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Una
cattiva decisione
Grazie
alla
promozione, ci lasciammo alle spalle la vita di stenti e ristrettezze
in cui
vivevamo. Riuscimmo perfino a cambiare casa. Abbandonammo il monolocale
che
avevo imparato a odiare in quegli anni di stenti, per un trilocale con
una
vista invidiabile, a centro città.
Per
circa un
anno le cose funzionarono bene, tanto che mio marito prospettò l’idea
di ampliare
la famiglia. Qualcosa per cui non mi sentivo pronta e che rifiutai con
la scusa
di volermi godere un po’ più a lungo quel momento di serenità
economica. “C’è tempo”, dissi.
Non
sapevo
allora quanto mi sbagliavo!
Allo
scoccare
del secondo anno, le cose cambiarono di nuovo. I miei impegni e i
continui
viaggi stavano rendendo il rapporto spigoloso. I weekend insieme
divennero
pesanti, ogni minima sciocchezza era motivo di lite e iniziai a vivere
con una
certa apprensione, i momenti di vita con lui. Uscivamo poco,
specialmente d’inverno,
perché dopo un’intera settimana in giro per il mondo, sentivo il
desiderio di crogiolarmi
nell’intimità della mia casa. Quasi agognavo quel tempo a casa, dove
potevo
rilassarmi davanti alla tv o leggere un buon libro.
Non
era così per
mio marito Roberto che diversamente da me, aveva voglia di uscire,
incontrare
amici e divertirsi. Lo capivo; passava otto ore a lavorare in un
supermercato e
il restante tempo lo passava a casa, ad aspettarmi. Oltre alla palestra
non
aveva nient’altro e credo che a un certo punto, divenne geloso della
vita che
ero riuscita a costruirmi. Questo almeno, è quello che iniziai a
pensarequando
le cose degenerarono.
Insomma:
i
nostri ruoli nella società si erano capovolti.
Iniziò
a cambiare
e ben presto si passò dalle discussioni momentanee, a quelle lunghe
giorni. Il
motivo delle discussioni era sempre lo stesso: restare fuori per alcuni
giorni
per incontri di lavoro fuori sede, rientrare tardi la sera, ricevere
chiamate
di continuo.
Per
diversi
lunghi mesi, mi sentii costretta in una situazione sterile, pesante,
che mi
privava dei miei stimoli più preziosi: la libertà, la serenità, la
voglia di
fare. Finché un giorno non presi atto di una cosa importante, ma anche
molto
triste: io, con mio marito, mi annoiavo. Il mio lavoro era diventato
non solo
un sostentamento economico, ma un’evasione da una vita che mi faceva
soffrire.
Lui
non capiva.
Non capiva me, né la situazione che stavo vivendo. Doveva essere
questo, mi
dissi o non avrebbe cercato di riportarci indietro a ciò che eravamo.
Ero così
stanca delle liti, dei ricatti morali, delle scenate, dei bronci e
tutto il
resto, che non riuscii a considerare neanche l’eventualità di
riprovarci. Mi
sentivo soffocare, annegare ogni giorno di più e proprio come succede a
chi
annega, mi sono aggrappata alla prima cosa che poteva darmi di nuovo la
possibilità di respirare. Di sopravvivere. Sì, credo che tutto sia
successo per
questo.
Era
il 17 marzo
e i primi odori della primavera iniziavano a essere percepiti
nell’aria. Stavo
guidando in direzione di Firenze. Il mio appuntamento era fissato per
le dieci
di quella stessa mattina a Prato e stranamente, ero in ritardo. Non
facevo
troppo caso alla velocità, piantandomi sulla corsia di sorpasso e
lasciando che
le vetture alla mia destra, diventassero colori informi e sfocati. Ad
un tratto
iniziai a sentirmi strana, la vista si sfocò e per poco non andai
contro un
tir. Mi rammentai che ero uscita senza fare colazione a causa
dell’ennesima
lite con Roberto. Riuscii a riprendere il controllo della macchina,
grazie a un
clacson che urlava sulla strada. Uscii alla prima stazione di servizio
che
incontrai per mangiare qualcosa prima di svenire e uccidermi. Quando fermai la macchina tirai un sospiro di
sollievo; mi tremavano le mani e sentivo il mal di testa farsi strada,
con un
ronzio poco famigliare.
Entrai
nel
locale e per prima cosa andai in bagno. Camminavo distrattamente mentre
guardavo nella mia borsa, quando all’improvviso urtai qualcuno. Pensai
di
cadere, ma fui afferrata per un braccio e tenuta al sicuro.
Alzando
gli
occhi, restai imbambolata per un lungo momento nel vedere l’uomo che mi
stava
sorreggendo. Sentii come un pugno in pieno stomaco colpirmi forte
nonostante
non riuscissi a muovermi. Non saprei dire cosa mi aveva colpito di più
di lui.
Forse le proporzioni perfette, i lineamenti gentili o l’intensità dello
sguardo. Sembrava uno di quei dei greci che si vedono sui libri. Fui
attratta
dal colore brizzolato dei suoi capelli. Erano corti, ma ancora
abbastanza
lunghi da poter essere stretti a pugno. Il colore dei suoi occhi era di
un verde
intenso, mentre le labbra spiccavano per la linea sinuosa ma
grassottella.
«Si
sente bene
signorina?»
«Anche
la sua voce è seducente»,
pensai. Era
calda, profonda, suadente, piacevole da ascoltare e il fatto che
s’interessasse
a me invece d’inveirmi contro per averlo urtato, mi fece credere che
fosse un
uomo con del rispetto per le donne. Anche se sono maldestre e stronze
come me,
(avrebbe aggiunto mio marito).
«Sto
bene»,
dissi. «Mi dispiace averla colpita, ero distratta.»
Fissai
i suoi
occhi. Il verde incontaminato m’ipnotizzò. Mi accorsi che stavo
cercando di
dire qualcosa, la mia bocca si muoveva, ma non ne usciva niente.
Lui
sorrise al
mio comportamento adolescenziale. Potei vedere i denti bianchi
perfetti, spuntare
tra le sue labbra carnose. Era divertito.
«Scommetto
che non è la prima volta che gli capita»,
pensai. «Chissà quante donne gli cadono ai piedi.
Devo sembrargli una stupida. Mi sto rendendo ridicola e davvero non
vorrei. Ho
sempre odiato le donne frivole.»
«È
stato un piacevole
scontro», mi disse alla fine e bastò questo a darmi un po’ di fiducia,
ma allo
stesso tempo, mi sentii prendere fuoco senza sapere come fermarlo. Era
un
problema che avevo da bambina, ma che avevo superato ampiamente e da
molto
tempo o non avrei fatto il Manager. Com’era riuscito quest’uomo a
superare le
mie difese e a scatenare in me questa reazione?
«Beh,
allora
arrivederci. Passi una buona giornata.»
Annuii
guardandolo andar via, imbambolata come una scema - gli occhi fissi sul
suo
fondoschiena - finché non fu inghiottito dalla porta d’entrata.
