Anime & Manga > Lady Oscar
Ricorda la storia  |      
Autore: Dorabella27    21/04/2022    16 recensioni
Come promesso, dopo "Pourquoi est-ce qu'on se déguise?", un possibile seguito, prendendo le mosse da un episodio fra i più giustamente celebri dell'anime. Che cosa potremmo dire? Alla fine della precedente long, abbiamo scoperto quale fosse l'intento di André; e ora, immaginiamo un "what if...?", dopo una delle più note risse da taverna del mondo dell'animazione.
OOC? Sì, un pochino, dato che le premesse, nella long precedente, ci hanno fatto un poco deviare dalla consueta via; ma forse non troppo.
Che dire dunque? Fra le circostanze che più mi immalinconivano della vicenda di Oscar e André vi è quella per cui, a Versailles, nella Caserma della Guardia Reale e poi in quella della Guardia Metropolitana, e, a maggior ragione, a Palazzo Jarjayes, non sono mai in un luogo che sia solo loro.... e allora, date le premesse con cui ci siamo lasciati qualche giorno fa, proviamo a immaginare....
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Bernard Chatelet, Oscar François de Jarjayes, Robespierre
Note: Missing Moments, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
NON ERA LA LORO SOLITA TAVERNA
 
Non era la loro solita taverna: a fermarsi sotto la prima insegna trovata lo aveva convinto l'urgenza nello sguardo che Oscar gli aveva rivolto dicendogli, semplicemente: "Ho voglia di bere", dopo che avevano lasciato quel reduce della Guerra d'Indipendenza americana presso la famiglia del suo commilitone caduto.
Quelle iridi improvvisamente passate dall'azzurro di un limpido mattino primaverile alle sfumature cupe di cielo che promette pioggia e temporale, quelle occhiate preoccupate insieme per l'amico (l'amico!) lontano e per il timore che lui, André, cogliesse il suo turbamento, lo avevano commosso e toccato nel profondo.
Vederla in ansia e sperare con lei, per lei, pur di saperla felice, e insieme sperare, a volte, in un angolino della sua coscienza, sentendosi poi immancabilmente sporco e colpevole, che succedesse proprio quello che lei temeva tanto, che il diavolo se lo portasse, o che, senza necessariamente compiere l’estremo sacrificio dell’onore, non tornasse più dall’America, e decidesse di restarci per sempre, quel Fersen venuto dalla Svezia appositamente per portare guai ... alla Francia, a Maria Antonietta, e a lei. Perché, ammettiamolo, pensava André, a lui, in fondo, ad André Grandier, figlio di un falegname e nipote di una governante, attendente, servo, che cosa poteva mai importare dell’appoggio della Francia alla causa degli insorti d’oltreoceano, che gli importava dei patimenti d'amore di quella arciduchessa viziata, che una volta, anni prima, era riuscita persino a infervorarsi e far diventare di gran moda un colore che lui aveva, con disarmante sincerità, ribattezzato color pulce? Eppure, André sapeva per esperienza che per lei, per la "sua Regina" - e quando lo diceva, si sentiva proprio che pensava alla parola Regina con la R maiuscola, e magari pure con un inchino mentale! - Oscar non solo aveva sacrificato la sua vita, ma per giunta si sarebbe fatta scannare ... già una volta per le smanie assurde di quella ragazzina  - (se il re ha detto che non puoi cavalcare, sta' lontana dai cavalli, Dio santo!) - aveva rischiato di perdere la sua inestimabile Oscar, anzi, aveva rischiato di perderla per due volte in una sola giornata.
E poi, una volta si era per giunta prestata a fare da messaggera, per la regina (lui, "reine" lo scriveva - e lo pensava - con la minuscola), per toglierle le castagne dal fuoco, si capisce (chi sa perché non ci aveva mandato la sua grande amica, la Polignac?), e poi per preservarne la reputazione si era prestata ad andare a corte, a un ballo che si sarebbe certo risparmiata, in alta uniforme, e a ballare per tutta la notte con la regina, anche con l'anima scorticata, pur di non alimentare i pettegolezzi dei cortigiani, quelli, davvero, affilati come pugnali.
