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Autore: Vika77    23/02/2022    1 recensioni
Una serie di racconti dal retrogusto amaro. I racconti non si limitano al genere drammatico, ma possono essere anche a sfondo
horror, soprannaturale o giallo. Di certo però, non sono destinati ai deboli di cuore.
Genere: Drammatico, Horror, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Una cattiva decisione

 Per l’ennesima volta, avevo discusso con mio marito. Tollerava poco il mio lavoro e meno ancora, che fossi quella con lo stipendio più alto, senza parlare dei miei orari di lavoro. Dopo diversi anni di gavetta e di sacrifici, ero riuscita a far carriera come Manager nell’azienda per cui lavoravo. Avevo realizzato il mio sogno e per evitare che non sfumasse in una bolla di sapone, per i primi tempi m’impegnai a fondo, facendo molti straordinari e lunghi weekend lavorativi, anche fuori dal paese.

Grazie alla promozione, ci lasciammo alle spalle la vita di stenti e ristrettezze in cui vivevamo. Riuscimmo perfino a cambiare casa. Abbandonammo il monolocale che avevo imparato a odiare in quegli anni di stenti, per un trilocale con una vista invidiabile, a centro città.

Per circa un anno le cose funzionarono bene, tanto che mio marito prospettò l’idea di ampliare la famiglia. Qualcosa per cui non mi sentivo pronta e che rifiutai con la scusa di volermi godere un po’ più a lungo quel momento di serenità economica. “C’è tempo”, dissi.

Non sapevo allora quanto mi sbagliavo!

Allo scoccare del secondo anno, le cose cambiarono di nuovo. I miei impegni e i continui viaggi stavano rendendo il rapporto spigoloso. I weekend insieme divennero pesanti, ogni minima sciocchezza era motivo di lite e iniziai a vivere con una certa apprensione, i momenti di vita con lui. Uscivamo poco, specialmente d’inverno, perché dopo un’intera settimana in giro per il mondo, sentivo il desiderio di crogiolarmi nell’intimità della mia casa. Quasi agognavo quel tempo a casa, dove potevo rilassarmi davanti alla tv o leggere un buon libro.

Non era così per mio marito Roberto che diversamente da me, aveva voglia di uscire, incontrare amici e divertirsi. Lo capivo; passava otto ore a lavorare in un supermercato e il restante tempo lo passava a casa, ad aspettarmi. Oltre alla palestra non aveva nient’altro e credo che a un certo punto, divenne geloso della vita che ero riuscita a costruirmi. Questo almeno, è quello che iniziai a pensarequando le cose degenerarono.

Insomma: i nostri ruoli nella società si erano capovolti.

Iniziò a cambiare e ben presto si passò dalle discussioni momentanee, a quelle lunghe giorni. Il motivo delle discussioni era sempre lo stesso: restare fuori per alcuni giorni per incontri di lavoro fuori sede, rientrare tardi la sera, ricevere chiamate di continuo.

Per diversi lunghi mesi, mi sentii costretta in una situazione sterile, pesante, che mi privava dei miei stimoli più preziosi: la libertà, la serenità, la voglia di fare. Finché un giorno non presi atto di una cosa importante, ma anche molto triste: io, con mio marito, mi annoiavo. Il mio lavoro era diventato non solo un sostentamento economico, ma un’evasione da una vita che mi faceva soffrire.

Lui non capiva. Non capiva me, né la situazione che stavo vivendo. Doveva essere questo, mi dissi o non avrebbe cercato di riportarci indietro a ciò che eravamo. Ero così stanca delle liti, dei ricatti morali, delle scenate, dei bronci e tutto il resto, che non riuscii a considerare neanche l’eventualità di riprovarci. Mi sentivo soffocare, annegare ogni giorno di più e proprio come succede a chi annega, mi sono aggrappata alla prima cosa che poteva darmi di nuovo la possibilità di respirare. Di sopravvivere. Sì, credo che tutto sia successo per questo.

Era il 17 marzo e i primi odori della primavera iniziavano a essere percepiti nell’aria. Stavo guidando in direzione di Firenze. Il mio appuntamento era fissato per le dieci di quella stessa mattina a Prato e stranamente, ero in ritardo. Non facevo troppo caso alla velocità, piantandomi sulla corsia di sorpasso e lasciando che le vetture alla mia destra, diventassero colori informi e sfocati. Ad un tratto iniziai a sentirmi strana, la vista si sfocò e per poco non andai contro un tir. Mi rammentai che ero uscita senza fare colazione a causa dell’ennesima lite con Roberto. Riuscii a riprendere il controllo della macchina, grazie a un clacson che urlava sulla strada. Uscii alla prima stazione di servizio che incontrai per mangiare qualcosa prima di svenire e uccidermi.  Quando fermai la macchina tirai un sospiro di sollievo; mi tremavano le mani e sentivo il mal di testa farsi strada, con un ronzio poco famigliare.

Entrai nel locale e per prima cosa andai in bagno. Camminavo distrattamente mentre guardavo nella mia borsa, quando all’improvviso urtai qualcuno. Pensai di cadere, ma fui afferrata per un braccio e tenuta al sicuro.

Alzando gli occhi, restai imbambolata per un lungo momento nel vedere l’uomo che mi stava sorreggendo. Sentii come un pugno in pieno stomaco colpirmi forte nonostante non riuscissi a muovermi. Non saprei dire cosa mi aveva colpito di più di lui. Forse le proporzioni perfette, i lineamenti gentili o l’intensità dello sguardo. Sembrava uno di quei dei greci che si vedono sui libri. Fui attratta dal colore brizzolato dei suoi capelli. Erano corti, ma ancora abbastanza lunghi da poter essere stretti a pugno. Il colore dei suoi occhi era di un verde intenso, mentre le labbra spiccavano per la linea sinuosa ma grassottella.

«Si sente bene signorina?»

«Anche la sua voce è seducente», pensai. Era calda, profonda, suadente, piacevole da ascoltare e il fatto che s’interessasse a me invece d’inveirmi contro per averlo urtato, mi fece credere che fosse un uomo con del rispetto per le donne. Anche se sono maldestre e stronze come me, (avrebbe aggiunto mio marito). 

«Sto bene», dissi. «Mi dispiace averla colpita, ero distratta.»

Fissai i suoi occhi. Il verde incontaminato m’ipnotizzò. Mi accorsi che stavo cercando di dire qualcosa, la mia bocca si muoveva, ma non ne usciva niente.

Lui sorrise al mio comportamento adolescenziale. Potei vedere i denti bianchi perfetti, spuntare tra le sue labbra carnose. Era divertito. 

«Scommetto che non è la prima volta che gli capita», pensai. «Chissà quante donne gli cadono ai piedi. Devo sembrargli una stupida. Mi sto rendendo ridicola e davvero non vorrei. Ho sempre odiato le donne frivole.»

