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Autore: Afaneia    25/04/2022    1 recensioni
In una Kanto dominata dal colosso multinazionale della Silph SpA, che monopolizza il mercato con politiche aziendali inflessibili e alleanze poco trasparenti, il signor Fuji, fondatore del celebre Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, si è sempre schierato contro la corruzione e a difesa della dignità dei Pokémon.
Suo figlio però ha scelto una strada diversa: disposto a qualsiasi accordo pur di allontanarsi dall'opprimente presenza di suo padre, il dottor Emir Fuji si è specializzato in ingegneria genetica e si è trasferito sull'Isola Cannella, dove dirige un Laboratorio Pokémon dedito a esperimenti d'avanguardia. Da quando ha lasciato Lavandonia non ha più voluto avere niente a che fare con suo padre.
Un giorno, il Laboratorio Pokémon organizza un viaggio di ricerca in Guyana...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mew, Mewtwo, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Avevo promesso che non avrei lasciato da parte questo progetto, e come vedete eccomi qui: so che ormai è più un meme che altro, io che spunto dal nulla dopo mesi di silenzio e posto un capitolo, ma questo è. Se ancora c’è qualcuno che sta seguendo questa storia, vi informo che siamo quasi alla fine, lo assicuro!

Recap dei capitoli precedenti: Rotwang è partito per la seconda spedizione in Guyana alla ricerca di un altro Mew; Emir è rimasto solo nella villa con Mew per circa due mesi. Ha iniziato a perdere sempre più coscienza del tempo che passava e ad abusare dei farmaci che Rotwang gli aveva lasciato nel tentativo di aiutarlo a superare la sua depressione; mentre cercava il laudano e altri oggetti del misterioso, folle costruttore della villa, si è accorto che Mew è evidentemente in grdo di leggere nel pensiero. A questo punto, ha rimesso in funzione il prototipo del macchinario per il sequenziamento del DNA che aveva realizzato per la sua tesi di laurea.

Augurandovi buona lettura, non posso non ringraziare Fiulopis per aver betato questo pappone di capitolo.

Dedicato a Persej Combe, un po’ in ritardo per il suo compleanno.

 

Capitolo XIII – Frangibile

 

Il giorno del ritorno di Rotwang Emir si fece la barba e si vestì.

Non ricordava quando fosse stata l’ultima volta. Si era rasato, quelle volte che era sceso in paese a comprar qualcosa da mangiare? Non gli pareva, ma tutto nella sua mente era ovattato e distante, confuso, e sul mento e sulle guance aveva una barba ispida lunga di giorni. A toccarla, era ripugnante; ma quando si chinava sullo specchio, avvicinando il volto al vetro per osservare se stesso e la barba da vicino, le sue occhiaie risaltavano viola sulle sue guance scavate che parevano di un affamato, e quella vista forse lo disgustò ancora di più. Tirò fuori dall’armadio qualche vecchio completo di quando ancora lavorava, ma quando li indossò e passò davanti allo specchio per cercare di sistemarsi, i pantaloni gli ballavano addosso, l’ultimo buco della cintura era ancora troppo largo per i suoi fianchi e la giacca ricadeva sulle sue spalle informe come un sacco, come fosse quella di un altro. Se li tolse e li gettò sul pavimento in un impeto di rabbia, pensando che Rotwang si sarebbe accorto di certo che non aveva mangiato, che non era stato ai patti; se dell’aspetto ossuto, mostruoso che aveva assunto il suo corpo si fosse accorto prima, forse avrebbe potuto far qualcosa; ma riprendere peso nell’ora che lo separava dall’attracco del traghetto non era possibile. Cercò di mascherarsi così come poteva: indossò una camicia che un tempo gli era andata troppo stretta e la infilò in un paio di jeans scoloriti che, quantomeno, non avrebbero avuto addosso a lui la stessa aria sciatta del velluto troppo largo. Aveva l’aria sperduta di un disoccupato di quasi quarant’anni infagottato in vestiti vecchi e troppo larghi per lui, ma, con le sue spalle magre e le cosce che tra di loro non si toccavano neppure più, quello era l’aspetto migliore che poteva ottenere.

Quando Rotwang era partito, erano andati entrambi al molo con l’automobile mandata dal Laboratorio a prenderli; in quel momento, due auto si trovavano già al molo ad aspettare il ritorno della spedizione per riaccompagnare i membri alle loro case e, se il giorno precedente Emir avesse fatto una telefonata alla sua ex segretaria, avrebbe potuto farsi accompagnare per il viaggio di andata. Si fosse trattato di lei, lo avrebbe chiesto volentieri; ma chiedere un favore attraverso di lei avrebbe voluto dire ottenerlo, indirettamente, da Valérien. Chiamò un taxi che venne a prenderlo di fronte al cancello in ferro battuto della villa all’ora convenuta: il tassista scese in silenzio per aprirgli la portiera, ed Emir ebbe una fugace visione di un’altra estate, di un’altra auto che lo attendeva e di Dale che scendeva ad accoglierlo nei suoi giorni di gloria. Quei giorni erano finiti. Il tassista lo fece accomodare con cortese deferenza, ed Emir trascorse il viaggio sentendosi profondamente a disagio nei suoi abiti e su quel sedile, a osservare con sospetto nello specchietto retrovisore il volto dell’autista che ogni tanto gli accennava un sorriso.

Si sentì assai sollevato quando intravide il traffico accrescersi intorno alla zona del molo e il taxi iniziò a rallentare per inserirsi tra le auto in direzione degli approdi dei traghetti. Quel giorno non c’erano giornalisti né curiosi come nel giorno del loro ritorno anni prima: la seconda spedizione era passata sotto silenzio e inosservata proprio come Dale aveva progettato. Da quel punto di vista, era stato un successo: la campagna di ricerca era stata un perfetto fallimento, ma nessuno ne avrebbe parlato.

Il traghetto era già arrivato. Il tassista accostò appena al di fuori della corsia di scorrimento, Emir gli chiese di aspettare un minuto e si affacciò al di fuori dell’auto per cercare con lo sguardo. Non dovette aspettare molto: stavano sbarcando i passeggeri a piedi, scendendo in file disomogenee lungo le passerelle, ed Emir aguzzò lo sguardo per scorgere tra di essi un volto che conosceva. L’interminabile massa degli estranei gli appariva intollerabile, voleva andar via, gli pareva che avrebbero dovuto smetter di fluire dal ventre del traghetto e lasciar passare Rotwang, ma continuavano a sgorgare a fiotti, e in piedi di fronte al taxi che attendeva Emir si sentiva esposto e vulnerabile e rimpiangeva d’esser venuto fin lì.