Tornò in sé e la guardò, cupa, seduta accanto a lui, con lo sguardo attentamente rivolto alle venature del tavolaccio cui tenevano appoggiati i gomiti.
"Bere fa dimenticare le preoccupazioni", e sembrava che lo dicesse a lei. Un silenzio ostinato fece eco a queste parole.
Il secondo boccale di birra non aveva prodotto nemmeno quella lieve distensione che, di solito, accompagnata da un sorriso, metteva ancora in vista i segni delle fossette che aveva avuto da bambina.
André continuò allora, dopo una breve pausa: "Comunque devi stare tranquilla, Oscar: il conte di Fersen tornerà certamente. Io ho controllato, e il suo nome non risulta nell'elenco né dei morti né dei dispersi".
Adesso l'aveva guardato, con espressione dura. "Perché mi stai dicendo queste cose, André? Non le voglio sentire!", esclamò con forza e decisione.
L'oste, dal bancone, aveva interrotto il loro dialogo.
"Ehi! Vedo che mandi giù quella roba tutta d'un fiato! Bravo, biondino!", aveva gridato. E poi, si era avvicinato con una bottiglia in una mano e un bicchiere nell'altra: "Bevi un altro bicchiere, coraggio. Offro io".

"No, grazie". Due parole, secche e ferme.
"Come? No, grazie?! Vuoi dire che rifiuti?".
L'oste non ci credeva. Quando mai uno degli ubriaconi che frequentavano la sua taverna. e ci svernavano, a momenti, aveva rifiutato un bicchiere di vino? O un  boccale di birra? Aveva poggiato il bicchiere sul tavolaccio, fra André e Oscar, e ancora reggeva la bottiglia.
"Non te la prendere, amico! Lo berrò io", s'intromise André con aria conciliante.
"Non volevo offrire da bere a te", ribattè l'oste, scostandolo con una manata; e poi continuò: "Però c'è una cosa che mi sorprende: non ho mai visto un soldato così bello in vita mia! Ehi, giovanotto, alza la testa: fatti vedere! Fatti vedere!", e aveva già appoggiato la mano sul capo di Oscar, sui capelli biondi e fini, per sollevarglielo
"Metti giù quelle mani!". L'intervento di André fu anticipato dal violento manrovescio di Oscar che mandò l'oste a terra.
"E se per caso provi a toccarmi un'altra volta, non mi fermerò al primo pugno! Continueròà a picchiarti sino a cambiarti i connotati!". Adesso era la Oscar che riconosceva: in piedi, dritta, severa e dura, persino minacciosa.
"Guarda, guarda: è molto violenta stasera la Guardia di sua Maestà", disse una voce impostata, da oratore consumato, proveniente dall'angolo opposto della taverna, da un tavoluccio sbilenco addossato al muro.
"Ma voi siete ... Maximilien Robespierre". Oscar era tornata tranquilla, la voce gentile e ben modulata, ché nel frattempo due dei bevitori più assidui stavano già rialzando l'oste, biascicando, tra i fumi dell'alcool: "Albert, ma perché ti impicci sempre di quel che non ti riguarda? Fosse stata una bella ragazza, di quelle con tutte le curve al punto giusto ..."
Intanto, Robespierre continuava a parlare, senza alzarsi, da un capo della sala, a Oscar che stava in piedi, stupita e ferma, all'angolo opposto dello stanzone affollato di tavoli. "Già! È destino per noi incontrarci nei luoghi più impensati, comandante". E già André stava benedicendo l'occasione: tutto, tutto, anche una bella discussione sui testi dei philosophes e di Rousseau, e sull'origine dell'ineguaglianza fra gli uomini, anche se non ne aveva affatto voglia, quella sera, pur di distoglierla da quei tristi pensieri, pur di sapere che non avrebbe pensato a Fersen.