«È stato un piacevole scontro», mi disse alla fine e bastò questo a darmi un po’ di fiducia, ma allo stesso tempo, mi sentii prendere fuoco senza sapere come fermarlo. Era un problema che avevo da bambina, ma che avevo superato ampiamente e da molto tempo o non avrei fatto il Manager. Com’era riuscito quest’uomo a superare le mie difese e a scatenare in me questa reazione?

«Beh, allora arrivederci. Passi una buona giornata.»

Annuii guardandolo andar via, imbambolata come una scema - gli occhi fissi sul suo fondoschiena - finché non fu inghiottito dalla porta d’entrata.

Le persone che mi passarono accanto per entrare in bagno, mi risvegliarono dalla mia trance facendomi sentire a disagio. Saltai sul posto quando successe. Il che significava che mi ero completamente persa! Inghiottii riprendendomi dalla confusione e dallo sgomento e feci quello per cui ero lì.

Lo rividi soltanto quando finii di consumare la mia ordinazione. Mi stava fissando e fui colpita da una strana sensazione di lusinga. Non potevo negare a me stessa che quell’uomo mi piaceva, molto, ma c’era una sensazione più sottile, in sottofondo, appena percepibile, che non era così buona. Mi era già successo altre volte, ma non ero mai riuscita a capire il motivo che la scatenasse. Comunque sia, quel giorno la ignorai. Ricambiai lo sguardo, i sorrisi e il saluto appena accennato prima di ripartire per la mia meta.

Il ritardo compromise la mia tabella di marcia, facendomi ripartire da Prato solo dopo una cena veloce in ufficio. La stanchezza mi colpì nei pressi della stazione di servizio di quella stessa mattina. Mi fermai sperando avessero una stanza libera per passare la notte e fui fortunata. Mentre uscivo dall’ascensore per andare in camera, vidi lo sconosciuto di quella mattina passarmi davanti. Era insieme ad altre due persone, aveva un tablet in mano e indicava qualcosa ad una ragazza accanto a lui. Ovviamente, non mi vide e ne fui grata o si sarebbe accorto di come potevo diventare ebete in certe circostanze. Qualcosa che continuava a sconvolgere anche me.  

Quella notte ebbi difficoltà ad addormentarmi. Continuavo a pensare a lui. Perfino quando chiamò mio marito, non persi troppo tempo a parlarci e tagliai corto; sapevo che saremmo finiti in una lite e comunque non riuscivo a mantenermi concentrata sulla conversazione. Ero stanca e il viso di quello sconosciuto che continuava a tornarmi in mente, mi faceva sentire…in colpa. «Se solo avessi spento il telefono!»

Rividi il mio uomo misterioso a colazione. Si avvicinò al mio tavolo mentre aspettavo l’ordinazione, prendendomi alla sprovvista e lasciandomi senza parole. Ero tornata l’adolescente che incontra il bello della scuola. Mi chiese senza presentarsi prima, se stavo aspettando qualcuno. Lo lasciai in sospeso per un istante, in cui mi chiesi se stava succedendo davvero. Poi feci cenno di no con la testa e chiusi l’agenda che stavo consultando.

Lui si sedette rimanendo a guardarmi senza dire niente. Era strano, ma mi sentii lusingata per il fatto che mi avesse notato. Mi piaceva che fosse lì con me in quel momento. Mentre ci studiavamo, percepii di nuovo quell’inspiegabile sensazione in sottofondo. Non ero ancora sicura se fosse buona o cattiva e così la ignorai come la prima volta.

Arrivò la colazione nel momento in cui provai a parlare e i suoi occhi li sentii cadere sulla mia bocca. Mi fece uno strano effetto; un mezzo brivido mi colse lungo la schiena, ma fu più veloce nell’andare che nel venire. Il cameriere lasciò il tutto e si dileguò tra gli altri tavoli. «Viaggia molto?», disse d’un tratto. La domanda mi sorprese.

«Sì. Il mio lavoro mi porta spesso a viaggiare.»

«E dove va di bello oggi?», mi chiese ancora. Io sorrisi e guardai la mia tazza di caffè.

«In realtà sto tornando a casa. Ho passato la notte qui.»

«Oh! Spero sia stata bene. Questo è una delle aree di servizio che preferisco.» Lo guardai curiosa e piegai la testa verso la spalla come se farlo mi aiutasse a capire.

«Anche lei viaggia per lavoro?», chiesi.

«Qualche volta. La maggior parte del tempo lo passo qui; questa stazione di servizio è mia. Ne ho altre, ma sono tutte intorno a Roma.»

«Oh!» Ero di nuovo sorpresa. Tutto mi sarei aspettata, meno che questo. «Quindi ieri sera, stava dando istruzioni ai suoi dipendenti? Quanti soldi servono per acquistare delle stazioni di servizio?» Mi sentii un’idiota solo per averlo pensato. Lui mi guardò facendomi un sorriso e io mi sentii prendere fuoco. «Devo essere arrossita di nuovo perché sta sorridendo come chi ha appena fatto tana a qualcuno. Beh, posso accettarlo da uno come lui; ha un sorriso che incanta.»

Qualcuno gli portò una tazzina di caffè senza neanche chiederla. Facemmo colazione mettendo su una piacevole conversazione. Parlammo dei nostri lavori e tutto scorreva via liscio che era un piacere. Quasi non mi accorsi di aver sprecato un’ora del mio tempo per la colazione.

Puntuale come un orologio, mio marito chiamò rompendo l’idillio che stavo vivendo. Mentre rispondevo, vidi Stefano, questo era il suo nome, avvicinare un ragazzo del bar e dirgli qualcosa all’orecchio. Dopo di che, mi sorrise e se ne andò con un mezzo cenno. Non potei far altro che ricambiare il saluto, anche se volevo gridargli di non andare, lanciando il telefono con mio marito dentro, nel cestino più vicino. Spazientita, tagliai la discussione con lui e mi apprestai a pagare, ma il ragazzo non me lo permise. “È offerto da noi”, disse. Mi guardai intorno nella speranza di vedere Stefano, ma non lo trovai. Non mi restava che riprendere la via di casa con una sensazione di delusione addosso.

 

Lo rividi due settimane dopo. Mentirei se dicessi che ero lì per caso; mi fermai nella speranza di rivederlo e così fu. Si fece servire un cappuccino al mio tavolo. Lui si sedette come se avessimo un appuntamento. Mi guardò, bevve un sorso del suo cappuccino e con una naturalezza che mi fece trasalire, iniziò a fare apprezzamenti sul mio vestito e nello specifico sul mio decolté. Giocai con lui, anche quando scherzò sul mio trucco un po’ troppo evidente a suo dire. Notai subito che aveva una bella abbronzatura e gli chiesi se per caso era stato in qualche posto a prendere il sole.

«Sono andato a Miami. Ho fatto degli investimenti immobiliari molto convenienti e ho sfruttato il tempo libero.»