Una mano gli batté sulla spalla da qualche parte al suo fianco. Emir diede in un sobbalzo pauroso, gli parve che il cuore gli battesse tanto forte da rompere le sbarre della cassa toracica, ma quando si voltò si ritrovò davanti solo alla risata di Rotwang che si compiaceva del suo scherzo.

«Nervi fragili, eh, Fuji?»

Se avesse potuto comprimersi il cuore nel petto con la mano, l’avrebbe fatto; ma non si poteva, ed Emir si dovette limitare a balbettare nello sciogliersi della tensione: «Da dove sei arrivato?»

«Sono sceso da un po’, Lestournelle ha chiesto di farci sbarcare per primi. In fin dei conti tutti nella vita hanno uno scopo, a quanto pare il suo era questo. Allora, andiamo?» Dopodiché, senza attendere risposta, Rotwang spalancò la portiera del taxi e gettò alla cieca il suo zaino sul sedile. Aveva preso il sole, alla maniera dei tedeschi, ossia aveva la pelle arrossata e screpolata e bruciature sul naso e sulle guance, e persino sugli avambracci che rimanevano scoperti dalle maniche arrotolate della camicia di lino. «Non mi aspettavo di trovare questo freddo in Kanto. Andiamo a casa, non vedo l’ora di infilarmi sotto la doccia... Fuji, ti muovi?»

Rotwang si aspettava di tornare a casa e trovare tutto come l’aveva lasciato: Mew, il suo lavoro, il loro letto disfatto, e di poter tornare alla vita di prima come se nulla fosse mai accaduto, perché ancora non sapeva, e in mezzo a tutta quella folla di gente Emir non poteva rivelargli che si stava sbagliando.

«I tuoi bagagli...»

«Oh, quelli posso andare a ritirarli in laboratorio nel pomeriggio, Lestournelle farà consegnare tutto lì. La roba importante è nello zaino, perciò possiamo andare.»

Sentendo di star accumulando una menzogna dopo l’altra a ogni parola che non poteva pronunciare, Emir salì sul taxi e chiuse la portiera dietro di sé.

Mentre si lasciavano alle spalle il molo, Rotwang si allungò sul sedile e stiracchiò le gambe come se fosse stato a lungo costretto in una posizione scomoda. «Grazie di essere venuto a prendermi. Senti, hai già pensato a qualcosa per cena? Possiamo ordinare qualcosa da asporto, io non ho la minima voglia di cucinare. Cosa c’è di aperto questa sera?»

«Devo dirti una cosa» disse Emir improvvisamente.

La serenità sul volto di Rotwang si gelò nell’istante stesso in cui egli aveva parlato. Gettò un lungo sguardo all’autista per accertarsi che stesse ascoltando e proseguì, con un tono calmo e neutrale e la voce che ciò nonostante vibrava di tensione: «Un preambolo piuttosto angosciante, ti pare?»

«Lo so» rispose Emir. In quella macchina soffocante si sentiva costretto; avrebbe voluto scappare, trovare aria, ma abbassando il finestrino nelle strade affollate si sarebbe sentito ancora più esposto. Si costrinse a restare calmo e immobile sebbene gli sembrasse che migliaia di animali striscianti gli camminassero addosso, sotto la camicia, contro la pelle, e mormorò: «Non è nulla d’irreparabile... però bisogna che te lo dica... quando arriviamo a casa.»

«Se sei stato con un altro, non lo voglio sapere» disse Rotwang improvvisamente.

Emir si aspettava talmente poco quelle parole che esitò. «Che cosa vuoi dire?»

«Voglio dire quello che ho detto» ribatté Rotwang con un’irritazione quasi dolorosa. Emir aveva la sgradevole sensazione di non riuscire a seguirlo. «Sono stato io a dire che non stavamo insieme, perciò se hai fatto qualcosa mentre ero via eri nel tuo diritto e non sei tenuto a dirmi nulla… solo che io non voglio saperlo.»

Emir gettò verso l’autista uno sguardo di supplica senza neppure sapere chi volesse supplicare, se lui di non ascoltare o piuttosto Rotwang di non parlare così di fronte a lui; ma il tassista aveva lo sguardo innaturalmente fisso sulla strada come se fingesse di non ascoltare, e in quanto a Rotwang non si poteva fermare.

«Ma, io… non ho fatto niente» balbettò nella speranza di metterlo a tacere. «Cioè, non sono stato… perché pensi che avrei mai...»

Rotwang si calmò all’istante così come aveva iniziato, come se la sua sola parola bastasse a inondarlo di sollievo. «D’accordo. Allora cosa?»

Emir gli lesse negli occhi il momento in cui il pensiero di Mew gli attraversò la mente e non poté trovare voce perché al di fuori che cogli occhi il nome di Mew non si poteva pronunciare.

«No» esclamò troppo forte e troppo d’improvviso perché l’ostentato disinteresse dell’autista, che ancora platealmente li ignorava scrutando la strada, apparisse ancora credibile. «No, non devi… non è nulla di quello che pensi, solo che… è meglio che tu lo veda con i tuoi occhi.»

Era stato sciocco da parte sua anche solo credere di poterglielo dire o anche solo preparare – Rotwang doveva vedere. Davanti all’autista non si poteva dire, a parole non si poteva dire, se anche si fosse potuto dire Rotwang non avrebbe creduto: doveva vedere. Doveva scendere con lui nel sotterraneo e vedere che cosa aveva fatto.

Rotwang lo fissò freddamente per un momento, Emir stentò a reggere la forza del suo sguardo che lo accusava. Un istante dopo, Rotwang distolse lo sguardo da lui, si protese in avanti e domandò ad alta voce: «Questa crisi di coppia è imbarazzante per me quanto per lei. Non è che potrebbe andare più veloce, eh?»

Ritrovandosi a fatica costretto a far finta di non aver sentito nulla quando neppure volendolo gli sarebbe stato possibile, l’autista tossì un paio di volte per schiarirsi la voce. «Alla Villa, dottore?»

«Alla Villa, come no» mormorò Rotwang tornando ad appoggiarsi al sedile. Emir cercò cogli occhi il suo sguardo, ma invano: ora Rotwang guardava con ostentazione fuori dal finestrino, ma gli tremavano le mani, e nervosamente tamburellava col tacco al suolo. «Abbiamo da risolvere una faccenda.»

