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Autore: time_wings    04/04/2022    1 recensioni
[Post-Apocalypse!AU - AtsuHina, ship strane a sorpresa]
L’aria è irrespirabile e il mondo di sopra non è che un ricordo amico del sole. Sparsi in giro per il Giappone ci sono rifugi sotterranei, evoluzioni impreviste delle città. Atsumu, che non ha mai davvero imparato a vivere una vita che non è vita, scopre tramite un collegamento radio scadente che tutto quello che ha creduto per quattro anni non è vero.
Scappato dal rifugio grazie al quale è sopravvissuto fino ad allora, incontrerà Shouyou, un Viaggiatore del mondo di sopra, che lo accompagnerà in un viaggio di oltre quattrocento chilometri, attraverso un mondo ostile che credeva più buio.
Genere: Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Osamu Miya, Shouyou Hinata, Tetsurou Kuroo, Tooru Oikawa
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Disclaimerino: Questa storia NON si ispira, in nessuna delle sue fasi, a possibilità reali. NON è il risultato di romanticizzazioni o estremizzazioni di tragedie e catastrofi e non è stata pensata come un 'what if' della vita vera. Per questa ragione non sono presenti spiegazioni o approfondimenti sulle cause dell'Apocalisse.

 







La luce dentro al tunnel è una lampadina

 

 

 

I. il Canto del Sottosuolo


La quattromilacinquecentosedicesima goccia viaggiò dalla tubatura al pavimento di pietra. Una depressione nella roccia lasciava intendere che lei ne aveva contate molte di più, nel corso del tempo, che per il pavimento non erano nel 4516 d.C. (dalla Conta), tanto il tempo da solo non contava e non lo contavano più neanche loro.
Pareva di stare nella cassa di risonanza d’una chitarra sul fondo del mare: ogni suono riverberava tra le pareti del rifugio, accompagnato da un riflesso acquoso ed echeggiante.
Era il Canto del Sottosuolo.
Lo chiamavano così perché era la più imprevedibile delle musiche. Una pietruzza che veniva spostata su un lato del rifugio poteva far viaggiare il suo suono lontanissimo e apparire nelle vesti di una nota fantasma nel discorso di qualcun altro.
Se si fossero resi conto molto tempo prima, quando ancora erano lassù, che ogni suono, ogni gesto, ogni sguardo era collegato ad altri mille più concretamente di quanto lasciassero intendere le commedie romantiche, forse non sarebbero mai finiti così. O forse ci sarebbero finiti prima.
Atsumu si passò una mano nei capelli e chiuse gli occhi, la lampadina verso cui era voltato gli impediva di vedere nero. Un retrogusto spettrale di quella luce si insinuò sotto le palpebre, ma non restituì calore.
Da quando era successo, ognuno aveva scelto una ragione strana e personalissima per impazzire e per Atsumu erano le lampadine. Aveva collezionato già due casse e mezzo di lampadine. Ogni tanto ne provava una diversa e gli sembrava di sperimentare una cosa simile all’imprevedibilità del tempo meteorologico. Era sempre a caccia di lampadine gialle, ma, per quante ne provasse, nessuna riusciva mai a scaldargli il viso.
Nessuna era mai come il sole.
“Ehilà, Tsum Tsum” Bokuto entrò nella stanza e Atsumu non aprì gli occhi. Rimase fermo dov’era, con le braccia incrociate dietro la testa e la speranza appoggiata sulle labbra. Udì un primo tonfo di attrezzatura pesante abbandonata in terra e un secondo poco più tardi, che suggeriva che Bokuto si fosse lasciato cadere sulla brandina. Un cigolio poco incoraggiante lo confermò.
Poi, prima che Atsumu potesse capirlo e fermarlo, Bokuto spense la luce.
“Ma che diamine fai?!”
Aprì gli occhi di scatto e distinse solo la sagoma di Bokuto in penombra scrollare le spalle. “Tanto non funziona, no?”
“No, hai ragione” si mise a sedere, orientandosi in quella luce appena lattiginosa proveniente da chissà dove, per fingere di guardare il suo amico in faccia. “Andrò a cercarmi il sole vero.”
“Per oggi le spedizioni sono finite.” Bokuto esitò nella forma di un respiro troppo compassionevole, per i gusti di Atsumu. “E per te sono finite due settimane fa.”
Atsumu distinse un riflesso negli occhi di Bokuto e abbassò lo sguardo come se questo l’avesse frustato. Poi si sporse su un lato e riaccese la luce di una lampadina che aveva già fallito.
 