Mi sorprese per la seconda volta perché…, diamine, quante volte può capitare di sentirsi rispondere “Ho fatto un giro a Miami nel tempo libero?” Non mi aspettavo questa risposta e sono rimasta con la tazza a mezz’aria guardandolo incredula. Ovviamente, lui sorrise divertito dalla mia faccia esterrefatta e si sistemò sulla sedia con la tazza in mano, gustandosi il suo bel cappuccino. Stava giocando con me come il gatto col topo?

Ci rivedemmo in quell’autogrill per i successivi sei mesi. Era diventato un tacito appuntamento. Io passavo di lì due, tre volte al mese e lui era sempre lì ad aspettarmi. Diedi per scontato che abitasse nelle vicinanze e mi aveva già detto che quello era il suo lavoro principale. Durante i nostri incontri flirtavamo, qualcuno potrebbe dire che scopavamo con gli occhi e anche nel linguaggio diventammo più intimi e coraggiosi. C’era una tensione sessuale evidente, che cresceva di più ad ogni incontro. In un paio di occasioni ci scambiarono per una coppia e nessuno di noi due si prese la briga di smentirlo.

Fui ammaliata dalla sua galanteria. Non era qualcosa di occasionale per conquistare una donna, ma più una sua peculiarità. A prescindere, qualunque cosa fosse, ci credetti e mi lasciai convincere da quel sorriso che mi dannò l’anima fino al midollo.

Le cose con mio marito intanto peggioravano e negli ultimi tempi degenerarono oltre il sopportabile. Io ero spesa per questa tresca ancora innocente, ma che desideravo ardentemente che sfociasse in qualcosa di peccaminoso. Immaginavo come sarebbe stato essere tra le sue braccia, toccare la sua pelle abbronzata, guardarmi attraverso i suoi occhi profondi e sentire le sue mani accarezzare il mio corpo.

Pensieri questi che compromisero ancora di più il mio rapporto con Roberto. Arrivai a rifiutarmi a lui e questo fu il colpo di grazia. La rottura ufficiale del nostro matrimonio. Ora posso dire che è stato un bene non avere figli con lui; trascinarli in quello che successe dopo, mi avrebbe spezzato il cuore.

Lasciai mio marito Roberto la settimana prima di Natale. Non era previsto, in realtà avevo deciso di farlo dopo le festività per non sembrare del tutto una stronza, ma non ci riuscii. L’azienda m’incaricò d’incontrare dei clienti importanti a Milano. Si trovavano in gravi difficoltà e come Manager, era quello che dovevo fare, senza contare che mi avrebbe fruttato bene, vista l’urgenza. Sarei dovuta restare a Milano solo un paio di giorni, ma volendo stare con Stefano, mentii a Roberto dicendogli che sarei dovuta rimanere per tutta la settimana. Questo perché avevo deciso di portare la nostra relazione al livello successivo.

Ovviamente Roberto mise su l’ennesima discussione e ormai logora di quello che eravamo diventati, gli dissi di prendere le sue cose e di andarsene. Ci rimase male. Lo vidi tentennare sul posto, guardandomi fisso come un bambino appena rimproverato. Non ci credeva. L’avevo preso alla sprovvista e solo dopo un momento di confusione, vidi apparire la consapevolezza nei suoi occhi.

«Da quanto va avanti?», mi chiese.

«Che cosa?» Feci finta di niente, ma sapevo che aveva capito. Mi aveva beccato al telefono più di una volta, parlando sottovoce, chiusa in un’altra stanza. Gli avevo sempre detto che si trattava di lavoro, ma sapevo che non avrebbe retto a lungo. E poi c’erano i continui viaggi che nei mesi precedenti, erano aumentati, così come era aumentato il mio distacco fisico nei suoi confronti.

«Va la, che hai capito. Da quanto va avanti sta storia?», disse seccato

Tentennai, mi guardai i piedi riflettendo e poi decisi di essere sincera.

«Non c’è nessuna storia, ma hai ragione: ho conosciuto qualcuno. Mi ha fatto solo capire che non siamo fatti per stare insieme.»

Seppi in quel momento di avergli inferto una ferita che non si sarebbe mai rimarginata. Lo vidi nell’espressione accartocciata in cui si rifuggiò. Era sempre stato buono con me, paziente, forse anche troppo. Chissà, magari era proprio quello che ci aveva rotto. Sulla porta di casa, un attimo prima che se ne andasse, mi sentii di dirgli qualcosa per fargli capire che volevo fosse felice, nonostante tutto.

E così dissi: «Buona vita Roberto.»


Partii per Milano il giorno dopo. Faceva freddo e il cielo minacciava di far nevicare da un momento all’altro. Pensai stupidamente che mi sarebbe piaciuto svegliarmi l’indomani con Stefano accanto, nel caldo di un letto che anche se non era il nostro, ci dava l’illusione di una favola.  Non lo avvertii del mio arrivo, né che mi sarei fermata per i giorni successivi. Volevo fosse una sorpresa. Mi ripeteva sempre che voleva passare più tempo con me; quale migliore occasione delle feste di Natale?

Quando arrivai alla stazione di servizio, di ritorno da Milano, chiesi a una delle ragazze dove potevo trovarlo. Lei fece una faccia strana e prese tempo. Dopo qualche secondo mi disse che al momento era impegnato e che non aveva idea di quando si sarebbe liberato. Si dileguò in fretta lasciandomi lì ad aspettare come una stupida. Nel farlo, mi voltai guardandomi intorno, più per passare il tempo che per cercare qualcuno. Si rivelò un’azione fortunata perché vidi Stefano infondo alla sala, dall’altra parte del locale. Non era solo. Con lui c’era un’altra donna, molto più grande di lui. Non si parlavano, ma lui la teneva a braccetto. Restai interdetta sul momento, poi vidi la ragazza di prima, avvicinarlo e parlargli all’orecchio. La signora al suo fianco si guardò l’orologio al polso e poi disse qualcosa. Lui le rispose e poi la baciò, velocemente, ma sulle labbra, scatenando tutta la mia gelosia. Lo vidi sorridergli come faceva con me e poi la guardò mentre si allontanava su per le scale. La ragazza di prima era ancora accanto a lui, in attesa di qualcosa. Quando la vecchia signora scomparve, vidi l’espressione di Stefano cambiare da felice a severa. In un primo momento ne fui spaventata. Parlò con la ragazza che continuava ad annuire, gli passò qualcosa e raggiunse la donna più anziana su per le scale, dove lo stava aspettando. Allo stesso tempo, la ragazza si dileguò dalla parte opposta. Ero fuori di me dalla rabbia. Pensai di cercarlo e di fargli una scenata. Mi sentivo presa in giro e volevo sfogare su di lui questo sentimento, ma proprio quando stavo per muovermi, una mano mi toccò la spalla facendomi voltare. Era la ragazza di prima. “Ma come ha fatto…”, pensai. Poi ebbi un pensiero molto più urgente e chiesi: «Chi era la donna che era con Stefano? Perché stanno salendo ai piani superiori?»

