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Autore: Sofifi    22/04/2022    1 recensioni
Esercizi di stile
Capitolo 1 ~ Variazioni in 3° persona singolare
• 3° persona singolare, focalizzazione esterna
• 3° persona singolare, focalizzazione zero
• 3° persona singolare, focalizzazione interna
• 3° persona singolare, focalizzazione interna (+ show, don’t tell)
Tw: sangue, disturbi mentali
Genere: Dark, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Ho conosciuto Esercizi di stile di Queneau grazie a LadyPalma, che nel 2019 aveva indetto questo concorso. Mi son comprata il libro e non l’ho letto.
Recentemente ho riflettuto un sacco sulla mia scrittura e ho deciso di voler migliorare, quindi ho cominciato a informarmi sulla narratologia e ho ripreso in mano quel libro che era lì a fare le ragnatele. Sbam! Ora sono qui a cercare di fare la mia versione di quegli esercizi (non tutti ma anche altri). In pratica vi riproporrò la stessa storia in mille salse diverse, siete avvisati.
 
Questo capitolo è dedicato alla 3° persona e, in particolare, alla 3° persona singolare con focalizzazione esterna, alla 3° persona singolare con focalizzazione zero, alla 3° persona singolare con focalizzazione interna e al mio primo tentativo con la tecnica dello show, don’t tell.
 
Insomma, questa è la prima volta che provo a fare le cose con consapevolezza e non sono sicura di aver fatto davvero le cose per bene. Può darsi che nel mio show, don’t tell ci sia un po’ di tell o che il mio narratore onnisciente sia sbronzo, ma insomma, vedremo.
 
Fatemi sapere quale versione preferite e spero di non farvi vomitare. Buona lettura(?)!

 

 
 
Questa storia è frutto della mia fantasia e ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Spero che non vi riconosciate nella protagonista ma in caso chiedete aiuto, quello che fa è pericoloso per sé e per gli altri.

 


Variazioni in 3° persona singolare


 

 
3° persona singolare, focalizzazione esterna
 
Una ragazza trascorre l’intervallo con la fronte rivolta alla parete in vetro della mensa. Alle sue spalle il cortile è in fermento: qualcuno gioca a basket, qualcun altro ride o si dispera assieme ai compagni di classe, una ragazza bassa e tozza si avvicina a un amico e, tra una battuta e l’altra, fa merenda.
Il vetri riflettono gli studenti, tant’è che anche di spalle è possibile avere una precisa – seppur sbiadita – rappresentazione di ogni spostamento.
La ragazza bassa e tozza rientra nell’edificio della scuola poco prima del suono della campanella; la ragazza che dà le spalle al mondo pure. Entrambe si dirigono verso il bagno, a pochi metri di distanza.
Qualche minuto dopo la prima, dai gabinetti esce anche la più alta. Ha le labbra tutte rosse e un sorriso – sognante e sardonico – sul viso.


 
 
 
3° persona singolare, focalizzazione zero – narratore onnisciente
 
Fenja Peters aveva diciassette anni e un’ossessione segreta per Mara Schulze, compagna di scuola di un anno più giovane. Ogni giorno, durante l’intervallo, Fenja poggiava la schiena a una colonna e, fingendo di essere persa nei propri pensieri, teneva lo sguardo ben puntato sulle grandi finestre in vetro della mensa. Non c’era zona del cortile che non venisse riflessa, ma poco importava, a Fenja interessava soltanto la figura sinuosa di Mara che, avvolta in una gonna troppo stretta, attraversava il campetto da basket sino a raggiungere Jaron e che poi addentava una mela – la fortunata della giornata – coi suoi denti di perla.
Quel giorno di primavera Mara tornò dentro alla scuola prima che suonasse la campanella e Fenja la seguì, alla solita distanza di sicurezza. Mara entrò in bagno e si chiuse in uno dei tanti stalli liberi; Fenja si appostò davanti a un lavandino e a uno specchio e, quando la più giovane uscì, finse di lavarsi le mani.
Non appena Mara si fu allontanata, Fenja scivolò nel gabinetto utilizzato di fresco e si beò di ciò che restava dell’odore dell’altra. Con sorpresa notò una macchia scarlatta sul bordo della tavoletta del water e istintivamente alzò una mano a mezz’aria.
Fenja si era sempre accontentata di osservare l’amata a distanza, di annusarla in differita; quel giorno, però, avrebbe potuto addirittura assaggiarla!
Non poteva assolutamente perdere una tale occasione, per cui lasciò cadere il dito sulla ceramica bianca e poi, rosso, se lo portò alle labbra.
Con la lingua Fenja Peters assaporò il gusto di Mara e subito pensò che fosse buono, buonissimo; ma non era abbastanza!
La ragazzina continuò a leccarsi le labbra, ossessivamente, mentre nella sua mente si formava l’immagine sfocata di una nuova succulenta portata.
 
Un omicidio, quello sì che l’avrebbe saziata.
 
 


 
3° persona singolare, focalizzazione interna – Fenja’s p.o.v.
 
