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Autore: Razaghena    25/04/2022    4 recensioni
Settembre 3019, a un mese dall'incoronazione di Re Éomer, notizie di incursioni da parte dei Sudroni raggiungono il Mark. A 288 miglia di distanza da Edoras, a Dol Amroth, l'introversa principessa Lothíriel apprende che la sua mano è stata concessa a uno dei nobili della città, un uomo che è poco più di uno sconosciuto per lei. Sarà proprio la spedizione militare congiunta tra Gondor e Rohan a mettere in pausa i progetti di matrimonio e a stravolgere le vite della Principessa e del Re.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eomer, Lothirìel
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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8 ottobre 3019, Terza Era
Palazzo del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor

240 miglia a sud


                                           «Oh...», la voce di suo fratello la raggiunse dal basso, «Iriel, sei stupenda». Erchion si era fermato a guardarla da in fondo le scale, un fascio di documenti rilegati in pelle sotto al braccio e un’espressione stupita in volto. «Non mi sarei aspettato di vederti così agghindata».

Lothíriel finì di scendere gli ultimi gradini, afferrando la mano che il fratello le aveva porto. «Non me ne prenderei il merito. Sono stata vestita contro la mia volontà», la Principessa indicò con lo sguardo Thïria, qualche passo dietro di lei.

«In tal caso…», Erchion chinò la testa in direzione della donna, «Hai fatto un ottimo lavoro, Thïria, le mie congratulazioni. Posso immaginare non sia stato un compito facile».

«Dovere, Principe, dovere. Ma vedere la Principessa così bella mi ripaga decisamente delle mie pene».

«Mi ricorderò delle tue pene anche quando preparerò i salari», le promise ammiccante. Il suo sguardo tornò alla sorella, i suoi occhi la percorsero con una certa incredulità. E anche qualcos’altro, che Lothíriel non avrebbe saputo definire. Le strinse di più la mano, «Sembri proprio… Sembri-».

«La mamma», s’inserì Amrothos mentre li raggiungeva d’altro lato dell’atrio d’ingresso. «Woh, Iriel», si arrestò a due passi da loro, la stessa espressione del maggiore. La sua bocca però deteriorò rapidamente in una smorfia. «Tutto questo per il Comandante?».

«Amrothos… Le tue personali antipatie non concernono nostra sorella. Non le sono utili. Ti prego di tenerle per te».

«Da quando sei così diplomatico? Trovi il Comandante sgradevole almeno quanto me. Sono piuttosto certo che lo detestassi con ardente passione durante gli anni dell’Accademia. Nostro padre ha dovuto dedicare un intero cassetto del suo scrittoio alle tue lettere, quelle in cui lo supplicavi di poter essere assegnato a una camerata dove non ci fossero né lui né Elphir».

Erchion emise un sospiro. «Sono passati anni dai tempi in cui eravamo cadetti all’Accademia e-».

«E quindi ora hai una considerazione diversa del Comandante? Mi stai dicendo questo?».

«Nemmeno le mie personali antipatie concernono nostra sorella, è questo quello che sto dicendo. Iriel», tirò le labbra in un sorriso diretto a lei, «Sono contento che tu stia facendo del tuo meglio per non dare ulteriori preoccupazioni a nostro padre. So che questo genere di impegni sociali non sono congeniali alla tua indole, me ne rendo conto, ma so anche che il Comandante non sarà spiacevole con te. Per quanto mi costi ammetterlo, è un uomo acuto, giudizioso. Si contano sulle dita di una mano i suoi passi falsi. E questo fidanzamento è indubbiamente importante per lui».

«Ugh», il Terzogenito scosse le spalle, come attraversato da un brivido. «Smetti di incoraggiare questa grottesca frequentazione, fratello».

«E tu smetti di scoraggiare questa frequentazione, fratello. Nostro padre l’ha già approvat-».

«Corteggiamento volevi dire?». Lothíriel richiamò a sé l’attenzione dei due uomini.

«Cosa intendi?».

«Ha-hai detto fidanzamento poco fa».

«L’ho chiamato così?».

«Sì, lo hai fatto, nonostante si tratti di un corteggiamento. Hai sbagliato termine», le occhiate che si scambiarono i due fratelli non furono delle più promettenti, «Perché hai sbagliato termine, non è così… Erchion…?».

Il Secondogenito la fissò qualche istante, impreparato. Si voltò semplicemente verso il fratello, «Tu dove sei stato fino adesso?», gli diede una pesante pacca sulla spalla, «Questo è un impegno di Iriel, non uno dei tuoi. Non puoi farle fare tardi».

«Chi credi avesse l’incarico di avvisare Madegar della nostra assenza?», si giustificò Amrothos. «Ho ascoltato il resoconto della sua mattinata per venti minuti e argomentato per almeno altri quaranta».

«Argomentato per cosa?».

