Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Joy    05/04/2022    1 recensioni
“Dovresti tornare a Paradis, Jean.”
Glielo dice Armin in una serata soffocante di fine estate, una di quelle in cui i venti provenienti dal mare non possono nulla sull'afa del continente. Glielo dice di fronte a due bicchieri intatti e sotto la disapprovazione bonaria dell'oste che non sa niente della loro reticenza nel mandar giù un ormai innocuo sorso di vino.

[JeanxMikasa, scritta per l'Easter Calendar gruppo Facebbok Hurt/Comfort Italia]
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Jean Kirshtein, Mikasa Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Joy Inblue

Fandom: Attack on Titan

Personaggi: Jean/Mikasa (mourning ship, pre-ship)

Tag: Ambientata dopo il finale

 

Scritta per l'Easter Calendar, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia

 

Prompt: X ha sempre saputo una cosa che Y teneva nascosta, tornare a casa, albero, acqua calda, pioggia.

 

 

 

 

 

Dove trovo te, dove trovi me

 

 

 

 

“Dovresti tornare a Paradis, Jean.”

Glielo dice Armin in una serata soffocante di fine estate, una di quelle in cui i venti provenienti dal mare non possono nulla sull'afa del continente. Glielo dice di fronte a due bicchieri intatti e sotto la disapprovazione bonaria dell'oste che non sa niente della loro reticenza nel mandar giù un ormai innocuo sorso di vino.

Non che quello sia l'incubo peggiore con cui hanno a che fare, le occhiaie che Armin sfoggia da due mesi a questa parte, ne raccontano alcuni per i quali -Jean ne è sicuro- si strapperebbe il cervello dal cranio se le sorti politiche mondiali non fossero quasi interamente sulle sue spalle.

Schiocca le labbra in un dissenso istintivo e posa il gomito sulla balaustra della terrazza: dalla strada sottostante proviene un moderato brusio.

“Dovresti farlo tu” replica.

Armin non solleva neanche lo sguardo, continua a fissare il porto -ciò che è stato ricostruito- e l'orizzonte che si estende a filo dell'acqua impossibilmente immobile.

“Sai che non posso” risponde, “l'equilibrio delle trattative è davvero precario” si passa una mano sul volto e sospira, “ma tu e Connie potete andare, le vostre famiglie vi aspettano.”

“Paradis è anche casa tua” gli fa notare. Ma in realtà lo capisce, non c'è un luogo in cui tornare e deporre il peso che si portano sulle spalle: la loro casa è da ricostruire al pari di tutto il resto.

“Tornerò anch'io” assicura Armin, “ti chiedo solo di precedermi” solleva lo sguardo e finalmente lo guarda negli occhi, “e di assicurarti che Mikasa stia bene.”

Stare bene.

Come se qualcuno di loro potesse farlo.

 

***

 

Piove quando arriva a Paradis e lei è esattamente dove gli aveva detto Armin, nel distretto di Shiganshina, sotto un albero che fa da monumento al suo dolore.

Lo vede arrivare, Jean non si aspettava niente di meno da lei, eppure c'è qualcosa di rigido nella schiena che appoggia al tronco, nelle braccia abbandonate lungo i fianchi; qualcosa che desta allarme, come se non potesse muoversi, o non le importasse farlo.

“Mikasa” la chiama avvicinandosi e lei gli rivolge uno sguardo vuoto.

Sente i propri piedi affondare nella terra pregna d'acqua e quando la raggiunge, il fango che li ricopre ingoia anche le sue ginocchia.

Non le chiede cosa stia facendo, sa bene che nessuna risposta sarà mai più calzante di un semplice sto soffrendo, e che qualunque cosa possa dirle non servirà a rendere il dolore meno intenso, ma la pioggia l'ha quasi inzuppata e sebbene le temperature siano ancora alte, la pelle, sotto il palmo che le ha posato sul braccio, è gelida.

“Da quanto tempo sei qui, sotto la pioggia?” chiede, ma lei chiude gli occhi senza un cenno e volta il viso dal lato opposto.