Le
persone che
mi passarono accanto per entrare in bagno, mi risvegliarono dalla mia
trance
facendomi sentire a disagio. Saltai sul posto quando successe. Il che
significava che mi ero completamente persa! Inghiottii riprendendomi
dalla
confusione e dallo sgomento e feci quello per cui ero lì.
Lo
rividi
soltanto quando finii di consumare la mia ordinazione. Mi stava
fissando e fui
colpita da una strana sensazione di lusinga. Non potevo negare a me
stessa che
quell’uomo mi piaceva, molto, ma c’era una sensazione più sottile, in
sottofondo, appena percepibile, che non era così buona. Mi era già
successo
altre volte, ma non ero mai riuscita a capire il motivo che la
scatenasse. Comunque
sia, quel giorno la ignorai. Ricambiai lo sguardo, i sorrisi e il
saluto appena
accennato prima di ripartire per la mia meta.
Il
ritardo
compromise la mia tabella di marcia, facendomi ripartire da Prato solo
dopo una
cena veloce in ufficio. La stanchezza mi colpì nei pressi della
stazione di
servizio di quella stessa mattina. Mi fermai sperando avessero una
stanza
libera per passare la notte e fui fortunata. Mentre uscivo
dall’ascensore per
andare in camera, vidi lo sconosciuto di quella mattina passarmi
davanti. Era insieme
ad altre due persone, aveva un tablet in mano e indicava qualcosa ad
una
ragazza accanto a lui. Ovviamente, non mi vide e ne fui grata o si
sarebbe
accorto di come potevo diventare ebete in certe circostanze. Qualcosa
che
continuava a sconvolgere anche me.
Quella
notte ebbi
difficoltà ad addormentarmi. Continuavo a pensare a lui. Perfino quando
chiamò
mio marito, non persi troppo tempo a parlarci e tagliai corto; sapevo
che
saremmo finiti in una lite e comunque non riuscivo a mantenermi
concentrata
sulla conversazione. Ero stanca e il viso di quello sconosciuto che
continuava
a tornarmi in mente, mi faceva sentire…in colpa. «Se solo
avessi spento il telefono!»
Rividi
il mio
uomo misterioso a colazione. Si avvicinò al mio tavolo mentre aspettavo
l’ordinazione, prendendomi alla sprovvista e lasciandomi senza parole.
Ero
tornata l’adolescente che incontra il bello della scuola. Mi chiese
senza
presentarsi prima, se stavo aspettando qualcuno. Lo lasciai in sospeso
per un
istante, in cui mi chiesi se stava succedendo davvero. Poi feci cenno
di no con
la testa e chiusi l’agenda che stavo consultando.
Lui
si sedette rimanendo
a guardarmi senza dire niente. Era strano, ma mi sentii lusingata per
il fatto
che mi avesse notato. Mi piaceva che fosse lì con me in quel momento.
Mentre ci
studiavamo, percepii di nuovo quell’inspiegabile sensazione in
sottofondo. Non
ero ancora sicura se fosse buona o cattiva e così la ignorai come la
prima
volta.
Arrivò
la
colazione nel momento in cui provai a parlare e i suoi occhi li sentii
cadere
sulla mia bocca. Mi fece uno strano effetto; un mezzo brivido mi colse
lungo la
schiena, ma fu più veloce nell’andare che nel venire. Il cameriere
lasciò il
tutto e si dileguò tra gli altri tavoli. «Viaggia molto?», disse d’un
tratto.
La domanda mi sorprese.
«Sì.
Il mio
lavoro mi porta spesso a viaggiare.»
«E
dove va di
bello oggi?», mi chiese ancora. Io sorrisi e guardai la mia tazza di
caffè.
«In
realtà sto
tornando a casa. Ho passato la notte qui.»
«Oh!
Spero sia
stata bene. Questo è una delle aree di servizio che preferisco.» Lo
guardai
curiosa e piegai la testa verso la spalla come se farlo mi aiutasse a
capire.
«Anche
lei
viaggia per lavoro?», chiesi.
«Qualche
volta.
La maggior parte del tempo lo passo qui; questa stazione di servizio è
mia. Ne
ho altre, ma sono tutte intorno a Roma.»
«Oh!»
Ero di
nuovo sorpresa. Tutto mi sarei aspettata, meno che questo. «Quindi
ieri sera, stava dando istruzioni ai suoi dipendenti? Quanti
soldi servono per acquistare delle stazioni di servizio?» Mi sentii
un’idiota solo per averlo pensato. Lui mi guardò facendomi un sorriso e
io mi
sentii prendere fuoco. «Devo essere
arrossita di nuovo perché sta sorridendo come chi ha appena fatto tana
a
qualcuno. Beh, posso accettarlo da uno come lui; ha un sorriso che
incanta.»
Qualcuno
gli
portò una tazzina di caffè senza neanche chiederla. Facemmo colazione
mettendo
su una piacevole conversazione. Parlammo dei nostri lavori e tutto
scorreva via
liscio che era un piacere. Quasi non mi accorsi di aver sprecato un’ora
del mio
tempo per la colazione.
Puntuale
come un
orologio, mio marito chiamò rompendo l’idillio che stavo vivendo.
Mentre
rispondevo, vidi Stefano, questo era il suo nome, avvicinare un ragazzo
del bar
e dirgli qualcosa all’orecchio. Dopo di che, mi sorrise e se ne andò
con un
mezzo cenno. Non potei far altro che ricambiare il saluto, anche se
volevo
gridargli di non andare, lanciando il telefono con mio marito dentro,
nel
cestino più vicino. Spazientita, tagliai la discussione con lui e mi
apprestai
a pagare, ma il ragazzo non me lo permise. “È offerto da noi”, disse.
Mi
guardai intorno nella speranza di vedere Stefano, ma non lo trovai. Non
mi
restava che riprendere la via di casa con una sensazione di delusione
addosso.
Lo
rividi due
settimane dopo. Mentirei se dicessi che ero lì per caso; mi fermai
nella
speranza di rivederlo e così fu. Si fece servire un cappuccino al mio
tavolo. Lui
si sedette come se avessimo un appuntamento. Mi guardò, bevve un sorso
del suo
cappuccino e con una naturalezza che mi fece trasalire, iniziò a fare
apprezzamenti sul mio vestito e nello specifico sul mio decolté. Giocai
con
lui, anche quando scherzò sul mio trucco un po’ troppo evidente a suo
dire.
Notai subito che aveva una bella abbronzatura e gli chiesi se per caso
era
stato in qualche posto a prendere il sole.
«Sono
andato a
Miami. Ho fatto degli investimenti immobiliari molto convenienti e ho
sfruttato
il tempo libero.»
Mi
sorprese per
la seconda volta perché…, diamine, quante volte può capitare di
sentirsi
rispondere “Ho fatto un giro a Miami nel
tempo libero?” Non mi aspettavo questa risposta e sono rimasta con
la tazza
a mezz’aria guardandolo incredula. Ovviamente, lui sorrise divertito
dalla mia
faccia esterrefatta e si sistemò sulla sedia con la tazza in mano,
gustandosi
il suo bel cappuccino. Stava giocando con me come il gatto col topo?
Ci
rivedemmo in
quell’autogrill per i successivi sei mesi. Era diventato un tacito
appuntamento.
