“Lo so che è difficile,” dice Sakusa. “Lo so che è un inferno. Ma non sei da solo.”
Atsumu lo guarda negli occhi. Nelle sue pupille c’è lo specchio del suo stesso dolore.
“Non sei da solo.”


*


“Come sta Osamu-san?”
Atsumu sbuffa. Il picchiettio della pioggia sulla finestra riecheggia nella stanza. C’è vento. “Bene,” risponde. “Come sempre.”
Shouyou, sdraiato accanto a lui, sorride. “E il ristorante?”
“Ci va un sacco di gente.”
“E Bokuto-san? Come sta?”
Atsumu lo guarda negli occhi che sono vicinissimi. Prova a scorgere dentro qualcosa di vivo, un barlume di luce, ma gli occhi di Shouyou sono… beh, non sono spenti, però sembra come se qualcuno ci abbia versato dentro l’oceano intero.
Sono diversi.
Shouyou, come ogni volta in cui capta i pensieri di Atsumu, incurva le labbra in quel sorriso un po’ triste.
Atsumu oramai ha capito cosa significa: non sono vivo. Non cercare qualcosa che non esiste più.
E Atsumu lo sa, giura che lo sa, sa che non può toccarlo, sa che Shouyou era e non sarà mai più, eppure-
eppure.
Eppure sembra così reale.
“Sta bene anche lui,” mente. Bokuto non sta bene. Bokuto ha il cuore spezzato, fluttua in una coltre indistinta al cui interno lampeggiano picchi di dolore alternati all’anestesia.
Shouyou chiude gli occhi. E all’improvviso gli appare esausto.
“Okay,” dice Atsumu. “Ho mentito, non sta bene. Ma è normale. Col tempo sicuramente starà meglio.”
Shouyou riapre gli occhi. Gli accarezza la punta del naso con le dita, ma Atsumu non sente nulla, solo aria.
“Anche tu?”
“Anche io cosa?”
“Anche tu starai meglio col passare del tempo?”
No, pensa Atsumu. No. Io non starò mai meglio.
“E Omi-san?” continua Shouyou. “Come sta?”
Atsumu ripensa a quella mattina. “Vuole pulire la tua stanza,” dice.
“Sarebbe grandioso,” risponde Shouyou. “Visto che io non lo faccio da un bel po’.”
“Gli ho detto di no.”
“Perché?”
Perché spero ancora di svegliarmi. Spero ancora che tu torni. Che nulla di quello che è accaduto sia reale.
“A me piacerebbe,” continua Shouyou, “se qualcuno la pulisse. Pensa a tutti i miei manga, o alle action figure di Zoro! Saranno pieni di polvere.”
“Okay,” dice Atsumu. “Okay. Tanto ha detto che avrebbe pulito domani. E cioè, se Sakusa decide che deve pulire, allora pulirà. Nessuno può fermarlo quando ha una scopa in mano.”
Shouyou ridacchia. Poi si mette a sedere sul suo letto. “Dovremmo ballare,” propone, balzando sul pavimento senza emettere un suono. Gli porge le mani.
In quel momento Atsumu si rende conto di quanto faticoso sia muoversi. Soltanto l’idea di sollevare le braccia, sollevare la testa dal cuscino, lo annichilisce. Non può alzarsi, il mondo intorno a lui è troppo pesante, non ha le forza, non ha le forze, non ha-
“Atsumu-san.”
Atsumu ripete la voce di Shouyou dentro la testa. Quindi sospira e scivola via dalle coperte.
Intreccia le sue mani a quelle di Shouyou. Aria sotto le dita, ma Shouyou è davanti a lui.
Atsumu segue il suo corpo privo di ombra, si adatta al suo ritmo, forse sorride, forse spegne il dolore, non è importante, quello che importa sono soltanto loro, loro che girano come trottole mentre fuori piove.
Quante volte l’hanno fatto, intorno al tavolo della cucina. Quante volte hanno ballato mentre Bokuto faceva video e poi scoppiava a ridere perché Atsumu era negato e riusciva solo a  sbattere contro gli spigoli e impanicarsi ogni volta in cui Shouyou si avvicinava troppo.
Quanto erano felici.
E quanto tempo credevano di avere, ancora.
Una vita.