Ha la sciarpa di Eren attorno al collo, stretta in volute pesanti che sembrano quasi soffocarla, e Jean l'ha provata sulla sua stessa gola, quella assenza di fiato che segue la perdita di chi si è amato.

La prova ancora, per la verità, anche se sono passati tanti anni.

La sente ogni volta che si corica indossando la casacca di Marco, quella che portava nei giorni di licenza e che lui non ha avuto il coraggio di riconsegnare alla sua famiglia, dopo Trost.

A volte fa male al punto di non sentire altro, nemmeno la voce degli amici.

Forse è per quello che le porge la mano senza dire niente, che rinuncia alle frasi di circostanza come:“Eren non avrebbe voluto questo” e che al suo testardo rifiuto di muoversi o anche solo di guardarlo, risponde affondando ancor di più le ginocchia nella terra.

“Va bene” sussurra togliendosi la giacca e posandogliela sulle spalle. “Adiamo solo ad asciugarci e a mangiare qualcosa” propone “poi torneremo qui.”

E qualcosa cambia nella rigidità della sua posa, Jean avverte il guizzo improvviso che la scuote dal torpore e la spinge per la prima volta a guardarlo davvero.

“J..Jean?” mormora.

“Non dovrai stargli lontana per molto” rimarca lui, “te lo prometto.”

L'aiuta a sollevarsi, anche se è malferma sulle gambe e dopo qualche passo traballante, peggiorato dalla melma, si risolve a prenderla tra le braccia.

Che abbia silenziosamente compreso la perdita che li accomuna è l'unico motivo per cui non si ritrova uno stivale piantato in mezzo alle gambe, Jean ne è sicuro.

Contro la sua spalla, il respiro caldo di Mikasa lo inonda di nostalgia: è passato tanto tempo da l'ultima volta in cui si è preso cura di qualcuno in quel modo, secoli da quando si è permesso il privilegio di stringere a sé il corpo di un altro, senza nascondere l'affetto nei suoi confronti.

“Hai lasciato solo Armin...”

Il sussurro flebile gli raggiunge a malapena l'orecchio e nonostante questo Jean riesce a distinguere un filo di rimprovero nella sua voce.

“È stato lui a mandarmi da te” replica. “Era preoccupato.”

Questa volta contro la stoffa della sua camicia s'infrange un lieve sospiro: “Certo” mormora. “Come volete.”

E sembra quasi rilassarsi contro di lui, nel momento in cui si sgrava a voce alta del peso del suo stesso volere, adesso che non è più costretta a compiere una scelta.

Come quella che ha ucciso lei, prima di Eren.

 

***

 

“Non voglio togliermi la sciarpa.”

Glielo dice subito dopo che l'ha depositata sulla panca di fronte al focolare e poco prima che lui inizi a rovesciare acqua calda nella vasca di rame.

“Va bene, non preoccuparti” la rassicura. “Puoi immergerti anche con quella, del resto è già fradicia.”

Lo sono entrambi, a dire il vero: se sotto l'albero i rami li avevano almeno in parte riparati dalla pioggia, durante il tragitto per raggiungere l'abitazione il temporale estivo li ha inzuppati senza che potessero schermarsi in alcun modo.

Come durante certe missioni, che Jean non vuole più ricordare e che si sono trasformate in incubi ancor peggiori quando ha realizzato che i suoi compagni venivano divorati dai più disperati della loro stessa stirpe e non da mostri dalle sconosciute origini.

Da quando si è ritrovato privo persino della magra consolazione di poter dare un volto al nemico, almeno finché Eren non ne ha procurato a tutti loro uno comune.

Quell'idiota.

Le mani di Mikasa sono ancora sulla sua sciarpa, lui invece le ossa di Marco non le ha più con sé, le ha perse quando è stato trasformato in gigante puro e per quanto abbia cercato dopo che la maledizione era stata spezzata, non le ha ritrovate. Giacciono sul campo di battaglia, come quelle di tutti gli altri soldati.

E loro invece sono ancora lì, a fare i conti con il vuoto.