Due settimane prima, il Canto del Sottosuolo era cessato di colpo con la stessa violenza delle cose a cui ci si abitua senza saperlo. Come il ronzio costante di un computer che tace una volta spento, Atsumu si era accorto all’istante che non volava più una mosca. Aveva udito il Canto del Sottosuolo affievolirsi mentre due del gruppo ruotavano un manubrio d’acciaio e spifferi d’aria corrotta iniziavano a soffiare impazienti dall’esterno, poi lo aveva udito morire del tutto quando aveva poggiato lo stivale sull’ultimo piolo della scala di metallo e si era issato oltre il tubo d’entrata.
I silenzio di una Terra spacciata si era mescolato al suono costante del suo respiro, amplificato dal respiratore. Aveva guardato gli altri e, per un attimo, gli erano sembrati alieni, con i volti distorti dalle maschere.
Rampicanti di ghiaccio si aggrappavano ovunque gettasse l’occhio, la città era una sola grande discarica. Vegetazione che erano stati ripetutamente messi in guardia dallo sfiorare cresceva sulle insegne spente dei negozi e nelle crepe dei palazzi ancora in piedi. Una fitta coltre di nubi e polveri soffocava il cielo.
Atsumu aveva rabbrividito.
Si erano iniziati a muovere in quella città fantasma, esploratori di un pianeta che aveva perso ogni familiarità e cercava di ucciderli per ripicca. Kita camminava avanti al gruppo, reggendo un aggeggio che fischiava acuto come un metal detector secondo un principio che Atsumu non aveva mai capito, ma che aveva a che fare con le radiazioni.
Bokuto gli aveva messo una mano su una spalla per invitarlo a fermarsi un attimo, per fare una serie di controlli che non spettavano ad Atsumu.
Lui era lì perché la missione più impellente era ripristinare la connessione radio con i rifugi esterni alla prefettura, dopo anni di isolamento, e serviva che mettesse le sue conoscenze a servizio della Squadra di Esplorazione.
Aveva lasciato scorrere lo sguardo sulla città in rovina e l’inverno perenne di cui era stata vittima insieme al resto del mondo. Aveva iniziato a ricordare le foto che si erano diffuse all’inizio con la neve sulla torre Eiffel, la neve sul Cristo Redentore, la neve sul Colosseo, la neve sul Taj Mahal.
E poi l’aveva visto.
Appena un’ombra nella nebbia densa che bruciava i polmoni.
Si era mosso verso di lui incredulo e aveva battuto gli occhi un paio di volte perché, anche se ne era sempre stato convinto, avere ragione gli era all’improvviso sembrato un trucco della speranza più che della logica.
“Tsum Tsum?” la voce di Bokuto era distorta, falsa, quando davanti aveva l’unica persona al mondo che avrebbe voluto mai sentir parlare.
Non indossava una maschera. Perché non indossava una maschera?
Aveva iniziato a correre, non gli avevano detto niente sul piangere col respiratore, quindi aveva cercato anche di evitare, gli occhi gli erano sembrati troppo secchi e troppo umidi insieme. Gli pareva di aver bevuto particelle universali, un cocktail di adrenalina e speranza e orgoglio e vittoria che aveva sentito solo prima di tutto quello schifo e che non ricordava più. Gli sembrava la formula positiva dell’ansia.
Alzò un braccio. “‘SAMU!”

Non indossava una maschera. Perché non indossava una maschera?
Forse stava morendo, forse non respirava più.
Atsumu si era slacciato la cinghia che legava la sua, di maschera, sotto il mento, poi aveva messo mano a quella dietro la nuca. A un passo dal liberarsene, si era ritrovato a terra, schiacciato dal peso di Bokuto e con le sue mani in faccia.
Atsumu aveva lottato. Un occhio a suo fratello, l’altro alle mani di Bokuto. Aveva alzato una gamba e aveva iniziato a colpirlo con un ginocchio alla base della schiena, litigando con le sue mani per riuscire a slacciarsi la maschera.
“Sta morendo, cazzo, non respira.”
Non respira!
Bokuto non gli aveva risposto e aveva riassicurato la cinghia sotto il mento, mentre lui continuava a opporglisi.
“Levati di torno o ti ammazzo” aveva gridato Atsumu. Sapeva che Bokuto era più forte di lui, ma aveva provato comunque ad afferrargli la gola.
“Tuo fratello è morto.” Bokuto gli aveva impedito di sollevarsi e avere la meglio su di lui. “Non c’è nessuno lì.”
Atsumu aveva smesso di colpo di lottare, gli occhi fissi in quelli di Bokuto, oltre il riflesso della sua maschera, spalancati perché un solo sguardo contenesse sia la realtà a cui credeva di essersi abituato negli ultimi quattro anni, sia la speranza che non gli aveva mai davvero lasciato la mano. Poi si era voltato verso Osamu, il tronco di un albero mozzo aveva risposto irriverente alla sua disperazione.
“Spostati” aveva detto Atsumu, calmo, continuando a fissare il punto in cui avrebbe giurato di aver visto suo fratello e Bokuto l’aveva lasciato andare, perché doveva aver sentito i cocci dell’illusione infranta.
Atsumu era rimasto seduto, il suolo freddo e la neve candida raccolta nelle pieghe dei vestiti e sulla superficie dell’attrezzatura. Aveva abbandonato le braccia sulle ginocchia e la testa in mezzo, fissando i fili d’erba aridi e irriconoscibili.
Bokuto l’aveva raccolto da terra e l’aveva riportato dagli altri.
“Come si ripristina il collegamento radio?” si era limitato a chiedere Kita, dando un’occhiata alle immagini dell’impianto rotto dell’ultimo sopralluogo. Atsumu aveva fatto cenno con un braccio davanti a loro, come per spingerli a muoversi in quella direzione, anche se non aveva la più pallida idea di come orientarsi lassù. Aveva mosso solo un passo in avanti, poi Kita aveva sollevato il braccio e gli aveva impedito di proseguire. “Come si ripristina?”
Atsumu era forse un po’ stravolto, ma non era stupido. “Non lo so, lo devo vedere.”
Neanche Kita era stupido, però. “Non credo.”
Atsumu si era avvicinato, in cerca di una privacy completamente inutile, perché li avrebbero sentiti tutti comunque. “Andiamo, è stato un errore, non lo farò più.”
“Avevi detto niente cazzate.”
“Ti giuro che sembrava…”
“La gente pensa che si impazzisca stando nei rifugi. Il vero inferno è quassù, l’abbiamo sempre saputo, ma ce lo siamo dimenticato. Ti ho dato una possibilità e l’hai sprecata.” Il suo tono era rimasto calmo, freddo e metodico come un coltello ben affilato, che lui aveva sempre avuto dalla parte del manico. Ma aveva gli occhi pieni di riflessi, sfaccettature di un pianto che non piangeva e che gridava senza gridare che avevano già perso Osamu, non avrebbero perso anche lui.
“Non ti dirò come riparare la radio.” Atsumu sapeva che era un capriccio, ma aveva fatto di tutto per uscire e avrebbe fatto di tutto per restare.
“Troveremo un modo.” Kita aveva fatto un segno a Bokuto, poi un altro agli altri, per proseguire la missione.
Poi Atsumu era stato riportato nel rifugio J-14 da Bokuto, attraverso tubi e camere isolanti e gli erano state vietate uscite future nei mesi a venire, nonostante le sue competenze.
 