 

«Ora mi dirai cos’è successo» disse Rotwang scaraventando il suo zaino a terra. Emir arretrò lentamente di fronte a lui senza dargli le spalle perché voleva continuare a vederlo in faccia.

«Scendiamo giù e te lo spiego.»

«Prima avevi tanta fretta di colmarmi di angoscia e ora non più? No, Fuji, non funziona così.» Rotwang ribolliva di rabbia come lava sotto una superficie ed era tanto più pericoloso quanto più era calmo. Si guardò attorno. «Lei dov’è?»

«È giù» insisté Emir disperatamente. «Ti giuro che sta bene... ma devi venire con me.»

«Fuji» insisté Rotwang con una calma glaciale che non gli era propria. «Che cosa è successo mentre ero via?»

«Rotwang, ascoltami» disse Emir. Non s’era nemmeno accorto di aver continuato ad arretrare: se ne rese conto quando toccò la parete con le spalle e s’accorse di non poter indietreggiare oltre. S’augurò che Rotwang non lo incalzasse ancora. «Mew sta bene, ma voglio che tu la veda prima. Capirai tutto quando la vedrai, te lo prometto, ma devi venire con me. Per favore.»

Rotwang temporeggiò per un tempo indefinitamente lungo, i suoi occhi lampeggiavano. Trasse un respiro profondo. «Bene» mormorò. «Allora, andiamo giù. Fuji... spero per te che non le sia successo niente.»

Emir non rispose.

Sbloccò i vari meccanismi l’uno dopo l’altro mentre Rotwang scalpitava dietro di lui, sforzandosi d’ignorare la sua impazienza e la minaccia che dalla sua rabbia proveniva. Tutto ora era inevitabile, sarebbe accaduto senza ch’egli potesse impedirlo, come ogni cosa dalla notte in cui aveva chiamato Mew e l’aveva invitata a giocare con lui: il momento in cui Rotwang avrebbe visto lo riempiva d’angoscia e gli pareva di non riuscire a respirare, ma sarebbe accaduto in ogni modo, e non si poteva far altro che accelerarlo e affrontarlo quando ancora era in grado di controllare le cose. L’ultima porta celata si spalancò e discesero la scala che dava nel buio. Alle sue spalle, il respiro di Rotwang era un rumore enorme nell’oscurità.

Le aveva lasciato la televisione accesa quella mattina perché non si annoiasse. Quando aveva lasciato il sotterraneo c’era un cartone animato, ma in quel momento, quasi ora di pranzo, c’era un programma di cucina, e Mew s’era acciambellata sul divano e dormiva. Alla sua vista, Rotwang trattenne il fiato per un momento.

«Mew» chiamò dall’ultimo gradino. Gli tremava la voce. «Mew, sono qui.»

Mew spalancò nel buio i grandi occhi, scodinzolò di gioia e si sollevò sul divano per guardarlo, scoprendo al di là dello schienale il vasto ventre rigonfio della gravidanza.

D’improvviso non era più Rotwang – era il dottore.

«Ehi» mormorò. Si avvicinò al divano con una cautela nuova, come se temesse di spaventarla; ma Mew non aveva paura di lui. Soltanto, era diventata troppo gonfia e pesante per alzarsi, e forse era Rotwang ad aver paura.

Si sedette al suo fianco sul divano e si lasciò annusare, più per rispetto di lei e dei suoi spazi che perché ci fosse la possibilità che non lo riconoscesse; ma erano cambiate tante cose dall’ultima volta che s’erano visti, e il medico aveva troppo rispetto di ciò che era in lei per toccarla così, familiarmente, come una volta; e forse anche lei era un po’ cambiata, e un istinto nuovo la spingeva a esser più cauta di quanto fosse stata prima. Rotwang attese con la mano tesa, tremante, e le dita spalancate finché Mew non abbandonò familiarmente il muso contro il palmo della sua mano. Era contenta che fosse tornato. Rotwang l’accarezzò piano sul muso, in mezzo agli occhi, là dove le piaceva molto, e poi a poco a poco, quasi senza che se ne accorgesse, fece scivolare la mano verso il suo addome rigonfio. La fiducia di Mew era tale che non ebbe moto.

«Sei stato tu?» mormorò senza guardarlo. Era una domanda, ma una domanda sciocca, indegna di lui, poiché entrambi sapevano che non poteva essere altrimenti, ed Emir non riuscì a rispondergli. Rotwang, che non si aspettava una risposta, non disse niente.

La pancia di Mew era sporgente e gonfia, ma in modo innaturale, grottesco, ed Emir non ne distoglieva lo sguardo. Sotto le mani di Rotwang, che saggiavano là dove s’aspettava di sentire qualcosa, era orrendamente inquietante.

«Perché?»

Aveva la voce incrinata, tremante, ed era la domanda che aleggiava tra loro fin dal molo. Emir aprì la bocca, spalancò le braccia, fece per parlare, ma in fondo alla sua gola le parole non presero forma. Abbassò le braccia senza dir nulla.

«Emir, perché?»

Emir non disse niente.

«Hai usato il prototipo? Quello che mi hai fatto vedere...»

«Sì» mormorò Emir.

Rotwang tacque a lungo, cogli occhi socchiusi, come incassando un profondo dolore. Inspirò a fondo.

«Volevi vendere i suoi piccoli?»

«No!» gridò Emir disperatamente, perché Rotwang non doveva, non doveva credere questo! «Non è vero, questo non me lo merito! Lo sai anche tu che ho rinunciato...»

«Alla tua carriera?» lo interruppe Rotwang levando lo sguardo. «Ma alla scienza no, mi pare...»

La calma della sua voce lo spaventava più della rabbia che ricordava. Dagli attacchi frontali e dagli scoppi d’ira sapeva difendersi, ma dalla calma glaciale della sua voce, da quella no.

«Non è quello che credi. Io volevo soltanto...»

«Ah, davvero» ribatté Rotwang alzandosi in piedi; d’improvviso gli apparve enorme, spaventoso, Emir arretrò sentendosene annichilito. D’un tratto gli parve che se non avesse attaccato sarebbe stato sopraffatto.

«Ma non sei stanco anche tu di vederla debole così?» gridò, ma la sua voce era esile e supplichevole e troppo acuta. «Di vederla indifesa e dipendente da noi e di dover badare a lei per tutta la vita, e di non poter essere liberi mai...»