Amrothos sollevò il paniere che teneva in mano. «Non c’è stato verso. Ha voluto prepararci un pranzo di riserva. Nel caso in cui, e sto citando, quei lavapentole delle cucine della Tenuta ci dessero acqua sporca al posto del brodo».

I tre giovani ridacchiarono. «Tipico di Madegar, mandarvi a pranzo con il pranzo», Erchion allungò una mano e si appropriò a sorpresa della cesta. Il sorriso sulle labbra di Amrothos si spense all’istante. «Tuttavia, sarebbe irrispettoso se vi presentaste con un pasto di ripiego», anticipò le proteste in arrivo, «E i consiglieri saranno lieti di ricevere questo spuntino, la riunione va avanti da ore. Ora andate, i cavalli sono pronti. Se nostro fratello dovesse metterti in imbarazzo, sorella, non me lo terrai nascosto, vero?».

Lothíriel scosse la testa. Amrothos le porse un braccio, che lei accettò. «Pronta?», le sorrise.

«Affatto».

«Ottimo. Questo è lo spirito», commentò senza battere ciglio mentre la guidava verso l’uscita. Salutarono Thïria e il Secondogenito sulla soglia.

«Ah, Iriel». La Principessa si voltò. Erchion la stava di nuovo guardando con quell’espressione malinconica negli occhi. «Al tuo rientro, prima di cambiarti d’abito, passa a salutare nostro padre. Quel lilla, che indossi… Era il colore della mamma. E potreste… No, dovreste parlare del tuo avvenire».


                                         Sebbene il suo rango glielo avrebbe permesso, il Comandante Sîrfalas non alloggiava a Palazzo. In una buona posizione panoramica, su di un crinale con ampia vista sulla Baia del Principe e sui Porti Commerciali, si trovava la sua tenuta di famiglia, conosciuta in città come la Tenuta del Giglio. Il verdeggiante giardino davanti alla villa era in parte pensile e terminava con un emiciclo racchiuso da mura di pietra opalina.

Superati gli alti cancelli, lo sguardo di Lothíriel spaziò sulla facciata principale che si stagliava contro il cielo del mezzogiorno. L’iridescente blasone araldico catturava immediatamente l’attenzione. L’intarsio di madreperla che componeva il giglio di mare al centro dell’insegna nobiliare scomponeva i raggi solari diventando una fonte fulgente di luce rifratta. Si diceva che una nave che giungesse ai Porti di Dol Amroth avvistasse il giglio bianco dello stemma del Comandante ancor prima delle luci faro.

Dopo che i suoi occhi si furono abituati alla luminosità della villa, conversero naturalmente sulla figura del Comandante. Era un uomo dalla notevole fisicità, e il taglio della sua divisa non faceva che sottolineare le sue spalle larghe. Sarebbe spiccato in qualsiasi folla, ma anche così, in piedi sotto il loggiato centrale della sua gloriosa tenuta, il suo portamento era inequivocabile. Inequivocabilmente superbo. Lothíriel inspirò profondamente. Sarebbe andato tutto bene. Era solo un pranzo.

Il Comandante andò loro incontro. «Principessa, benvenuta. Grato che abbiate accettato il mio invito», le sfiorò il dorso della mano con un bacio. Prolungò il contatto tra le loro mani oltre al necessario, mentre le sue iridi di ghiaccio si muovevano sui lineamenti di lei. Sollevò appena un angolo della bocca e ritirò la mano. La ragazza ebbe la sensazione di aver appena superato una valutazione. «Di rado posso godere di una compagnia così piacevole». Il cuore della Principessa tamburellò contro il suo sterno. Era solo un pranzo.

«È vicendevole», Amrothos si affiancò alla sorella con un sorriso di cortesia esposto sulla faccia. «Comandante», chinò la testa.

«Terzogenito».

«La-la tenuta», Lothíriel si schiarì la gola quando il silenzioso braccio di ferro tra i due uomini si era fatto insostenibile, «È-… È veramente magnifica, mio signore. Ho avuto poche occasioni di visitarla all’infuori del Ballo, ma-ma è esattamente come la ricordavo». La sua voce la stava tradendo ancora prima che il pranzo fosse iniziato.

Gli occhi del Comandante abbandonarono finalmente il fratello. «Porremo rimedio anche a questo. Ora», indicò in direzione della villa, «Seguitemi, accomodiamoci all’interno».

Passando per l'atrio e un corridoio riccamente arredato con armi e stemmi, raggiunsero la sala da pranzo. Varcata la soglia, Amrothos soffocò una risata. «Comandante, così mi fate sentire mancante. Nel vostro invito avevate omesso la necessità di portare un binocolo». La tavolata eccezionalmente lunga che troneggiava al centro della sala era stata apparecchiata in maniera peculiare: due posti a un capo del tavolo, un posto all’estremità opposta. In mezzo, svariati metri.