*


(In quei momenti, in quei momenti, si sentivano immortali.)


*


Quando Atsumu esce dalla stanza per fare colazione, trova la porta di Shouyou socchiusa. Per un istante, Atsumu pensa: è tornato. Shouyou-kun è tornato. È stato solo un incubo, mi sono svegliato, è finito tutto. Poi nota Sakusa accucciato a lavare il pavimento e la realtà gli crolla addosso. Di nuovo.
Si chiede per quante volte ancora dovrà sentirsi schiacciato, quante volte ancora la realizzazione gli piomberà sulla testa prima che finalmente, finalmente, smetta di sentire dolore.
“Vuoi aiutarmi?” gli domanda Sakusa, vedendolo impalato sulla porta.
Atsumu getta un’occhiata fuggevole alla stanza. Vede i mobili, i manga, le foto appiccicate al muro del Brasile, del liceo, della sua famiglia, della squadra. Quella stanza è gravida della sua voce, del suo odore.
C’è tutto, lì dentro.
Tutto.
Tranne Shouyou.
“No,” risponde. Poi torna indietro e si chiude in bagno. Trattiene il fiato più a lungo che può - magari sviene, magari quel dolore smette di pulsare.  
Soltanto quando sente che Sakusa ha finito con le pulizie, esce per andare a fare colazione.
Sakusa ha lasciato la porta di Shouyou socchiusa: forse l’ha fatto per cambiare l’aria, forse l’ha lasciata aperta perché Shouyou non è un ricordo da tenere ingabbiato dentro una stanza.


Atsumu stringe le dita sulla maniglia e la richiude.


*


“Mi manchi.”
Quello di Atsumu è un mormorio nella notte. È buio.
Non c’è nessuno accanto a lui. Il letto è vuoto, le lenzuola ghiacciate.
“Anche tu,” risponde una voce, da qualche parte.
Piove, piove, piove.


*


È abbastanza, Atsumu pensa, mentre si versa il caffè nella tazza. È abbastanza. Mi va bene anche così, almeno sento la sua voce. Non posso toccarlo, ma posso vederlo, posso parlargli, può parlarmi. Possiamo ballare intorno al letto. Posso andare avanti così finché non crepo. Possiamo continuare a guardare film e i match di pallavolo. Posso comprare questa casa e vivere in questa stanza per sempre.

“Non sono davvero vivo,” gli dice Shouyou una notte. “Tu lo sai.”
“Stronzate,” risponde Atsumu. “Sei qui. Davanti a me. Riesco a vederti. Balliamo?”
Shouyou non risponde. C’è solo un’immensa tristezza sul suo viso.
“Atsumu-san.”
“Balliamo,” insiste Atsumu. “Ti prego.”
Ti prego.


*


“Ti amo,” gli dice Atsumu una notte. Shouyou spalanca gli occhi, e Atsumu vede il mare.
Aveva immaginato che dirlo sarebbe stato dolce, invece è una confessione acida. Il rimpianto rimane aggrumato dentro la gola, perché non ha fatto in tempo, non ha fatto in tempo, non ha avuto il tempo.
“Ti amo,” ripete, a voce un po’ più alta. “Per questo non puoi-
Andare via, smettere di esistere, rimanere invisibile. Essere uno spettro.
“Farò di meglio. Farò tutto quello che posso. Però tu devi-
“Ti amavo anche io,” sussurra Shouyou.
“Perché al passato? Io ti amo adesso.
“Perché tu sei vivo, mentre io-
“Non dirlo.”
Shouyou scuote la testa. C’è una supplica, sulle sue labbra.
“Mentre io sono morto. Per favore, Atsumu-san. Io ho vissuto, io sono accaduto, sono stato con voi, con te, è stato reale, è stata la cosa più bella di sempre. Ma adesso devi lasciarmi andare.”
“No,” risponde Atsumu. “No. Non ci riesco. Non voglio.”


