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Autore: Ishouldgoaway    08/03/2022    0 recensioni
La morte di Frigga è stata improvvisa, dolorosa e brutale per tutta Asgard. E tutti hanno voluto portarle il proprio, personale, ultimo saluto. Tutti tranne il dio dagli occhi verdi rinchiuso in una cella lussuosa quanto opprimente. Il divieto, per Loki, di partecipare alla funzione viene direttamente dalle labbra di Odino, ma non rimarrà a lungo senza conseguenze.
Dal cap. 2 [...] Lo aveva visto solamente un breve istante. Attorniato da guardie e guaritori come a formare una barriera. Battiti improvvisamente irregolari e violenti contro la cassa toracica.
Non era riuscito ad osservargli il volto. A notare i lineamenti espressivi di un viso inanimato. Ma soltanto a carpire gli orli macchiati delle vesti stracciate, martoriate come il corpo pallido.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L’oblio ancora si dispiegava dinnanzi alle iridi chiare, rimaste nascoste, mentre i sensi avevano con lentezza iniziato a destarsi. Il percezione di intorpidimento, tuttavia, continuava caparbia a imporsi sull’interezza della sua figura. I pensieri, di contro, si rivelarono ancora offuscati e rallentati e spenti, incapaci di fuggire, imbrigliati com’erano nella quasi totale incoscienza.

Rumori delicati a solleticare l’udito; un calpestio leggero quasi echeggiante a sussurrare un sospetto confuso. Quella non poteva in alcun modo essere la cella che lo aveva ospitato negli ultimi periodi, ma per l’Ingannatore i tempi in cui questo segreto sarebbe stato rivelato non erano ancora maturi da permettergli di sapere - complici le facoltà della mente che tardavano a risvegliarlo.

Un sospiro giunse fino a lui, accompagnato da un rumore più marcato di passi che si susseguivano con cadenza regolare mentre, scanditi, si allontanavano per poi avvicinarsi nuovamente.




 

Se avesse trovato le parole adatte a descrivere lo scempio rivelato alla vista, lo sforzo costatogli si sarebbe rivelato immenso, forse comparabile con la vittoriosa battaglia combattuta in gioventù a Svartalfaheimr[1], quando gran parte delle imprese di guerriero che l’avevano reso famoso in tutti i Nove Regni ancora dovevano trovare posto tra i gloriosi ricordi del passato. E, nonostante le atrocità cui era stato costretto ad assistere guidando gli Æsir in eroiche imprese - alcune delle quali impresse nei mosaici che decoravano le volte del palazzo - non poteva negare di essere inorridito nell’avvicinarsi a quella cella annientata dalla furia distruttrice del dio dell’inganno.

I segni della disperazione erano marcati sulle pareti un tempo chiare, mentre impronte trascinate testimoniavano gli spostamenti confusi che l’avevano fatto accostare alla barriera luminescente e terminavano in una larga pozza color cremisi.

Il fermento che aveva infiammato i sotterranei negli istanti precedenti era andato consumandosi, lasciando ora che sguardi biechi - a tratti curiosi, ma sicuramente privi di qualsiasi pietà - si conficcassero nella figura sbiadita del tonante. Perché si era arrischiato in quel tugurio maleodorante? L’aria si faceva pesante e l’ossigeno nuovo e sfuggevole doveva essere sufficiente a irrorare i polmoni di chiunque vi fosse rinchiuso. Invidiati i primi, coloro - Loki compreso - che avevano ricevuto il privilegio di ottenere una delle celle in apertura alla lunga scia di vivai, di teche espositive; graziati, rispetto agli ultimi cui toccavano flebili e ancor più scarsi avanzi.

In scandalosa contemplazione, Thor si arrischiò fino a raggiungere tomi verso i quali riconobbe di non aver mai prestato particolare attenzione, nemmeno da bambino, preferendo piuttosto uscire, allenarsi, fare sfoggio della propria eccezionale forza; e vi scorse, nell’ordine in cui erano stati riposti, la bramosia di conoscenza del fratello, la stessa che gli aveva impedito di spargerne le pagine sul pavimento in un tappeto disordinato[2]. Un principio di sorriso gli raggiunse le labbra, forse rapito da un ricordo di gioventù, e si spense una volta spostato lo sguardo sulla cornice che, oscurando violentemente la piccola parentesi, reclamava prepotente l’attenzione su di sé.

I piedi si mossero, facendogli così compiere un giro quasi completo che gli avrebbe permesso di valutare tutti i danni, poi scosse leggermente il capo e una mano raggiunse il viso fermandosi sotto il naso e coprendo la bocca, ora tesa in una linea sottile, mentre l’altra si appoggiava alla piega generata dal gomito. L’espressione contrita e assorta in mute considerazioni.

Si trovava nelle mani dei guaritori in quell’istante. Portatovi d’urgenza, era stato accolto da visi tirati e sgomenti nel prendere coscienza di un gesto che era evidente non gli appartenesse.

Il Dio degli Inganni, quel fratello con cui aveva combattuto e che gli dava le spalle durante la battaglia in gesto di fiducia, ma contro cui si era anche ritrovato a lottare furiosamente nel tentativo di farlo ragionare, di sopire un orgoglio offeso, di ricucire un torto lungo una vita intera, la sua. Aveva dimostrato di voler rinunciare a ogni cosa, quando sempre le sue azioni erano state spinte dal desiderio contrario, dalla bramosia.

Come può una mente concepire un così drastico e repentino cambiamento? La risposta sfuggiva ai suoi ragionamenti, nonostante la fama dell’Ingannatore derivasse, anche, dall’abilità dimostrata in battaglia nel mutare tattiche e piani e decisioni relativamente ai venti, favorevoli o meno, che sospingevano gli Æsir. Macchinazioni argute e incredibile forza a collaborare garantendo l’ennesima, ma non scontata, vittoria al popolo guidato da Odino.

Lo ricordava aggirarsi tra le tende dell’accampamento con passo sicuro, svelto, e sguardo fiero. Il mantello nuovamente indossato a coprirgli le spalle, avvolgere la schiena, la cui cura e buona fattura andavano a contrastare con i concreti lasciti di un combattimento particolarmente impegnativo, ancora impressi sulla pelle, sulle linee tirate del volto, sull’espressione severa.

Immagine certamente in contrasto con quella che l’occhio della mente[3] ancora gli rendeva possibile visualizzare fervida e vivida a tal punto da risultare a tratti tangibile e spaventosamente reale. Un solco inguaribile paragonato a un marchio usato per rivendicare la proprietà del bestiame.