E mentre lui agitava questi pensieri, Oscar e Robespierre continuavano il loro dialogo, da un capo all'altro della taverna.

"É vero, Comandante de Jarjayes. L'ultima volta che ci siamo visti è stato ad Arras. Ora esercito l'avvocatura qui a Parigi, e difendo solo i poveri".
"Difendete solo ... i poveri?".
Ma, all'udire la particella nobiliare e il titolo, già si era radunato un capannello di clienti ubriachi, e che qualcuno, alcuni decenni dopo, avrebbe definito lombrosiani. Le voci impastate di vino e cognac si accavallavano minacciose: "È una guardia di sua maestà!".
"Già! Un UFFICIALE, e quindi un nobile!",
"Ehi, ma che cosa sarà venuto a fare, qui?".
"Ma a spiarci, è chiaro!" "È una spia della regina!"
"Buttiamoli fuori! Che cosa aspettiamo?!"
 "Sì! Buttiamoli fuori di qui! Via! Non appestate l'aria!"
"Fuori di qui!" ; "Ben detto!"; "Cacciamoli a calci!!"
La rissa era stata breve, ma pugnace. Dal fondo della sala, Maximilien Robespierre, con quella sua aria pretesca, da abatino ipocrita, accanto a un giovane bruno e a un ragazzo dai lineamenti così delicati da sembrare quasi femminei, osservava, impassibile.
"Vedete", disse, quale unico commento, ai suoi due compagni, "come monta il risentimento dei figli del popolo contro i nobili".
Ben presto, si trovarono fuori dall'osteria. Buttati fuori, per la precisione. Cavalcare, non era questione: André teneva le briglie di César e Alexandre con una mano, e con l'altro braccio sosteneva le spalle di Oscar, che camminava, o meglio, che si trascinava, per forza di inerzia, semi-incosciente, gli occhi socchiusi.
Lui la guardò da sotto in su, con infinita tenerezza, che lei non poteva vedere, proprio perché lei non poteva vederlo. Allora pensò:  "Sei stata fortunata, Oscar. Non si sono accorti che sei una donna. Io me ne accorgo sempre, invece, anche quando indossi l'uniforme. E sei una bella donna, Oscar".
Avevano bevuto troppo, o la rissa era stata troppo violenta; o forse, erano semplicemente troppo stanchi, ed era troppo tardi: semplicemente, le gambe non reggevano più.
E allora, lui pensò che era venuto il momento di lanciare i dadi, e di tentare la sorte, a ogni costo.
O ora o mai più.
Da settimane, da mesi, ormai, trovava tormentoso e quasi insopportabile non avere altro luogo, per stare con Oscar, per vedere Oscar, per parlare con Oscar, che il suo ufficio di Comandante, o i corridoi di Versailles, e Palazzo Jarjayes. Era la casa di Oscar, era la dimora in cui erano cresciuti insieme, e che anche lui, in fondo, poteva chiamare "casa"; ma era, soprattutto, la casa del Generale, la casa del Padrone, in cui tutto, e la sua stessa presenza di attendente, era stato deciso e avveniva sotto il suo comando e per suo ordine, in conseguenza di una sua decisione, benedetta e insieme sciagurata. E quella mancanza di libertà, quella forma occulta e strisciante di costrizione, ormai André la sentiva, sottile, ma presente, anche nelle loro serate spensierate fra scacchi, vino e chiacchiere davanti al fuoco, quando il Generale era lontano.