Io passavo di lì due, tre volte al mese e lui era sempre lì ad
aspettarmi.
Diedi per scontato che abitasse nelle vicinanze e mi aveva già detto
che quello
era il suo lavoro principale. Durante i nostri incontri flirtavamo,
qualcuno
potrebbe dire che scopavamo con gli occhi e anche nel linguaggio
diventammo più
intimi e coraggiosi. C’era una tensione sessuale evidente, che cresceva
di più
ad ogni incontro. In un paio di occasioni ci scambiarono per una coppia
e
nessuno di noi due si prese la briga di smentirlo.
Fui
ammaliata
dalla sua galanteria. Non era qualcosa di occasionale per conquistare
una
donna, ma più una sua peculiarità. A prescindere, qualunque cosa fosse,
ci
credetti e mi lasciai convincere da quel sorriso che mi dannò l’anima
fino al
midollo.
Le
cose con mio
marito intanto peggioravano e negli ultimi tempi degenerarono oltre il
sopportabile. Io ero spesa per questa tresca ancora innocente, ma che
desideravo
ardentemente che sfociasse in qualcosa di peccaminoso. Immaginavo come
sarebbe
stato essere tra le sue braccia, toccare la sua pelle abbronzata,
guardarmi
attraverso i suoi occhi profondi e sentire le sue mani accarezzare il
mio
corpo.
Pensieri
questi
che compromisero ancora di più il mio rapporto con Roberto. Arrivai a
rifiutarmi
a lui e questo fu il colpo di grazia. La rottura ufficiale del nostro
matrimonio. Ora posso dire che è stato un bene non avere figli con lui;
trascinarli
in quello che successe dopo, mi avrebbe spezzato il cuore.
Lasciai
mio
marito Roberto la settimana prima di Natale. Non era previsto, in
realtà avevo
deciso di farlo dopo le festività per non sembrare del tutto una
stronza, ma
non ci riuscii. L’azienda m’incaricò d’incontrare dei clienti
importanti a
Milano. Si trovavano in gravi difficoltà e come Manager, era quello che
dovevo
fare, senza contare che mi avrebbe fruttato bene, vista l’urgenza.
Sarei dovuta
restare a Milano solo un paio di giorni, ma volendo stare con Stefano,
mentii a
Roberto dicendogli che sarei dovuta rimanere per tutta la settimana.
Questo
perché avevo deciso di portare la nostra relazione al livello
successivo.
Ovviamente
Roberto
mise su l’ennesima discussione e ormai logora di quello che eravamo
diventati,
gli dissi di prendere le sue cose e di andarsene. Ci rimase male. Lo
vidi
tentennare sul posto, guardandomi fisso come un bambino appena
rimproverato.
Non ci credeva. L’avevo preso alla sprovvista e solo dopo un momento di
confusione, vidi apparire la consapevolezza nei suoi occhi.
«Da
quanto va
avanti?», mi chiese.
«Che
cosa?» Feci
finta di niente, ma sapevo che aveva capito. Mi aveva beccato al
telefono più
di una volta, parlando sottovoce, chiusa in un’altra stanza. Gli avevo
sempre
detto che si trattava di lavoro, ma sapevo che non avrebbe retto a
lungo. E poi
c’erano i continui viaggi che nei mesi precedenti, erano aumentati,
così come
era aumentato il mio distacco fisico nei suoi confronti.
«Va
la, che hai
capito. Da quanto va avanti sta storia?», disse seccato
Tentennai,
mi
guardai i piedi riflettendo e poi decisi di essere sincera.
«Non
c’è nessuna
storia, ma hai ragione: ho conosciuto qualcuno. Mi ha fatto solo capire
che non
siamo fatti per stare insieme.»
Seppi
in quel
momento di avergli inferto una ferita che non si sarebbe mai
rimarginata. Lo
vidi nell’espressione accartocciata in cui si rifuggiò. Era sempre
stato buono
con me, paziente, forse anche troppo. Chissà, magari era proprio quello
che ci
aveva rotto. Sulla porta di casa, un attimo prima che se ne andasse, mi
sentii
di dirgli qualcosa per fargli capire che volevo fosse felice,
nonostante tutto.
E
così dissi: «Buona
vita Roberto.»
Quando
arrivai
alla stazione di servizio, di ritorno da Milano, chiesi a una delle
ragazze
dove potevo trovarlo. Lei fece una faccia strana e prese tempo. Dopo
qualche
secondo mi disse che al momento era impegnato e che non aveva idea di
quando si
sarebbe liberato. Si dileguò in fretta lasciandomi lì ad aspettare come
una
stupida. Nel farlo, mi voltai guardandomi intorno, più per passare il
tempo che
per cercare qualcuno. Si rivelò un’azione fortunata perché vidi Stefano
infondo
alla sala, dall’altra parte del locale. Non era solo. Con lui c’era
un’altra
donna, molto più grande di lui. Non si parlavano, ma lui la teneva a
braccetto.
Restai interdetta sul momento, poi vidi la ragazza di prima,
avvicinarlo e
parlargli all’orecchio. La signora al suo fianco si guardò l’orologio
al polso
e poi disse qualcosa. Lui le rispose e poi la baciò, velocemente, ma
sulle
labbra, scatenando tutta la mia gelosia. Lo vidi sorridergli come
faceva con me
e poi la guardò mentre si allontanava su per le scale. La ragazza di
prima era
ancora accanto a lui, in attesa di qualcosa. Quando la vecchia signora
scomparve,
vidi l’espressione di Stefano cambiare da felice a severa. In un primo
momento
ne fui spaventata. Parlò con la ragazza che continuava ad annuire, gli
passò
qualcosa e raggiunse la donna più anziana su per le scale, dove lo
stava
aspettando. Allo stesso tempo, la ragazza si dileguò dalla parte
opposta. Ero
fuori di me dalla rabbia. Pensai di cercarlo e di fargli una scenata.
Mi
sentivo presa in giro e volevo sfogare su di lui questo sentimento, ma
proprio
quando stavo per muovermi, una mano mi toccò la spalla facendomi
voltare. Era
la ragazza di prima. “Ma come ha fatto…”,
pensai. Poi ebbi un pensiero molto più urgente e chiesi: «Chi era la
donna che era
con Stefano? Perché stanno salendo ai piani superiori?»
La
domanda mise
in difficoltà la ragazza, che però si riprese bene dopo un momento. «È
di
famiglia. Il signore mi ha chiesto di dirle che può accomodarsi al
ristorante.
Ovviamente è nostra ospite. Il signore la raggiungerà appena possibile.»
«Perché,
cos’ha
da fare di più urgente?» Non so perché lo chiesi, conoscevo la risposta
in
parte e in parte mi setii tradita, ma ormai era fuori.
«Il
signore la
raggiungerà appena possibile», ripeté in evidente difficoltà la
ragazza.
Sospirai
e
annuii senza aggiungere altro. Non ero contenta di questo imprevisto,
ma certo
era che non potevo mettermi in una situazione scomoda prima ancora di
aver ottenuto
qualcosa di concreto da lui, così cedetti.