Era sempre stato il più esile, tanto che quella forza di cui faceva sfoggio a molti era parsa come impropria, illegittima, inaspettata, generando lampi di stupore nei molteplici sguardi che avevano avuto l’onore di assistere anche a uno solo dei numerosi scontri nemici. Imbattuto in rapidità e astuzia, temuto a causa della caratteristica fierezza, prima di allora, mai si era lasciato andare[4], abbandonato al desiderio - forse impostogli con un no - dell’oblio in cui si sarebbe lasciato precipitare.

Più volte era giunto a temere per la vita del fratello, ma in nessuna di quelle occasioni passate aveva dovuto fronteggiare così concretamente il terribile orrore che soltanto il pensiero di perderlo aveva scatenato in lui.

Indugiò a lungo, condividendo la fastidiosa mancanza di aria pulita con i reietti di Asgard. Se ne sarebbe potuto andare. Scappare dall’asfissia di una cella troppo esigua per trascorrerci ciò che in gran parte ancora rimaneva di un’esistenza millenaria. Nessuno lo avrebbe impedito. Chiunque lo avrebbe invidiato; compresi un paio di occhi color del miele che, come altre decine, non avevano smesso di concentrarsi su quel mantello rosso che si adattava perfettamente alle spalle, sul viso contrito in una smorfia che chiunque avrebbe colto come afflizione per due tragedie eccessivamente ravvicinate. E se si fosse invece trattato di colpevolezza? Per averlo lascito solo. Per non essersi sincerato più spesso delle condizioni mentali - emotive - del fratello. Per avergli permesso di rimanere isolato nei propri pensieri, consapevole della mente sottile quanto labile che sempre lo aveva caratterizzato quando erano dolore e delusione ad animarlo, a sopraffarlo. Quando la stessa lucidità di cui poteva fare legittimamente vanto, veniva offuscata da sentimenti esplosivi, a lungo latenti.

Avrebbe interrogato chiunque potesse aver taciuto una scena tanto pietosa e disperata, avrebbe chiesto, importunato, fatto domande. Perché, chiunque fosse stato, aveva tramato, complice con la pazzia, con l’egoismo di chi sceglie di privare il mondo di sé stesso. Aveva osservato con imperturbabile consapevolezza gesti il cui esito si era dipanato con fredda chiarezza linea dopo linea.

Poi un lampo. Una nuova, spaventosa certezza. Quella di un’illusione abilmente tessuta al fine di ritardare una vista atroce, fuggendo il rischio che i pochi ancora liberi da oscure implicazioni con il Dio degli Inganni, potessero sollecitare le guardie a un intervento rapido e organizzato. Probabilmente anche i soli la cui coscienza era priva dai fantasmi di vite spezzate con distacco e indifferenza, i deboli condannati per disperazione piuttosto che barbara ferocia.

Avrebbe indagato. Lo avrebbe fatto. Per capire. Per comprendere. Non in quel momento però. La mente era ancora offuscata dalla tetra sorpresa, confusamente animata dallo slancio che l’aveva spinto a una corsa convulsa per raggiungere quel fratello che gli era stato imposto di ignorare, che aveva scelto di evitare. Fu in grado di riconoscere i contorni di un’indagine tutt’altro che obbiettiva - forse mai lo sarebbe stata, ancora di più se privata della freddezza necessaria al condurla.

Si mosse senza preavviso alcuno e, in pochi passi, la figura di sovrano scomparve, lasciando dietro di sé solamente un’ombra, unico elemento a cui potersi aggrappare.

 




Quanto a lungo aveva indugiato mescolando il rosso acceso del mantello al cremisi del pavimento? Non sarebbe mai stato in grado di stabilirlo ritornato com’era nell’anticamera dalla quale precedentemente era stato allontanato.

Un uomo, che riconobbe avergli prestato più volte soccorso in battaglia, gli venne incontro con urgenza a significare una lunga e tormentata attesa.

Un veloce e ossequioso inchino prima di incontrare gli occhi chiari di un combattente fiero che, tuttavia, soltanto in quel momento, pareva aver conosciuto davvero la paura.

“Vostra Altezza,”

L’Ase seguì in silenzio i movimenti dell’uomo dai tratti stanchi e l’aspetto invecchiato.

“Cosa succede?” chiese allarmato dall’espressione rivoltagli.

“C’è qualche problema?” aggiunse poi, con crescente preoccupazione a tingergli il tono. La riposta tardò fastidiosamente ad arrivare permettendo così all’agitazione di crescere, di allargare la via già battuta verso il cuore.

“Eir[5], per gli dei, parla!” poca la differenza tra l’ordine e la supplica. Inquieta fame da saziare. 

Lo aveva visto solamente un breve istante. Attorniato da guardie e guaritori come a formare una barriera. Battiti improvvisamente irregolari e violenti contro la cassa toracica. 

Non era riuscito ad osservargli il volto. A notare i lineamenti espressivi di un viso inanimato. Ma soltanto a carpire gli orli macchiati delle vesti stracciate, martoriate come il corpo pallido.

La battaglia aveva sempre portato a conseguenze infelici per il fisico, ma mai Loki, principe degli Æsir dal sangue di Jotun, si era lasciato sopraffare a tal punto dalle armi nemiche. Mai le offese arrecate così fragorose da isolarlo in una lotta tanto personale quanto inconscia.

“Sua Altezza non ha ancora ripreso conoscenza,” esordì finalmente con voce tremante. “Ma le cure fornitegli hanno portato frutto; una volta terminate le ultime medicazioni vi sarà possibile vederlo,” concluse abbassando il capo e offrendo così la chioma rossa e folta, ancora priva dai segni testimoni del trascorrere dei secoli.

 “Ti ringrazio, Eir,” concesse Thor accompagnandosi a un gesto grato.

Il più vecchio sorrise vedendo la mano del dio appoggiarsi alla sua spalla esile, allontanandosi soltanto dopo aver porto un sorriso appena accennato.




 

Il tonfo di una pesante porta sbattuta per sbaglio affiancato a una flebile quanto offesa imprecazione non causarono rilesso alcuno nel corpo disteso con ordine a abbandono sul fondo della grande stanza. Le vesti lacere sostituite da un vestiario degno di un principe.

Un rumore di passi che si susseguirono non privi di una crescente esitazione. Pesanti stivali di cuoio a sfidare il rimbombo violento di un ambiente prettamente disadorno di mobilio che non fosse necessario, eppure ugualmente sfarzoso, in linea con il resto del palazzo reale.