Sempre più, desiderava un posto che fosse soltanto loro, dove non fossero sotto gli sguardi attenti della nobiltà pettegola che affollava la reggia, o della servitù curiosa del loro rapporto, del loro chiamarsi per nome dandosi del "tu", del loro vestirsi allo stesso modo quando lei toglieva l'uniforme di comandante delle Guardie Reali. Un paio di volte, negli ultimi mesi, aveva anche intercettato uno sguardo obliquo e indagatore da parte di Armand, il cameriere personale del Generale.
Tre settimane prima, non aveva resistito. Dopo aver concluso alcune commissioni a Parigi per conto di sua nonna, aveva visto quell'insegna discreta, ed era entrato. Non era uno stabile di lusso, ma nemmeno misero. Ci vivevano contabili, scrivani del Tribunale, due studenti fuori sede di buona famiglia, venuti dalla provincia per frequentare i corsi della Sorbonne, e, al piano nobile, persino un giureconsulto di Tolosa, che sperava ardentemente di potere presto ottenere il trasferimento da Parigi verso una corte di giustizia della sua provincia natia.
"Sto facendo una pazzia, lo so", mormorava piano, mentre bussava alla porta della padrona di casa, una donna distinta di mezza età, un po' corpulenta e dall'aria cordiale, che, inspiegabilmente, gli ricordava la madre di Jacques, il loro stalliere di un tempo.
"Sono un folle, o un illuso, o tutte e due le cose", si ripeteva mentre pagava il primo mese di affitto, e mentre chiedeva alcune piccole premure alla proprietaria, che annuiva sorridendo, con aria complice.
Qualche giorno dopo, aveva aggiornato il suo diario: sapere che Oscar, in qualche nottata in cui faticava a prendere sonno, scendeva in biblioteca, e leggeva quanto aveva scritto, gli aveva infuso nel tempo, una strana euforia, come quella di un funambolo che si esibisce felice sulla corda, esaltandosi proprio per il continuo rischio di tentare un virtuosismo di troppo, e di cadere rovinosamente.
Tornò a concentrarsi sulla strada che aveva imboccato: ecco, erano arrivati.
"Oscar, non ce la faccio a portarti fino a casa. Fermiamoci qui", si sentì ripetere. E si stupì, perché non aveva davvero calcolato, quando si erano avviati in cerca di una taverna, che avrebbe tentato proprio quella sera, proprio in quel frangente.
Lei, nel frattempo, si era seduta sui gradini d'ingresso del caseggiato.
"Vieni, Oscar. Sistemiamo i cavalli e saliamo". Lui si era mosso, con una disinvoltura che denunciava una certa familiarità con quel posto, mentre, lei restava seduta sull'ultimo gradino, le lunghe gambe piegate, e, in barba al plurale che André aveva usato un attimo prima, lo guardava allontanarsi verso un piccolo portone poco distante, sempre tenendo César e Alexandre per le briglie.
Del resto, Oscar l'aveva letto sul diario, con angoscia e un senso di sorpresa che le aveva fatto sentire caldo nelle tempie e nella gola , e gelo nel petto: "Da tre settimane ho affittato una stanza a Parigi...."  Così aveva letto Oscar tre notti prima. Non poteva sapere, perché André non l'aveva scritto, che in quella stanza André non aveva mai portato nessuno, e che solo una volta ci aveva passato la notte, una volta in cui Oscar si era ritirata presto - niente cognac davanti al camino, niente partita a scacchi, niente assolo al violino, niente letture di Orazio ad alta voce -, e lui era uscito, di soppiatto, in preda a uno di quei momenti di angoscia e pessimismo che diventavano sempre più frequenti negli ultimi mesi. E allora aveva bevuto, oh se aveva bevuto, tanto da non riuscire a mettere più un piede davanti all'altro, e siccome tornare a Palazzo era palesemente impossibile, e nemmeno avrebbe voluto rischiare che qualcuno lo vedesse in quello stato, si era inerpicato per i tre piani di scale e aveva raggiunto la camera che aveva affittato da poco.