“Io non andrò in missione per un po’,” disse Bokuto. Non si preoccupò di spegnere nuovamente la luce della lampadina di Atsumu, si lasciò cadere comodamente sul suo letto, gli occhi chiusi e l’inverno nucleare ancora dietro le palpebre. “Così possiamo stare tuuuutto il tempo insieme!”
“Non sono sopravvissuto all’Apocalisse per essere punito così.”
Bokuto schiuse un occhio. Era una delle sue mosse più pericolose. Atsumu provò a scivolare via dalla sua stessa brandina, ma lui lo afferrò per un braccio per indire un incontro straordinario di wrestling amatoriale.
 

Il rifugio J-14, in quasi tre anni e mezzo dalla catastrofe nucleare che aveva messo in ginocchio il mondo intero, era diventato più che altro una città sotterranea, come tutti gli altri rifugi.
Il famoso Orologio dell’Apocalisse aveva raggiunto la mezzanotte, scampanellando sul mondo il suo infausto destino e, quando l’umanità restante si era rintanata nel sottosuolo, le lancette dell’orologio erano tornate indietro di parecchie ore e le persone avevano chiuso il caro vecchio consumismo nei libri di storia e avevano preso a vivere come in un’isolata cittadina di campagna.
Il Sottosuolo era composto un po’ da tutto quello con cui si erano trovati quattro anni prima e da tutto quello che avevano prodotto o scambiato con gli altri rifugi del Kansai. Erano stazioni di metropolitane, stanze scavate in previsione del disastro, fondamenta di palazzi che poi erano crollati, tunnel che erano diventati strade, strade che erano diventate serre sotterranee, serre che erano diventate stanze comuni, perché non c’era spazio a sufficienza per dare a tutti una casa. C’erano bambini di tre anni che non avevano mai visto la luce del sole. Pareti antiradioattive isolavano questo ecosistema miracoloso dalle radiazioni, filtri per acqua e ossigeno impedivano loro di soffocare e morire di disidratazione. Ogni settimana venivano testati i livelli di radioattività della popolazione e dell’ambiente nel rifugio. Atsumu avrebbe riconosciuto quei sensori anche al buio e a occhi chiusi solo per come vibravano.
Quella sera, però, cedette ai capricci di Bokuto e prese posto accanto a Sakusa, sulla brandina di qualche altro ragazzo che viveva con loro. Consegnò il tubetto colorato a Bokuto e tenne per sé il piccolo contenitore colorato. Si portò quest’ultimo al viso e annusò.
Faceva un po’ schifo.
Bokuto non si curò dell’odore e spalmò un po’ di quella roba in faccia a entrambi, occupandosi rigorosamente prima di Sakusa, perché altrimenti avrebbe alzato polveroni infiniti sul numero di germi di Atsumu sul tubetto e sul contenitore. Atsumu credeva fosse un’idea molto stupida, visto dove dormivano e dove vivevano, ma se lui collezionava cassoni di lampadine, Sakusa poteva illudersi che esistesse qualcosa di simile all’igiene personale, laggiù. D’altronde ognuno cercava la normalità nella follia che sembrava più ragionevole. 
Bene, a quel punto erano diventati alberi di Natale. Bokuto mosse un passo indietro per rimirare il lavoro che aveva fatto sulle loro facce. “Siete suuuuper radioattivi.”
Atsumu sorrise e gli strizzò l’occhio.
“Ora tocca a me” Bokuto balzò sul letto di fronte e contemporaneamente lanciò l’occorrente ad Atsumu, che fu costretto a restituire il favore.
 