Thor indugiò a lungo a svariati passi di distanza dal letto ampio destinato alle primissime fasi della convalescenza.

Lo scrutò attentamente, mentre il petto del fratello si alzava appena e in silenzio, per poi riabbassarsi di nuovo. I lineamenti tesi e appuntiti e taglienti, agitati da invisibili ombre. Le palpebre pesantemente richiuse.

Scosse il capo e si lasciò andare a un sospiro pesante nel tentativo di privasi di una pesantezza opprimente a gravargli sulle spalle.

 




L’oblio ancora si dispiegava dinnanzi alle iridi chiare, rimaste nascoste, mentre i sensi avevano con lentezza iniziato a destarsi. Eppure il corpo non poteva rispondere privato com’era dei comandi di una mente attiva e capace. Il medesimo caos che l’aveva portato ad accasciarsi a terra, ad abbandonarsi in un giaciglio liquido per trovare pace. Improvvisamente l’aveva avvertito pesante macigno sulla propria esistenza. Incapace di controllare, di controllarsi, di dominarsi. Lui che sempre era stato abile manipolatore, com’era potuto cadere - scivolare e cadere - perdersi così? Com’era possibile che una morte come tante mescolasse le variabili della sua esistenza tanto lunga da poter essere definita eterna? Una sola morte. Una sola perdita a fronte di molte.

Il silenzio sporadicamente interrotto dal fremito di movimenti secchi, a tratti impazienti, evidentemente manchevoli dell’adeguata considerazione per le condizioni di incoscienza tra le pieghe delle quali ancora si attardava.
Meglio recuperare un’appropriata lucidità prima di scoprire le carte e lasciarsi importunare da tediose domande e inopportuni chiarimenti. Come se le volontà irrazionali del dio non fossero già state espresse a sufficienza dalle gesta impietose.

Le dita tremarono di un tremito timido e lieve e discreto. Nulla che gli occhi di chi stava attendendo il suo risveglio potessero percepire, talmente grezzi e grossolani. Lo pensò, Loki, fu una delle prime riflessioni di una mente che ha trovato il momento propizio per destarsi. Lo pensò e non poté evitare di ricordare che sempre così era stato. Thor si era sempre rivelato poco attento alle minuzie, persino in battaglia; più propenso all’azione e alla tempestività piuttosto che all’attesa strategica e accorta. Vigile guerriero, le strategie erano sempre state riservate al mago, affiancato in momento di approvazione da Odino in persona. E questo era sempre[6] stato sufficiente. Ognuno si sarebbe sentito indispensabile a modo suo, garantendo la vittoria degli Æsir e favorendo la prosperità di Asgard e del dominio di Odino.

Ma il tempo era trascorso, le dinamiche cambiate; nulla era più come allora, in un susseguirsi fluido e indipendente di eventi che l’avevano portato a svegliarsi ancora una volta.

Ricordava la vista appannarsi in un ultimo atto di resa, i brividi a oltrepassare i confini del corpo, raggiungendo l’interezza delle membra -  un freddo dell’anima più che del fisico.

La pace l’aveva raggiunto nel momento stesso in cui la prospettiva della morte gli si era materializzata dinnanzi.

Tuttavia, i piani sarebbero mutati ancora. L’aveva compreso subitamente dopo l’attimo di confusione che l’aveva colto quando ancora non era sveglio, ma nemmeno addormentato.

Aveva bramato un premio troppo disperatamente sublime per cui le Norne avevano evidentemente filato un’attesa più lunga, ma fortunatamente non infinita, si era detto in uno spiraglio di speranza volta a rincuorarlo brevemente.

Avrebbe comunque avuto occasione per competere con quelle creature che si divertivano a dispiegare la propria fantasia sullo scorrere delle vite altrui. Mai avrebbe smesso di sfidarle. Perché lui era Loki di Jotunheim e non poteva accettare che il suo destino dipendesse da altri se non da sé stesso.

“La vuoi smettere di muoverti? Ne ho abbastanza dei tuoi stivali,” era da tempo, infatti, che il tonante aveva iniziato a intraprendere con costanza il medesimo percorso, nell’attesa di un sempre più vicino risveglio. Si allontanava, per avvicinarsi nuovamente e allontanarsi ancora, in un’idea priva di fine.

Le iridi non erano ancora state scoperte.

La voce arrochita da lunghi silenzi ma sempre decisa; questa volta munita di una sfumatura più lieve di malcelato malessere. Unica concessione da parte dell’Ingannatore.

D’un tratto il silenzio - sicuramente gli stava dando le spalle, ipotizzò - seguito da un calpestio rapido e urgente.

“Finalmente ti sei svegliato, brutto idiota,”

Tono duro? Apprensivo? Quell’appellativo non significava nulla. Cosa voleva esprimere Thor? Rabbia? Fece per dischiudere le labbra in risposta, prima di rendersi conto che le parole non sarebbero uscite. Cosa dire a colui il cui volto era ancora rimasto celato nella luce? Non gli era possibile decifrare l’atteggiamento del dio del tuono senza osservare l’espressione dipinta sul suo viso.

Un pulsare scomposto a sfidare le tempie e furono le palpebre stesse a levarsi, rivelando agli occhi una realtà sempre meno nebulosa, sempre più nitida.

Dove si trovava? Non riconosceva nel soffitto elaborato quello della propria cella. Esso assomigliava piuttosto a quello intarsiato presente nella stanza dei guaritori. I cassettoni lignei ad animare la copertura, impreziositi da finissime foglie di acanto, tanto amato anche dagli abitati della lontana Midgard. Decorazioni dorate a spandere la propria luminosità sino agli angoli, per poi andare a scemare poco a poco che lo sguardo si abbassava sulle pareti.

Troppe similitudini con un ambiente che, nei secoli, era arrivato a conoscere bene - guerra dopo guerra, ognuna combattuta al fianco di Thor, ognuna portatrice di ecchimosi, tagli, fratture più o meno importanti.

Non si mosse. Non parlò nemmeno. La testa gli doleva. Percepiva ogni movimento come bloccato benché qualsiasi tentativo fosse rimasto ancora intentato.

“Parla,” si limitò ad incitarlo con tono fermo, autorevole, degno di un sovrano.

Perseverò nello scrutare attentamente la volta riccamente adornata, riconoscendone momenti vissuti da quegli antenati che non gli appartenevano ma le cui imprese aveva a lungo avuto modo di studiare, rinchiuso a leggere con gli occhi di ragazzo tra scaffalature di volumi talmente estese da apparirgli senza fine.