«Emir.» Quella calma gelida della sua voce era svanita: ora le sue parole erano incerte, caute e avanzavano a tentoni per percepire la realtà e cercare di delinearne i confini. «Ma di che cosa stai parlando?»

Tuttavia la sua voce era ancora distante, remota come se provenisse da un’ineffabile distanza. Emir aveva ora tutta la sua attenzione, eppure sapeva giò da prima di parlare che non avrebbe capito.

«È così indifesa, eppure così potente... avrebbe potuto tornare in Guyana, andare libera dove preferiva, eppure rimane qua prigioniera con noi... io volevo soltanto che potessimo essere liberi senza di lei...»

Che c’entra tutto questo?, urlavano gli occhi di Rotwang, ma con un dominio ce non aveva eguali, egli si sforzò e socchiudendo gli occhi, inspirando profondamente, si massaggiò le tempie e disse: «Quello che dici non ha alcun senso, lo senti anche tu. Vero?»

Chissà per quale motivo quelle parole lo ferirono più che se avesse gridato – ma poi, perché non gridava, non bestemmiava, perché non sbatteva le porte? Era soltanto per non spaventare Mew? Com’era che Rotwang non capiva?

«Quando studiavamo i fossili in Laboratorio, allora non eri contrario a intervenire sul DNA...»

«Sei intervenuto sul...» Ma prima di porgli la domanda che Emir temeva di più, Rotwang ne distolse la mente come se la strattonasse via. «Emir, intervenivamo sul DNA perché non sarebbero sopravvissuti in ambiente moderno. Ma Mew è qui, è viva, sta bene... ti rendi conto che tutto quello che dici non ha alcun senso?»

Non avrebbe capito. Emir si prese il viso tra le mani e rimase in silenzio sotto la ferrea logica del suo sterile bunsenso. «Tu la ami troppo» mormorò in tono d’accusa, ma più per se steso che per lui, contro il palmo delle sue mani chiuse, perché di fronte all’ostinazione della sua incomprensione non si poteva obiettare altro se non questo – che Mew era imperfetta ma semiperfetta e che se solo fosse stato un po’ più come diceva lui, allora niente di tutto ciò sarebbe mai accaduto; che se solo l’avesse amata un po’ meno, allora avrebbe visto che la ragione della loro miseria era unicamente lei... ma l’amore che copriva gli occhi di Rotwang era tale che non avrebbe visto mai quello che vedeva lui. Ai suoi occhi, Mew non avrebbe potuto esser mai più perfetta di così...

Rotwang attendeva una sua risposta come se da essa dovesse scaturire tutta la verità, ma la verità Emir gliel’aveva già detta, era lui a non volerla capire. «Richard... io volevo solo renderla migliore di com’è ora.»

Rotwang ne fu abbattuto come se lo avesse colpito. Si gettò riverso sul divano per non vederlo, e Mew lo guardò con curiosità perché non l’aveva mai visto far così. Emir dovette chinarsi verso di lui per percepire le parole che fuoriuscivano dai cuscini.

«Non li hai presi i farmaci, vero?»

La voce gli incespicò sulle labbra, gli morì in gola: questa verità forse si vergognava a dirla più dell’altra. «Sì, li ho presi, però...»

«Però?»

«Forse non come hai detto tu.»

Non c’era altro da dire. Rotwang chiuse gli occhi, gettò il capo all’indietro e rimase in silenzio. Emir s’accorse che stava piangendo solo perché Mew, che fino ad allora era rimasta immobile, si sollevò a fatica dal suo nido di coperte e si accostò al suo viso per annusare le sue lacrime. Il suo dolore era tale che Rotwang non la guardò neppure.

«Che cos’hai fatto sul DNA?» chiese senza guardarlo.

A questa domanda avrebbe preferito non rispondere. La sua bocca elaborò una mezza verità prima ancora che la sua mente avesse modo di riflettere. «Volevo un maschio. Cromosoma Y.»

«Un maschio» ripeté Rotwang con voce sorda ed Emir temette per un attimo che avrebbe chiesto ancora, che avrebbe voluto sapere perché, indagare ancora; ma era talmente sopraffatto che non parlò più.

Rimasero in silenzio per un tempo indefinitamente lungo: Mew li guardava alternativamente, forse perché s’aspettava un’attenzione che ora non le veniva prestata e non capiva. Emir sentiva se stesso respirare nel buio. Quando a lungo Rotwang l’avrebbe lasciato così in un limbo?

Mew, pigolà Mew in tono di accusa. La sua voce parve restare a lungo sospesa nel silenzio senza scopo, ma quando ormai sembrava che non sarebbe accaduto nulla, Rotwang aprì gli occhi e si voltò verso di lei. Mew scodinzolò di gioia.

«Che devo far di te?» mormorò Rotwang. Emir levò il capo di scatto, gli si rivolse in un anelito d’attesa – ma Rotwang non stava guardando verso di lui e non aveva modo di comprendere a chi si riferisse.

«Cosa...»

D’improvviso Rotwang trasse un respiro profondo, si rimboccò le maniche e si alzò come se si accingesse a un lavoro. Dal pavimento Emir lo guardò annichilito. Che stava succedendo?

«Dove vai?» gridò quando Rotwang girò attorno al divano per avvicinarsi alla porta.

«Vado a cercare aiuto. Non possiamo tenerla in casa in queste condizioni.»

Tra tutti gli scenari che aveva vagliato nella sua mente, questo era l’unico che non c’era.

Emir scavalcò il divano e gli si parò davanti per tagliargli la strada. Rotwang lo scrutava dall’alto senza espressione. «No, no, no, no...»

«Vuoi dire qualcosa?»

Emir non era in grado di articolare più d’un pensiero compiuto alla volta. La sua mente era sovraccarica d’informazioni e conseguenze della sua decisione. «Sei impazzito. Se la fai uscire di qui finiamo entrambi in galera.»

La maschera oscura del volto di Rotwang s’illuminò di una luce amara, cattiva, ed egli sorrise. «Ma davvero?»

Emir si rese conto con orrore che Rotwang sapeva benissimo che cosa sarebbe accaduto loro, e proprio per questo non c’era modo di distoglierlo dalla sua decisione. Si ritrovò ad ansimare. «Aspetta, aspetta! Tu non vuoi questo, pensaci ancora bene...»