Da qualche parte forse c’era un pianeta che gli scienziati avevano snobbato. Avevano fatto le loro analisi indirette ma apparentemente efficaci, gli avevano dato un nome simile a un codice di recupero della password del Wi-Fi e l’avevano lasciato a prendere polvere nell’archivio dei pianeti scoperti ma poco interessanti. Quel pianeta forse era immerso nel ghiaccio, soffocato da nubi e gas irrespirabili e ricoperto di laghi di metano. Quel pianeta forse non era stato troppo diverso dal loro, un tempo, e le creature che ci avevano vissuto l’avevano solo cambiato prima di quanto avessero fatto loro. Quest’idea che gli alieni non venivano sulla Terra perché gli umani erano insopportabili ad Atsumu non era mai andata giù. Perché anche gli alieni non potevano essere una merda? Perché non potevano esserlo di più?
Atsumu legò gli angoli del panno in un fiocco e suonò il campanello legato al filo davanti alla stanza in cui viveva la signora Koy. Dopo qualche secondo lei scostò la tenda viola e rossa che faceva da porta e raccolse il pacchetto dalle mani di Atsumu.
“Grazie, ragazzo. Sono sempre felice quando sei di turno tu in cucina.”
Atsumu le sorrise cordiale e si inchinò.
“Dico davvero, forse non tutto quello che fai è commestibile – la signora Koy era una tipa molto onesta – ma i tuoi onigiri sono da capogiro, dico sul serio. Quando ho sentito che i ragazzi avevano portato il riso dai rifugi vicini ho pregato che ci fossi tu in cucina, dico davvero.” La signora Koy diceva sempre tutto sul serio e tutto davvero.
Atsumu la guardò, il gelo e l’isolamento del rifugio J-14 lo investirono di colpo. Aveva vissuto per anni in una cella frigorifera e se ne rendeva conto in una manciata di secondi di squallida quotidianità. Il mondo era finito, lui era vivo perché il suo cuore continuava a battere e i suoi polmoni a respirare, ma il resto era bruciato insieme alle margherite, poi si era raffreddato come magma a contatto con l’inverno. Ibernato in una realtà in cui poteva essere solo la metà di se stesso, ad Atsumu era rimasta un’ironica abilità a preparare onigiri. “Grazie” riuscì a pronunciare in un suono stretto quanto la mascella che aveva contratto.
“Dico sul serio, dove hai imparato?” La signora Koy girò l’angolo della stanza in cui viveva e prese a liberare una mensola di cianfrusaglie per far posto alla cena che le aveva portato Atsumu. Lui, però, fece l’unica cosa che dal giorno in cui era nato non aveva smesso di fare neanche con l’Apocalisse di mezzo: lo stronzo. Gettò un occhio a una delle mensole della signora Koy (le mensole per lei dovevano essere come le lampadine per lui), sfiorò per un attimo il vetro di una bottiglia di tequila, poi la afferrò senza rimorso e se la infilò nello zaino. Senza pronunciare una sola parola, sparì oltre la tenda della sua stanza, padrone di tutto il fottuto Sottosuolo. Dalla stanza della signora Koy, sentì ancora la sua voce debole dire: “Vi ho visti andare tutti in giro con quella pittura in faccia, ma, dico davvero, che intenzioni avete? Mi raccomando, non…” poi la voce della vicina si unì al Canto del Sottosuolo e forse raggiunse il barattolo di lucciole del piccolo Koda.
 
“Oh, andiamo” Sakusa non si sforzò di gridare sopra la musica, ma si irritò comunque quando tutti si avvicinarono a lui per sentire che aveva detto. Un classico intramontabile. “Non potevamo farlo da un’altra parte?”
Bokuto si allontanò e allargò le braccia. “E dove?”
Aveva ragione e aveva anche torto.
Suna aveva collezionato casse e stereo e aveva imparato da qualche tempo a posizionarle in maniera che qualunque area del rifugio potesse trasformarsi in una discoteca. Il tema di quella sera era la discoteca al buio, perché qualcuno aveva reperito della pittura fluorescente per dare quell’aroma di mutazione genetica che effettivamente mancava a tutti. In realtà Atsumu andava pazzo per l’idea, il problema era il luogo in cui era stata messa in pratica. In un rifugio in cui anche dieci persone venivano costrette a condividere un solo spazio, la privacy era presto diventata un lusso limitato a quei preziosi momenti che si passavano in bagno. Rimanere chiusi per tre anni e mezzo in un buco a prova di catastrofe nucleare, il sole una strana presenza limitata alle foto, aveva richiesto la creazione di una stanza più sbarazzina, un’addizione curiosa al Canto del Sottosuolo.
“Sakusa ci è venuto dentro un sacco di volte, per questo l’ha riconosciuta subito” disse Atsumu. Non ebbe bisogno di urlare.
Gli altri scoppiarono a ridere.
“Va’ a farti fottere, Miya.”
“Mi piacerebbe, ma qui ci sei sempre tu e questa è l’unica stanza adibita esattamente a questo.”
Bokuto si lasciò andare a una fragorosa risata. “Andiamo a sederci là” disse, conducendoli verso un divano sgangherato in un angolo.
“Sì” commentò Sakusa, sarcastico. Davvero, era assurdo che fosse sopravvissuto all’Apocalisse.
“Attento a non distruggere la coltura di spermatozoi” aggiunse Atsumu, aprendo la zip del suo zaino. “Comunque stasera vi ho portato una vera delizia.”
Ci fu un giro di ooooh ammirati, quando Atsumu tirò fuori l’oro liquido dallo zaino, ovvero la bottiglia di tequila che aveva rubato alla signora Koy.
“Ma dove l’hai trovata?” Bokuto gliela sottrasse. Aveva gli occhi spalancati, il che, in aggiunta al trucco – straordinario, secondo Atsumu – che aveva in faccia, faceva uno strano effetto selvaggio. Senza attendere davvero una risposta, Bokuto stappò la bottiglia. Era piena per i tre quarti, ma era comunque un lusso.
 