Eccola lì, Mara! Attraversa la diagonale del cortile a passi lenti, come una modella che vuole essere guardata. Fenja sorride in direzione dei vetri della mensa e proietta lo sguardo alle proprie spalle, approfittando dell’anonimato garantitole dagli occhi che sì, fissano, ma fissano un riflesso.
Quando raggiunge Jaron, Mara si ferma. Ridendo si sfila la cartella dalle spalle e recupera la merenda – una mela rossa e lucida, come sempre. Una mela da invidiare, perché Mara la tiene in equilibrio con le sue dita sacre e la sfiora con le sue labbra carnose a ogni morso e –
Fenja si sistema i jeans e riprende il fiato. Il cuore, però, le batte ancora forte nel petto quando Mara fa dietrofront, poco prima della campanella, e torna nella scuola.
Fenja non riesce a fare a meno di seguirla. Sono le gambe a comandare, il cervello è solo uno spettatore che si accende e spegne a intermittenza – Accelera! Rallenta! La distanza di sicurezza! –, ma dopotutto è sempre così quando si tratta di Mara – più è vicina, più è difficile pensare.
Mara entra in bagno e s’infila in uno stallo vuoto; Fenja entra in bagno appena in tempo per udire la porta tirata dall’altra che sbatte – musica per le sue orecchie.
Fenja sospira e si piazza di fronte a un lavandino e a uno specchio; mentre Mara esce dal gabinetto finge di lavarsi le mani e poi, non appena l’altra lascia la stanza, s’infila nello stallo appena utilizzato.
Il cesso ha un odore inebriante. Fenja è percorsa da un brivido che le dà alla testa; inspira a pieni polmoni e si contorce tutta su se stessa. Mentre piega la schiena lo sguardo le cade sulla tavoletta di ceramica, su cui svetta una macchia scarlatta, rotonda, perfetta. Fenja si sorprende con una mano a mezz’aria. Il sangue dev’essere di Mara e lei lo vuole, lo deve assaggiare.
Senza perdere altro tempo Fenja si sporca l’indice di rosso e poi se lo porta alle labbra. Con la lingua assaggia il sapore dell’altra. È buonissimo, pensa, mordendo e succhiando, è buonissimo, buonissimo, ma poi finisce. Non è abbastanza.
E allora nella mente di Fenja comincia a farsi strada un’altra immagine. È lei che lecca, che succhia, che morde il corpo di Mara, in perenne adorazione, sino al principio della decomposizione.
 



 
3° persona singolare, focalizzazione interna (+ show, don’t tell) – Fenja’s p.o.v.
 
Il portone in legno della scuola si spalanca per l’ennesima volta e un’ondata di studenti si riversa nel cortile. Eccola lì, Mara, in prima fila. Ha il petto coperto dall’impronta di una mano.
La vetrata della mensa è lercia ma per fortuna vi sono ancora alcuni sprazzi tersi, dai quali è possibile intravedere le figure per intero. Fenja si spalma contro una colonna e lascia scorrere lo sguardo verso destra.
Com’è bella Mara, strizzata in una minigonna nera. I suoi glutei pieni, a ogni passo, fanno capolino oltre la stoffa e Fenja si obbliga a serrare e riserrare la mascella – potrebbe essere sospetto osservare il vetro a bocca aperta.
Mara si ferma accanto a Jaron, che come sempre è il fortunato; apre la bocca e poi ridendo si sfila la cartella; da una tasca tira fuori una mela, rossa e lucida, una delle solite. Fenja è immobile, respira a malapena. Mara si rigira il pomo tra le dita; dà un morso e poi un altro; si ferma per dire qualcosa all’amico e poi riprende a sfiorare quella buccia provocante con le labbra, a piantare i denti nella polpa e a masticarla…
Fenja piega una gamba all’indietro e lascia rimbalzare il piede sulla colonna in muratura; il cotone umido delle mutande sfrega sulla sua pelle accaldata. Diavolo, quanto è sexy Mara.
Il cortile è ancora mezzo pieno quando Mara si decide a rientrare. Fenja stacca le spalle dai mattoni, controlla di non essere osservata e parte alla rincorsa dell’amata.
Arriva in bagno appena in tempo per udire la porta di uno stallo che sbatte. In basso, oltre la fessura, si possono intravedere degli stivaletti in pelle nera, vecchi e coi lacci tutti scombinati. L’involucro è banale ma i piedi sono sacri.
Fenja si sposta verso il lavandino e in sottofondo comincia a risuonare il melodioso gorgoglio della pipì di Mara. Lo ascolterebbe per ore ma… dura solo pochi secondi e finisce. Finisce. Meglio aprire l’acqua e fingere di lavarsi le mani, almeno quando esce –
Mara lascia la stanza e Fenja scivola nello stallo appena utilizzato. Bene, si percepisce ancora forte l’essenza dell’altra. Fenja inspira e, per accomodare un brivido che le dà alla testa, si accartoccia su se stessa.
C’è una macchia rossa sul bordo della tavoletta del water. Sangue. Dev’essere di Mara.
Fenja deglutisce, deglutisce e deglutisce, ma la saliva non sembra voler finire mai. Quel sangue lo vuole, lo deve assaggiare. Se lo porta alle labbra come una ciliegia matura, succosa e invitante. Ha la consistenza di un rossetto liquido e un gusto inaspettato – di ferro ma con una punta di… mm… di… Ce l’ha sulla punta della lingua, e non solo il sangue.
Ma che buono, che buono che è! Com’è possibile che sia così buono?
E che sia già finito?
Dio! Ne vuole ancora, ne vuole altro…
Non basta un assaggio.
Non basta un assaggio – vuole tutto quello che c’è.





 
  
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