(Se soltanto ci fosse un modo per rimanere nel passato. Se soltanto ci fosse un modo per far scorrere le lancette al contrario. Atsumu salterebbe all’indietro su ogni ticchettio come se fossero tappeti elastici, secondo dopo secondo, tornerebbe alla notte in cui Shouyou era vivo, tornerebbe alla notte che non faceva paura. Poi distruggerebbe ogni orologio, ogni clessidra, il tempo si cristallizzerebbe per sempre e loro rimarrebbero lì, sotto le coperte, a guardarsi negli occhi e a respirare. Atsumu premerebbe l’orecchio sul suo cuore e lo ascolterebbe battere, e il loro amore diventerebbe un amore immortale, perenne.
Ecco, quella, quella sarebbe la vera felicità.)



*


Un giorno, Bokuto si mette a cantare.
Prima lo faceva spesso. Canticchiava stonato in macchina, mentre preparava la colazione, nello spogliatoio, mentre puliva il corridoio. Shouyou, quando conosceva la canzone, si metteva a cantare con lui.
Bokuto aveva smesso di fare tante cose, cantare era fra queste. Aveva perduto l’equilibrio, il senso dell’orientamento, e pure la voce, come se uno spillo gli fosse rimasto incastonato dentro la gola, sigillandogli le corde vocali.
Quel giorno però, mentre sparecchia, ricomincia.
E Atsumu capisce. Capisce che gli altri stanno provando ad andare avanti. Che stanno tentando di riappacificarsi con il tempo, di reintegrarsi in quella realtà vertiginosa come criceti su una ruota.
Atsumu vorrebbe trattenerli. Vorrebbe obbligarli a rimanere indietro, perché magari se smettessero di muoversi, se trasformassero quella paralisi in una muta protesta, allora il tempo dovrebbe ascoltarli per forza, si riavvolgerebbe su se stesso restituendo al mondo Shouyou.
Ma non dice nulla.
Pensa solo a quello che lo aspetta nella sua stanza.


*


“Dimmi che è un incubo.”
“Cosa?”
“Dimmi che è un incubo,” ripete Atsumu, supplica. “Dimmi che tra poco mi sveglio e che tutto questo finirà. Dimmi che sei ancora vivo.”
Shouyou sorride mesto e scuote la testa.
“Se te lo dicessi sarebbe una bugia. E a te le bugie non voglio dirle.”
Atsumu chiude gli occhi.
“Non mi importa,” sussurra. “Dimmelo lo stesso, pure se non è vero.”
Voglio pensare che tu stia bene, che tu sia qui con me, anche solo per un istante. Voglio ricordare cosa significhi essere felice.
Shouyou non dice niente.
Quando Atsumu riapre gli occhi, Shouyou non è più accanto a lui.


*


“Non hai bisogno che io ti dica bugie,” gli dice Shouyou qualche giorno dopo, ricomparendo a notte fonda.
Atsumu lo aspettava.
“Tu sei forte. Sei la persona più forte che conosca. Non hai bisogno delle bugie, per essere di nuovo felice.”
“No,” risponde Atsumu. “Hai ragione. Ho bisogno di te.”
Shouyou abbassa lo sguardo. Atsumu gli stringe la mano, gli accarezza il viso, vorrebbe stringerlo fortissimo, ma sente il nulla sotto le dita.
“Ti prego,” gli dice. “Ti prego.”
Torna.
“Mi dispiace, Atsumu-san.”
Lo sguardo di Shouyou è pioggia.
“Non posso.”