Stefano
mi aveva
fatto accompagnare in una delle stanze del secondo piano, subito dopo
pranzo.
Ero spazientita e arrabbiata con lui, anche se sapevo di non potermelo
permettere.
Qualcuno
bussò
alla porta intorno alle sei e mezzo di sera, interrompendo i miei sproloqui mentali. Aprii con una certa
veemenza e mi ritrovai a guardare Stefano, appoggiato alla porta con in
mano una
bottiglia di prosecco e due bicchieri. Aveva la cravatta allentata e il
primo
bottone della camicia aperta, i capelli un po’ scompigliati rispetto al
solito,
ma non gli diedi importanza. In realtà non m’importava di niente.
Volevo lui e
all’improvviso mi sentii audace. In silenzio mi feci da parte così che
potesse
entrare e poi lo spinsi contro la porta e lo baciai senza un secondo
pensiero
al mondo. Ricambiò il mio bacio dopo essersi ripreso dalla sorpresa
iniziale,
facendomi delirare. Sentii la pressione sanguigna schizzare alle stelle
mentre
mi spingevo contro il suo corpo. Passai le dita tra i capelli e li
strinsi nel pugno
come tante volte avevo immaginato, percepii la loro consistenza, la
loro morbidezza
così come sentii la consistenza di qualcos’altro. La sua passione era
feroce e
gentile allo stesso tempo e quando mi sollevò da terra, mi fece
sussultare, ma
quasi trasalii quando mi gettò di peso sul letto, seguendomi subito
dopo
essersi liberato di bottiglia e bicchieri. Potei sentire i suoi muscoli
borbottare sopra di me, la sua bocca succhiare e i denti raschiare in
successione
perfetta. Era perfetto. Il gemito intrappolato nella mia gola, uscì
come uno
sfogo a quella tensione sessuale che finalmente trovava la sua via,
dopo averla
repressa per così tanto tempo.
Facemmo
l’amore
marchiando la pelle ovunque, con denti, unghie e labbra. Non
c’importava di chi
all’indomani li avesse visti e fatto domande. Non c’era vergogna in
quello che
stavamo facendo. L’avevo desiderato così tanto, che non riuscivo quasi
a
credere che stesse succedendo.
Quando
ormai
stremati, restammo aggrovigliati tra le lenzuola, mi tornò in mente la
donna
con cui l’avevo visto e tutto il tempo passato ad aspettarlo.
«Chi
era la
donna con cui eri?», chiesi dal niente. Non credevo alla storia della
ragazza.
Lui
non rispose.
Si alzò passandosi una mano tra i capelli sospirando. Sembrava
irritato.
S’infilò le mutande e andò in bagno. Restai ad aspettarlo per diversi
minuti.
Quando uscì, si fermò sulla porta a guardarmi con le braccia conserte.
«Perché
mi
guardi così?», chiesi.
E lui
zitto. Mi
appoggiai sui gomiti e mi sentii divertita da quella scena. Sorrisi, ma
notando
la serietà con cui continuava a guardarmi, iniziai a preoccuparmi.
«Che
c’è che non
va?», chiesi ancora.
«Non
ti fidi di
me?», rispose.
«Beh,
sto
iniziando a farlo, ma è difficile quando mi fai credere una cosa per
un'altra.»
«Se
non mi credi
puoi anche andartene!»
È il
mio turno
di non sapere cosa rispondere. Ammettere la mia gelosia mi sembrava
stupido in
quel momento, anche se era la verità, ma anche cedere a questa sua
presa di
posizione mi sembrava sbagliato. Alla fine, era solo una domanda. Ed è
quello
che aggiunsi. «Ti ho fatto solo una domanda. La tua reazione mi sembra
esagerata.»
«No,
la tua
reazione è esagerata. Tu-sei-gelosa», disse e stranamente fui felice
che
l’avesse detto lui.
Dopo
un po’ di
tentennamento, annuii in risposta, vergognandomene, ma non aggiunsi
altro.
«Abbiamo
scopato
una volta. Non siamo niente. Perché sei gelosa? Mi hai girato intorno
per mesi
e ora hai avuto quello che volevi. Puoi continuare con la tua vita.»
Il
tono con cui
lo disse mi fece pensare che forse per lui non era stato solo sesso o
forse era
quello che volevo credere io: un significato diverso dietro parole che
altrimenti, sarebbero state troppo dure da incassare.
«Non
era solo
sesso per me», dissi con urgenza e lui sembrò ammorbidirsi, ma restò
con le
braccia conserte. «Ho lasciato mio marito per te.» Ingoiai prima di
aggiungere
“Non faccio che pensarti.»
A
questo le sue
braccia si sciolsero, ma i suoi occhi si restrinsero e di colpo mi
sentii come
messa a nudo, per poi essere controllata in cerca di una bugia o una
mezza
verità. Non avrebbe trovato niente.
«Sei
innamorata?», chiese e io non volli rispondere sul momento.
Si
fiondò su di
me prendendomi il viso con una mano, spaventandomi a morte. Potevo
sentire il
fiato caldo sul mio viso per quanto era vicino. La mano che mi
stringeva per
tenermi in posizione a guardarlo, i suoi occhi smeraldo che d’un tratto
erano
tempestosi e attraenti come un mare in burrasca.
«Cosa
sei
disposta a fare per me?» Non seppi rispondere. Con la mano libera mi
accarezzava
le cosce per poi risalire lentamente e mi accorsi con un certo stupore
che mi
stavo accendendo di nuovo. Se ne accorse anche lui quando raggiunse il
suo
obiettivo e mi sorrise come sempre. Mi cadde addosso ancora una volta
quella
strana sensazione di sbagliato che non sapevo spiegare, non in un
momento come
quello. Pensai venisse dalle emozioni che stavo provando e che per
buona misura
mi stavano spaventando. Nessun uomo aveva mai fatto il duro con me, né
a letto
né fuori dal letto e ad essere sinceri, la cosa mi piaceva, anche se mi
vergognavo ad ammetterlo. Mi toccò e non fui capace di tenere gli occhi
aperti.
«Sei
bella!»,
disse e anche se non volevo credergli, in quel momento lo feci. «Sei
bella e ti
voglio, ma devi dimostrarmi che mi vuoi allo stesso modo. E che ti fidi
di me.»
«Ti
voglio!»
biascicai non so come. Mi stava rendendo un pasticcio emotivo e non
sapevo come
riavere un minimo di controllo. Il mio corpo era alla sua mercé.
«Basta
fare
quello che ti dico e tutto andrà bene.»
Non
risposi,
cercai con tutte le mie forse di tenergli testa, non volevo dimostrarmi
troppo
coinvolta, ma per la miseria: ero completamente cotta.
«Sì.
Sì, lo far…»
Non
finii di
parlare che mi baciò con un ardore tale, da rendermi inerme; eravamo
pronti a
ricominciare da dove avevamo lasciato.
Solo
ora mi
rendo conto, che non ha mai risposto alla mia domanda.