«Mi era stato detto che sarebbe stato sufficiente che la dama di compagnia rimanesse nel nostro stesso ambiente», il Comandante commentò inespressivo.

Lothíriel e il fratello si scambiarono una rapida occhiata. Vide Amrothos inspirare lentamente, il sorriso di cortesia ancora innaturalmente tirato sulle labbra. Intanto che prendeva posto sulla seduta in fondo al tavolo, le lanciò un ultimo, eloquente sguardo, muta richiesta di non trattenersi troppo lungamente.

Sentì una mano alla base della schiena, «Di qua, Principessa». La voce del Comandante suonò sopra al suo orecchio, «Sedetevi».


                                         D opo quella che sospettava essere la terza portata – l’incessante turbinio di salse, intingoli e contorni aveva reso difficile tenere il conto delle portate – Lothíriel iniziò a chiedersi quando si sarebbe potuta sottrarre allo sguardo esaminatore del Comandante. I suoi occhi vigili l’abbandonavano solo il tempo di inforcare il suo prossimo boccone. E trovava la sua aura soffocante. Sicuro, autoritario, dominante. Le tornava continuamente alla mente il maggiore dei suoi fratelli, con cui il Comandante condivideva non solo il portamento, ma anche una decennale  amicizia. Non poteva però negare che l’uomo fosse un naturale oratore, a modo, cordiale, abile nel mantenere viva la conversazione indipendentemente dalle inclinazione del proprio interlocutore. Che, in questo caso, erano pressoché nulle.

«Concedetemi di dirvelo, Principessa. Vi trovo molto gradevole», la noncuranza con cui quelle parole avevano lasciato la bocca dell’uomo la spiazzarono.

«Co-come?».

«Il vostro aspetto», chiarì senza smettere di tagliare il suo filetto di pesce spada, «Siete molto gradevole agli occhi. E c’è un certo candore in voi che trovo apprezzabile».

«Grazie», la voce di Lothíriel perse gradualmente di convinzione. Non era più nemmeno sicura di come si rispondesse a un complimento. Limitarsi a ringraziare sarebbe stato sufficiente? Si stava aspettando altro da lei il Comandante? Sapeva che Elphir si sarebbe già da tempo spazientito di fronte alle sue risposte inadeguate.

Il Comandante chinò la testa di lato, studiandole l’espressione. «Vi ho forse offeso lodando il vostro aspetto?».

«Oh no, mio signore. No davvero». Gli occhi grigi del Comandante non l’abbandonavano. Si sforzò di approfondire la risposta. «No-non sapevo bene cosa dire».

«Principessa, frequento il Palazzo da anni. Sono a conoscenza delle… difficoltà che esibite», la gola di Lothíriel si strinse, «Vorrei assicurarvi che non mi aspetto ora, né mai lo farò, che voi siate versata nell’arte del conversare. È una aspetto che non ha peso ai miei occhi. Tanto più in una donna».

La ragazza deglutì e si impose di far uscire le parole senza tentennamenti. «Pertanto, cosa direste che vi aspettate da me?».

«Se mi state chiedendo cosa mi aspetto da una moglie… Ubbidienza. Lealtà». Si portò la forchetta alla bocca e masticò con indolenza il suo boccone. Aveva assottigliato lo sguardo, come se stesse soppesando qualcosa. «Se invece mi state chiedendo cosa mi aspetto da voi», proseguì lentamente, «il prestigio derivato da uno sposalizio con la figlia del Principe lo reputerò più che sufficiente».

Lothíriel non fu certa di essere riuscita a controllare la propria espressione. Strinse inavvertitamente la presa attorno alle posate. «Siete stato alquanto… di-diretto, mio signore».

«Non ditemi che il parlare onesto vi intimorisce».

«Non è la vostra onestà che mi spaventa. Piuttosto, le vostre intenzioni». Seguì un istante di silenzio. Nonostante fosse riuscita a pronunciare quelle parole senza vacillare, sentì di non avere potere sui propri occhi. Erano incollati al bordo del piatto e non volevano sollevarsi. Nemmeno quando il Comandante si lasciò andare a una risata divertita.

«Elphir, Elphir… Mi ha mentito quando mi ha assicurato che sareste stata docile. Un’opinione, una voce, vedo che ce l’avete. Decisamente interessante…». Quelle parole pronunciate con tanta facilità le si conficcarono dritte tra le costole. «Come può farvi paura qualcosa che è stato palesato, Principessa?», continuò, «Credete forse che io faccia dono della mia schiettezza a qualsiasi fanciulla della Baia?».

«Questo no-non mi è dato saperlo».

«Uhm…», un altro beffardo sbuffo dal naso, l’uomo non sembrava voler nascondere quanto fosse intrattenuto dal loro scambio, «Se potete prendermi in parola, vi assicuro che non è così. Perché dunque pensate che abbia scelto di essere franco con voi?».