Un raccolta invidiabile, a cui aveva attinto con insaziabile sete di conoscenza, con un desiderio di sapienza impossibile da soddisfare.

Mosse impercettibilmente il capo, accompagnando così un movimento delle palpebre verso il basso. Il desiderio di ricacciare nell’oblio quei ricordi inutilmente fissati in momenti estranei a tutta quell’irritante preoccupazione fraterna.

Alzo il capo con soltanto un movimento del collo e lo sguardo sfiorò il biondo dei capelli dell’altro.

“Avvicinati almeno, per quanto il soffitto sia interessante sai che odio parlare con chi non posso vedere,” osservò con acidità il figlio di Laufey. Thor non si mosse di un solo passo.

“Per di più si tratta di buona educazione; ah no, dimenticavo, a te non è mai fregato un cazzo,” continuò, provocando un solo soffio in risposta. Nemmeno dopo essersi avvicinato così tanto alla morte Loki avrebbe perso i modi sprezzanti nei confronti del fratello. E, come se non fosse sufficiente, le tempie martellanti non avevano ancora cessato di infastidirlo.

Fece per muovere le braccia, dolorante. Il desiderio di massaggiare la testa con le dita, nel tentativo di alleviare, almeno in parte, il continuo dolore a insistere sul cranio.

Fallì. Si ritrovò, con orrore, ad avvalorare con i fatti quelle che erano nate come mere sensazioni; immobile, incatenato, impossibilitato a qualsiasi attività. 

Serrò le palpebre con stizza.

“Ho provato a farle togliere,” ammise.

“Sei un caprone. Non hai ancora capito che ogni tentativo sarà inutile?” Amarezza, arrendevolezza. La voce ridotta quasi a un sussurro. Aveva appena aperto gli occhi ma era ugualmente esausto.

Si era sempre professato libero quando in realtà mai lo era stato. Che si trattasse di sottostare all’autorità di Odino, o a quella di un alieno viola dai discutibili piani; che riguardasse la prigionia fisica simboleggiata dalle catene o della libertà di crepare in santa pace. Una riflessione acre, una consapevolezza nuova da cui avrebbe potuto riuscire a trarre vantaggio una volta maturati i tempi.

“Inutile come te qui ora,” sottolineò acido conferendo il giusto peso ad ogni parola.

Questa volta l’unica risposta giunse dal silenzio che si abbassò nella stanza, rendendo opprimente l’atmosfera. Assenza di rumori ma non di parole, le cui sorde insinuazioni continuavano a mostrarsi da ogni angolo senza però essere interpretate a dovere dalla voce.

“Avanti dillo,” con un sospiro irritato attirò su di sé un’espressione che qualcuno avrebbe potuto definire confusa, ma in realtà celava soltanto lo stupore per la tanta sagacia che era spettata al fratello; anche senza vederlo, anche non potendolo osservare, l’aveva capito.

“Per amore degli dei fallo. Lo so che le parole ti stanno bruciando in gola e, francamente, la tua insolita mancanza di spavalderia mi sta seccando,” tono apatico, freddo, come se la tematica non lo potesse in alcun modo scalfire.

“Se sai già quello che voglio dire perché non risparmi questo teatrino e non inizi tu stesso a parlare?”

“Perché, a dirla tutta, vederti in difficoltà mi diverte,” una sincerità tagliente e meschina che non sarebbe di certo stata mitigata al più presto. “Il possente Thor…” si lasciò dunque andare a un ghigno sbieco. Contemplativo. Malizioso.

“Perché l’hai fatto?” Le parole uscirono in un soffio, come se, dopo un breve istante di silenzio, non ci avesse pensato, gettandosi in una conversazione che probabilmente non avrebbe trovato alcun riscontro. Il cui finale era già stato deciso, ancor prima che la questione venisse apertamente affrontata.

Perché te lo meriti Loki. È la tua espiazione. Non penserai di poter fuggire alle conseguenze delle tue azioni, vero? Non impari mai… Il ragionamento fuoriuscì silenzioso dalla mente del mago, ma potè avvertirne il suono ugualmente. Una fugace smorfia si formò sulla fronte per poi sparire con la medesima celerità con cui era comparsa. 

Questa volta non puoi scappare, in realtà non l’hai mai fatto, non si può fuggire da sé stessi; è una verità vecchia almeno come le fondamenta di Asgard, come la nascita del primo tra i Nove Regni che Odino controlla.

Un cane, un vile e inutile cane che si morde la coda ripetendo lo stesso, mediocre errore risultando disgustoso persino alla morte stessa.

Le iridi si spostarono rapide. La sua stessa voce aveva pronunciato quelle parole. Le labbra erano rimaste serrate, ma quella voce ignorata da Thor era invece giunta alla sue orecchie.

Che si trattasse del seiðr? Aveva appreso, in una delle letture di ragazzo, che questo avesse la capacità di fluire libero a seguito di un ipotetico e momentaneo indebolimento di colui che abilmente ne possedeva il controllo. Differenti apparizioni ad indicarlo, tra le quali, sicuramente, le manifestazioni di una mente brillante dai retroscena oscuri[7].

“E tu vorresti una risposta perché…?” Dissimulò la propria confusione consapevole che avrebbe dovuto indagare, o quando meno trovare un modo per farlo. I libri di cui aveva bisogno erano proibiti e soltanto con l’inganno e l’astuzia era riuscito ad entrarne in possesso per la prima (e l’ultima) volta. Di certo la sua condizione di detenuto non avrebbe aiutato. “Permettimi un’osservazione banale. Cambierebbe forse qualcosa? Il tempo di riavvolgerebbe? Avresti la possibilità di rimediare e accorrere prima che tutta questa pagliacciata abbia luogo?” nessun rimorso in quelle parole, bensì astio, e una punta di rancore ad accompagnare lo sdegno rivolto al fratello.

Aveva colto nel segno. Loki, l’abile arciere, aveva fatto centro concentrandosi soltanto sull’estrema banalità della domanda ricevuta.

“Permettimi di capire,” continuò il tonante con rinnovata freddezza nel tono. 

“No!” Esclamò ancor prima di vedere se il dio del tuono avrebbe continuato. Urlò accompagnando l’inflessione della voce con un movimento deciso allo scopo di mettersi a sedere. Non gli sarebbe stato possibile, immobilizzato com’era, per duplice ragione: medica e cautelativa.