Dopo, chissà come, Atsumu ci era finito comunque, sul divano.
Si sporse in avanti, allungando il braccio verso la scatola adibita a tavolo, afferrò il suo bicchiere di latta e lo sbatté un paio di volte sul ripiano, in onore dei tempi in cui si poteva accompagnare quel gesto a una manciata di sale e di limone. Invece bevve la tequila rimasta nel bicchiere tutta d’un sorso e si lasciò cadere contro lo schienale del divano, gli occhi rivolti su un soffitto da quattro anni sempre troppo basso.
Espirò.
Gli sembrò lo stesso suono che due settimane prima aveva sentito sotto la maschera: stagnante, rimbombante. Seguì il percorso di un faretto in quel buio, il modo in cui si attaccava alle macchie di pittura sulla pelle degli altri, la maniera con cui si spezzava in altre luci quando incontrava la superficie curva dei pochi bicchieri di vetro ancora in giro.
Inspirò.
Trovò un po’ di forza e si alzò di scatto dal divano. La testa gli girò, crudele promemoria dei bicchieri di tequila, poi scivolò in un torpore per cui la stanza cominciò a ondeggiare.
“Quanto hai bevuto?” gli domandò Sakusa, spuntato dal nulla. Atsumu gli guardò le labbra umide per aiutarsi a comprenderlo.
“Non abbastanza,” rispose e gli sorrise sfacciato.
Sakusa alzò gli occhi al cielo, così poco divertito da far credere che quello che avrebbe fatto di lì a poco fosse stato il risultato di una minaccia. Lo prese per il polso e si guardò attorno, per qualche ragione, poi superò una coppia di fan sfegatati della canzone che Suna stava facendo suonare dall’altra parte della stanza. Atsumu sapeva che erano fan sfegatati perché stavano urlando-cantando e saltellando in giro. Li imitò per cercare di capire come ci si sentisse. Sakusa se ne accorse e lo osservò; l’ombra di un sorriso si disegnò sulle sue labbra.
Lo condusse in fondo alla stanza, dove le mura si aprivano per far spazio alla galleria per cui passava il treno, un tempo. I binari di giorno facevano da arteria centrale del rifugio e spazio comune, nella zona in cui si trovavano un tavolo lungo e varie poltrone e divani. Ai lati del tunnel si aprivano le aree di controllo e l’insieme di camere di isolamento da attraversare in successione per chi entrava e usciva dal rifugio.
Lì il Canto del Sottosuolo si mostrava in tutta la sua accozzaglia di toni e timbri.
Sakusa lo spinse contro il muro della galleria. Atsumu lo guardò studiarlo col viso inclinato, mentre si mordeva una guancia dall’interno, distorcendo la linea dritta della pittura fluorescente di Bokuto.
 