*


Atsumu non vuole più uscire dalla sua stanza.
Vuole rimanere dentro al letto per sempre, a luci spente e porta chiusa, mentre attende che giunga la notte. Perché è di notte che Shouyou appare, è con il buio che Shouyou torna a brillare di rosso e di dorato, gli unici due colori che oramai Atsumu riesce a distinguere in quella pozza di inchiostro in cui sprofonda, in cui non respira. Persino alzarsi per andare a pisciare è diventata un’agonia.
È solo che fuori, fuori da quella stanza, c’è la realtà che Atsumu si rifiuta di affrontare. C’è la perdita, la rabbia, il vuoto lasciato da un lutto improvviso e ingiusto, fili recisi sparpagliati sul pavimento. C’è il dolore a ogni respiro, uno sparo nelle orecchie per ogni secondo del tempo futuro che non potranno mai trasformare in ricordo, perché Shouyou è andato via prima. Shouyou è stato più veloce della vita.


*


Atsumu non vuole andare all’allenamento. Atsumu si rifiuta di alzarsi dal letto.
Chiude gli occhi. Sente fuori dalla stanza i passi affrettati di Sakusa e Bokuto che si preparano. Fra poco verranno a chiamarlo, ma nella sua testa già si affollano giustificazioni su giustificazioni (una meno credibile dell’altra, in verità, ma chissene frega. Non possono di certo trascinarlo fino alla palestra).
“Che stai facendo?”
Atsumu sobbalza. Shouyou è sdraiato al suo fianco, e lo fissa con gli occhi sgranati.
“Che ci fai qui? È giorno.”
“E tu perché sei nel letto? C’è allenamento.”
“Mica devo andarci per forza,” risponde Atsumu. “Non succede niente se salto una volta.”
“Sei malato?”
“No,” risponde Atsumu. “Sono stanco. È solo per oggi,” assicura. “Solo per oggi.”
Shouyou lo fissa come se avesse appena perso tutto. È la stessa espressione che aveva Atsumu quando gli hanno detto che Shouyou era-
È esausto, pensa. È più esausto di me.
“È colpa mia, vero?” domanda poi Shouyou. “È colpa mia.”
“Non è colpa tua,” ribatte Atsumu. “Non fare quella faccia. È solo uno stupido allenamento. Non è che se non vado una volta mi dimentico come si gioca a pallavolo.”
Shouyou rimane in silenzio, poi si avvicina fino a (non) toccare con la fronte quella di Atsumu.
“Ti prego,” dice. “Vacci, ad allenamento.”
“No.”
“Ti prego,” insiste Shouyou. “Per me.”
Atsumu lo fissa. Vede il dolore riecheggiare nei suoi occhi fatti di oceano.
“D’accordo,” dice. “Okay. Ci vado. Però te ne stai approfittando.”
Shouyou sorride - questa volta è un sorriso vero -, e Atsumu si alza dal letto.
“Shouyou-kun,” gli dice poi. “Mi giuri che rimani qui?”
Shouyou annuisce. “Non mi muovo.”
“Giuramelo.”
Shouyou giura. Atsumu gli rivolge un’occhiata piena di quello che le parole non possono dire.
“Allora a dopo.”
Quindi afferra la borsa ed esce dalla sua stanza.


*


Per favore, fa’ che non sia svanito, pensa, mentre tornano a casa. Fa’ che sia ancora lì dentro.
Si sfilano le scarpe all’ingresso, poi Atsumu si affretta verso la sua stanza. Entra, si chiude la porta alle spalle.
Shouyou non c’è.
“Shouyou-kun?” bisbiglia, per non farsi sentire da Sakusa e Bokuto. “Shouyou-kun!”
Ma Shouyou non compare, il letto rimane vuoto come la sua stanza, e forse è sempre stato così, forse Shouyou non c’è mai stato, perché Shouyou è
Shouyou è-
Atsumu si accascia sul pavimento. Non piange. Quello è un dolore che va oltre le lacrime. Non è concretizzabile.