Salirono quelli che a lui parvero un milione di gradini; lui la sosteneva sempre, anche mentre faceva girare la chiave nella serrratura.
 Guidò i passi di lei entro la soglia e girò la chiave. Oscar si sciolse dal braccio di André.
Sembrava ormai tornata perfettamente vigile.
"Questo posto è tuo?"
"È soltanto una stanza".
"E ci passi il tempo da solo?"
"Oh no, Oscar, non da solo", e lei gli aveva scoccato immediatamente un'occhiata allarmata. "Ci porto una giovane donna bionda, esile ed elegante, che veste una uniforme rossa e che è un autentico genio degli scacchi".
Oscar non disse più nulla: non aveva nemmeno la forza di ribattere, o di ridere. Fece spallucce, e poi si lasciò cadere su una sedia, esausta.
André si accomodò su quella di fronte a lei. Lei sembrava assopirsi, il mento sorretto dal braccio appoggiato al bracciolo di legno grezzo, senza imbottitura. I suoi occhi, ombreggiati dalle ciglia folte, lottavano per non arrendersi al sonno, ma era una battaglia troppo ardua da vincere.
Il silenzio li avvolgeva.
André allora allungò la gamba, incastrò il tacco dello stivale nel gradino, in quella sottile barra di legno orizzontale posta fra le due gambe della sedia, e tirò verso di sé, avvicinandosela con decisione, fino a che lei non fu a portata di braccia.
Oscar sobbalzò, spalancando gli occhi.  "Ma che...", disse, irritata, e si trovò occhi negli occhi con lui.
"Spaventata?", chiese lui, sorridendo.
Per tutta risposta, lei allungò la gamba destra, e gli pose il piede in grembo. André le rivolse uno sguardo interrogativo, ché quello di lei, passato il lampo d'allarme, era tornato calmo come l'acqua di un lago alpino.
"Lo stivale", disse.
E poi, con una pausa. "Aiutami, per favore".
In tanti anni insieme, lei non gli aveva mai chiesto di aiutarla a togliersi gli stivali.
Orgoglio? Pudore? Desiderio di non metterlo in imbarazzo, di non abusare della sua gentilezza ricordandogli, con quel tipo di ordini, la sua posizione, di sottoposto, di attendente, di servo? Non se l'era mai domandato.
Lui le sfilò lo stivale, senza una parola, e lei gli lasciò in grembo il piede calzato di una sottilissima mussola bianca.
"Anche l'altro. Per favore". Allungò anche l'altra gamba. André, obbediente, le sfilò anche lo stivale sinistro. "Grazie per avermi liberato da quelle trappole. Non ne potevo più. Sono così stanca questa sera".
Lo sguardo di lei indugiava sulla figura di lui, sulle spalle forti che tendevano la marsina, sulle mani ruvide ma gentili, appoggiate sulle sue caviglie, la pelle separata dalla pelle solo dal velo sotile della mussola.
La voce di lei ruppe il silenzio. "Sono un bravo soldato", senza inflessione interrogativa, come se fosse una constatazione, un punto assodato su cui convenire, un assioma da accettare senza discussioni.
"Tu, sei tante cose, Oscar".
"Ho l'aria di una persona ubriaca?".
"Hai un'aria indefinibile".
 Oscar non aveva mosso un muscolo, i piedi sempre sulle gambe di André, mentre lui con un piede si teneva appoggiato al gradino della sedia di lei, come quando l'aveva trascinata a sé.
Oscar non muoveva un muscolo, ma lo fissava.
Lui si chinò in avanti, a bere meglio il suo sguardo diretto. Negli occhi di lei, cielo limpido dove germina l'uragano, il piacere che rapisce e la dolcezza che uccide.
Lei allungò il collo, protese il viso, e, occhi bene aperti, appoggiò lievemente, per un solo attimo, le labbra sulle sue. La sua bocca era fresca, appena profumata di vino, il tocco leggero, ma a lui sembrò ugualmente di andare a fuoco.