«In tutta verità, non saprei dirlo».

«Tuttavia è semplice. Voi diverrete mia moglie, Principessa». Lothíriel trovò il coraggio di sollevare gli occhi in quelli dell’uomo, che sostenne con innata calma il suo sguardo. Le rivolse persino un sorriso. «Per questo ho voluto fare una gentilezza a me stesso, e a voi, e risparmiarci frivole recite. Non ho alcuna intenzione di versare miele nelle orecchie della mia promessa sposa. Nelle vostre di orecchie. Che beneficio ne avremmo ricavato?». Benefici, prestigio, guadagno. Sentir parlare del suo matrimonio in termini economici, politici le stava facendo contorcere lo stomaco. «Ma leggo sul vostro volto del disdegno, Principessa».

«Vi stupisce che io mi possa sentire insultata dalle vostre parole?».

«In realtà no. Suppongo sia la più prevedibile delle reazioni. Ma vi ho conosciuto attraverso le parole di vostro fratello e vostro padre, e so per certo che l’acume non vi manca. L’insulto si trasformerà in lusinga, se pondererete sufficientemente a lungo le mie parole. Quanti uomini portano le loro intenzioni cucite sul petto?».

«Vi ripeto, Comandante, non è la vostra onestà a intimorirmi ma le vostre intenzioni».

«Quanti corteggiatori avete avuto fino ad ora, vostro padre ve lo ha mai riferito?». La brusca virata della discussione la lasciò interdetta. L’uomo la incalzò, «Assecondatemi, vi prego. Conoscete il numero degli uomini che hanno chiesto fin’ora la vostra mano? Inclusi quelli che sono stati preventivamente dissuasi da vostro fratello, inteso».

«Io non… Io non saprei indicarvi un numero».

«Diciassette. E sto volutamente escludendo quelli che hanno avvicinato vostro padre prima ancora che foste in età da marito», l’uomo accennò a una smorfia di disgusto prima di prendere un sorso dal proprio calice. Per tutto il tempo aveva placidamente continuato a pranzare, masticando al contempo il cibo e le emozioni del suo interlocutore. «Ditemi ora, quanti di questi nobili rampolli provenienti da dentro e fuori il Dor-en-Ernil credete non abbiano mai considerato il vostro titolo, la vostra posizione?».

«Non ho modo di saperlo».

«Ma potete supporlo. Fate un’ipotesi, dite un numero. Dieci? Otto, forse? Suona plausibile che metà dei vostri corteggiatori possa non aver mai pensato al vostro titolo? Cinque? Quattr-».

«Suppongo…», lo fermò nella speranza che le pulsazioni che sentiva nelle orecchie si placassero, «Suppongo che tutti loro abbiamo tenuto conto in qualche misura dei privilegi che avrebbero acquisito».

L’uomo le sorrise nuovamente. Tronfio. «Ora, Principessa, ditemi un altro numero. Il numero di uomini che credete avrebbero palesato a voi le loro intenzioni».

«Ho inteso il vostro ragionamento, Comandante. Ciò non toglie che… che…», una mano di Lothíriel andò inconsapevolmente a premersi contro lo stomaco. Respirare stava diventando difficile. «Il fatto che i sentimenti non ricoprano alcun ruolo nel vostro piano è… è per me… Mi-mi disturba».

Il Comandante sembrò per la prima volta preso in contropiede. «Sentimenti…», saggiò lentamente quella parola, facendola scivolare sulla lingua. «Principessa, voi mi amate?».

L’ennesima virata della conversazione le fece girare la testa. «Io-io nemmeno vi conosco…».

«Non sarebbe dunque insensato se vi stessi confessando il mio amore? Eppure…», piegò il collo di lato, «È forse questo ciò che vi manca?».

«No…», esalò la ragazza.

«Dichiarazioni, sonetti? Può darsi che io abbia commesso questo errore? Avrei realmente dovuto prediligere il miele?»

«Trovate così irrisorio aspettarsi di essere considerata più di… di prestigio impacchettato in una forma gradevole ai vostri occhi?».

«Io non escludo i sentimenti, Principessa», la voce del Comandante era tornata asciutta e incolore. «È auspicabile che, negli anni, i sentimenti giungano. Ma non ho intenzione di fabbricarli per compiacervi. Non sarebbe una scelta efficiente». I suoi occhi caddero sul piatto della Principessa, abbandonato da tempo. «Non mangiate più? Vi faccio portare un piatto che non sia freddo, se lo gradite».

«No. Cre-credo… Non ho più appetito». Prese a stirarsi le pieghe dell’abito in grembo, eludendo al suo sguardo.

«In tal caso, siete libera di andarvene, Principessa».

«Co-come?», la voce la stava abbandonando del tutto.