*


“Atsumu-san?”
Atsumu non apre subito gli occhi.
“Atsumu-san.”
Atsumu non vuole aprire gli occhi. Perché sa che ad accoglierlo ci sarà solo il vuoto, ci saranno le ombre assenti, il silenzio che si è mangiato tutto, i rimpianti legati stretti intorno ai polsi, la lama d'un coltello premuta sul collo, il ticchettio di un orologio.
“Atsumu.”
Atsumu apre un occhio solo. Qualcosa balugina davanti a lui.
“Shouyou-kun”, soffia - l’istinto di abbracciarlo soffocato dal dolore lancinante di non sentire niente, solo aria.
“Avevi giurato,” sibila quindi Atsumu. “Avevi giurato che ti avrei trovato. Avevi promesso che saresti rimasto. Non c’eri. La stanza era vuota. Mi hai mentito. E hai detto che non mi avresti mai mentito.”
Shouyou scuote la testa e sorride, un sorriso che è tutto tristezza e amore.
“Non ti ho mentito,” risponde, poi gli poggia una mano sul petto, proprio sopra al cuore. “Atsumu-san, io sono sempre, sempre qui.”


*


Quella è l’ultima notte, anche se Atsumu ancora non lo sa.

Fuori piove.



*


Dopo colazione, Sakusa gli mette in mano scopa e paletta. Atsumu inarca le sopracciglia.
“Devi pulire la stanza di Shouyou,” gli dice. “Io e Bokuto l’abbiamo già fatto. Ora tocca a te. I turni di pulizia sono uguali per tutti.”
Atsumu lo fissa come se davanti avesse un fantasma.
Sakusa lo fissa a sua volta come se davanti avesse uno scarafaggio gigante.
Gli sovvengono diverse opzioni:
#1- mollare un pugno a Sakusa, fuggire via per sempre da quell’appartamento, lasciare la squadra, lasciare il volley, nascondersi dentro la cucina del ristorante di suo fratello e rimanerci fino alla fine dei suoi giorni;
#2- rannicchiarsi per terra e mettersi a piangere;
#3- entrare nella stanza di Shouyou e spolverare i suoi manga in portoghese.
Dopo un’attenta valutazione, Atsumu scarta le prime due per orgoglio e perché ama troppo il volley, e scrolla le spalle.
“D’accordo,” risponde.
Quindi si volta verso quella porta che ha ignorato per mesi.
Ed entra.


*


Ovviamente, non pulisce.
Si limita a galleggiare in quello spazio gravido di Shouyou, e la sua presenza che si irradia da ogni centimetro di quella stanza non fa che sottolineare il vuoto lasciato dalla sua assenza.
Atsumu guarda la libreria disordinata, lo scintillio della maglia dei Black Jackals nell’armadio, la parete su cui sono appiccicate le foto.
Atsumu vede tutti loro: Kageyama, Kenma, Natsu, la squadra, il Brasile, il mare, Shouyou. Shouyou che tingeva di dorato, di alba, ogni persona che avesse vicino.
Poi fissa il suo letto, intatto. Si domanda se Sakusa abbia cambiato le lenzuola.
E poi, all’improvviso, Atsumu si sente stanco. Esausto. Da quanto tempo non dorme? Da quanto tempo è sveglio ad aspettare che un ricordo venga a trovarlo?
Fissa il letto di Shouyou per qualche istante, infine ci si siede sopra. Poi si sdraia, si aggrappa al cuscino, sente la sua voce, il suo odore.
Atsumu ricorda tutto quello che erano e che avevano.
Per la prima volta, finalmente, finalmente, Atsumu piange.
E infine si addormenta.