«Emir.» La voce di Rotwang era calma ma inflessibile. «Fammi passare.»

«Rotwang, sarà tutto finito! Ti rimanderanno in Germania...»

«Emir» ripeté Rotwang. «Fammi passare.»

«Tu non sai come funziona, nemmeno tuo fratello potrà tirarci fuori...»

«Fammi passare.»

«Ce la porteranno via e tu non la vedrai mai più!»

Rotwang si ritirò da lui come di fronte al sibilo di una vipera. Anche questo sapeva che era vero, inappellabile, ed Emir si aggrappò a quell’arma perché era evidente che era l’unica, sebbene meschina, in grado di colpirlo. «È così, lo sai anche tu che è così! La riporteranno alla Silph, forse a Zafferanopoli, per tenerla al sicuro. Dale venderà il cucciolo a Giovanni...»

«Smettila» disse Rotwang in un singulto. Emir lo incalzò così come avrebbe scavato per allargare una ferita. «Sì, sì, è così invece! Sequestreranno il mio materiale, ma la Silph lo ricomprerà o glielo procurerà il Team Rocket, e lei...»

«Basta così» disse Rotwang scuro in volto. Si prese la fronte tra le mani per isolarsi da lui e dal mondo nell’oscurità dei suoi palmi chiusi. «Che cosa vuoi che faccia?»

Emir sentì che le posizoni s’erano invertite, che Rotwang ora supplicava, che la prospettiva di perdere Mew era tale da ridurlo così, che soprattutto ora ogni cosa dipendeva da lui; ma questa realizzazione non gli diede la minima pace. Aveva tradito. «Non devi fare niente! Penserò io a tutto. La gravidanza procede bene...»

«Non è vero» rispose Rotwang dal rifugio delle sue mani. «Devo proteggere te.»

«Non ti sto chiedendo questo, è soltanto per Mew che...»

«Già, certo.» Stavolta la voce di Rotwang risuonò d’un sarcasmo doloroso e amaro, ed egli finalmente levò gli occhi dalle proprie mani per guardarlo. «Avevi pensato a tutto prima, vero? Avevi progettato tutto, avevi già le parole da dirmi in tasca. Sapevi già da prima che tornassi che per proteggere lei non avrei mai denunciato te...»

Sentendosi profondamente triste eppure al contempo consapevole di non aver più alcun diritto di difendersi, Emir mormorò: «Non avevo pensato a niente.»

Rotwang rise duramente. «Ah, davvero? Perché sembrava un piano molto ben congegnato.»

«Non ho mai avuto un piano. È la verità.»

Rotwang levò lo sguardo su di lui in un moto di disperazione. I suoi  occhi affondati nell’abisso delle sue orbite supplicavano una pietà che non poteva raggiungerlo da alcuna parte.

«Allora perché?»

Perché così com’è la odio, urlava tutta una parte della sua coscienza. Invece rispose: «Non lo so.»

 

I risultati della spedizione erano stati disastrosi.

Quando erano tornati dal primo viaggio, quasi tre anni prima, c’era l’urgenza di studiar Mew, e l’azienda li aveva costretti a tornare in ufficio dopo appena un weekend di riposo – ma ora non c’era più nulla di urgente da fare. Avevano trovato qualche coprolite, addirittura qualche frammento d’osso dai quali probabilmente sarebbero riusciti, con molta fortuna, a estrarre qualche traccia incompleta di DNA e che, con altrettanta probabilità, si sarebbero senz’altro rivelati appartenenti a qualche specie di Pokémon ancora esistente. Non c’era fretta, e la Silph ritenne più conveniente obbligare i dipendenti, dopo quel tour de force, a smaltire un po’ di ferie arretrate e a chiudere il Laboratorio per qualche settimana. Persino la custodia notturna fu allentata: in fin dei conti, non c’era neanche più niente d’interessante da rubare.

Emir avrebbe preferito che Dale avesse avuto una trovata diversa. Di ferie da smaltire Rotwang ne aveva tante davvero, e questo significava che sarebbe rimasto a casa per tutte e tre le settimane di chiusura previste. Il lavoro almeno l’avrebbe tenuto lontano da casa per qualche ora, ed evitarsi sarebbe stato più facile; ma ora che era costretto a casa, erano prigionieri entrambi della villa come lui era stato per tutti quegli anni.

Sarebbe stato meglio se Rotwang fosse andato a lavorare.

Non voleva vederlo, non voleva parlargli. Era arrabbiato, no, era confuso; non gli rivolgeva la parola, e questo forse era un bene – no, non lo era, questa era una bugia: Emir avrebbe voluto che urlasse come ai tempi dell’ufficio, che lo offendesse e imprecasse e strappasse da lui le spiegazioni che non aveva saputo dargli, perché Rotwang avrebbe dovuto far così, era così che Emir si era aspettato: di potersi confessare ed espiare la colpa nella sua rabbia e nel suo disprezzo, come una volta; ma poi, quando lui si fosse spurgato della verità come di un veleno, e Rotwang della sua rabbia come di un’infezione, allora tutto sarebbe stato superato e avrebbero lavorato ancora insieme… Rotwang aveva superato il disprezzo per lui una volta, quando l’aveva visto rinunciare a tutto per lei. Avrebbe potuto accader tutto di nuovo, Emir avrebbe fatto tutto come si deve, proprio come la prima volta, e poi sarebbe nato il cucciolo e tutto sarebbe andato meglio. Sarebbe nato un nuovo Pokémon, un figlio di lei; Rotwang non era un mostro, l’avrebbe amato come amava lei, di fronte a quella nascita l’avrebbe perdonato; e poi, in lui vi era sempre lo scienziato, e lo scienziato, presto o tardi, avrebbe dovuto riconoscere che aveva ragione: che era riuscito a creare qualcosa di più perfetto di lei… ma Rotwang non gridava. Non parlava neppure.

Scese nel sotterraneo per vederlo solo dopo qualche giorno. Aveva il volto ancora abbronzato ma stanco, gli occhi ricolmi di dolore, e prese la parola per la prima volta solo dopo un lungo silenzio.

«Non può rimanere qua sotto, ovviamente.»

Le sue parole erano tanto improvvise e prive di contestualizzazione che Emir rimase in silenzio per un po’ in attesa che parlasse ancora. «In che senso?»