«Credevate forse di essere mia prigioniera? Vi garantisco che la mia tenuta non ha sotterranei e, se li avesse, non vi trovereste le persone che invito a pranzare con me. Sarebbe con ogni probabilità occupata da metà del Consiglio di vostro padre», le rivolse un mezzo sorriso.

Lothíriel rimase per l’ennesima volta interdetta. I continui cambiamenti di tono dell’uomo, le sue indigeribili parole, i suoi freddi ragionamenti, i suoi sorrisi. L’unico aspetto prevedibile del Comandante era la sua imprevedibilità. «Non voglio mancarvi di rispetto. Non lascerò la tavola che avete imbastito per me».

«Davvero non mangerete più?», il suo tono era ora premuroso. Premuroso? Le tempie della ragazza presero a pulsare, preannunciando un terribile mal di testa. «Ho fatto preparare la cotognata*¹ per voi. Ve la faccio volentieri portare, se preferireste passare direttamente a quella».

Il suo dolce preferito. Qualcos’altro che non era stata lei a confidargli. «No… Vi ringrazio, Comandante».

«Allora avete il mio permesso, abbandonate liberamente la tavola. Spogliamoci di inutili sensi di colpa o del dovere. Siamo convenuti che sarà l’onestà a guidare i nostri scambi». Il Comandante si era alzato e si era portato dietro la Principessa, pronto a spostarle la sedia.

«A questo, siamo convenuti?», domandò confusa mentre si alzava in piedi. Accettò titubante il braccio che le veniva offerto.

«È la mia speranza. Io sono stato l’iniziatore, è vero, tuttavia ho fiducia che vi convertirete alle mie vie. Vi chiedo di esaminarvi, Principessa, ve ne darò il tempo», le parlò intanto che attraversavano la sala da pranzo. «Esaminate ciò che vi ha infastidito delle mie parole. Ponetevi attenzione. Credo che, infine, riterrete la verità essere una fondazione più solida del miele. Ora andate, non mi cruccerò di essere stato lasciato prima del tempo. La biblioteca, ve lo prometto, ve la farò visitare al nostro prossimo incontro». Avevano raggiunto Amrothos, che era entusiasticamente saltato su dalla sua sedia al loro primo segnale di movimento.

«Non vi ho mai chiesto di visitare la biblioteca». Lothíriel corrugò la fronte.

«È così? Devo essermi sbagliato».


                                           «Il tempo di un’altra portata e avrei ultimato la mia fionda», Amrothos spezzò il gravoso silenzio che li stava accompagnando da quando si erano lasciati alle spalle la Tenuta del Giglio.

«Cosa hai detto?», Lothíriel riemerse dai turbinosi pensieri.

«Una fionda. La stavo costruendo con le posate, ma ammetto di essere stato messo in difficoltà dal laccio. Mi stavo avvicinando, però. Avrei trovato presto una soluzione».

Lothíriel lo guardò confusa. «Una… una fionda di posate. A cosa ti sarebbe servita una fionda di posate?».

«Per lanciarvi del cibo, naturalmente. O lanciarlo alle vetrate, non ne sono certo. Non ero arrivato a quel punto del piano».

La Principessa accennò un sorriso in direzione del fratello. Sapeva cosa stava cercando di fare e avrebbe parlato con lui. Eventualmente. Non appena fosse riuscita a dare ordine ai suoi stessi pensieri.

Uno scalpitio di zoccoli li fece voltare. Due cavalieri li superarono al galoppo, risalendo la via che conduceva al Palazzo. Montavano magnifici destrieri dalle verdi bardature e sui loro alti stendardi sventolava il Cavallo Bianco di Rohan. Poco dietro di loro, un cavallo dal lucente manto morello li seguiva al trotto. Non era sellato e non portava nemmeno le redini, ma rispondeva con straordinaria ubbidienza ai segnali dei due uomini. Si arrestarono di fronte all’entrata, dove smontarono di sella; due guardie stavano già andando loro incontro.

Lothíriel e il fratello spronarono i cavalli senza bisogno di accordarsi. Non appena ebbero raggiunto gli ospiti, si rivolse ad Amrothos una delle guardie di Palazzo. «Principe», s’inchinò, «Messaggeri provenienti da Rohan sono giunti in questo momento».

«Lo vedo, Damegond, ti ringrazio. Vi do il benvenuto a Dol Amroth, signori. Il Principe Imrahil è al momento impegnato con il Consiglio, potrete riferirgli il vostro messaggio dopo esservi rifocillati. Se l’urgenza del vostro messaggio lo richiede, affretterò l’incontro».

I due rohirrim s’inchinarono in segno di saluto e uno dei due fece un passo avanti. «I nostri nomi sono Eòghann e Cadeyrn, viaggiamo sotto lo stendardo del Mark. Vi ringraziamo per il vostro benvenuto e l’ospitalità. Cerchiamo tuttavia la Principessa Lothíriel, il nostro messaggio è destinato a lei».