La domanda mise in difficoltà la ragazza, che però si riprese bene dopo un momento. «È di famiglia. Il signore mi ha chiesto di dirle che può accomodarsi al ristorante. Ovviamente è nostra ospite. Il signore la raggiungerà appena possibile.»

«Perché, cos’ha da fare di più urgente?» Non so perché lo chiesi, conoscevo la risposta in parte e in parte mi setii tradita, ma ormai era fuori.

«Il signore la raggiungerà appena possibile», ripeté in evidente difficoltà la ragazza.

Sospirai e annuii senza aggiungere altro. Non ero contenta di questo imprevisto, ma certo era che non potevo mettermi in una situazione scomoda prima ancora di aver ottenuto qualcosa di concreto da lui, così cedetti.

Stefano mi aveva fatto accompagnare in una delle stanze del secondo piano, subito dopo pranzo. Ero spazientita e arrabbiata con lui, anche se sapevo di non potermelo permettere.

Qualcuno bussò alla porta intorno alle sei e mezzo di sera, interrompendo i miei  sproloqui mentali. Aprii con una certa veemenza e mi ritrovai a guardare Stefano, appoggiato alla porta con in mano una bottiglia di prosecco e due bicchieri. Aveva la cravatta allentata e il primo bottone della camicia aperta, i capelli un po’ scompigliati rispetto al solito, ma non gli diedi importanza. In realtà non m’importava di niente. Volevo lui e all’improvviso mi sentii audace. In silenzio mi feci da parte così che potesse entrare e poi lo spinsi contro la porta e lo baciai senza un secondo pensiero al mondo. Ricambiò il mio bacio dopo essersi ripreso dalla sorpresa iniziale, facendomi delirare. Sentii la pressione sanguigna schizzare alle stelle mentre mi spingevo contro il suo corpo. Passai le dita tra i capelli e li strinsi nel pugno come tante volte avevo immaginato, percepii la loro consistenza, la loro morbidezza così come sentii la consistenza di qualcos’altro. La sua passione era feroce e gentile allo stesso tempo e quando mi sollevò da terra, mi fece sussultare, ma quasi trasalii quando mi gettò di peso sul letto, seguendomi subito dopo essersi liberato di bottiglia e bicchieri. Potei sentire i suoi muscoli borbottare sopra di me, la sua bocca succhiare e i denti raschiare in successione perfetta. Era perfetto. Il gemito intrappolato nella mia gola, uscì come uno sfogo a quella tensione sessuale che finalmente trovava la sua via, dopo averla repressa per così tanto tempo.

Facemmo l’amore marchiando la pelle ovunque, con denti, unghie e labbra. Non c’importava di chi all’indomani li avesse visti e fatto domande. Non c’era vergogna in quello che stavamo facendo. L’avevo desiderato così tanto, che non riuscivo quasi a credere che stesse succedendo.

Quando ormai stremati, restammo aggrovigliati tra le lenzuola, mi tornò in mente la donna con cui l’avevo visto e tutto il tempo passato ad aspettarlo.

«Chi era la donna con cui eri?», chiesi dal niente. Non credevo alla storia della ragazza.

Lui non rispose. Si alzò passandosi una mano tra i capelli sospirando. Sembrava irritato. S’infilò le mutande e andò in bagno. Restai ad aspettarlo per diversi minuti. Quando uscì, si fermò sulla porta a guardarmi con le braccia conserte.

«Perché mi guardi così?», chiesi.

E lui zitto. Mi appoggiai sui gomiti e mi sentii divertita da quella scena. Sorrisi, ma notando la serietà con cui continuava a guardarmi, iniziai a preoccuparmi.

«Che c’è che non va?», chiesi ancora.

«Non ti fidi di me?», rispose.

«Beh, sto iniziando a farlo, ma è difficile quando mi fai credere una cosa per un'altra.»

«Se non mi credi puoi anche andartene!»

È il mio turno di non sapere cosa rispondere. Ammettere la mia gelosia mi sembrava stupido in quel momento, anche se era la verità, ma anche cedere a questa sua presa di posizione mi sembrava sbagliato. Alla fine, era solo una domanda. Ed è quello che aggiunsi. «Ti ho fatto solo una domanda. La tua reazione mi sembra esagerata.»

«No, la tua reazione è esagerata. Tu-sei-gelosa», disse e stranamente fui felice che l’avesse detto lui.

Dopo un po’ di tentennamento, annuii in risposta, vergognandomene, ma non aggiunsi altro.

«Abbiamo scopato una volta. Non siamo niente. Perché sei gelosa? Mi hai girato intorno per mesi e ora hai avuto quello che volevi. Puoi continuare con la tua vita.»

Il tono con cui lo disse mi fece pensare che forse per lui non era stato solo sesso o forse era quello che volevo credere io: un significato diverso dietro parole che altrimenti, sarebbero state troppo dure da incassare.

«Non era solo sesso per me», dissi con urgenza e lui sembrò ammorbidirsi, ma restò con le braccia conserte. «Ho lasciato mio marito per te.» Ingoiai prima di aggiungere “Non faccio che pensarti.»

A questo le sue braccia si sciolsero, ma i suoi occhi si restrinsero e di colpo mi sentii come messa a nudo, per poi essere controllata in cerca di una bugia o una mezza verità. Non avrebbe trovato niente.

«Sei innamorata?», chiese e io non volli rispondere sul momento.

Si fiondò su di me prendendomi il viso con una mano, spaventandomi a morte. Potevo sentire il fiato caldo sul mio viso per quanto era vicino. La mano che mi stringeva per tenermi in posizione a guardarlo, i suoi occhi smeraldo che d’un tratto erano tempestosi e attraenti come un mare in burrasca.

«Cosa sei disposta a fare per me?» Non seppi rispondere. Con la mano libera mi accarezzava le cosce per poi risalire lentamente e mi accorsi con un certo stupore che mi stavo accendendo di nuovo. Se ne accorse anche lui quando raggiunse il suo obiettivo e mi sorrise come sempre. Mi cadde addosso ancora una volta quella strana sensazione di sbagliato che non sapevo spiegare, non in un momento come quello. Pensai venisse dalle emozioni che stavo provando e che per buona misura mi stavano spaventando. Nessun uomo aveva mai fatto il duro con me, né a letto né fuori dal letto e ad essere sinceri, la cosa mi piaceva, anche se mi vergognavo ad ammetterlo. Mi toccò e non fui capace di tenere gli occhi aperti.

«Sei bella!», disse e anche se non volevo credergli, in quel momento lo feci. «Sei bella e ti voglio, ma devi dimostrarmi che mi vuoi allo stesso modo. E che ti fidi di me.»

«Ti voglio!» biascicai non so come. Mi stava rendendo un pasticcio emotivo e non sapevo come riavere un minimo di controllo. Il mio corpo era alla sua mercé.