Il
nostro
rapporto andò avanti in questo modo per un anno. Un anno in cui riuscì
a farmi
fare tutto quello che voleva. Mi aveva circuito e il sesso era un
deterrente
efficace ogni qualvolta facevo domande scomode
a cui non voleva rispondere. I viaggi, le case, i gioielli e
tutti gli
agi che non avevo mai conosciuto, pensavano al resto e tenevano buoni i
dubbi
che talvolta mi sorgevano. Quando la foschia iniziale che mi aveva
circuito
iniziò a sbiadire, iniziai a chiedermi da dove provenissero tutti quei
soldi. All’inizio
non ci avevo pensato, ma poi realizzai che ne avevo visti passare
davvero tanti
per quella stazione di servizio e sotto molte forme. Non ritenevo
possibile che
alcune stazioni di servizio rendessero tanto. Dove trovava i soldi per
tutti
gli investimenti che faceva di continuo? S’incontrava almeno due volte
alla
settimana con quelli che lui chiamava i suoi amici in affari e che
avevo
iniziato a riconoscere col tempo. Ultimamente però, c’era un gruppo
nuovo che
veniva spesso, a volte anche senza preavviso e di cui non mi disse mai
niente,
neanche una parola. Ho provato a chiedere un paio di volte e lui ha
semplicemente cambiato discorso. Passavano giornate intere chiusi nello
studio.
Non uscivano neanche per mangiare e ce n’era uno in particolare, che
indossava
una maschera. Sentii dire da qualcuno del locale, che era per
nascondere il
viso sfigurato da un’incidente d’auto, un altro disse che era stato
vittima di
criminali che avevano provato a bruciarlo, altri ancora dicevano che
era un
boss del crimine che voleva mantenere l’anonimato. Non sapevo cosa
credere, ma
ero intimorita da tutti quanti loro.
Intanto,
io e Roberto
arrivammo ad un accordo per la vendita della casa. Gli avrei lasciato
metà del
ricavato, per aiutarlo a sistemarsi e a coprire le spese legali.
Speravo così
di smorzare l’astio che provava nei miei confronti. Non aveva mai detto
niente,
ma potevo vedere il rancore nei suoi occhi ogni volta che mi guardava.
Alla
fine era venuto a sapere di me e di Stefano da alcuni amici in comune e
un
giorno me lo ritrovai alla stazione di servizio che ci guardava da uno
dei
tavoli. Feci per avvicinarmi, ma lui se ne andò via e io non lo seguii.
Non m’importava
fintanto che restava fuori dalla mia vita. Non volevo che niente
rovinasse quella
felicità che per tanto tempo mi era mancata.
Quando
ottenni
la mia parte, Stefano mi convinse a investirli in un suo nuovo
progetto. Rifiutai
l’offerta per un paio di volte; la terza cedetti. Ovviamente mi strappò
il sì a
letto. Non riuscivo a credere di essere diventata così avida di sesso.
Sapevo
che mi
stava manipolando, ma continuavo a pensare di essere l’unica
responsabile della
mia condizione. Inoltre, lui stava guadagnando bene dai suoi
investimenti;
forse potevo fare un po’ di soldi anch’io senza sudare sette camicie!
Il
sesso era
diventato più duro negli ultimi tempi. I segni sul corpo aumentavano,
ma almeno
era attento che non fossero visibili. Un giorno mi legò con delle corde
morbide,
ma ancora abbastanza resistenti da non spezzarsi; mi bendò e mi applicò
delle
mollette per capezzoli per tutta la durata del nostro tempo a letto.
Cercai di
oppormi, mentre iniziavo a percepire piccole scosse di piacere in
sottofondo,
ma quando la pelle morbida della frusta colpì i miei glutei, restai
senza
parole. Il cervello fece tilt non tanto per il dolore, ma per la
sorpresa e il
piacere che scoppiò dentro di me, improvviso e debilitante; sapevo
sarebbe
stato tangibile da lì a pochi istanti. Nello stesso momento una leggera
scossa
passò attraverso i miei poveri capezzoli sparpagliandosi per tutto il
corpo.
Vibrai come una molla e l’intensità del piacere che si prolungava mi
stordì.
Dovetti ammettere con mia grande sorpresa, che non avevo mai provato un
tale
piacere prima, di certo non nel modo tradizionale di fare l’amore.
Un
giorno gli
chiesi perché gli piacesse il sesso duro e lui, con una semplicità
disarmante,
rispose che non gli piaceva, ma che lo faceva per noi, per mantenere
vivo il
nostro rapporto. Insinuò che ne avevamo bisogno insomma.
Provai
a
ribattere, arrabbiata per le sue parole e la sua presunzione, ma lui mi
zittì
aggiungendo: «Tiene il rapporto vivo, non fingere che non sia così. È
molto più
appagante e se solo ti vedessi! Sei così recettiva quando ti
sottometto!»
Non
sono sicura
se per la sorpresa o per la vergogna, ma non riuscii a ribattere. Da
allora,
quelle parole mi tornarono in mente quasi ogni giorno. C’era qualcosa
tra le
righe che mi faceva provare la strana sensazione di sbagliato che avevo
provato
fin da subito. Era passato più di un anno e ancora non ero riuscita a
decifrarlo.
Fu in
autunno
che cambiarono le cose. Con una telefonata dall’America. Non so cosa
gli dissero,
ma ricordo ancora il suo volto sconvolto quando chiuse la
conversazione.
Non
disse
niente, non mi guardò neanche quando oltrepassò tutto il soggiorno e si
rinchiuse nello studio fino all’indomani. La sensazione di sbagliato
tornò con
prepotenza, insieme alla preoccupazione per la notizia che gli avevano
comunicato e che lui non sembrava voler condividere. Quando lo vidi il
giorno
dopo, sembrava fosse stato travolto da un treno.
«Stefano
stai
bene? Ma che succede?» Ero preoccupata per lui, volevo aiutarlo,
consolarlo, ma
quando mi guardò, lo fece in un modo…
Sembrava vuoto e al tempo stesso scocciato per la mia
intrusione. Per la
prima volta mi sentii un’estranea. Fu una sensazione orribile.
Da
quel giorno
le cose andarono sempre peggio.
Usciva
presto la
mattina per rientrare solo molto tardi e ovviamente non mi raccontava
né di dove
andasse né di cosa facesse. Vivevamo nell’appartamento della stazione
di
servizio all’ultimo piano, ma c’era una stanza chiusa in cui non avevo
il
permesso di entrare. Disse che conteneva vecchie cose appartenute ai
suoi
genitori; mobili, specchi, fotografie, cose del genere. Erano morti in
un
incidente aereo e quella stanza era tutto ciò che gli restava di loro.
Ovviamente
rispettai la sua richiesta, ma continuai a farmi domande al riguardo
trovandolo
anomalo.
Le sue assenze divennero sempre più lunghe e
il nostro rapporto subì una brusca frenata. Non parlavamo più, non ci
divertivamo più e l’intimità si era ridotta a del sesso povero e
violento. L’ultima
volta mi spaccò un labbro, mi fece un occhio nero e fui costretta a
minacciarlo
con un tagliacarte per fermarlo. Le cose avevano raggiunto il limite e
io non
mi accorsi neanche di come c’eravamo arrivati. Sapevo solo che iniziavo
ad aver
paura di lui.