Il volto di Amrothos non nascose il suo stupore. «Presto detto», prese per mano la sorella che stava assistendo in disparte di qualche passo, e la presentò. «Questa è Dama Lothíriel, Principessa di Dol Amroth».

I due cavalieri si scambiarono una rapidissima occhiata d’intesa che la ragazza non avrebbe saputo interpretare e s’inchinarono nuovamente in segno di saluto. Lothíriel sbatté le palpebre un paio di volte prima di ricordarsi delle buone maniere. «Be-benvenuti, Eòghann e Cadeyrn di Rohan. Entrate, vi prego. Consumate un pasto caldo. Mando a chiamare qualcuno che si faccia carico dei vostri cavalli».

«Mia signora, siamo costretti a rifiutare l’invito. Siamo entrambi impazienti di ricongiungerci al nostro Re e al suo esercito in marcia verso il Lebennin». Con la coda dell’occhio, Lothíriel vide il fratello muoversi nervoso. Comprensibilmente nervoso. Di eserciti e di guerra nessuno aveva mai proferito parola davanti a lei. «Non vorremmo intrattenerci più del dovuto», gli occhi della ragazza scesero sulle spade che portavano appese alle cinture. Erano indubbiamente soldati oltre che messaggeri. «Del resto non vi ruberemo troppo tempo. Per voi abbiamo un dono».

«Un-un dono, mio signore?», Lothíriel si chiese se fosse stato il loro forte accento ad aver deformato quel termine. «Ho inteso bene?».

«Sì, Principessa. Portiamo il dono del nostro Re, una gemma del Mark», così dicendo si scostò di lato, facendo schioccare due volte la lingua. Il cavallo che non indossava i finimenti rispose al richiamo e si avvicinò fino ad arrestarsi con il muso all’altezza della spalla dell’uomo. «Il nome di questa giumenta è Gléodis, è nel suo settimo anno di età e ha terminato la formazione alla monta. Ed è vostra».

Uno sbuffo divertito sfuggì dalle labbra della ragazza, che si portò le mani alla bocca non appena il suo cervello ebbe registrato quello che aveva fatto. «Non-non rido di voi, signori. Perdonatemi», si affrettò a chiarire, mortificata, «Sono solo… Confusa. Credo».

«Avvicinatevi, toccatela», la invitò il messaggero. «È nata nelle Scuderie Reali di Edoras, discende da una delle razze superiori, imparentate con i mearas. Il Re solitamente onora i propri Marescialli o gli Ufficiali particolarmente meritevoli con un regalo sì prezioso», le spiegò mentre la ragazza avvicinava cautamente una mano al muso dell’animale. Era innegabilmente il cavallo più bello che avesse mai visto. Non era paragonabile ai destrieri della Scuderia di suo padre. Il manto lucido, la muscolatura possente e tesa, gli occhi vispi. Quel cavallo era semplicemente magnifico.

Lothíriel ritrasse riluttante la mano con un’ultima, lentissima carezza alla testa montanina dell’animale. «Io… Io non posso accettarlo. È un dono immeritato».

«Principessa, con tutto il rispetto, chiunque si fosse sentito degno di ricevere un dono simile sarebbe dovuto passare sopra la brace del capretto prima di averlo».

La ragazza fissò interdetta il messaggero che aveva parlato. «Il-il… capretto… dite?», non aveva idea di cosa avesse appena sentito.

Gli uomini di Rohan erano passati a sellare Gléodis con i finimenti che fino ad allora avevano trasportato sulle loro cavalcature. «Accettate a cuor leggero questo dono, mia signora, di cui peraltro avete intuito il valore. Saprete trattarlo di conseguenza», uno dei due aveva finito di imbrigliare il cavallo. La bardatura era differente da quelle a cui Lothíriel era abituata; meno appariscente, senza insegne né stemmi. La mano degli artigiani del Mark visibile nella linea perfettamente ponderata della sella e nel particolare intreccio delle briglie doppie. I cavalieri continuarono ad assicurare le cinghie del sottopancia senza curarsi più di tanto delle proteste della giovane, che, non sapendo come comportarsi, cercò disperatamente con lo sguardo l’appoggio di Amrothos. Quest’ultimo si strinse semplicemente nelle spalle.

«Principessa, in tutta coscienza non posso permettervi di rifiutare un purosangue di Rohan senza prima avervene fatto saggiare l’andatura», così dicendo, Eòghann l’aveva afferrata per i fianchi e fatta salire in groppa al cavallo.

La ragazza si passò il dorso di una mano sulle guance che andavano scaldandosi. A quell’improvviso contatto era a stento riuscita a trattenere in gola un gridolino. Nessuno all’infuori della sua famiglia l’aveva mai toccata in quel modo, per di più con la naturalezza dell’uomo che ora stava pronunciando incomprensibili parole rivolte al cavallo su cui era stata posta. A quel comando, Gléodis scrollò il collo e balzò in avanti.