«Basta fare quello che ti dico e tutto andrà bene.»

Non risposi, cercai con tutte le mie forse di tenergli testa, non volevo dimostrarmi troppo coinvolta, ma per la miseria: ero completamente cotta.

«Sì. Sì, lo far…»

Non finii di parlare che mi baciò con un ardore tale, da rendermi inerme; eravamo pronti a ricominciare da dove avevamo lasciato.

Solo ora mi rendo conto, che non ha mai risposto alla mia domanda.

 

Il nostro rapporto andò avanti in questo modo per un anno. Un anno in cui riuscì a farmi fare tutto quello che voleva. Mi aveva circuito e il sesso era un deterrente efficace ogni qualvolta facevo domande scomode  a cui non voleva rispondere. I viaggi, le case, i gioielli e tutti gli agi che non avevo mai conosciuto, pensavano al resto e tenevano buoni i dubbi che talvolta mi sorgevano. Quando la foschia iniziale che mi aveva circuito iniziò a sbiadire, iniziai a chiedermi da dove provenissero tutti quei soldi. All’inizio non ci avevo pensato, ma poi realizzai che ne avevo visti passare davvero tanti per quella stazione di servizio e sotto molte forme. Non ritenevo possibile che alcune stazioni di servizio rendessero tanto. Dove trovava i soldi per tutti gli investimenti che faceva di continuo? S’incontrava almeno due volte alla settimana con quelli che lui chiamava i suoi amici in affari e che avevo iniziato a riconoscere col tempo. Ultimamente però, c’era un gruppo nuovo che veniva spesso, a volte anche senza preavviso e di cui non mi disse mai niente, neanche una parola. Ho provato a chiedere un paio di volte e lui ha semplicemente cambiato discorso. Passavano giornate intere chiusi nello studio. Non uscivano neanche per mangiare e ce n’era uno in particolare, che indossava una maschera. Sentii dire da qualcuno del locale, che era per nascondere il viso sfigurato da un’incidente d’auto, un altro disse che era stato vittima di criminali che avevano provato a bruciarlo, altri ancora dicevano che era un boss del crimine che voleva mantenere l’anonimato. Non sapevo cosa credere, ma ero intimorita da tutti quanti loro.  

Intanto, io e Roberto arrivammo ad un accordo per la vendita della casa. Gli avrei lasciato metà del ricavato, per aiutarlo a sistemarsi e a coprire le spese legali. Speravo così di smorzare l’astio che provava nei miei confronti. Non aveva mai detto niente, ma potevo vedere il rancore nei suoi occhi ogni volta che mi guardava. Alla fine era venuto a sapere di me e di Stefano da alcuni amici in comune e un giorno me lo ritrovai alla stazione di servizio che ci guardava da uno dei tavoli. Feci per avvicinarmi, ma lui se ne andò via e io non lo seguii. Non m’importava fintanto che restava fuori dalla mia vita. Non volevo che niente rovinasse quella felicità che per tanto tempo mi era mancata.

Quando ottenni la mia parte, Stefano mi convinse a investirli in un suo nuovo progetto. Rifiutai l’offerta per un paio di volte; la terza cedetti. Ovviamente mi strappò il sì a letto. Non riuscivo a credere di essere diventata così avida di sesso.

Sapevo che mi stava manipolando, ma continuavo a pensare di essere l’unica responsabile della mia condizione. Inoltre, lui stava guadagnando bene dai suoi investimenti; forse potevo fare un po’ di soldi anch’io senza sudare sette camicie!

Il sesso era diventato più duro negli ultimi tempi. I segni sul corpo aumentavano, ma almeno era attento che non fossero visibili. Un giorno mi legò con delle corde morbide, ma ancora abbastanza resistenti da non spezzarsi; mi bendò e mi applicò delle mollette per capezzoli per tutta la durata del nostro tempo a letto. Cercai di oppormi, mentre iniziavo a percepire piccole scosse di piacere in sottofondo, ma quando la pelle morbida della frusta colpì i miei glutei, restai senza parole. Il cervello fece tilt non tanto per il dolore, ma per la sorpresa e il piacere che scoppiò dentro di me, improvviso e debilitante; sapevo sarebbe stato tangibile da lì a pochi istanti. Nello stesso momento una leggera scossa passò attraverso i miei poveri capezzoli sparpagliandosi per tutto il corpo. Vibrai come una molla e l’intensità del piacere che si prolungava mi stordì. Dovetti ammettere con mia grande sorpresa, che non avevo mai provato un tale piacere prima, di certo non nel modo tradizionale di fare l’amore.

Un giorno gli chiesi perché gli piacesse il sesso duro e lui, con una semplicità disarmante, rispose che non gli piaceva, ma che lo faceva per noi, per mantenere vivo il nostro rapporto. Insinuò che ne avevamo bisogno insomma.

Provai a ribattere, arrabbiata per le sue parole e la sua presunzione, ma lui mi zittì aggiungendo: «Tiene il rapporto vivo, non fingere che non sia così. È molto più appagante e se solo ti vedessi! Sei così recettiva quando ti sottometto!»

Non sono sicura se per la sorpresa o per la vergogna, ma non riuscii a ribattere. Da allora, quelle parole mi tornarono in mente quasi ogni giorno. C’era qualcosa tra le righe che mi faceva provare la strana sensazione di sbagliato che avevo provato fin da subito. Era passato più di un anno e ancora non ero riuscita a decifrarlo.

Fu in autunno che cambiarono le cose. Con una telefonata dall’America. Non so cosa gli dissero, ma ricordo ancora il suo volto sconvolto quando chiuse la conversazione.

Non disse niente, non mi guardò neanche quando oltrepassò tutto il soggiorno e si rinchiuse nello studio fino all’indomani. La sensazione di sbagliato tornò con prepotenza, insieme alla preoccupazione per la notizia che gli avevano comunicato e che lui non sembrava voler condividere. Quando lo vidi il giorno dopo, sembrava fosse stato travolto da un treno.

«Stefano stai bene? Ma che succede?» Ero preoccupata per lui, volevo aiutarlo, consolarlo, ma quando mi guardò, lo fece in un modo…  Sembrava vuoto e al tempo stesso scocciato per la mia intrusione. Per la prima volta mi sentii un’estranea. Fu una sensazione orribile.

Da quel giorno le cose andarono sempre peggio.

Usciva presto la mattina per rientrare solo molto tardi e ovviamente non mi raccontava né di dove andasse né di cosa facesse. Vivevamo nell’appartamento della stazione di servizio all’ultimo piano, ma c’era una stanza chiusa in cui non avevo il permesso di entrare. Disse che conteneva vecchie cose appartenute ai suoi genitori; mobili, specchi, fotografie, cose del genere. Erano morti in un incidente aereo e quella stanza era tutto ciò che gli restava di loro. Ovviamente rispettai la sua richiesta, ma continuai a farmi domande al riguardo trovandolo anomalo.