Si stese nuovamente non senza numerosi ed energici scatti con i quali la sofferenza fisica non fece che aumentare.

Thor osservò la scena in silenzio prima di decidersi ad aprire bocca. “Loki smettila,” era abituato a tali repentini cambiamenti di atteggiamento.

“Tu non vuoi capire, ti rifiuti di farlo, troppo immerso nelle cazzate che Odino ti racconta per ingannarti. Di chi credi sia la colpa per quello che è successo?[8]

Si avvicinò a passo deciso, fino giungere a lato del letto. 

“Allora rispondi, perché ti sei fatto questo?” Le iridi chiare si incontrarono, si scontrarono e l’onda d’urto colpì entrambi. “Cos’altro può spingere l’orgoglioso Dio degli Inganni a un gesto tanto estremo? 

“Tu, Loki, capisci? Tu che per primo ammetti di volere tutto, e improvvisamente sei pronto a rinunciare a ogni cosa”

Gli sguardi non smisero di sfidarsi, rimanendo a lungo legati in una sorta di sfida. Mentre uno era impegnato nel tentativo di nascondersi e dissimulare, l’altro era impegnato nella lettura di quegli occhi verdi ammantati dall’ira. Doveva capire.

“Le prospettive cambiano. Tutto è un concetto relativo,” chiosò inacidito limitandosi a poche parole. Doveva riprendersi, affidarsi nuovamente al solito contegno austero e freddo che in più occasioni si era rivelato utile per non scoprire tutte le carte, per non mostrarsi troppo, mantenendo quella sottile nebulosa utile a confondere e irretire e manipolare con le giuste macchinazioni per imporre la sua di verità, fabbricata a dovere all’apposito fine di giungere ai propri scopi.

Il tonante indugiò ancora qualche breve istante prima di ritrarsi volgendogli le spalle.

“A breve sarai nuovamente portato in cella. Ti lascio riposare,”

“Avrei potuto farlo se nessuno mi avesse disturbato mentre ero rinchiuso laggiù,” frase dura, molto, troppo. Gelida. Parole che lasciarono Thor avvilito, inorridito da tale oscuro commento. Deluso.

Anzi, chi aveva avuto la brillante idea di disturbarlo? Se lo chiese Loki, mentre, nel silenzio ininterrotto, lo sguardo pesava ancora sulla schiena della fratello. Prima o poi l’avrebbe fatta pagare a chiunque aveva auto l’ardire di mettersi in mezzo.

“Basta” concluse il degno di Asgard e, incamminandosi verso la massiccia porta, proseguì “sarai sorvegliato a vista, e non appena Eir lo confermerà, verrai trasferito,” dopodiché, pochi passi ancora e scomparve lasciando un nugolo di armature dorate a dispiegarsi fino quasi a circondarlo, mentre lui emetteva un sospirò carico di soddisfazione in un ghigno di scherno, chiudendo gli occhi.

Ma quello che vide non gli piacque affatto.




 

“Fammi parlare con le guardie che l’hanno soccorso,” intimò cupo a un servitore. I passi erano rapidi e lunghi ed egli faticava a seguirne il ritmo in una frenesia che aveva il sapore di corsa.

Avrebbe forse dovuto parlare con Odino, ma a quale scopo? I rapporti tra i due si erano irrimediabilmente tesi, non avrebbe sicuramente portato a nulla di utile. D’altra parte PadreTutto era già stato chiaro in merito. Il trattamento di favore Loki lo aveva già ricevuto con le comodità riservategli in cella, non avrebbe di certo ottenuto altro. Anzi, qualsiasi cosa potesse essere usata come arma contro gli altri o sé stesso sarebbe stata sistematicamente eliminata.

Una scenata del genere non si sarebbe più dovuta ripetere. 

“Una scenata?” Aveva chiesto Thor con voce che ancora tradiva il profondo turbamento che l’aveva scosso. Non poteva essere finto. Non aveva di certo studiato un inganno così crudele.

Stiamo parlando di Loki, Thor, ricorda che i suoi precedenti non fanno che comprovare la mia tesi[9]. Le parole di Odino erano state una dura sentenza, provocando un profondo risentimento nel legittimo erede a cui sarebbe spettato l’Hliðskjálf[10], dall’alto del quale veniva osservato dall’occhio impietoso del sovrano.

No, non avrebbe potuto cercare conforto nella figura paterna. Il colloquio si sarebbe irrimediabilmente rivelato inconcludente. Si ritirò dunque nella tranquillità delle proprie stanze, nell’attesa del colloquio appena richiesto al servitore che gli si era affiancato al suo richiamo.

Voleva capire. Doveva farlo; per trovare pace, per riuscire a comprendere i sentimenti del fratello, per trovare il modo di aiutarlo.

Non poteva trattarsi di facezie, di capricci, di meri inganni. Non giunti a quel punto. Non quando l’indizio cardine lo avevano tutti dinnanzi. Entrambi avevano sempre provato un affetto speciale nei confronti della madre, eppure, lo stesso Thor si accorse di quanto tale legame aveva sempre significato nell’esistenza di Loki che senza eccezione alcuna - più o meno apertamente - vi si era rifugiato, alla ricerca di quella stessa approvazione che il padre stentava a concedergli.




 

Quando riaprì gli occhi ebbe la sensazione di essersi assopito. Si sentiva stordito, come a seguito di un lungo riposo. Non aveva nemmeno avuto la possibilità di rendersene conto. Inizialmente il vuoto lasciato dalle palpebre abbassate era stato riempito da immagini spiacevoli alle quali era seguito l’oblio più profondo. La totale assenza di pensieri. Il fisico aveva ceduto, troppo provato dalla tensione e dall’affaticamento dovuti alle opere corrosive compiute dal dio stesso, nonostante avesse ripreso i sensi soltanto pochi minuti prima.

Non si svegliò di soprassalto, ma agitato, per nulla tranquillo. Le iridi erano bene in vista, la tensione a trasparire dal verde limpido.

I soldati erano rimasti fermi, immobili. L’oro delle armature a riverberare in tutta la stanza, sommandosi a quello di miglior fattura del soffitto intarsiato.

Silenzio. Si ritrovò a chiedersi quando sarebbe stato spostato. Quando la luce del giorno sarebbe tornata ad essere soltanto un ricordo sempre più sbiadito con il trascorrere dei secoli, nella peggiore delle opzioni. Ma era certo che, con la giusta attesa, le condizioni sarebbero volte in suo favore.