Era successo per la prima volta all’inizio della fine dell’Apocalisse. Sakusa era arrivato nel rifugio J-14 dopo di lui. A quel tempo i sopravvissuti non erano sicuri che avrebbero continuato a esserlo per molto e i rifugi, ancora senza nome, non erano organizzati nel villaggio turistico a pensione completa che sarebbero diventati negli anni successivi. Dormivano da soli nella stessa stanza perché non c’era ancora stata necessità di organizzare quel posto per età e famiglie. Sakusa aveva passato i giorni prima di entrare nel rifugio in isolamento e Atsumu gli aveva fatto trovare accesa la lampadina che al tempo era la sua preferita. Non per fargli un piacere. “Se ne rompi una ti uccido” gli aveva fatto sapere subito, infatti. Sakusa aveva fatto spallucce e si era seduto sulla sua brandina con la stessa cura e attenzione che avrebbe avuto Atsumu nel salotto della regina Elisabetta al fottuto Buckingham Palace, poi si era messo a fissare il vuoto, le labbra separate appena, come attorno a una parola morta.
Più tardi, quella sera, Atsumu si era seduto accanto a lui, avevano fissato il muro in silenzio senza sfiorarsi neanche una volta, poi Sakusa si era voltato di scatto, la lampadina che disegnava una mezzaluna di luce nei suoi occhi scuri. “Che stiamo facendo?”
Atsumu gli aveva sorriso, risparmiando un angolo della bocca, perché sollevarlo ormai gli costava troppo. “Sopravviviamo” aveva detto poi, la voce appena più che un soffio. Gli aveva guardato le labbra per qualche attimo di esitazione, poi l’aveva baciato. Era stato un gesto egoista a cui Sakusa aveva risposto con altrettanto egoismo.
Era stato un urlo muto al retrogusto di: ‘guarda, tu sembri appena sceso dalle montagne russe dopo una cena da ventisette portate e mio fratello è morto e il mondo adesso fa silenzio, il che fa quasi più paura del suono che faceva mentre esplodeva e tutte le cose che conoscevo adesso non le conosco più, perché magari un giorno sarò vecchio e vorrò portare i miei nipoti nella gelateria in cui prendevo sempre il gelato da piccolo e dove credevo davvero di non essere visto quando spruzzavo un batuffolo extra di panna in cima al mio cono, ma non potrò girare l’angolo e scoprire con disappunto che adesso ci hanno fatto un negozio di tessuti africani mentre i miei nipoti mi chiederanno dove sia il gelato, perché ai miei nipoti dovrò dire che la gelateria era nel mondo di sopra e loro mi chiederanno cos’è un gelato, perché nessuno si sarà mai messo a reinventare una cosa tanto futile, per quando saranno nati. Quindi ti prego, ho davvero bisogno di distrarmi, in questo momento’.
Sakusa forse non aveva avuto niente da dire o forse la testa di Atsumu era stata così piena e ammassata di pensieri molli che non era riuscito a sentirlo disperarsi almeno quanto lui. Era stata la cosa più straziante e sporca che avesse mai fatto in vita sua.
Avevano fatto sesso solo un’altra volta, due giorni dopo, poi avevano smesso perché avevano scoperto che non si sopportavano.
 