Non
mi chiese
mai scusa per quella sera e non perse occasione di mostrare il suo
rammarico
per non aver terminato la sessione.
Sapevo
che quella
telefonata aveva innescato qualcosa che aveva portato in superficie il
suo lato
oscuro e violento, ma non riuscivo a immaginare cosa potesse essere.
Dieci
giorni
dopo, mi disse che doveva partire per sistemare delle questioni di
lavoro. Non aggiunse
altro. Fu la prima volta in due anni che non mi dispiacque la
lontananza. Avevo
iniziato a ripensare al mio ex marito e al fatto che un po’ di quella
sua
prevedibilità in questo momento, mi avrebbe fatto piacere. Chissà,
forse
lasciarlo era stata una cattiva decisione.
Partì
l’indomani
mattina come previsto. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Non
lo sentii
per tre giorni; inutile dire che ero preoccupata.
Il
suo telefono
era sempre staccato e nessuno lo aveva visto o sentito. Mi vennero in
mente gli
scenari peggiori. Una parte di me lo amava anche se iniziava ad aver
paura di
lui e di certo questi ultimi tempi non erano stati facili.
Era
primo
pomeriggio quando, quello un gruppo di poliziotti bussarono alla porta
del
nostro appartamento. Avevano un mandato di perquisizione. Uno di loro
mi pose
davanti al viso il foglio di carta, mentre camminava dentro. Non
rallentò e io
non riuscii a leggere neanche una virgola. Ero terrorizzata. Gli agenti
ribaltarono la stanza e trattarono le mie cose e quelle di Stefano come
immondizia. Nessuno voleva dirmi niente.
«Ispettore,
qui
c’è una porta chiusa a chiave», disse uno degli agenti.
Tutti
mi
lanciarono sguardi accusatori per poi tornare al loro da fare. Un uomo
in jeans
e giacca di pelle, pelato, basso e zoppo, si avvicinò guardandomi
storto.
«Che
cosa c’è in
quella stanza?»
«Vecchi
ricordi
di famiglia. Credo.»
«Crede?»,
disse
l’ispettore irritato.
«Io…
Io non ci
sono mai entrata. Stefano mi ha detto che vi ha riposto i ricordi dei
suoi
genitori che sono morti in un incidente aereo.»
Tutti
gli agenti
si fermarono a guardarmi per poi scoppiare a ridere. Mi sentii stupida
e
impotente. La sensazione di sbagliato adesso non era più in sottofondo,
ma
vibrava libera da costrizioni inconsce che fin’ora l’avevano tenuta a
bada.
«I
suoi genitori
stanno benissimo signora. Se le ha detto che sono morti, ha mentito.»
«No!
Perché
avrebbe dovuto? E perché nessuno vuole dirmi niente?»
«Non
ha letto il
mandato?», disse l’ispettore calvo, prima di prendere una lunga tirata
dalla
sua sigaretta spiegazzata. Lo guardai malissimo, contro il mio miglior
interesse e poi risposi a tono.
«È
difficile
leggere qualcosa che ti viene sbattuto in faccia.»
Sapevo
che la
mia risposta non era delle migliori, ma ero anche infastidita e
impaurita da
tutta la situazione.
«Il
suo
fidanzato è ricercato per una varietà di reati che fanno invidia ad
Arsenio
Lupin. Abbiamo riciclaggio di denaro sporco, spaccio e prostituzione.
Le
basta?»
L’ispettore
continuava a parlare facendo i nomi di alcune persone coinvolte, ma per
me la
sua voce era ovattata e riverberante, il suono delle parole che si
accavallavano
una sull’altra rendendo impossibile capire cosa diceva eppure… Eppure
riuscii a
sentire il mio nome quando lo fece. Perché stava facendo il mio nome?
«
Scusi, che
cosa ha detto?»
«Lei
è la
signora Asia Nelato?»
«Sì,
ma... Come
fate… Perché ha fatto il mio nome…»
«Perché
lei è
una degli indagati.» Ci fu un momento di silenzio in cui cercai di
capire se
quello che stavo vivendo era un sogno o la realtà, perché sembrava
tutto troppo
folle per essere vero. «Ci risulta che lei ha fatto un investimento
all’estero
non molto tempo fa. È giusto?», aggiunse l’uomo calvo. Rimase a
guardarmi in
attesa della mia risposta.
Mi
venne subito
in mente il progetto di Stefano di cui conoscevo poco e niente e a cui
avevo
aderito solo perché ubriaca di sesso; sapevo solo che era all’estero,
in un qualche
punto dell’America e che si trattava d’immobili, ma nient’altro.
«Ho
prestato dei
soldi a Stefano per un progetto cui stava lavorando, ma…»
«Certo,
il
progetto di riciclaggio. E mi dica: quanti di questi immobili li
trasformate in
case chiuse e quanti in laboratori clandestini?»
«Cosa?
Ma lei
sta scherzando!» Mi risvegliai da quel torpore d’impotenza come colpita
da un
secchio d’acqua gelata. Fu la paura forse e quella maledetta sensazione
di
sbagliato, che mi strillava nelle orecchie come un clacson d’autotreno.
«No
signora, qui
nessuno sta scherzando. Lei è considerata una complice e verrà
incriminata per
questo. Come tutti gli altri.»
«Ma
sono
innocente. Non sapevo niente di tutto questo. Ci siamo conosciuti
appena due
anni fa e mi aveva detto di essere il proprietario di alcune stazioni
di
servizio. Non sono complice di niente, se mai sono una vittima.»
«Dicono
tutti
così!», disse l’ispettore lanciando uno sgaurdo ai colleghi intorno a
lui.
«Quindi», continuò «vuole darci la chiave di quella porta o devo farla
buttare
giù?»
«Non
ce l’ho la
chiave! Pensa che me ne starei qui a discutere se l’avessi? Sono una
persona
per bene, non ho mai neanche preso una multa.»
«Ninooo!»
Qualcuno
gridò nell’appartamento facendomi salatre per lo spavento. Tutti si
voltarono
indietro e dopo un momento un uomo si affacciò sul corridoio. Era
corpulento,
alto e molto simile a Mastro Lindo.
«C’è
qualcosa
che devi vedere», aggiunse l’uomo. Quelle parole mi gelarono il sangue.
Nei film
polizieschi, ogni volta che dicono così, scoprono qualcosa di brutto.
Seguimmo
i due
uomini che si fermarono proprio davanti alla porta chiusa a chiave.
L’agente palestrato
indicò un punto vicino a una valigetta aperta e subito il ricordo di
tutti quei
telefilm polizieschi mi tornarono in mente. Sapevo esattamente cosa
stavano
indicando.
«Sangue?»,
chiese
l’ispettore.
«Non
può
essere!», ribattei terrorizzata. «Sono sempre rimasta qui, da quando
Stefano è
partito; me ne sarei accorta se qualcuno sporco di sangue fosse
entrato.»
Quello
che
doveva essere il capo sospirò e si mise davanti a me. «Guardi, se
collabora ne
terremo conto. Mi creda, le conviene collaborare, perché non so cosa
c’è lì
dentro, ma quel sangue non fa pensare a niente di buono.»