Non poteva scappare da sé stesso, bene, sarebbe scappato da Asgard, terra inospitale per chiunque non vi appartenesse per legame di sangue. Legame negatogli una volta appresa non solo la verità sulle vergognose origini, ma anche sulle egoistiche intenzioni di Odino che, per primo, aveva anteposto le proprie brame di potere e controllo al bene di un bambino la cui sola certezza era la metà regale delle sue origini. Se le esili forme avevano sancito la sua condanna a morte, il sovrano degli Æsir non si sarebbe dovuto permettere di sconvolgere un destino già tessuto dalla Norne.

Quello era stato l’esatto momento in cui, emerso l’oscuro segreto, l’immagine di principe astuto era stata sostituita da quella di un corpo azzurro tenuto abilmente ed inconsapevolmente celato.

Gli occhi dei soldati attecchivano alla sua figura indebolita. Si sentiva esposto, comprensibilmente a disagio. Controllato a vista. Questo doveva sicuramente essere stato l’ordine imposto dal Padre di tutti gli dei. E ovviamente quei semplici tirapiedi non avevano esitato nel attenersi a direttive tanto assurde. Come avrebbe mai potuto liberarsi, immobilizzato com’era su un letto di malattia?

Smise di osservare il soffitto e compì l’unico movimento concessogli, voltò il capo da un lato.

L’attesa si sarebbe presto rivelata più lunga dello sperato.




 

Movimenti concitati. Tintinnii prepotenti ad avvicinarsi all’enorme porta intarsiata degli appartamenti del dio. Un pesante fragore a interrompere congetture e pensieri, ad avvicinarsi per aprire a una mezza manciata di uomini che aspettavano in rigida attesa.

Li ricevette nello studio riccamente arredato, adiacente alle proprie stanze da letto. Non era mai stato un grande frequentatore di quegli spazi. Il massiccio legno del tavolo si presentava poveramente adorno di lettere ricevute da lontano e spoglio di qualsiasi altro elemento.

Le guardie si disposero ordinatamente, seguendo i movimenti di un erede che, al proprio tempo, si sarebbe rivelato un sovrano molto amato.

“Cosa è successo là sotto?” Una richiesta chiara espressa con severità e tinta di preoccupazione. L’attesa di una risposta certa, immediata, dovuta. Parole da pronunciare irrimediabilmente per placare una sete profonda.

“Vostra Altezza,” iniziò esitante il primo. “Nei sotterranei vi è sempre un gran trambusto,” era evidente che stesse cerando le parole più adatte per proseguire.

“Dopo la vostra visita c’è stato un episodio, uno solo, in cui vostro fratello si è risentito, con toni molto accesi, dopodiché non abbiamo più visto nulla,”

E così gli raccontò di come Loki avesse insistito per vedere la madre, di come si fosse offeso al mancato avviso riguardo il termine della cerimonia funebre, devastando persino gli interni della propria cella; di come si erano allontanati dopo essersi assicurati che si fosse calmato ricomponendo gli arredi con un trucco.

Secondo quelle parole esitanti era tutto tornato al proprio posto, normale. Nulla che destasse preoccupazione o sospetto.

Erano guardie esperte, se ci fosse stato motivo per indagare riguardo un atteggiamento poco limpido se ne sarebbero sicuramente accorti. Allora com’era potuta verificarsi una simile messinscena? Non era un semplice prigioniero, colui che era rimasto coinvolto, ma Loki, Loki di Asgard, suo fratello e sorvegliato speciale delle prigioni. Nessuna negligenza sarebbe stata tollerata, l’aveva detto Odino, assicurando il giusto peso ad ogni parola dall’alto dell’Hliðskjálf dorato dal quale raramente l’aveva visto separato.

“Siamo accorsi subito quando abbiamo sentito gridare,” aveva aggiunto il più giovane catturando l’attenzione del dio che lo osservò con occhi interrogativi in una tacita domanda.

“Una ragazza, è stata una ragazza a chiamare aiuto,”

“Una ragazza? Quale colpa pende sulla sua testa per essere rinchiusa tra i più pericolosi criminali di Asgard?” 

E tutti capirono che compreso, tra le ombre della domanda, c’era anche quell’abile arciere che una voce femminile aveva salvato.

Nessuno rispose. Nessuno sembrava sapere.

Thor si affrettò dunque a congedare i cinque uomini. Molte incognite a formarsi tra i suoi pensieri a bruciargli sulla lingua. Doveva ricevere quelle risposte tanto agognate.

I passi si mossero rapidi e, in pochi minuti, la scalinata percorsa, il vivaio aperto, a mostrarsi in tutta la sua lugubre interezza, davanti agli occhi.





 

Sembravano trascorsi infiniti momenti da quando era stato lasciato solo con quel manipolo di idioti. La luce proveniente dall’esterno iniziava pian piano ad affievolirsi e lui era ancora lì, sullo stesso letto, con la stessa posizione e l’opprimente consapevolezza di non avere la possibilità di cogliere quello spiraglio di libertà che era andato creandosi.

Il silenzio e solo la voce dei propri pensieri a riempirlo. Da che ricordasse era sempre stato un gran pensatore, ma in quegli istanti infiniti, per la prima volta, questa caratteristica sembrò pesante macigno sulle spalle. La testa gli doleva ancora e avrebbe preferito il vuoto piuttosto che l’attività di mille elucubrazioni geniali e affilate. La sue mente era impegnata in costanti macchinazioni tanto da fargli desiderare finalmente un attimo di pace assoluta.

Chiuse gli occhi e si mantenne immobile. Per un attimo soltanto trattenne il respiro. Poi lo lasciò andare. Esausto. Possibile che non gli fosse concesso nemmeno il diritto al sonno?

Con fatica si impegnò nel mantenere il controllo, non era il momento di cedere, non una seconda volta. Si chiese se faceva tutto parte di una strategia che continuava a sfuggirgli da quando i sensi l’avevano nuovamente accolto nel loro stretto abbraccio o davvero si fosse lasciato andare in quel modo così vergognoso, di fronte agli occhi di tutti.

Il filo logico gli sfuggiva e tale mancanza di controllo assoluto lo agitava fastidiosamente. Se solo si fosse potuto muovere, anche soltanto per raggiungere le tempie con i polpastrelli gelidi, se si fosse potuto nascondere nei complotti dei suoi magheggi per risparmiarsi alla vista di quegli uomini indegni che mai avevano rivolto lo sguardo altrove da quando era stato permesso loro l’ingresso. Ma nulla di tutto questo era successo né sarebbe mai stato permesso.