Ci volle qualche secondo prima che riuscisse a prendere in mano le redini, ma le andature non avevano bisogno di essere riassestate. Percorse a ritroso il selciato che portava al Palazzo e, a tratti, le sembrò che gli zoccoli non toccassero terra, tale era la sensazione di leggerezza che il portamento dell’animale trasmetteva. Non resistette all’impulso di spronarla. Immediatamente i suoi muscoli tonici si tesero e gonfiarono e la sua testa iniziò la sua danza. Lasciò i giardini della Residenza e volò giù per la via principale, scansando gli ignari cittadini con impressionante grazia. La prima piazza, la seconda, poi la terza. Si trovò alle mura inferiori nel tempo di un paio di battiti. Il suo cuore non faceva però fede, stava attivamente cercando di uscirle fuori dal petto.

«Principessa… Siete voi?»,
una volta che si era arrestata sotto le mura, sentì una voce maschile chiamarla dall’alto 

«Ohtar! Abbiamo una buona giornata oggi, nevvero?», rispose raggiante all'anziano guardiano dei Cancelli che la stava guardando moderatamente sconcertato.

«Sì, è… È così, sì».

«Oh no». Lothíriel cercò con lo sguardo la fonte della seconda voce familiare. Eccola, Thïria, all’uscita di una delle botteghe della cittadina bassa. Un cesto rovesciato ai suoi piedi. Gli occhi sgranati, fissi sul suo gigantesco animale morello. «No-no-no-no-no-NO!».

«Oh-oh», l’espressione della sua dama di compagnia non era delle migliori. «Devo andare, Ohtar! Buon lavoro!», diede con i polpacci la guida al cavallo, che schizzò in avanti. Con l’adrenalina che ancora le scorreva in tutto il corpo, risalì la via centrale dovendo a malapena condurre l’animale. In un attimo stava nuovamente percorrendo i sentieri bianchi che ritmavano i giardini del Palazzo. Sulla scalinata d’ingresso si era unita al fratello una nuova figura. Le fu facile riconoscere il padre.

«Credevo di stare avendo una visione quando le vetrate della Residenza hanno iniziato a tremare. Tua madre che galoppa davanti al Palazzo», Imrahil si era accostato al figlio minore, «Ma vedo ora che si tratta di… Iriel. Dimmi, perché mia figlia è in sella al più grande destriero della Baia, Amrothos? Cosa sta succedendo?».

Amrothos si grattò la nuca. «Messaggeri da Rohan, padre. Hanno portato un destriero in dono a Iriel. Da parte del loro Re, pare».

«Éomer? Re Éomer…?», i solchi sulla nobile fronte del Principe si fecero più profondi, «Questo non ha alcun senso».

Lothíriel aveva fermato l’animale di fronte ai gradini della Residenza e smontato di sella gettandosi praticamente tra le braccia del padre, che l’aveva prontamente afferrata. «Questo cavallo, padre, questo cavallo! Ha il completo controllo di ogni suo muscolo, dico il vero. Io non ho mai, mai visto un cavallo così nelle tue Scuderie. Modifica la traiettoria con una precisione tale… E anche ad alte andature non perde in morbidezza, e… e-». Suo padre si schiarì la gola, interrompendo il fiume di entusiasmate parole con cui Lothíriel lo aveva investito. La ragazza riprese fiato, tornando ai propri sensi. Si voltò verso i messaggeri di Rohan; esposti sui loro volti, due grandi sorrisi compiaciuti. «Oh, io con questo non volevo dire che accetterò il regalo, sapete io non posso… Non… Posso…?», guardò il padre da sotto le lunghe ciglia, «Non è così… padre? Io non…».

«Non puoi», Imrahil confermò.

«Non posso accettarlo, mi dispiace», Lothíriel concluse rivolgendo loro un veloce sorriso, «Vi-vi prego comunque di rifocillarvi, se la fretta ve lo permette. Avete affrontato una settimana di viaggio per venire qui, non ripartite senza aver riposato».

Eòghann e Cadeyrn si scambiarono uno sguardo, e fu quest’ultimo ad iniziare a parlare. «Lungi da noi cercare di forzarvi ulteriormente la mano, Principessa. Ma secondo le leggi del nostro popolo, se ci allontanassimo ora con Gléodis, verremo accusati di furto».

«Oh», Lothíriel lanciò un’occhiata al padre. «Furto…», ripeté sommessamente.

«Furto, padre», Amrothos sottolineò in un sussurro. Imrahil inspirò lentamente.

«Altresì, se deciderete di rigettare il dono del Re», proseguì 
Cadeyrn, «Quale messaggio desiderate che io riferisca al mio signore?».