"E questo, Oscar, perché?", domandò cercando di dimostrarsi padrone di sé. Di restare in sé.
"Perché sei un ottimo scrittore, André. Sei il mio scrittore preferito ... da molto, molto tempo. E io amo le buone letture, lo sai", sorrise lei, alzandosi subito dopo e togliendosi la giacca rossa dalle spalline dorate. André ebbe un brivido lungo la schiena: dunque, lo ammetteva, finalmente.
La giacca finì sullo schienale della sedia, e Oscar, rimasta vestita dei pantaloni bianchi e di una camicia di seta fruciante, andò verso il letto; scostò le lenzuola, di cotone semplice e spesso, ma da cui veniva un buon profumo di lavanda e di mughetto.
"Tu non dormi, stanotte?", gli chiese quando i capelli furono una nuvola d'oro sparsa sul cuscino: stava distesa su un fianco, sostenendosi la tempia con la mano aperta, il braccio sinistro piegato, e lo guardava.
"Sarebbe difficile dormire, con questa luce". Oscar fissò  impassibile il semplice doppiere poggiato sul comodino, che diffondeva un debole alone luminoso, appena sufficiente a rischiarare la parte di letto occupata da lei.
"È difficile dormire con il sole a poca distanza, sul cuscino", chiosò lui.
Oscar sorrise, senza parole. "Sappi che non sono ubriaca, André. Non del tutto, almeno".
"Nemmeno io, Oscar".
Lui spense una delle due candele nel doppiere. Il buio si mangiò una parte delle gambe di lei, le sue braccia, tutto il resto del suo corpo.
Restavano solo i fiordalisi degli occhi, e la cascata di riccioli biondi.
Nel caminetto, una brace scoppiettò.
Sentirono il suono di un ciocco semiconsumato che cadeva alla base della piccola catasta ardente, e si volsero istintivamente verso il fuoco.
Lei atteggiò le labbra a un lieve sorriso. Una stanza calda, nel ventre di Parigi, dove nessuno conosceva il Colonnello de Jarjays, una scacchiera preparata sul tavolo, un letto profumato, gli occhi di André. E quel tocco leggero sulla sua bocca.
"Ti si vedono ancora le fossette, Oscar".
"Le fossette le hanno le femmine, André", lo corresse lei.

"Ma tu sei una femmina".
Lo sguardo contrariato di lei lo raggelò, perché, per un attimo, temette di avere sciupato tutto, tutta la sapiente alchimia di anni: il diario lasciato in vista, prima per una distrazione e poi per un'accortezza giudiziosamente concepita; la necessità di avvicinarsi per gradi a quella creatura meravigliosa, come una tigre da ammansire con cautela, senza allarmarla o spaventarla rivelandole l'urgenza del suo sentimento, che ormai gli esplodeva dentro al solo vederla; quella serata, perfetta nei suoi disastri, nella rissa, nelle botte, nella fuga, e perfetta nel silenzio di quella camera, quando, finalmente, era riuscito a chiuder fuori il mondo intero ed ora erano solo loro due, Oscar e André, il colonnello e il suo attendente, la contessina dai riccioli biondi e il nipote della governante, i due compagni di giochi cresciuti insieme come fratelli e confidenti, e finalmente una donna e un uomo. Finalmente. E poi c'ra quel bacio leggero, ma non timido, conferma che gli anni non avevano spezzato, ma solo allentato, il filo che li teneva legati, quel bacio sfiorato, arra di un sentimento che solo loro due potevano conoscere e nominare, promessa, forse, di una felicità meno remota di quanto non pensassero.
Aspettava una parola contrariata di lei, offesa no, ché era sempre stata una creatura intelligente e non poteva essere offesa dalla pura constatazione della realtà. Ma non venne nessuna parola contariata, solo una carezza sulla guancia, la mano delicata e bianca allungata a sfiorargli con il palmo la pelle e la ciocca nera, sfuggita al nastro, con un sorriso di sole e d'azzurro.