Rotwang rimaneva così calmo, tutto era così irreale da apparire un sogno. «Qui, nel sotterraneo. Senza aria, né luce... non è salutare.» Di fronte alla passività della sua attesa, Rotwang aggiunse, come a voler capire l’unico dettaglio, in quanto aveva detto, che gli pareva non poter esser chiaro. «Mew.»

Emir allargò lo sguardo attorno a sé, nell’imtimità calda e rassicurante del sotterraneo, sentendosi smarrito al suo interno per la prima volta: Mew e il sotterraneo erano sempre stati l’unica certezza degli ultimi anni. «Ma è sempre stata bene qui» obiettò stupidamente.

Rotwang iniziò a manifestare in quel momento i primi segnali di nervosismo, ma rimase calmo, e con una calma innaturale e forzata disse a fatica, come se pronunciare quella parola ad alta voce gli costasse un’immane sforzo: «Sì, ma ora è incinta.»

I suoi pensieri erano sempre per lei, in ogni modo per lei. Reprimendo la sensazione di fastidio che quel pensiero gli provocava, Emir ribatté: «Allora... sei tu il medico. Che dobbiamo fare?» Bisognava concedergli il tempo di abituarsi all’idea, e nel frattempo cedere su un po’ di punti marginali, perché tutto tornasse come avrebbe dovuto essere nel suo progetto. «Non possiamo rischiare che la vedano.»

«Già... a questo proposito.» Dunque quello era il motivo per cui Rotwang era disceso nel suo inferno a parlare con lui: Emir si raddrizzò sul divano per dimostrargli tutta la sua attenzione. Era venuto per parlargli di Mew, certo, ma quello che davvero gli premeva dirgli e che lo angosciava dover dire ad alta voce era quello che stava per venire: «Fuji... non m’importa più che la vedano.»

Emir rimase interdetto per un momento. «Che cosa stai dicendo?»

Rotwang pareva determinato a rimanere calmo a qualsiasi costo, ma per fare questo evitava di guardarlo. Si passò due dita sugli occhi. «Che avrei dovuto denunciarti quando l’ho scoperto e rinunciare a tutto, e se non l’ho fatto è perché sono stato vigliacco e non ho avuto il coraggio di perdere lei. Ma, Fuji, non intendo continuare a difenderti. L’hai fatto tu questo casino, non io. Io posso solo fare quello che posso coi pezzi che tu hai rotto, quindi...»

«Quindi che cosa farai?» chiese Emir.

«Quindi non terrò una femmina incinta chiusa in un sotterraneo per colpa tua» ribatté Rotwang ad alta voce. Emir sobbalzò sul divano perché quella violenza improvvisa, dolorosa, nella sua voce, non se l’era aspettata; accorgendosene, a fatica Rotwang tornò a dominarsi e si placò. «Sto cercando di non arrabbiarmi con te» scandì molto lentamente. «Però bisogna che mi aiuti. Fuji. Siamo intesi?»

Arrabbiati allora, avrebbe voluto gridare Emir, urlami addosso, perché ti trattieni? Dimmi tutto quello che hai pensato in questi cinque giorni; ma le parole gli mancavano e per l’ennesima volta rimase in silenzio. Forse avrebbe dovuto parlare, Rotwang taceva apposta; ma aveva perso l’attimo e Rotwang riprese. Quando aveva sbottato, quello era stato l’unico momento in cui Emir aveva riconosciuto Rotwang dietro quell’uomo; ma ora era di nuovo lontano e irraggiungibile.

Col volto semicoperto dalle mani, gli occhi perduti nel vuoto, Rotwang proseguì lentamente: «Io so che non eri in te in quel momento. Non so che cosa pensassi o che cosa intendessi... ma sto cercando di tenere a mente che non eri te stesso in quei giorni. È l’unico motivo che ho per non ammazzarti.» (Ero io, ero io, ero io, urlava quella voce dentro di lui. Sono sempre stato io, sotto i farmaci e la disperazione, erano gli stessi pensieri che avevo in quelle notti in Laboratorio quando parlavo con Valérien... solo che tu non volevi vedere quello che ho sempre visto io.) «Ma bisogna che faccia quello che ritengo giusto. Emir, non potrò proteggere per sempre sia te che lei. La priorità adesso è Mew.»

«E questo che cosa vuol dire?» chiese ancora Emir. Quel preambolo non gli piaceva per niente.

«Che devo proteggere lei» insisté Rotwang come se dovesse bastargli questo a capire – e come poteva non essere ovvio? Aveva sempre protetto lei! Emir non disse niente. «Non posso lasciarla chiusa qua sotto senza luce né aria... lo vedi bene che ne ha bisogno.»

«Quindi vuoi che la vedano tutti» sibilò Emir. «Perché è questo che accadrà, lo sai, vero? Che pensi di fare, portarla a prendere aria nel terrazzo sul mare, e aspettare che tutti la vedano e ci vengano a prendere?»

«Non sei nella posizione giusta per rispondere così, sai?» D’un tratto la sua voce era cambiata, era divenuta asciutta e distante: Emir si sarebbe pentito d’aver parlato così se solo non fosse stato tanto arrabbiato con lui. «Potresti anche provare a essermi grato di star sistemando i tuoi casini, eh?»

Emir scrollò le spalle. Per come stavano le cose, mostrarsi accondiscendente non aveva più alcun senso. «Quindi che farai quando la vedranno?»

«Dirò che sei stato tu a eseguire esperimenti di ingegneria genetica in un sotterraneo con un prototipo non registrato su un Pokémon rubato» ribatté Rotwang alzandosi in piedi. A quanto pareva la conversazione era finita col solito sarcasmo. «Fuji, non sono venuto qui a chiedere il tuo permesso. Ho già deciso. Credevo che sarebbe stato gentile farti capire con pazienza le mie ragioni, ma a quanto pare i miei sforzi sono sprecati con te, perciò tanto vale che ti metta di fronte al fatto compiuto: io ho già deciso. Mew verrà a stare al piano di sopra con me, dove può prendere luce e aria. Quello che ero venuto a dirti principalmente, a dire il vero, era che non voglio che tu abbia più niente a che fare con lei.»

Emir inspirò profondamente perché avrebbe voluto urlare e sapeva che non poteva permetterselo. «In che senso?»

«Nell’unico senso possibile» ribatté Rotwang. «Pensavi davvero che dopo quello che le hai fatto ti avrei permesso di occuparti ancora di lei?»

Emir rimase immobile sul divano. «Non ho mai inteso farle male.»