“Hai bisogno di aiuto?” le chiede una volta rovesciato l'ultimo secchio.

Al suo cenno di diniego, Jean apre il paravento e si ritira verso la parete opposta dandole le spalle.

La casa che Mikasa ha occupato quando è tornata a Paradis e la più vicina alla tomba di Eren, Jean può vedere il grande albero dalla finestra.

“Armin mi ha descritto questo posto” confessa, lo sguardo perso sulle colline al di là del vetro, “sapeva che saresti venuta qui.”

Lo sciabordio dell'acqua accompagna un lieve sospiro; Jean attende in silenzio che anche la sua voce attraversi il paravento: ha imparato ad essere paziente negli ultimi anni, questo deve concederselo.

“In questi luoghi...” mormora Mikasa dopo un paio di minuti, “qui...” esita, “ho quasi l'impressione...sembra quasi che lui...”

“Ti sembra di averlo ancora accanto” conclude per lei. “Lo so.”

Il silenzio che segue gli sembra fin troppo lungo.

“Mikasa?” la chiama incerto, senza voltarsi.

“Per questo trascorri tutte le licenze estive dai Bodt?”

È un mormorio basso e roco, poco più di un sussurro, eppure Jean sente quel nome sbattergli contro il petto con un dolore sordo e lancinante che gli toglie il fiato; posa entrambe le mani sul davanzale e si sforza di respirare piano.

“Come hai fatto a scoprirlo?” riesce a chiederle dopo un istante.

“Lo sapevamo tutti, Jean.”

 

***

 

“Non migliora con il tempo, vero?”

Seduta di fronte al camino, con una camicia pulita e una tazza di tè fumante tra le mani, sembra un po' più simile alla Mikasa che conosceva.

“No” ammette. Stende l'ultimo capo bagnato sulla stufa e siede di fronte a lei. “A volte però va meglio.”

“Quando?”

Avrebbe dovuto saperlo che non sarebbe stato facile, ma alla fine cosa lo è?

Sospira e si appoggia allo schienale della poltrona.

“Ci sono momenti in cui l'assenza diventa solo nostalgia, e non fa male.”

Mikasa gli rivolge uno sguardo intenso, forse il primo da quando si sono conosciuti, e nonostante l'evidente scetticismo, Jean sente che vuole credergli, ha bisogno di farlo.

“Non credo succederà mai” sussurra mesta, chinando lo sguardo.

E Jean vorrebbe dirglielo che anche lui lo pensava, ma che in certi pomeriggi d'estate, quando il sole e la sua calura sono prossimi a tramontare e il duro lavoro nella fattoria volge al termine, Marco è accanto a lui, con gli avambracci sudati appoggiati alla staccionata dei cavalli e il sorriso onesto sul volto affaticato.

E si rende conto che ha sgobbato l'intera giornata solo per quell'istante, per quel momento in cui la sua presenza è così reale che se allungasse la mano potrebbe sentire anche il calore della sua pelle. Finché il crepuscolo non porta via l'immagine lasciando solo la sensazione, e lui si sente in pace, proprio come quando il lavoro nella fattoria dei Bodt era la scusa per trascorrere insieme le licenze estive.

Forse è per questo che non ha mai smesso di andare da loro, perché lì il ricordo lo fa sorridere e in ogni altro posto, piangere.

Vorrebbe dire tutto quanto a Mikasa. Ogni parola.

Ma non ci riesce.

E forse va bene così, magari lei troverà un modo migliore per andare avanti.

Fuori dalla finestra un raggio di sole mette fine alla pioggia, lo sguardo di Mikasa si perde in quella luce.

“Vuoi tornare sulla collina, adesso?” le chiede, alzandosi per aprire il vetro e lasciare entrare l'aria di nuovo tiepida.

“Domani mattina” risponde lei immobile.

“Va bene.”

Quando torna a sedersi lo fa accanto a lei.

Non ha la pretesa di consolarla, sa che non serve; lo fa perché è stanco quanto lei, infelice anche, disilluso.

Ma vivo. Come lei.

 

 

Fine.

 

  
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