"Dormi, André", disse lei.
"Dormi, Oscar"; rispose alla carezza e si sedette a cavalcioni della sedia, lo schienale a dividerli, e le braccia di lui poggiate sopra, braccia su cui aveva posato il mento, mentre se la rimirava e se la godeva tutta, come un Endimione al contrario, mentre il petto le si sollevava e abbassava, e il volto veniva percorso da piccoli tremiti, come accade ai bambini che dormono profondamente.
Accarezzò allora il ricordo di un libro che aveva trovato fra gli scaffali della biblioteca un pomeriggio in cui Oscar era uscita con il padre e lui aveva finito prima del previsto di ferrare i cavalli, un libro di ricordi di viaggio dall'Oriente di un viaggiatore europeo, di ritorno dal Giappone, gli pareva, dove si raccontava di una certa casa della capitale, dove ricchissimi uomini maturi, e anzi, vecchi, pagavano cifre astronomiche per passare la notte accanto a giovani donne, bellissime, nude e addormentate, cadute in un sonno profondo grazie a una provvidenziale mistura di oppio, senza poterle toccare, solo per guardarle dormire accanto a loro.
Gli era sembrato insieme insensato e meraviglioso.
Quando sentì che anche lui stava cedendo al sonno, prima di cadere nel pozzo nero dell'incoscienza da quella scomoda posizione, si alzò e, una volta sistemato il cuscino, si allungò a letto sul fianco destro, sopra le  lenzuola, accanto a lei, vicino, ma non vicinissimo, senza sfiorarla, senza nemmeno togliersi la marsina, senza nemmeno togliersi le scarpe, completamente vestito, come per soddisfare l'urgenza di respirare l'aria dei suoi stessi respiri, e sentire la meraviglia dell'odore della sua pelle che profumava ancora di essenza di rose, e assaporare l'incredulità di averla davvero accanto, almeno per quella notte, tutta per lui, solo lui e lei.
.......................................................................................................................................................
"In piedi, soldato!". I raggi del sole erano lame taglienti, troppo aguzze per le poche ore di sonno che aveva sulle spalle e per i troppi bicchieri ancora in corpo.
Oscar invece era già  perfetta, alta, elegante, impeccabile e marziale nell'uniforme rossa, la voce severa con una punta ironica.
Gli venne quasi da ridere, perché, dopo tanti anni a Palazzo Jarjayes, ormai sapeva benissimo quale era stato l'incubo del generale, per anni, quale l'immagine che cercava di scacciare dalla mente quando l'ombra del dubbio lo sfiorava: un groviglio di abiti maschili sul pavimento, e la sua ultima, bellissima figlia, vero sole biondo e ribelle, avvinghiata al suo attendente sotto il grande baldacchino azzurro.
 Che povertà d'animo, che piccineria, che miseria dello spirito, pensò lui.
Che mestizia di sentimenti, che incapacità di capire quanto potesse essere profondo l'animo, di un servo, sì, - perché temere quella parola, che, in fondo, diceva la verità dei fatti - ma anche di un uomo che si era visto crescere accanto il suo tesoro prezioso, la sua inestimabile Oscar, da custodire e da proteggere, per cui nutrire un amore che non era lo sfizio di un'ora di sfogo a porte chiuse, lontano dagli occhi pettegoli del resto della servitù.
Quelle ore accanto a lei erano state come ristoro per l'assetato, dopo un'arsura interminabile, in mezzo a un deserto che sembrava non avere mai avuto inizio e non avere mai fine.
Erano state, forse, la promessa di un'alba diversa.
"Ti ho portato dell'acqua fresca, André: brocca e catino sono già sulla toeletta. Quanto alla colazione, credo che potremo fermarci in qualche locanda lungo la via per Versailles". Oscar era tornata quella di sempre: efficiente, organizzata, asciutta nelle parole.