«Già, è stato un effetto collaterale» commentò Rotwang con accento sarcastico. «Penso comunque che sia meglio evitare di correre il rischio che accada di nuovo per sbaglio, ti pare?»

Emir allargò le braccia. «E allora dove vuoi che vada? Da Portia? Oppure...»

«Già, tanto per destare sospetti, eh? No, Fuji. Questo è il posto più sicuro al mondo, lo hai detto tu. Voglio che resti qui» rispose piano Rotwang.

«Non ho capito» mormorò Emir.

«Hai capito benissimo.» La voce di Rotwang era cambiata ancora, era dolorosa, spaventata, aveva gli occhi di una bestia in trappola. «Emir, è l’unico modo. Non posso lasciare che la tocchi di nuovo.»

Non era possibile, non era giusto. Emir scosse la testa perché non poteva essere vero: «Vuoi chiudermi qua sotto?»

«Tu ci vivi già qua sotto, Fuji! Non cambierebbe niente. Non mi pare proprio una tragedia, per poche settimane...»

«Poche settimane? Che cosa pensi che cambierà tra poche settimane?» urlò Emir alzandosi in piedi. «Che ti fiderai di nuovo di me e mi lascerai uscire di qui?»

Molto lentamente, guardandolo negli occhi, Rotwang rispose: «Tra qualche settimana Mew partorirà e potrà volare in sicurezza, perciò caricherò lei e il cucciolo su un aereo in una Pokéball e riparerò in Germania da mio fratello. La cosa verrà fuori, ma con un po’ di fortuna forse mi eviterà l’estradizione. Nel peggiore dei casi, ci vorranno anni per estradare me, e la Germania non la rimanderà mai indietro se dichiarerò che sarebbe in pericolo qui per via della Silph e del Team Rocket. Mio fratello non sarà uno scienziato, ma potrà prendersene cura lui per qualche tempo, e poi vedremo...»

«E mi lascerai qui.»

«Sarai libero, dopo» rispose Rotwang. Era lontano da lui in quel momento, lontano come se ormai non potesse quasi più sentirlo. «Era quello che volevi, no?»

«Che cosa?»

«Lo hai detto tu quando sono tornato. Che per via della sua debolezza noi non saremmo stati liberi mai...»

Era tutto sbagliato, tutto l’opposto di come aveva pianificato. Possibile che, nel suo egoismo e nel suo folle amore per Mew, Rotwang non avesse capito niente di tutto ciò che aveva fatto per lui? «Io volevo che fossimo liberi entrambi» mormorò.

Lontano e irraggiungibile da lui com’era, Rotwang si riscosse come se venisse richiamato da una grande distanza. «Come dici...? Non ti ho sentito.»

Non c’era altro da dire. La lontananza che si era aperta tra loro era troppo vasta e invalicabile perché le sue parole potessero sorvolarla. Emir si ritrovò inerme e immobile di fronte alla muraglia silente che si era levatra tra loro, era troppo alta e imponente per poterla anche solo fronteggiare, e la sua mente era troppo esausta per poterne anche solo sostenere lo sguardo.

«Non importa» rispose. «Non era niente d’importante.»

 

Era rimasto chiuso nel sotterraneo per gli ultimi due anni, e ora che Rotwang gli aveva chiesto di restarci per qualche giorno quelle pareti gli riuscivano intollerabili. Forse era perché al di sopra di lui ora si svolgeva una vita alla quale non era ammesso a partecipare: Rotwang era di nuovo lì, Emir sentiva i suoi passi al piano di sopra o forse li immaginava, non sapeva più; ma quel che era certo era che era lì ed Emir neppure poteva vederlo.

Non era recluso senza la possibilità di uscire, e non solamente perché non esisteva alcun modo per chiudere dall’esterno le sale sotterranee. Di quella possibilità Rotwang non aveva neppure parlato: s’era limitato a quell’unica conversazione di quel mattino, quando gli aveva detto che non voleva che tornasse al piano di sopra, e questo era quanto. Non gli interessava accertarsi che effettivamente rimanesse lì; e questo era quanto. Non gli interessava accertarsi che rimanesse lì, e questa forse era la sua più grande debolezza – che si fidava ancora di lui. Rotwang voleva rinchiuderlo per punirlo e perché era ferito, ma che effettivamente restasse lontano da Mew era qualcosa che affidava alla sua coscienza. C’era ancora una parte della sua mente, una parte lucida e cosciente che ancora aleggiava in fondo alla confusione della sua mente – perché a volte si rendeva conto che c’era come una nebbia indistinta nei suoi pensieri che una volta non c’era – che pensava che Rotwang sbagliasse a fidarsi ancora di lui, ma che non se ne rendeva conto.

Saliva al piano di sopra, di notte, quando Rotwang dormiva. Ne approfittava per fare un bagno, qualche volta – erano passati lunghi periodi nei quali questo bisogno non l’aveva sentito affatto, quando era solo e non avrebbe dovuto curarsene; ma ora che Rotwang era tornato e che lui doveva nascondersi come i vermi tra le forassiti delle pareti, fare un bagno assumeva un fascino rivoluzionario. Spalancava la finestra, e immerso nell’acqua della vasca contemplava a lungo il proprio corpo che, nella luce della luna, diveniva pallido e livido come acciaio. Le sue membra smagrite sembravano non corrispondere più al ricordo che aveva di se stesso, eppure, si ripeteva incredulo osservando la pelle rugosa delle sue dita ossute, ora il suo corpo divenuto troppo magro era la sola cosa che ancora gli apparteneva, poiché sulla sua mente gli pareva di non esercitare ormai da tempo più alcun controllo. I farmaci di cui gli sembrava d’aver tanto bisogno da non saper più come andare avanti senza, il prototipo nascosto nello studio, il ricettivo ventre di Mew che aveva accolto l’ovulo come se fosse stato proprio suo, tutto quanto gli sembrava lontano da lui come se si trovasse nei ricordi di qualcun altro, non nei suoi, ed egli li stesse eseminando con distacco come su una pellicola. La pelle semisommersa dall’acqua delle sue mani, inargentata come le squale di un pesce, limpide sotto la luce lunare, gli parevano le sole dita umane presenti sulla terra, stranamente reali di fronte ai suoi occhi.