Gli passò un dito sulla pittura sulla guancia e Sakusa lo guardò spalmarlo col pollice sul resto del polpastrello. Gli occhi di Atsumu scattarono nei suoi, poi sollevò un sopracciglio. “Che vogliamo fare? Stare qui tutta la notte?”
“Non ci penso proprio.” Sakusa gli slacciò la cintura e lo spinse su un gruppo di cuscini poggiati a ridosso dei binari. Di solito ci si sedeva un signore che si faceva chiamare Ocean.
Atsumu aspettò che si unisse a lui, ma non accadde mai. Sakusa aggrottò le sopracciglia e lo guardò negli occhi, pensieroso. Atsumu ricambiò perplesso il suo sguardo.
Sakusa si succhiò il labbro inferiore, in un ‘mhhh’ incerto, poi disse: “Ho bevuto troppo, devo fare pipì.”
Atsumu scoppiò a ridere.
“Due minuti” disse Sakusa e Atsumu annuì perché tanto sarebbero tutti morti lì, alla fine di quei giorni tutti uguali.
Si mise a sedere più comodamente sui cuscini, fissando le luci intermittenti di una stazione in cui un tempo le persone transitavano e non organizzavano feste improbabili truccandosi con pittura fluorescente. Nella vita precedente doveva aver preso anche lui uno di quei treni, osservando con occhi distratti quella stazione passargli davanti in un turbine di colori che si mischiavano e si sovrapponevano. Un tempo doveva aver guardato l’orologio con impazienza, maledicendosi mentalmente per aver preso il treno così tardi – come al solito. Adesso era cristallizzato in quella stazione, una realtà senza tempo, in un luogo di mezzo originariamente pensato per passare e non per restare.
“Oh, ciao” una voce alla sua sinistra si insinuò in quel silenzio. I cuscini accolsero un altro passeggero con un fruscio.
Atsumu si voltò e si ritrovò a fissare Aran negli occhi. Erano un po’ più lucidi dei suoi. “Ciao” il saluto lasciò spazio a un tono interrogativo.
“Non sopportavo più la musica.”
“Ma sei stato tu a dire a Suna come far funzionare l’impianto.”
Aran fece spallucce e calciò una pietra che si era ritrovato tra i piedi. Andò a sbattere contro un binario. Il Canto del Sottosuolo rubò avido quel suono metallico e se lo portò via.
Rimasero in silenzio a guardare il soffitto bombato della galleria. Da qualche parte, la musica di Suna faceva vibrare il terreno a ritmo costante. La voce di qualcuno si mischiò a quei suoni, le parole rese irriconoscibili dal viaggio. Gocce di umidità inciampavano contro mura, binari, scodelle, letti e persone, affascinanti e invisibili come i segreti meglio mantenuti.
“Da ieri è operativa,” disse Aran all’improvviso e Atsumu sentì il suo sguardo su di sé, incerto come se stesse sondando un terreno friabile, come se lui fosse sabbia.
“Cosa?”
“La radio” disse Aran, contratto al punto che Atsumu poté percepire il peso sui cuscini sollevarsi appena. “L’abbiamo aggiustata insieme a quelli del J-21, quando ci siamo incontrati per scambiare riso e verdura.”
“Okay.”
Non era Atsumu ad esser sabbia, non era lui il terreno friabile. Aran era cauto perché Osamu era in quella conversazione ed era sempre Osamu a essere polvere, dissolto e consumato al punto da non poter neanche fare da concime per piante in un mondo che non aveva più germogli. Aran l’aveva visto perdere la testa, rincorrere un fantasma che non si era mai palesato e Atsumu si sentì un cretino, al pensiero.
“Non avercela con Kita per averti rispedito indietro, l’ha fatto perché ti vuole bene.”
Atsumu incrociò il suo sguardo per un attimo, poi tornò a fissare le macchie strane sui cuscini del signor Ocean. Per fortuna Sakusa non le aveva viste.
Annuì, fingendo di capire.
Aran gli mollò un pacca su una spalla e su quella si appoggiò per rimettersi in piedi. “Hai la cintura slacciata, comunque.”
Atsumu si guardò la patta dei pantaloni. “Lo so,” disse soltanto, poi Aran sparì nella stessa direzione da cui proveniva la voce di Bokuto. In genere, Atsumu aveva imparato che era quella giusta.
Aspettò che Aran fosse tonato dentro, poi si alzò incespicando e si avviò nella direzione opposta alla voce di Bokuto, la testa gli girava ancora. Si allacciò la cintura sbadigliando, il ronzio di elettrodomestici post-apocalittici si unì al suo silenzio.
Prima che potesse pensarci meglio, galleria e binari erano già spariti. I cunicoli si fecero più sottili, pensati più per usi pratici che per comfort e vivibilità. Passò l’infermeria e il pannello di controllo con il generatore di energia elettrica. Una musica di bip e bzz si diffuse nel corridoio. Atsumu svoltò a un bivio, una luce dorata si diffondeva oltre una tenda gialla. La scostò piano e si trovò in una piccola stanza circolare, illuminata a giorno da una lampada a cui, in altri contesti e situazioni, avrebbe volentieri sottratto la lampadina. Su un tavolaccio di legno, una cassa nera era connessa a cavi e fili di mille colori e dimensioni.
Atsumu strinse le labbra, allungò una mano e con un dito schiacciò il tasto di accensione.
Una lancetta rossa si sollevò all’interno del suo semicerchio, spie rosse e verdi si accesero a intermittenza e, un attimo dopo, la radio prese vita per la prima volta dopo quattro anni e si connetté a una stazione che trasmetteva le ultime notizie sulle temperature dell’inverno nucleare. La voce costante di un uomo sulla cinquantina sembrava provenire da un altro tempo, antica come un disco di vinile di un nonno di cui si iniziava appena a sentire la mancanza.
... 3 gradi Celsius, pare. Di tanto in tanto la temperatura si innalza fino a sfiorare i 7, ma molto dipende dalla penetrazione della radiazione luminosa e dall’interferenza con raggi…”
Atsumu cambiò stazione. Questa saltò un paio di volte e poi sembrò stabilizzarsi.
“... La posta del cuore del rifugio J-43! Sappiamo che gli amici del 42 si aspettano grandi dichiarazioni, ma sapete com’è fatto Satou, proprio non ha fegato di raccontare tutta la verità.” Atsumu aggrottò la fronte. A quanto pareva il fatto che il suo rifugio non avesse avuto la radio per tutto quel tempo aveva fatto eccome la differenza! Erano stati isolati in un mondo di isolati, mentre gli altri rifugi conducevano programmi simili a una sorta di antenato della televisione. “Andiamo, Satou, guarda che Rin aspetta solo te, non va da nessuna parte… Be’, anche perché non potrebbe, se non vuole morire contaminata.” Atsumu rise in uno sbuffo, poi cambiò ancora stazione.
“Benvenuuuuti a Cucina con noi!” la voce energica di un ragazzo lo costrinse a non cambiare stazione. “Era da un po’ che non trasmettevamo un episodio per…” la connessione saltò e si interruppe un paio di volte. Per qualche secondo si agganciò persino al programma di un altro rifugio e un paio di accordi di chitarra si sovrapposero alla voce incomprensibile e distorta del ragazzo pieno di energie. “... qui dal rifugio J-77. Io sono Hinata Shouyou e lui è… Bene, per... vi mostreremo come preparare… ehm, un momento, cosa prepariamo?” il segnale saltò di nuovo. Atsumu iniziò a capire perché: il rifugio J-77 era lontanissimo dal suo. Il mondo, lassù, era distrutto al punto da rendere pressoché impossibile una comunicazione via radio che superasse qualche decina di chilometri, figurarsi quelli che separavano il rifugio J-14 dal J-77. Questo Shouyou era simpatico, ma ascoltarlo parlare così a scatti iniziava a diventare snervante. Atsumu fece per cambiare stazione, quando qualcosa ghiacciò l’aria che respirava, ridusse la luce a un puntino e gli tolse il fiato, perché a parlare non fu Shouyou: “Prepariamo gli Yatsuhashi, stasera, sono… tipico della regione da cui…
Atsumu fissò la radio come se gli avesse appena comunicato che avevano cambiato una volta per tutte il risultato di due più due in cinque. La gravità si annullò, i cavi fluttuarono, lui fluttuò. Tutto, tranne la radio, che diffondeva a sprazzi frequenze identiche a quelle della voce di Osamu Miya.
Morto.
Morto per infezione respiratoria in seguito ad avvelenamento acuto da radiazioni e lasciato a morire perché troppo pericoloso per l’incolumità altrui. Atsumu era stato trascinato via a forza, mentre pregava che gli venisse data una maschera per respirare. ‘Non potete lasciarlo morire! Non respira!’ aveva gridato almeno venti volte.
Il fatto era che potevano. L’avevano fatto altre milioni di volte, per tutte le vittime del fallout radioattivo, per tutti quelli che non si potevano salvare e a cui non si poteva concedere più il lusso di essere accompagnati fino alla fine e onorati nella morte.
Cadaveri e scarafaggi. Non era rimasto altro lassù.
Gli ingredienti principali dovrebbero essere facilmente reperibili più o meno in ogni rifugio, anche se la cannella potrebbe costituire un problema in alcune zone.
Atsumu scosse la testa e tentò di stamparsi bene in mente l’albero mozzo per cui era quasi morto due settimane prima, ma era impossibile concentrarsi su quell’immagine mentre Osamu elencava gli ingredienti per preparare gli Yatsuhashi.
Sono certo che la troveranno!” Shouyou si intromise nella spiegazione. La sua voce sorrideva.
Atsumu si riscosse e diede un’occhiata ai fili. Si lanciò oltre la postazione radio e recuperò un microfono e il suo cavo a spirale. Per sicurezza, si procurò anche una cassetta tutta antenne e regolatori di frequenze. Armeggiò con radio, cavi e microfoni. Intanto, Shouyou e Osamu stavano ancora discutendo di ingredienti e utensili. Poi Atsumu schiacciò un tasto sulla cassetta con le antenne e si avvicinò al microfono. “‘Samu?”
La connessione saltò, la radio ronzò a intermittenza, poi si ricollegò alla stazione del rifugio J-77. “... altri 30 ml di acqua…” riprese a dire Osamu, strascicando la voce.
Atsumu arricciò il naso, infastidito, poi batté forte il microfono contro il tavolo, perché quel dannato programma era registrato e il rifugio era troppo distante per sperare in una connessione.
Forse Atsumu non era completamente sobrio, ma quello era Osamu. La voce poteva essere alterata dal dispositivo, il segnale poteva saltare anche trenta volte, le comunicazioni potevano essere compromesse, ma l’ondata di fastidio che aveva provato al sentire quel tono seccato era in grado di provocarla una sola persona al mondo e quella persona era Osamu.
Era una connessione intima che sapeva trascendere il segnale radio, i chilometri, le radiazioni e a quanto pareva anche la consapevolezza di una morte.
Era suo fratello.
Ma perché diamine non l’aveva cercato, se era vivo?
Prese a rovistare tra cavi e cassetti e afferrò un foglio grande ripiegato più volte. Sollievo, incredulità e impazienza si erano tradotte in un’elettricità statica che gli faceva tremare le mani. Dispiegò la mappa sul tavolo e si armò  di pennarello, gli occhi scandagliavano febbrili la carta, in cerca del rifugio in cui si trovava Osamu. Alcuni rifugi erano segnati a mano, altri erano stampati, c’erano mille frecce di diversi colori e mille tratte da percorrere dalle Squadre di Esplorazione. Atsumu impiegò almeno cinque minuti a sorvolare con lo sguardo tutti i rifugi del Giappone.
Poi lo trovò.
Cerchiò la zona apparentemente anonima in cui si trovava il rifugio J-77 con il pennarello, poi spense la radio, scollegò il microfono e intascò la mappa.
Tornò nella galleria della metropolitana, consapevole che quella volta sarebbe andato via.






