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Autore: Alarnis    06/03/2022    3 recensioni
"Quel giorno fu lei a restare ferita, solo ora se ne rendeva conto."
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NdA. Ho scritto velocemente, quindi prima di leggere questo capitolo scorrete l’indice! Capitolo La colpa

 L’ingresso

 
Bagnarono le lame col liquido della boccetta.
I ruvidi guanti li cautelarono in quest’operazione, negando il tremore delle loro mani nel compiere un gesto che aveva un che’ di rituale.
Non serviva dire che quella stessa lama l’avrebbero rivolta mortalmente contro se stessi come estrema risoluzione, se non fosse valsa contro i nemici.
Ludovico poggiò la mano, dal palmo aperto, sul muro della parete che avrebbe compiuto mezzo giro per aprirsi all’interno del camino, scoprendo la strada della loro rivalsa.
Un rumore di ingranaggi raschiò l’aria, che il  silenzio parve  ingigantire.
Ebbero paura di essere individuati.
Federico immobile; il piede sospeso in aria come se il calcare il pavimento aggiungesse rumore a rumore e li facesse scoprire definitivamente.
Attese prima di decidersi di varcare il passaggio.
Dopo alcuni minuti, Ludovico negò col capo: un cenno di pochi millimetri in orizzontale  a riprova non fosse giunto nessuno.
Nessun rumore nella stanza vuota.
Sembrava che quel piano della rocca fosse stato abbandonato, forse a vantaggio della sala dei banchetti maggiormente ariosa e difendibile da un ricco contingente.
Ludovico ben sapeva che i contadini sarebbero stati a portata degli arceri che pur invisibili rispetto ai comuni soldati erano pronti a scoccare una pioggia di frecce per relegarli al loro posto di sudditanza.
La stanza di suo padre gli parve cambiata, priva degli arredi che ricordava.
Il quadro di mia madre?  
Invano lo cercò. Quello della bellissima Aurora, dallo sguardo indulgente, i lunghi capelli biondi, cornice ad una carnagione lattea.
Che tu sia dannato! inveì a denti stretti verso Gregorio Montetardo,  trattenendo una rabbia di stomaco.
Non più un’insegna drappeggiata sulla tappezzeria del letto e delle tende, come se quella stanza non fosse mai appartenuta a suo padre.
Misurò i passi. La porta dritta di fronte a lui.
Un rumore improvviso.
Prima di dargli un nome, veloci lui e Federico  si portarono con una scivolata sotto il grande letto, mentre Alberico si riparava dietro la pesante tenda damascata.
“C’è qualcuno?” esordì una voce. Un suono ovattato.
Proveniva dall’armadio?  
Federico gli picchiettò sulla spalla.  
Si sporsero entrambi a guardare: i battenti facevano leva sulla chiusura insistenti, come qualcuno li spingesse dall’interno.
Imprudente Alberico si fiondò verso l’armadio, osteggiando quel movimento fino a farlo cessare. Quel rumore li avrebbe fatti scoprire!
Alberico consigliò il silenzio, ma richiese “Non è un armadio a parlare?” soffiò sulla serratura. “Dunque, chi sei?”.
Nessuna risposta, ma lo stesso rumore di un topo che rifugge da un pericolo stendendosi sul lato opposto, più riparato, negata ogni altra via di fuga.
Mentre Alberico stagliava l’orecchio all’armadio, in silenzio lui e Federico si decisero ad uscire e sbarrare la porta, addossandole un grosso baule, che trascinarono con cautela.
Restarono muti, come muto restava l’armadio.
Alberico si chinò a raccogliere la grossa chiave dorata a tre denti dalla testa a cuore, inerme nel pavimento.  Sarebbe bastata inserirla, dare un giro e ruotando la chiave avrebbe sollevato le lastre che allineate avrebbero fatto correre il chiavistello.
Restava a loro decidere.
Gli occhi azzurri di Federico tradivano la superstizione di trovarsi di fronte a quello che tutti potevano credere un genio.
La sua audacia non venne meno; “Sei un nume?” alitò  Ludovico con benevolenza e determinazione assieme. “Se qualcuno ti ha imprigionato non sarò io a volerti rinchiuso.” ammise.
Nessuna voce.
“Non aprire!” consigliò Federico “Lasciamolo qui!”, quasi trattenendo la sua mano per evitare che inserisse completamente la chiave nella toppa.
“Vuoi essere libero?”.
Un rumore. Qualcosa si era avvicinato alla serratura “Non sono un nume.” ratificò una voce di un timbro ancora gentile, propria di un giovinetto.
“Lo è!” si oppose Federico come fosse un tranello.
“Sì, di grazia.” optò per la liberazione la voce, esacerbando la richiesta di Federico “Non dargli soccorso! Chi dunque ti ha imposto questa prigione?”.
La risposta. Un nome. “Gregorio Montetardo.”.
Il chiavistello scattò per mano di Ludovico.
   
 
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