 Le sue assenze divennero sempre più lunghe e il nostro rapporto subì una brusca frenata. Non parlavamo più, non ci divertivamo più e l’intimità si era ridotta a del sesso povero e violento. L’ultima volta mi spaccò un labbro, mi fece un occhio nero e fui costretta a minacciarlo con un tagliacarte per fermarlo. Le cose avevano raggiunto il limite e io non mi accorsi neanche di come c’eravamo arrivati. Sapevo solo che iniziavo ad aver paura di lui.

Non mi chiese mai scusa per quella sera e non perse occasione di mostrare il suo rammarico per non aver terminato la sessione.

Sapevo che quella telefonata aveva innescato qualcosa che aveva portato in superficie il suo lato oscuro e violento, ma non riuscivo a immaginare cosa potesse essere.

Dieci giorni dopo, mi disse che doveva partire per sistemare delle questioni di lavoro. Non aggiunse altro. Fu la prima volta in due anni che non mi dispiacque la lontananza. Avevo iniziato a ripensare al mio ex marito e al fatto che un po’ di quella sua prevedibilità in questo momento, mi avrebbe fatto piacere. Chissà, forse lasciarlo era stata una cattiva decisione.

Partì l’indomani mattina come previsto. Fu l’ultima volta che lo vidi.

Non lo sentii per tre giorni; inutile dire che ero preoccupata.

Il suo telefono era sempre staccato e nessuno lo aveva visto o sentito. Mi vennero in mente gli scenari peggiori. Una parte di me lo amava anche se iniziava ad aver paura di lui e di certo questi ultimi tempi non erano stati facili.

Era primo pomeriggio quando, quello un gruppo di poliziotti bussarono alla porta del nostro appartamento. Avevano un mandato di perquisizione. Uno di loro mi pose davanti al viso il foglio di carta, mentre camminava dentro. Non rallentò e io non riuscii a leggere neanche una virgola. Ero terrorizzata. Gli agenti ribaltarono la stanza e trattarono le mie cose e quelle di Stefano come immondizia. Nessuno voleva dirmi niente.

«Ispettore, qui c’è una porta chiusa a chiave», disse uno degli agenti.

Tutti mi lanciarono sguardi accusatori per poi tornare al loro da fare. Un uomo in jeans e giacca di pelle, pelato, basso e zoppo, si avvicinò guardandomi storto.

«Che cosa c’è in quella stanza?»

«Vecchi ricordi di famiglia. Credo.»

«Crede?», disse l’ispettore irritato.

«Io… Io non ci sono mai entrata. Stefano mi ha detto che vi ha riposto i ricordi dei suoi genitori che sono morti in un incidente aereo.»

Tutti gli agenti si fermarono a guardarmi per poi scoppiare a ridere. Mi sentii stupida e impotente. La sensazione di sbagliato adesso non era più in sottofondo, ma vibrava libera da costrizioni inconsce che fin’ora l’avevano tenuta a bada.

«I suoi genitori stanno benissimo signora. Se le ha detto che sono morti, ha mentito.»

«No! Perché avrebbe dovuto? E perché nessuno vuole dirmi niente?»

«Non ha letto il mandato?», disse l’ispettore calvo, prima di prendere una lunga tirata dalla sua sigaretta spiegazzata. Lo guardai malissimo, contro il mio miglior interesse e poi risposi a tono.

«È difficile leggere qualcosa che ti viene sbattuto in faccia.»

Sapevo che la mia risposta non era delle migliori, ma ero anche infastidita e impaurita da tutta la situazione.  

«Il suo fidanzato è ricercato per una varietà di reati che fanno invidia ad Arsenio Lupin. Abbiamo riciclaggio di denaro sporco, spaccio e prostituzione. Le basta?»

L’ispettore continuava a parlare facendo i nomi di alcune persone coinvolte, ma per me la sua voce era ovattata e riverberante, il suono delle parole che si accavallavano una sull’altra rendendo impossibile capire cosa diceva eppure… Eppure riuscii a sentire il mio nome quando lo fece. Perché stava facendo il mio nome?

« Scusi, che cosa ha detto?»

«Lei è la signora Asia Nelato?»

«Sì, ma... Come fate… Perché ha fatto il mio nome…»

«Perché lei è una degli indagati.» Ci fu un momento di silenzio in cui cercai di capire se quello che stavo vivendo era un sogno o la realtà, perché sembrava tutto troppo folle per essere vero. «Ci risulta che lei ha fatto un investimento all’estero non molto tempo fa. È giusto?», aggiunse l’uomo calvo. Rimase a guardarmi in attesa della mia risposta.

Mi venne subito in mente il progetto di Stefano di cui conoscevo poco e niente e a cui avevo aderito solo perché ubriaca di sesso; sapevo solo che era all’estero, in un qualche punto dell’America e che si trattava d’immobili, ma nient’altro.

«Ho prestato dei soldi a Stefano per un progetto cui stava lavorando, ma…»

«Certo, il progetto di riciclaggio. E mi dica: quanti di questi immobili li trasformate in case chiuse e quanti in laboratori clandestini?»

«Cosa? Ma lei sta scherzando!» Mi risvegliai da quel torpore d’impotenza come colpita da un secchio d’acqua gelata. Fu la paura forse e quella maledetta sensazione di sbagliato, che mi strillava nelle orecchie come un clacson d’autotreno.

«No signora, qui nessuno sta scherzando. Lei è considerata una complice e verrà incriminata per questo. Come tutti gli altri.»

«Ma sono innocente. Non sapevo niente di tutto questo. Ci siamo conosciuti appena due anni fa e mi aveva detto di essere il proprietario di alcune stazioni di servizio. Non sono complice di niente, se mai sono una vittima.»

«Dicono tutti così!», disse l’ispettore lanciando uno sgaurdo ai colleghi intorno a lui. «Quindi», continuò «vuole darci la chiave di quella porta o devo farla buttare giù?»

«Non ce l’ho la chiave! Pensa che me ne starei qui a discutere se l’avessi? Sono una persona per bene, non ho mai neanche preso una multa.»

«Ninooo!» Qualcuno gridò nell’appartamento facendomi salatre per lo spavento. Tutti si voltarono indietro e dopo un momento un uomo si affacciò sul corridoio. Era corpulento, alto e molto simile a Mastro Lindo.

«C’è qualcosa che devi vedere», aggiunse l’uomo. Quelle parole mi gelarono il sangue. Nei film polizieschi, ogni volta che dicono così, scoprono qualcosa di brutto.

Seguimmo i due uomini che si fermarono proprio davanti alla porta chiusa a chiave. L’agente palestrato indicò un punto vicino a una valigetta aperta e subito il ricordo di tutti quei telefilm polizieschi mi tornarono in mente. Sapevo esattamente cosa stavano indicando.

«Sangue?», chiese l’ispettore.