«Umh... Rigettare il dono…», Amrothos esalò sottovoce mentre si stiracchiava la schiena.

Il padre espirò rumorosamente, massaggiandosi ad occhi chiusi la ruga in mezzo alle sopracciglia. Quando li riaprì e guardò la figlia, il cuore di Lothíriel esultò facendo capriole sul suo stomaco. L’uomo aveva un’espressione tormentata, a metà tra il rimprovero e la resa. «Iriel…», iniziò minaccioso.

«Padre».

Imrahil sospirò. «Accompagnata. Sarai sempre accompagnata quando uscirai a cavallo. Sempre. Dentro e fuori dalle mura. Mi hai inteso?».

La figlia si limitò ad annuire con forza ad ogni frase. Aveva paura di parlare, timorosa di spezzare quel momento.

Lo sguardo di suo padre tornò morbido, le sue spalle si rilassarono. «Re Éomer», si rivolse ai due uomini di Rohan, «Vi ha forse spiegato il motivo di questo dono inaspettato? Non me ne aveva fatto parola quando sono stato suo ospite, meno di un mese fa».

«Gléodis è accompagnata da un messaggio per la Principessa. Ho il vostro permesso di riferirlo pubblicamente?».

«Certamente», acconsentì la ragazza.

I due messaggeri temporeggiarono, guadagnandosi qualche istante. Nessuno dei due dava l’impressione di bruciare di desiderio di trasmettere il messaggio. Cadeyrn perse la muta battaglia di occhiate e si schiarì la gola. «Messaggio di Re Éomer a Dama Lothíriel: Un gioiello del Mark per il gioiello del Sud. Un dono propiziatorio per il nostro primo, anticipato incontro».

Nemmeno con due settimane di allenamento, Lothíriel, Amrothos e Imrahil sarebbero riusciti a piegare la testa di lato con l’impeccabile sincronia che avevano appena esibito.

«Come?».
 

208 miglia a nord

                                         É omer torse il collo e strinse gli occhi, premendosi insistentemente un palmo contro l’orecchio. Un improvviso, fastidioso ronzio aveva preso a tormentarlo da qualche minuto. Sotto di lui, Zoccofuoco scrollò di riflesso il possente collo.

«Cosa succede, Éomer?». Brandwine aveva affiancato il cavallo al suo.

«Un-un ronzio», grugnì scuotendo la testa. «È dannatamente persistente».

Tra lo scalpitio degli zoccoli, sentì la risata malamente trattenuta dell’amico. Aprì un occhio per fulminarlo, «Ti diverte?».

Brandwine sorrise, del tutto impenitente, «Ti fischiano le orecchie. Qualcuno deve starti pensando, non credi?».


Note dell’autrice
• Ho optato per l’intramontabile classico dei fischi nelle orecchie. Spero mi perdonerete il cliché. Alla prossima!

            *¹
Cotognata, dessert a base di mele cotogne diffuso in Europa a partire dal Seicento. Si tratta di una marmellata lasciata essiccare e solidificare; servita solitamente a cubetti.

Stato di famiglia – Visto il mio sconsiderato uso di appellativi ufficiali e ufficiosi, ho pensato di lasciarvi un breve riepilogo dei personaggi secondari che animano la famiglia di Lothíriel (20).
Oltre ad Imrahil (64), attuale Principe di Dol Amroth, saranno ricorrenti i suoi tre figli: Elphir (32), Primogenito o Erede; Erchion (29), Secondogenito; Amrothos (25), Terzogenito. Alphros (2), figlio di Elphir, è già nato nell’anno in cui è ambientata la storia anche se, unitamente alla madre, comparirà marginalmente. Erchion e Amrothos sono da considerarsi celibi. La zia Ivriniel (72) è viva e arzilla, e sono quasi certa che si stia godendo la vita in qualche tenuta costiera, totalmente e beatamente ignara delle vicissitudini dei suoi nipoti. La presenza della madre di Lothíriel avrebbe ulteriormente appesantito le dinamiche relazionali. Per tanto, il sole è caldo, l’acqua è bagnata e la madre di Lothíriel è morta di parto. Non avrà ricevuto un nome, ma in compenso offrirà un ottimo retroscena emotivo ai restanti personaggi. Ah, dimenticavo il cugino Faramir (36). C’è, ma è come se non ci fosse. Sapete, Éowyn, l’Ithilien, l’amore.
Razaghena
Riassunto Capitolo 4 Lothíriel si reca alla tenuta del Comandante Sîrfalas per il pranzo. L’uomo palesa le sue intenzioni e propone alla Principessa di considerare un matrimonio di convenienza basato sulla brutale onestà, seppur svuotato dell’amore. Rientrata a Palazzo l’attendono due messaggeri provenienti da Rohan; le consegnano Gléodis come dono da parte di Re Éomer, assicurando il disorientamento generale di tutti i presenti.
  
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