 
Note rozzeCIAOOOO sono tornata con un'altra Atsuhina, benvenuti benvenuti prego fate come se foste a casa vostra.
Vorrei sapere cosa sto facendo, ma la verità è che non lo so. Il genere non mi è mai piaciuto ma all'improvviso mi è preso questo schizzo e ho iniziato a scriverla mentre letteralmente stavo scrivendo un'altra storia, lo stile ("STILE" AH-AH SAME ENERGY DI UN SEME CHE SI FA CHIAMARE FIORE) è un po' sballonzoloso perché non scrivo da mesi e mi sento come quando da bambina andavo sui pattini e dovevo passare almeno tre ore a ricordarmi come si faceva, invece per l'accuratezza scientifica ci affideremo alla parte "fanta" di "fantascientifico". Siamo qui perché ho dato un esame che è tipo il feto di questi argomenti e quindi ho detto: "ok, facciamo la storia su quello che invece NON era nell'esame e quindi NON so", perché ci piace stare le ore notturne a leggere articoli scientifici ipotetici.
Comunque niente, questa storia secondo me durerà tipo 4 o 5 capitoli e nonostante siano così pochi questo è comuuuunque fortemente introduttivo e non si è capito come c'entri Hinata, MA VOI VI FIDATE DI ME? NO? BRAVI.
Grazie per esservi prestati a cotanto potenziale mal messo in pratica, ci si vede PRESTOH
El.

 
   
 
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