Sono su una spiaggia. Atsumu è sicuro che quello sia il Brasile, sebbene non ci sia mai stato. Ne è perfettamente consapevole, così come è consapevole che quello sia solo un sogno.
Shouyou è in piedi al suo fianco. Fissa il mare con un sorriso vero, poi si volta verso di lui con i denti scoperti.
“Dovremmo ballare,” gli dice, porgendogli le mani. Gli occhi scintillano di luce.
Atsumu esita un istante, poi le prende.
Le sente.
Le stringe forte.
Dondolano per un po’ con la sabbia fresca e umida sotto i piedi, lo sciabordio delle onde che si accovacciano su quella spiaggia desolata, dove ci sono solo loro e il mare che riflette i colori del cielo.
Atsumu guarda Shouyou e si chiede cosa succederà, da quel momento in poi.
Shouyou si avvicina, gli allaccia le mani dietro la schiena.
“Tu sei pieno di amore, Atsumu-san,” dice. “Non smettere mai di amare. Non importa quello che succederà.”


*


Quando si sveglia, c’è Osamu seduto vicino a lui. Forse l’ha chiamato Sakusa, forse è venuto a trovarlo da solo, forse gli ha letto nel pensiero e ha capito.
Osamu non dice niente, si limita ad accarezzargli la testa quando Atsumu strofina la fronte contro il suo braccio.
Atsumu ricomincia a piangere, e Osamu, per solidarietà, piange un po’ con lui.
“Usciamo,” gli dice dopo. “Hanno aperto un ristorante di fronte al mio. Devo vedere come si mangia, per la concorrenza.”
Atsumu esala un gemito che si trova a metà tra uno sbuffo annoiato e un singhiozzo. Accettare di uscire con Osamu significa rientrare in quel vortice velocissimo che è la vita. Significa accettare che il tempo non può tornare indietro.
“Piove troppo per uscire,” mormora quindi.
“Ma di che stai parlando?” risponde Osamu. “C’è il sole da giorni.”
Atsumu guarda fuori dalla finestra.

Vede il dorato.


*


Quando Atsumu torna a casa, si lava i denti e rientra nella sua camera.
Non c’è nessuno sul suo letto.
Si infila sotto le coperte. Prova con tutte le sue forze a non pensare a Shouyou, poi si arrende e si lascia trascinare dai ricordi e dalle speranze che non potranno mai essere realizzate.
Non chiude gli occhi.
Si rende conto che lo sta aspettando. Sta aspettando che compaia al suo fianco, come sempre, come ogni notte.
“No,” dice. “No, Shouyou-kun non c’è più, Shouyou-kun è-
è-
è-
è morto.
Non tornerà.
Ma il tempo continua a correre, a rovinargli addosso implacabile, e insieme a lui corre anche la notte. E nessuno può davvero biasimarlo, perché perdere quello che credeva fosse l’amore della sua vita a ventidue anni significa questo, fare un passo avanti verso la luce che gli rimane, e poi farne dieci indietro perché non è pronto, perché non sarà mai pronto ad accettare tutto quel buio e a brancolarci dentro.
“Shouyou-kun?”, mormora dopo un po', chiamandolo. “Shouyou-kun?”
Nessuno risponde.

Fuori piove.



*



(Ma un giorno, un giorno, Atsumu capirà che il tempo non è suo nemico, che il tempo scorrendo si porta via anche un po’ di dolore, erode la sofferenza come l’acqua erode la pietra. E ogni mattina, quando si sveglierà, si sentirà un po’ più leggero. E scoprirà che c’è tanto altro da vedere, da vivere, da amare, anche se non smetterà mai completamente di fare male, anche se gli rimarranno una cicatrice e il cuore indolenzito pure quando sarà vecchio.
E forse un giorno, un giorno, Atsumu riuscirà a vedere Shouyou non soltanto nel sole e nel dorato, ma anche nella pioggia, nelle nuvole, nell’aria, nelle luci dei lampioni e in quelle delle stelle. Vedrà Shouyou pure se non lo vedrà mai per davvero. E riuscirà di nuovo a prendergli le mani, e giocheranno ancora a pallavolo, e balleranno intorno al tavolo della cucina con Bokuto che applaude e Sakusa che scuote la testa, perché erano reali, perché Shouyou era reale, perché Shouyou è accaduto.
Perché loro sono accaduti.


*


Note:
Grazie di cuore di cuore di cuore per aver letto!
See ya ♥
   
 
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