Cercava di metterla a fuoco, così padrona di sé in quella situazione inedita, ma non ci riusciva.
Si diede una veloce rinfrescata, mentre con la coda dell'occhio la seguiva, seduta al tavolo dove aveva posato la scacchiera, muovere un pedone dei bianchi, per poi rialzarsi immediamente dopo l'apertura.
"Lasciamo la partita in sospeso per la prossima volta", disse -  non chiese -, raggiungendolo con un'espressione indefinibile. Non potè resistere: le passò un braccio attorno alla vita, piano, e appoggiò fugacemente le labbra su quelle di lei, così morbide, fresche e desiderabili.
Poi, la mano di lui, insieme ruvida e delicata e fresca, salì piano sino alla testa di lei, come a darle una carezza, e si arrotolò una ciocca bionda intorno alle dita. Lei alzò gli occhi, ombreggiati dalle lunghe ciglia e mormorò: "André...", ma non fece in tempo a finire di pronunciare il suo nome, che lui le strattonò i capelli con forza. "Ahi! André! Ma che ti è preso?!", scattò lei.
"Eri in debito con me, Oscar, non ricordi? Da almeno dodici anni![1]", rise lui, ritraendo subito dopo le dita.
Poi, si avviarono alla porta. Tre passi per riammettere il mondo, con i suoi diritti e le sue urgenze, fra lui e lei.
André uscì per primo; Oscar, un passo dietro di lui, chiuse con la chiave, che gli fece scivolare subito dopo nella tasca della marsina, insieme a una manciata di monete.
"La mia metà dell'affitto che hai pagato per questo mese, e la mia metà per il mese prossimo", sussurrò con un sorriso impercettibile sulle labbra vermiglie.
E André pensò, che tutto sommato, le fossette stavano benissimo anche sul viso di un colonnnello.
+************************************************************
Si ringrazia per la fan art, Elektra Betty Tempest.
Come avrete visto, si continua sulla scia dell'ipotesi narrativa fornita dal diario di André: anzi, posso anche dire, in tutta onestà, che è nato prima lo spunto per questa OS, e poi, retrospettivamente, la long che ne costitituisce la premessa.
Ovviamente, nell'accenno al “libro di ricordi di viaggio in Oriente” , di un autore che in questa OS non specifico, avrete colto l’allusione a un classico della letteratura giapponese, “La casa delle belle addormentate”, del Premio Nobel Yasunari Kawabata (il signor K. cui alludevo in altra sede, insieme al signor T.): l’idea di trasporre lo spunto in altro tempo e in altra epoca mi è venuta dalla lettura de “L’aereo della bella addormentata”, uno dei “Dodici racconti raminghi” di G. Garcia Márquez. E poi, avrete riconosciuto il gesto di André nell'avvicinare a sé la sedia di Oscar, da un film che, lo so, piace a molte di noi. Quanto alla virgola fra soggetto e verbo, lo so, normalmente non si fa, anzi, si sanziona: prendiamolo come un microscopico omaggio ad Ariel ...C'è poi un pizzico di Anne Rice (trovare per credere) e di Montale, e ci sarà ancora, forse, qualche reminiscenza di Don Lisandert, tutta da trovare, tutta per te, cara Sett... Et tout le reste, est littérature.
Ciao a tutti e grazie per essere arrivati fin qui. Alla prossima ,,,
D
 
 
 
 
 
 
 
 
[1] Allusione a un episodio raccontato nella mia precedente FF,  Pourquoi est-ce qu’on se déguise? E a sua volta, non sto a dirvelo, il tema dello strappo della ciocchettina di capelli si trova in quella meraviglia che sono Le confessioni di un italiano.
   
 
Leggi le 16 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Lady Oscar / Vai alla pagina dell'autore: Dorabella27