«Non può essere!», ribattei terrorizzata. «Sono sempre rimasta qui, da quando Stefano è partito; me ne sarei accorta se qualcuno sporco di sangue fosse entrato.»

Quello che doveva essere il capo sospirò e si mise davanti a me. «Guardi, se collabora ne terremo conto. Mi creda, le conviene collaborare, perché non so cosa c’è lì dentro, ma quel sangue non fa pensare a niente di buono.»

«Come devo ripeterglielo? Non ho fatto niente e non ho la chiave di quella porta. Mi ha fatto promettere di non entrarci mai e io ho rispettato la sua volontà.»

«Va bene», disse  e dopo una breve pausa in cui continuò a fissarmi, gridò: «Buttatela giù.»

Gli agenti ci misero alcuni secondi a sfondare la porta. Era buio, con un’unica luce rossa d’emergenza in fondo alla stanza. Gli agenti entrarono e io li seguii come un automa.

Continuavo a ripetermi “Fa che non ci sia un morto”, “Fa che non ci sia un morto”, ma le mie preghiere non vennero ascoltate.

Lì, al centro della stanza, riverso a terra, c’era Stefano. Aveva la maglietta sporca di sangue e un rivolo di liquido rosso fuoriusciva al lato della bocca. Gli occhi verdi di cui mi ero innamorata, non c’erano più. Avevano lasciato il posto a un bianco sporco, vitreo e spettrale. L’odore di decomposizione era già asfissiante in quella piccola stanza. Mi portai una mano al viso per sfuggire all’odore che iniziava a farsi opprimente. Quel momento si sarebbe impresso per sempre nella mia mente. Con grande amarezza realizzai che nessuna delle mie esperienze amorose, era finita bene.

In un momento di debolezza, ammisi a me stessa che desideravo Roberto lì con me. Sapevo esattamente cosa avrebbe fatto; mi avrebbe abbracciato, baciandomi sulla testa e sussurrando  parole di rassicurazione e conforto. Mi avrebbe detto che sarebbe andato tutto bene, che avremmo trovato una soluzione insieme e io gli avrei creduto.

Avevo distrutto una certezza per qualcosa che non conoscevo e che mi aveva accecato.

Mi sentii trascinare fuori. Mi voltai e trovai un uomo dal volto squadrato e i capelli neri che mi teneva sotto braccio. Mi portò in cucina e mi fece bere dell’acqua; dovevo apparire davvero sconvolta!

«Si sente meglio?» Annuii, ma non era vero. Mi sentivo uno schifo.

«Sono nei guai, vero?» Lo chiesi dopo un momento in cui cercai di riprendermi.

«Abbastanza. Se è vero quello che dice e non inizia a collaborare con noi, si prenderà tutta la colpa. In questo momento è la maggiore indiziata e anche l’unica che abbiamo in custodia.» Fece un passo più vicino e aggiuse a bassa voce: «Ma questo io non gliel’ho detto.»

Lo guardai paralizzata, cercando di capire il vero significato di quelle parole. Quando lo feci, mi sentii morire.

«Ma io sto dicendo la verità! Io e Stefano ci conosciamo da circa due anni e non mi ha mai parlato nel dettaglio della sua vita o dei suoi affari. Ho lasciato mio marito per lui, credevo fosse un uomo gentile e onesto.»

L’uomo si abbassò al mio livello e quando mi guardò, nei suoi occhi vidi comprensione.

«Sta dicendo che era innamorata di lui? O si trattava solo di sesso?»

«Mi sono innamorata di lui, ma non subito. All’inizio era per il sesso, lo ammetto. Abbiamo flirtato molto, mi sentivo come in uno di quei film degli anni ’40, in cui l’uomo corteggia la donna fino allo sfinimento. Era una bella sensazione.»

«Poi cos’è successo? Perché c’è il suo nome su uno degli investimenti immobiliari incriminati?»

«Mi chiese di aiutarlo a realizzare un progetto. Voleva acquistare immobili per aprire stazioni di servizio, almeno così mi disse. Avevo ricevuto la mia parte di soldi dalla vendita della casa che dividevo con il mio ex marito e mi ha convinto a investire.»

«Sa che tipo di immobili acquistava?»

Riuscii solo a fare un cenno di diniego con la testa, ma non riuscii a spiccicare parola. So che loro lo sanno e che quando lo saprò anch’io, mi darò della stupida per non aver sospettato niente.

«Tutti gli immobili erano venduti all’asta, un’asta corrotta ovviamente. Alcuni venivano trasformati in pub privati in cui spacciare la droga e far prostituire giovani ragazze, altri venivano organizzati in laboratori per lavorare le sostanze. Sappiamo che non era solo nell’operazione. Aveva dei complici e tra quelli c’è anche lei.»

«Io non sono mai stata la complice di nessuno.» Ero sul punto di piangere.

«Era la sua amante però! Un po’ di soldi facili fanno gola a tutti.»

Trasalii a quelle parole, perché era esattamente quello che avevo pensato quando avevo deciso d’investire nel progetto di Stefano.

Insomma, in soli due anni Stefano mi aveva presa in giro e manipolato come una marionetta.

«Inoltre…», aggiunse «Abbiamo trovato dei video in uno di questi immobili. Sono dei porno e da quello che ho capito, potrebbe essere una sorpresa, ma… C’è anche lei su alcuni di quei video.»

Persi l’uso cognitivo per un tempo che ritenni infinito. Apprezzai il tempo che l’uomo mi diede per potermi riprendere dallo choc. E intanto le conseguenze di quella scoperta iniziarono a frullarmi nella testa come succede ai pazzi quando hanno una crisi. Fu la voce del poliziotto a risvegliarmi da quel delirio di terrore.

«Le piace il sesso violento? Lui la picchiava durante l’atto?»

«Oh mio Dio!» Lo sapevano! Che stava succedendo alla mia vita? Pensai che era meglio morire che vivere l’incubo in cui ero pimbata. Tutto quello che avevamo fatto a letto per due anni era stato filmato? Come potevo non essermi accorta di niente? Biasimai me stessa per essere finita in quella situazione senza via d’uscita.

«Signora Nelato, deve venire con noi alla centrale. Le consiglio di chiamare un avvocato, possibilmente bravo, perché ne avrà bisogno!»

L’ispettore scorbutico che mi riteneva colpevole di tutto, ci aveva appena raggiunto. L’agente con cui stavo parlando, si alzò in fretta e si fece da parte lasciando che lui  prendesse il suo posto.

«Ha ucciso lei Stefano Riposti?»

«Nooo! È partito dicendomi che doveva risolvere della questioni d’affari. Credevo fosse andato in America per i suoi soliti investimenti immobiliari», dissi spazientita dall’atteggiamento di quell’uomo.

«Stia calma signora. Sto facendo solo il mio lavoro e lei, è appena stata trovata in casa della vittima, con il suo cadavere chiuso a chiave in una stanza che si è rifiutata di aprire.»