«Come
devo
ripeterglielo? Non ho fatto niente e non ho la chiave di quella porta.
Mi ha
fatto promettere di non entrarci mai e io ho rispettato la sua volontà.»
«Va
bene»,
disse e dopo una breve pausa in cui
continuò a fissarmi, gridò: «Buttatela giù.»
Gli
agenti ci
misero alcuni secondi a sfondare la porta. Era buio, con un’unica luce
rossa d’emergenza
in fondo alla stanza. Gli agenti entrarono e io li seguii come un
automa.
Continuavo
a
ripetermi “Fa che non ci sia un morto”,
“Fa che non ci sia un morto”, ma le
mie preghiere non vennero ascoltate.
Lì,
al centro
della stanza, riverso a terra, c’era Stefano. Aveva la maglietta sporca
di sangue
e un rivolo di liquido rosso fuoriusciva al lato della bocca. Gli occhi
verdi
di cui mi ero innamorata, non c’erano più. Avevano lasciato il posto a
un
bianco sporco, vitreo e spettrale. L’odore di decomposizione era già
asfissiante in quella piccola stanza. Mi portai una mano al viso per
sfuggire
all’odore che iniziava a farsi opprimente. Quel momento si sarebbe
impresso per
sempre nella mia mente. Con grande amarezza realizzai che nessuna delle
mie
esperienze amorose, era finita bene.
In un
momento di
debolezza, ammisi a me stessa che desideravo Roberto lì con me. Sapevo
esattamente
cosa avrebbe fatto; mi avrebbe abbracciato, baciandomi sulla testa e
sussurrando
parole di rassicurazione e conforto. Mi
avrebbe detto che sarebbe andato tutto bene, che avremmo trovato una
soluzione
insieme e io gli avrei creduto.
Avevo
distrutto
una certezza per qualcosa che non conoscevo e che mi aveva accecato.
Mi
sentii
trascinare fuori. Mi voltai e trovai un uomo dal volto squadrato e i
capelli
neri che mi teneva sotto braccio. Mi portò in cucina e mi fece bere
dell’acqua;
dovevo apparire davvero sconvolta!
«Si
sente
meglio?» Annuii, ma non era vero. Mi sentivo uno schifo.
«Sono
nei guai,
vero?» Lo chiesi dopo un momento in cui cercai di riprendermi.
«Abbastanza.
Se
è vero quello che dice e non inizia a collaborare con noi, si prenderà
tutta la
colpa. In questo momento è la maggiore indiziata e anche l’unica che
abbiamo in
custodia.» Fece un passo più vicino e aggiuse a bassa voce: «Ma questo
io non
gliel’ho detto.»
Lo
guardai
paralizzata, cercando di capire il vero significato di quelle parole.
Quando lo
feci, mi sentii morire.
«Ma
io sto
dicendo la verità! Io e Stefano ci conosciamo da circa due anni e non
mi ha mai
parlato nel dettaglio della sua vita o dei suoi affari. Ho lasciato mio
marito
per lui, credevo fosse un uomo gentile e onesto.»
L’uomo
si
abbassò al mio livello e quando mi guardò, nei suoi occhi vidi
comprensione.
«Sta
dicendo che
era innamorata di lui? O si trattava solo di sesso?»
«Mi
sono
innamorata di lui, ma non subito. All’inizio era per il sesso, lo
ammetto. Abbiamo
flirtato molto, mi sentivo come in uno di quei film degli anni ’40, in
cui
l’uomo corteggia la donna fino allo sfinimento. Era una bella
sensazione.»
«Poi
cos’è
successo? Perché c’è il suo nome su uno degli investimenti immobiliari
incriminati?»
«Mi
chiese di
aiutarlo a realizzare un progetto. Voleva acquistare immobili per
aprire
stazioni di servizio, almeno così mi disse. Avevo ricevuto la mia parte
di
soldi dalla vendita della casa che dividevo con il mio ex marito e mi
ha
convinto a investire.»
«Sa
che tipo di
immobili acquistava?»
Riuscii
solo a
fare un cenno di diniego con la testa, ma non riuscii a spiccicare
parola. So
che loro lo sanno e che quando lo saprò anch’io, mi darò della stupida
per non
aver sospettato niente.
«Tutti
gli
immobili erano venduti all’asta, un’asta corrotta ovviamente. Alcuni
venivano
trasformati in pub privati in cui spacciare la droga e far prostituire
giovani
ragazze, altri venivano organizzati in laboratori per lavorare le
sostanze. Sappiamo
che non era solo nell’operazione. Aveva dei complici e tra quelli c’è
anche lei.»
«Io
non sono mai
stata la complice di nessuno.» Ero sul punto di piangere.
«Era
la sua
amante però! Un po’ di soldi facili fanno gola a tutti.»
Trasalii
a
quelle parole, perché era esattamente quello che avevo pensato quando
avevo deciso
d’investire nel progetto di Stefano.
Insomma,
in soli
due anni Stefano mi aveva presa in giro e manipolato come una
marionetta.
«Inoltre…»,
aggiunse «Abbiamo trovato dei video in uno di questi immobili. Sono dei
porno e
da quello che ho capito, potrebbe essere una sorpresa, ma… C’è anche
lei su
alcuni di quei video.»
Persi
l’uso
cognitivo per un tempo che ritenni infinito. Apprezzai il tempo che
l’uomo mi diede
per potermi riprendere dallo choc. E intanto le conseguenze di quella
scoperta
iniziarono a frullarmi nella testa come succede ai pazzi quando hanno
una
crisi. Fu la voce del poliziotto a risvegliarmi da quel delirio di
terrore.
«Le
piace il
sesso violento? Lui la picchiava durante l’atto?»
«Oh
mio Dio!» Lo
sapevano! Che stava succedendo
alla mia vita? Pensai che era meglio morire che vivere l’incubo in cui
ero
pimbata. Tutto quello che avevamo fatto a letto per due anni era stato
filmato?
Come potevo non essermi accorta di niente? Biasimai me stessa per
essere finita
in quella situazione senza via d’uscita.
«Signora
Nelato, deve venire con noi alla
centrale. Le consiglio di chiamare un avvocato, possibilmente bravo,
perché ne avrà
bisogno!»
L’ispettore
scorbutico che mi riteneva colpevole di tutto, ci aveva appena
raggiunto.
L’agente con cui stavo parlando, si alzò in fretta e si fece da parte
lasciando
che lui prendesse il suo posto.
«Ha
ucciso lei
Stefano Riposti?»
«Nooo!
È partito
dicendomi che doveva risolvere della questioni d’affari. Credevo fosse
andato
in America per i suoi soliti investimenti immobiliari», dissi
spazientita
dall’atteggiamento di quell’uomo.
«Stia
calma
signora. Sto facendo solo il mio lavoro e lei, è appena stata trovata
in casa della
vittima, con il suo cadavere chiuso a chiave in una stanza che si è
rifiutata
di aprire.»
«Non
potevo
aprirla, non avevo la chiave, non me l’ha mai data. E non ho ucciso
nessuno.»