La paura era tanta, saturava l’aria e Loki ne era consapevole. La sentiva, la percepiva. L’atmosfera era tesa, la possibilità di una fuga elevata. Il Dio degli Inganni era temuto, gli effetti del combattimento su Midgard ancora evidenti, le sue brame per reclamare un potere a cui aveva diritto dalla nascita mai sopite. 

Si lasciò andare a un silenzioso sospiro arricciando poi le labbra. Questo il prezzo del fallimento, un carcere interminabile privo di qualsiasi tipo di stimolo. Un baratro per le facoltà mentali che avrebbe dovuto allenare da solo nel tentativo di fuggire a un secondo atto di follia, qualunque esso fosse.

Non si sarebbe lasciato andare, non lo avrebbe premesso. Estraniato, come i reclusi da più tempo - la maggior parte sul fondo dell’enorme stanza sotterranea - dalla realtà; rinchiuso in un limbo di squilibrio e insensatezza che non avrebbe portato a nulla di simile all’agognato finale, onorevole e degno, che si era prefissato di raggiungere quando sarebbe stato il momento (no, lui era libero, non avrebbe mai accettato l’idea che fossero le Norne a controllare il dispiegarsi della sua esistenza). Esattamente l’opposto del gesto estremo che aveva compiuto.

Nuovamente la stessa domanda. Si era lasciato andare a un pericoloso atto di sconsideratezza o faceva tutto parte di un piano le cui trame gli stavano momentaneamente sfuggendo? 

Il medesimo quesito a tormentargli la mente stanca, a segnargli i lineamenti affilati, a percorrere le membra costrette su un letto impostogli con la forza.

Una risposta fuggevole che non si sarebbe offerta molto presto, il cui fantasma avrebbe impegnato i ragionamenti del mago per lungo, lunghissimo tempo.

L’ultima lama di luce filtrò tra le palpebre appesantite e non ci volle molto prima che scomparisse in un poetico saluto - più sicuramente un malinconico addio. Da quell’istante, l’oscurità.

Nessuno avrebbe potuto più percepire i cambiamenti del volto, i lineamenti mutevoli e piegati in una smorfia nascosta. Indecifrabile.

Si rivolse verso il polso immobilizzato stringendo un pugno che non poteva vedere ma solo sentire, mentre le unghie si conficcavano nella carne tenera del palmo.

Non emise rumore, non quando, finalmente, gli era stato concesso di agire nascosto tra le sfumature del buio. E, per quanto si fosse scoperto sinceramente grato per i raggi che era riuscito a scorgere dall’ampia vetrata della stanza che dava a ovest, riconobbe molto più funzionali quei momenti di oscurità assoluta o quasi. 

Le prime candele erano state sapientemente accese da un’ancella che non aveva scorto, ma della quale aveva udito i passi leggeri e il delicato fruscio delle vesti sottili. Era stata esitante nel lasciarsi il corridoio alle spalle. Aveva avuto paura. Paura del Dio degli Inganni. L’aveva capito dal respiro trattenuto il più possibile nell’angoscia di condividere l’aria con il più temuto criminale di Asgard, dai movimenti rapidi per svolgere il suo lavoro con celerità e liberarsi dall’impiccio di un incarico indesiderato e scomodo.

Una sola guardia si era voltata per osservarla entrare, distraendosi un breve momento che, se avesse avuto la possibilità, sarebbe bastato a Loki per agire, acuto e rapido e scaltro.

Ora le neonate fiammelle tremolavano, proiettando incombenti ombre armate e incupite sulle pareti rese ambrate dal fuoco. Una danza che sapeva essere sinuosa e sgraziata, rapida e lenta, immobile e dinamica.

E le iridi furbe si persero in quei passi improvvisati e mai ripetuti, isolandosi dal rumore che il rimbombo della propria voce gli creava nella testa.




 

Odino avrebbe certamente chiesto spiegazioni. E lui sarebbe stato in grado di rispondergli. Di provare la legittimità di tale predisposizione. Perché Loki non aveva finto, anche se si affaccendava affinché trasparisse il contrario. Non si trattava di una semplice messa in scena al fine di impietosire gli ultimi familiari rimasti, seppur non imparentati da legami di sangue. Quella morte aveva scosso a tal punto il dio dagli occhi verdi che la sua mente ne era rimasta sopraffatta e, annebbiata, l’aveva spinto ad agire seguendo vie che mai gli erano appartenute - nonostante la mutevolezza dei suoi piani - e che, in un unico e unigenito spasmo, l’aveva portato a contraddirsi. A condannarsi. Nella vita ancora lunga che lo attendeva non sarebbe ricapitato una seconda volta. 




 

Un nuovo e fastidioso rumore lo scosse da invisibili danzatori.

Nessuna parola. Solamente un cenno del capo che fece smuovere le guardie tutte. Tuttavia, i passi pesanti Loki li aveva riconosciuti quando ancora solcavano il pavimento del corridoio amplificati dall’alto soffitto.

“Non mi saluti nemmeno, fratello?”

Uno sguardo torvo in risposta che il dio non esitò ad accogliere.

“Cos’hai? Prima volevi tanto parlare,” pronunciò distrattamente quella frase, come se non l’avesse appositamente studiata per metterlo a disagio.

“Odino ti ha forse sgridato?” Continuò dopo che le guardie l’avevano portato in posizione eretta. Poggiare a terra i piedi indolenziti fu come medicina, dopo essere stato costretto per ore in una posizione tutt’altro che naturale.

Vide finalmente Thor che assottigliava gli occhi, renderli due fessure pronte a studiare ogni particolare del fratello, a interpretarlo.

Il figlio di Jotunheim, dal canto suo, aveva già da tempo imparato a riconoscere ogni mutamento nel comportamento del tonante che ora gli stava dinnanzi. I passi più pesanti e marcati, rapidi. I tratti severi nell’espressione del volto. I pugni stretti. Il corpo teso nella sua interezza. Atteggiamento tipico adottato a seguito di una discussione con il condottiero degli Æsir.

Non distolse lo sguardo, gli occhi continuarono a scontrarsi. A sfidarsi. A cercarsi nella speranza che l’altro cedesse, che uno dei due si arrendesse, consapevoli però che la resa non era mai stata incisa tra le pieghe della loro natura. Semplicemente, non aveva mai fatto parte di loro[11].

Sguardi familiari. Che non si spezzarono nemmeno quando il movimento venne imposto a ritmo dei passi delle guardie.