«Non potevo aprirla, non avevo la chiave, non me l’ha mai data. E non ho ucciso nessuno.»

Mi venne in mente d’un tratto, che Stefano era un maniaco del controllo e che aveva piazzato telecamere ovunque; in salotto, in cucina, in soggiorno, nel ripostiglio, ma si era assicurato di spegnere quelle in camera ogni volta che facevamo sesso. Almeno così mi aveva detto. Non avevo mai controllato però, non pensavo ce ne fosse bisogno. Era chiaro che mi aveva preso in giro.

«Ci sono videocamere di sorveglianza in tutta casa. Può controllare…»

«Lo faremo, non si preoccupi. Per ora ci segua: finiremo di parlare in centrale.»

Non attese una risposta. Se ne uscì facendo cenno a uno degli uomini di seguirlo.

L’agente che mi aveva mostrato un minimo di riguardo, si offrì di accompagnarmi e così presi le mie poche cose e uscii con loro. Mi voltai un’ultima volta per guardare quella stanza d’appartamento che mi aveva regalato un sogno bellissimo, ma anche l’incubo più spaventoso che potessi fare.

 

Passarono sette anni da allora.

Il mio avvocato, che mi costò tutto quello che avevo, era riuscito a escludermi dalle accuse più gravi, ma per il resto dovetti aspettare il processo. Le registrazioni mostrarono chiaramente che non avevo ucciso Stefano. In uno dei video lo si vedeva chiaramente rientrare a casa, insieme a l’uomo con la maschera di cui si vociferava tanto.  Era lo stesso che aveva partecipato alle ultime riunioni. Si erano rinchiusi nella camera che nella mia mente chiamavo “ la camera dei cimeli”. Mezz’ora dopo uscì l’uomo in maschera. Da solo. Ripulì la porta dalle macchie di sangue che involontariamente aveva lasciato e poi era venuto in camera dove stavo dormendo. Quando vidi il filmato, morii di paura al pensiero di cosa avrebbe potuto farmi.

Ancora oggi mi sveglio di notte in preda agli incubi.

Non mi fece del male. Solo mi guardò, mi annusò e poi se ne andò. Prima però, prese dal comodino il mio braccialetto. Me lo aveva regalato Roberto per il nostro primo anniversario di fidanzamento. Era qualcosa cui ero rimasta affezionata e scoprire che l’aveva rubato, mi fece sentire ancora più sconfitta.

Alla fine del processo, venni scagionata dalle accuse, ma la mia vita era ormai rovinata. Persi il lavoro e finii su tutti i giornali. Dovetti trovare una sistemazione, ma non avendo un lavoro né più i risparmi di una volta, dovetti accontentarmi di un openspace in periferia. Mi organizzai con piccoli lavoretti, volantinaggio, pulizie e qualsiasi cosa potesse farmi raccimolare dei soldi. I fine settimana non esistevano più, ogni giorno era uguale all’altro e capii finalmente cosa intendessero le persone bloccate in un infinito circolo vizioso che non avevano scelto, ma in cui erano caduti per sbaglio. Grazie al mio avvocato, cui probabilmente feci pena, ottenni un lavoro da badante per una dolce vecchietta non troppo lontano da casa mia e giorno dopo giorno la mia vita  riacquistò una certa normalità; dopo quello che avevo vissuto, mi bastava. Forse presto sarei stata pronta per di più.

Un giorno suonarono alla porta e mi ritrovai davanti il mio ex marito. Qualcosa che davvero, non mi sarei aspettata. Non si era mai fatto vivo durante il processo, né subito dopo.

«Roberto!», dissi sorpresa «Che ci fai qui?»

«Ciao. Mi chiedevo come stessi e allora… Beh, eccomi.»

Non seppi come rispondere, ma avevo un buon ricordo di lui nonostante le nostre liti e la nostra separazione, quindi decisi di farlo entrare. Prendemmo il caffè contornati dall’imbarazzo. Poche parole, frasi corte e di circostanza, sguardi schivi e troppe domande nella testa. Non capivo il perché di tutto quel disagio: avevo passato con quell’uomo quindici anni, conoscevo tutto di lui, era un libro aperto, ma in quel momento non sapevo come interpretarlo. Non mi sarei mai aspettata una sua visita, non dopo quello che gli avevo fatto; conoscevo troppo bene di quanto risentimento era capace. Invece mi sorprese.

«Suppongo tu abbia saputo quello che è successo», dissi alla fine prendendo un po’ di coraggio.

«Come tutto il resto della nazione. Eri su tutti i giornali.»

Un’altra sorpresa. La risposta mi pizzicò non poco, ma dal tono scocciato che usò, capii che  pizzicava anche a lui.

Annuii perché non sapevo come rispondere al suo punzecchiamento.

«Mi sembra che vada meglio adesso. Ti sei sistemata abbastanza bene!», disse guardandosi intorno.

Lo guardai chiedendomi se era una battuta o era serio.

«Se un openspace di 30 mq e pulire merda tutto il giorno per te è essere sistemata bene, allora sì, direi che sono sistemata proprio bene.» So che non avrei dovuto lamentarmi di quello che ero riuscita ad ottenere, visto com’era la mia situazione fino a poco prima, ma il suo prendermi in giro mi fece scoppiare.

«Non volevo dire in quel senso. Intendevo che è un passo avanti rispetto a una cella tre per due.»

«Non sono mai finita in cella per tua informazione e scusami se te lo chiedo: ma perché sei qui? Per infilare il dito nella piaga?» Sono arrabbiata, con lui, con tutti gli uomini di questo mondo perché sono… sono…  O forse sono io che non sono giusta.

«Volevo solo fare un saluto e vedere se avevi bisogno di qualcosa.»

Le sue parole mi zittirono, facendomi sentire in colpa per come avevo reagito. Non avevo dubbi sulle sue buone intenzioni; perché avrei dovuto? Il silenzio divenne nuovamente scomodo, costringendo Roberto ad alzarsi e a incamminarsi alla porta.

«Ti ho messo di malumore; forse è meglio che vada.»

Lo seguii in silenzio senza cercare di fermarlo. Sull’uscio si voltò di colpo.

«Ah sì, dimenticavo. Sono venuto anche per questo.»

Tese la mano chiusa a pugno e io di rimando tesi la mia. Fece scivolare sul mio palmo, molto lentamente e per tutta la sua lunghezza, un braccialetto. La vista mi paralizzò.

Alzai la testa finché i nostri sguardi non s’incontrarono; la mia mascella allentata dallo sgomento.

«Buona vita Asia», disse con uno strano luccichio neglio occhi. Poi se ne andò.

Lo guardai camminare mentre mi tornava in mente quell’ultimo giorno di circa 9 anni fa, quando lo lasciai per Stefano. Sulla porta, gli dissi le stesse parole che lui mi aveva appena detto: Buona vita Roberto.

Mi aveva rovinato per sempre.

 

   
 
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