Mi
venne in
mente d’un tratto, che Stefano era un maniaco del controllo e che aveva
piazzato telecamere ovunque; in salotto, in cucina, in soggiorno, nel
ripostiglio, ma si era assicurato di spegnere quelle in camera ogni
volta che
facevamo sesso. Almeno così mi aveva detto. Non avevo mai controllato
però, non
pensavo ce ne fosse bisogno. Era chiaro che mi aveva preso in giro.
«Ci
sono
videocamere di sorveglianza in tutta casa. Può controllare…»
«Lo
faremo, non
si preoccupi. Per ora ci segua: finiremo di parlare in centrale.»
Non
attese una
risposta. Se ne uscì facendo cenno a uno degli uomini di seguirlo.
L’agente
che mi aveva
mostrato un minimo di riguardo, si offrì di accompagnarmi e così presi
le mie
poche cose e uscii con loro. Mi voltai un’ultima volta per guardare
quella
stanza d’appartamento che mi aveva regalato un sogno bellissimo, ma
anche l’incubo
più spaventoso che potessi fare.
Passarono
sette
anni da allora.
Il
mio avvocato,
che mi costò tutto quello che avevo, era riuscito a escludermi dalle
accuse più
gravi, ma per il resto dovetti aspettare il processo. Le registrazioni
mostrarono chiaramente che non avevo ucciso Stefano. In uno dei video
lo si
vedeva chiaramente rientrare a casa, insieme a l’uomo con la maschera
di cui si
vociferava tanto. Era lo stesso che aveva
partecipato alle ultime riunioni. Si erano rinchiusi nella camera che
nella mia
mente chiamavo “ la camera dei cimeli”. Mezz’ora dopo uscì l’uomo in
maschera.
Da solo. Ripulì la porta dalle macchie di sangue che involontariamente
aveva
lasciato e poi era venuto in camera dove stavo dormendo. Quando vidi il
filmato, morii di paura al pensiero di cosa avrebbe potuto farmi.
Ancora
oggi mi
sveglio di notte in preda agli incubi.
Non
mi fece del
male. Solo mi guardò, mi annusò e poi se ne andò. Prima però, prese dal
comodino il mio braccialetto. Me lo aveva regalato Roberto per il
nostro primo
anniversario di fidanzamento. Era qualcosa cui ero rimasta affezionata
e
scoprire che l’aveva rubato, mi fece sentire ancora più sconfitta.
Alla
fine del
processo, venni scagionata dalle accuse, ma la mia vita era ormai
rovinata.
Persi il lavoro e finii su tutti i giornali. Dovetti trovare una
sistemazione,
ma non avendo un lavoro né più i risparmi di una volta, dovetti
accontentarmi
di un openspace in periferia. Mi organizzai con piccoli lavoretti,
volantinaggio, pulizie e qualsiasi cosa potesse farmi raccimolare dei
soldi. I
fine settimana non esistevano più, ogni giorno era uguale all’altro e
capii
finalmente cosa intendessero le persone bloccate in un infinito circolo
vizioso
che non avevano scelto, ma in cui erano caduti per sbaglio. Grazie al
mio
avvocato, cui probabilmente feci pena, ottenni un lavoro da badante per
una
dolce vecchietta non troppo lontano da casa mia e giorno dopo giorno la
mia
vita riacquistò una certa normalità; dopo
quello che avevo vissuto, mi bastava. Forse presto sarei stata pronta
per di
più.
Un
giorno
suonarono alla porta e mi ritrovai davanti il mio ex marito. Qualcosa
che davvero,
non mi sarei aspettata. Non si era mai fatto vivo durante il processo,
né
subito dopo.
«Roberto!»,
dissi sorpresa «Che ci fai qui?»
«Ciao.
Mi chiedevo
come stessi e allora… Beh, eccomi.»
Non
seppi come
rispondere, ma avevo un buon ricordo di lui nonostante le nostre liti e
la
nostra separazione, quindi decisi di farlo entrare. Prendemmo il caffè
contornati dall’imbarazzo. Poche parole, frasi corte e di circostanza,
sguardi
schivi e troppe domande nella testa. Non capivo il perché di tutto quel
disagio:
avevo passato con quell’uomo quindici anni, conoscevo tutto di lui, era
un
libro aperto, ma in quel momento non sapevo come interpretarlo. Non mi
sarei
mai aspettata una sua visita, non dopo quello che gli avevo fatto;
conoscevo
troppo bene di quanto risentimento era capace. Invece mi sorprese.
«Suppongo
tu
abbia saputo quello che è successo», dissi alla fine prendendo un po’
di
coraggio.
«Come
tutto il
resto della nazione. Eri su tutti i giornali.»
Un’altra
sorpresa. La risposta mi pizzicò non poco, ma dal tono scocciato che
usò, capii
che pizzicava anche a lui.
Annuii
perché
non sapevo come rispondere al suo punzecchiamento.
«Mi
sembra che
vada meglio adesso. Ti sei sistemata abbastanza bene!», disse
guardandosi
intorno.
Lo
guardai
chiedendomi se era una battuta o era serio.
«Se
un openspace
di 30 mq e pulire merda tutto il giorno per te è essere sistemata bene,
allora
sì, direi che sono sistemata proprio bene.» So che non avrei dovuto
lamentarmi
di quello che ero riuscita ad ottenere, visto com’era la mia situazione
fino a
poco prima, ma il suo prendermi in giro mi fece scoppiare.
«Non
volevo dire
in quel senso. Intendevo che è un passo avanti rispetto a una cella tre
per due.»
«Non
sono mai
finita in cella per tua informazione e scusami se te lo chiedo: ma
perché sei
qui? Per infilare il dito nella piaga?» Sono arrabbiata, con lui, con
tutti gli
uomini di questo mondo perché sono… sono…
O forse sono io che non sono giusta.
«Volevo
solo
fare un saluto e vedere se avevi bisogno di qualcosa.»
Le
sue parole mi
zittirono, facendomi sentire in colpa per come avevo reagito. Non avevo
dubbi
sulle sue buone intenzioni; perché avrei dovuto? Il silenzio divenne
nuovamente
scomodo, costringendo Roberto ad alzarsi e a incamminarsi alla porta.
«Ti
ho messo di
malumore; forse è meglio che vada.»
Lo
seguii in
silenzio senza cercare di fermarlo. Sull’uscio si voltò di colpo.
«Ah
sì,
dimenticavo. Sono venuto anche per questo.»
Tese
la mano
chiusa a pugno e io di rimando tesi la mia. Fece scivolare sul mio
palmo, molto
lentamente e per tutta la sua lunghezza, un braccialetto. La vista mi
paralizzò.
Alzai
la testa finché
i nostri sguardi non s’incontrarono; la mia mascella allentata dallo
sgomento.
«Buona
vita Asia»,
disse con uno strano luccichio neglio occhi. Poi se ne andò.
Lo
guardai
camminare mentre mi tornava in mente quell’ultimo giorno di circa 9
anni fa,
quando lo lasciai per Stefano. Sulla porta, gli dissi le stesse parole
che lui
mi aveva appena detto: Buona vita Roberto.
Mi
aveva
rovinato per sempre.