“Nel giro di pochi giorni dovresti stare meglio,” concluse Thor in un drastico cambio di argomento, alludendo così alle ferite che ancora dovevano affrontare una completa guarigione.

“Non fingere. Recitare la parte del fratello premuroso non ti si addice,” pronunciò tagliente quanto l’espressione del volto prima di essere scortato nell’ampio corridoio, anch’esso riccamente decorato.

Fastidiosi tinnuli provenienti dalle armature dorate scanditi ad ogni piede che si anteponeva a quello precedentemente mosso.

Non incontrarono nessuno. Probabilmente Odino aveva dato l’ordine di tenere sgombro il percorso. Oppure le voci erano circolate in fretta e tutti i servitori erano corsi a nascondersi pur di non incontrare i crudeli occhi del dio dietro ai quali si credeva fossero nascosti malvagi e oscuri inganni recitati in silenzio. Molte erano le leggende che vorticavano avvolgendone la figura come satelliti. E proprio questi strati di incertezza permettevano all’Ingannatore di muoversi, di agire, di essere mutevole ed imprevedibile. Non gli era mai interessato smentire le voci né le congetture spaventate, spaventose.





 

Perso nelle proprie riflessioni non seppe dire se il percorso era stato rapido o eterno ai suoi sensi. 

Quell’aria così viziata non gli era mancata per nulla. Entro pochi, brevi, istanti, ebbe l’irritante sensazione di non poter più riempire i polmoni di ossigeno liberamente. Quell’azione così naturale e inconscia diveniva pensiero costante per chiunque scendesse quella scalinata resa scura dall’umidità e dal materiale scadente.

L’andatura rallentò bruscamente. Percepì gli occhi di tutti puntati verso un unico fulcro, lui. Espressioni rabbiose, di rancore, alcune compiaciute di rivederlo lì, altre, inspiegabilmente, divertite. Ma, ben presto, sarebbe stato tutto molto più chiaro, soltanto che lui ancora non poteva esserne certo.

Decise comunque di non rivolgere lo sguardo altrove, in cerca di indizi, preferendo piuttosto mantenerlo fisso dinnanzi a sé, con fare fiero di sovrano, consapevole del sangue reale che gli scorreva nelle vene, sebbene intriso di vergogna e indegnità per un regno che era crollato sotto l’operato di Odino. Entrambe inette le figure paterne che gli erano spettate, seppur per differenti motivazioni.

Le guardie lo fecero voltare sul lato. Ora le spalle davano su una schiera di celle stracolme, mentre gli occhi si chiusero in due fessure dalle quali un’espressione acuta e curiosa, infastidita, si diramò fino a raggiungere l’interno di quella cella costituita da lati lunghi pochi passi. Numero che mai diminuiva, né aumentava.

E a quell’attimo di esitazione la risposta fu un brusco spintone che gli fece raggiungere un’ambiente diverso da quello che gli sembrava di ricordare.







Angolino di Ishouldgoaway...
Eccomi! Finalmente sono tornata e confesso che ho atteso a lungo questo momento. Per il primi giorni dopo la pubblicazione di quello che è divenuto il primo capitolo ho pensato a questa storia come autoconclusiva. Poche migliaia di parole in cui esaurirsi. E invece, con grande stupore, sono stati proprio quegli avvenimenti a urlarmi di dare una conlcusione degna a ciò che avevo iniziato.
Dunque eccomi qui. Non prevedo molti capitoli, ma comunque non è ancora finita. Portarvi questa nuova pare mi rende particolarmente felice, per cui, cari lettori e care lettrici, se vorrete farmi sapere il vostro parere a riguardo io ci sono, che vi leggo e vi sono grata.
Grazie a chi dedicherà del tempo anche in silenzio, senza farsi vedere, perchè per me è sempre molto importante.
Ve se ama!






[1] Inventata da me. Ho inoltre trovato che Svartalfaheimr e Niðavellir possono essere identificati come la stessa cosa in quanto la questione alle spalle è poco chiara - nell’Edda di Snorri la terra dei Nani viene chiamata Svartalfaheimr, mentre nella Völuspá si parla di Niðavellir. Dunque mi prendo la licenza poetica di separarli e trattarli come due mondi separati.

[2] Su THW si vede il contrario, anzi, il pavimento è proprio ricoperto da pagine stracciate. Mi prendo una licenza poetica per fare qualche modifica riguardo alla trama che l’MCU ha riservato all’Ingannatore.

[3] Ebbene, per chi non l’avesse riconosciuto, questo è un richiamo alla meravigliosa poesia I Wandered Lonely As A Cloud - conosciuta anche come Daffodils - che ci è stata gentilmente lasciata da W. Wordsworth. Nell’ultima strofa si parla proprio di questo inward eye, di un occhio interno, quello della mente, che ci permette di rivivere ciò che è già divenuto passato nell’immaginazione.

[4] Eh no, qui le cose sono andate in modo un po’ diverso. Loki non ha mai lasciato la presa, lascio all’immaginazione capire com’è andata tenendo in conto che gli eventi l’hanno comunque portato a New York e da lì in cella.

[5] In origine Eir sarebbe una dea, la Dea della vita capace di resuscitare i morti. A lei è anche attribuita l’arte delle erbe medicinali. Sembra che insegnasse alle donne gli incantesimi di vita, soltanto a loro, e che rigenerasse la salute di tutte coloro che la cercavano.

[6] In queste frasi “sempre” viene più volte ribadito. Si tratta di un espediente voluto.

[7] Tra i poteri del seiðr vi erano quelli di prevedere il futuro oltre che dispensare morte, sventura e malattia. Una magia molto potente basata sul concetto di comunicazione con gli spiriti e i morti. Quello che ho scritto io è una macchinazione della mia mente che non riscontra fondamenti se non nella trama stessa.

[8] L’ho detto nel primo capitolo che il dolore si tramuta anche in senso di colpa e questo porta a tutto ciò. Ma ricordiamo che Loki è un dio mutevole. Bisogna essere in grado di discernere i comportamenti e le parole. Non gioca mai a carte totalmente scoperte.

[9] Appositamente si tratta di discorso indiretto libero.

[10] Trono su cui siede Odino e dal quale gli possibile osservare tutti i mondi.

[11] Ripetizioni volute.



Questo giro ci sono davverto tante note e vi prego di perdonarmi se qualcosa non dovesse funzionare, ma sto ancora capendo bene come fare. Prima o poi ci riuscirò.



 

   
 
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