Quando si levava dalla vasca e si stagliava nudo nel bagno, l’acqua che gocciolava giù dalle sue membra formava ampie pozze sul pavimento attorno ai suoi piedi. Le sue cosce smagrite non si toccavano più tra di loro, ma Emir osservava tutto questo con distacco, come se nulla di tutto ciò appartenesse a lui.

Dopo il bagno si aggirava in silenzio per la villa. Si sentiva lo spettro di una grande magione vuota che si stagliava sopra la città, e stentava a ricordare che n quella casa abitassero ancora dei vivi.

Soltanto una volta provò la tentazione di rivedere Mew. Era un’ora della notte talmente profonda che non s’udiva voce dal mare, solo il vocio della risacca che s’inerpicava sugli scogli: Rotwang non l’avrebbe mai saputo. Salì le scale nel buio, senza bisogno neppure di guidarsi con le mani nell’oscurità, le piante dei suoi piedi nudi aderivano sulla superficie del pavimento freddo. Tutte le sensazioni erano stranamente intense.

Rotwang era tornato nella camera che si era scelto una volta, quella con la finestra bifora e il piccolo fumoir che era diventato la stanza dei panciotti – Emir sorrise tra sé perché quel ricordo gli pareva lontano nel tempo come se l’avesse vissuto un altro, non lui. La porta era aperta – Rotwang ancora non riusciva a non fidarsi della sua parola. Se aveva tanto paura della sua pazzia, allora perché non si chiudeva a chiave per proteggersi da lui?

Rotwang era solo un rigonfiamento scuro tra le coperte, Emir intravide nel buio la massa folta dei suoi capelli biondi che si riversavano sul cuscino. Ma nella lama di luce che si dipanava dalla porta, in un angolo del letto, dormiva Mew acciambellata, avvolta nella spirale concentrica della sua lunga coda che si arrotolava attorno al suo corpo. Era stranamente diversa da come la ricordava e s’aspettava di vederla, la silhouette che si stagliava sullo sfondo uniforme del copriletto non si sovrapponeva precisamente al ricordo che Emir aveva di lei. Impiegò qualche istante a comprenderne il motivo: aveva le gambe stranamente lontane dal busto nella sua posizione fetale, allungate sul letto come quelle di un umano. Là dove normalmente avrebbe ripiegato le zampe stava il suo ventre osceno, sproporzionato; era grottesco come un tumore e allo stesso modo gonfio, orripilante, ed Emir ne rimase ipnotizzato. Non era come avrebbe dovuto essere, era sbagliato. Si sorprese con la guancia appoggiata contro lo stipite della porta mentre socchiudeva gli occhi per sondare il buio: il gonfiore della pancia era troppo alto e troppo esteso, non rimaneva localizzato nella zona dell’utero, ma risaliva lungo il suo corpo e occupava l’intero busto, come un’ascite. Era raccapricciante, ed Emir si sentì agghiacciare; ma se se ne era accorto lui, così, al buio, era possibile che Rotwang non lo sapesse da prima di lui?

Non riuscì a tornare nel sotterraneo. Non sarebbe riuscito a dormire, a far nulla, il pensiero di quell’addome gonfio come fosse pieno di liquido non lo lasciava, non c’era nulla con cui potesse distrarsi. L’alba lo sorprese nel salotto sul mare ad ascoltare la risacca, e così Rotwang, qualche ora dopo, quando scese le scale. Mew non era con lui. Rotwang rimase interdetto per un momento, storse le labbra di fronte all’infrazione dei loro patti e non disse nulla. Emir balzò in piedi dal divano, ma non seppe che dire, forse perse l’attimo, e Rotwang passò oltre ignorandolo e si diresse in cucina. Emir gli corse dietro.

«Ha la pancia gonfia.»

«Nuovo passatempo, Fuji? Spiare la gente mentre dorme?»

«Rotwang, la sua pancia...»

«Già» ringhiò Rotwang senza guardarlo, apparentemente troppo interessato a cercare qualcosa dentro al frigo per prestargli attenzione. «E il cielo è azzurro e il mare è salato, s’impara semore qualcosa di nuovo, eh?»

Emir sbatté la porta del frigorifero con una violenza che non pensava di trovare dentro di sé. Rotwang ne sfilò via la mano per miracolo, ma neppure a quel punto si voltò verso di lui. «Lo sai a cosa... lo sai.»

«E ora che lo so, che devo fare? La portiamo in un Centro medico e la rendiamo alla Silph?»

Emir rimase senza parole. «No, ma...che cosa significa?»

«Secondo te?»

«Che non sta andando bene.»

«Complimenti, Sherlock. Non ti sfugge nulla. E indovina chi dobbiamo ringraziare per questo?» Dopodiché Rotwang riaprì il frigoriero, recuperò un cartone di succo di frutta e lo spinse da parte per lasciare la cucina. Stava andando tutto storto, tutto al contrario di come avrebbe dovuto; Emir si ritrovò ad annaspare mentre inseguiva Rotwang su per le scale.

«Richard...! Non puoi fare nulla per...»

Rotwang neppure si voltò verso di lui mentre saliva rabbiosamente i gradini dell’alta scala. «Mi pare di avertelo detto già una volta, eh, Fuji? Che io non sono in grado di guarire imponendo le mani. Non posso portarla fuori da questa casa perché ce la porterebbero via, perciò se hai da suggerirmi qualcos’altro, ti prego, ti ascolto.»

Rotwang era arrabbiato, era furioso, e aveva ragione, era tutta colpa sua. Per ottenere qualcosa bisognava concedere altrettanto, ed Emir si sforzò di mostrarsi ragionevole e conciliante per cercare di scendere a compromessi: «Richard, so che è successo tutto per colpa mia, ma...»

«Questo cos’è, Fuji? Pensi di farmi compassione confessando l’ovvio come se fosse una grande ammissione da parte tua?» Rotwang si voltò di colpo verso di lui sulle scale ed Emir urtò contro il suo petto, ma Rotwang non arretrò di un solo gradino. «È ovvio che è colpa tua. Non può essere colpa di nessun altro e di certo non è mia, perciò pensi di intenerirmi?»

Neppure Emir arretrò. La sua colpa e la sua vergogna erano tali da annichilirlo, ma quello che aveva visto quella notte era troppo grave perché potesse permettersi di retrocedere di un passo. «Non mi dirai come procede la gravidanza solo per punirmi?»

«È ancora come nella giungla, eh?»

Questo Emir non se l’aspettava. Rimase interdetto, senza capire, ma quando Rotwang scese il primo gradino verso di lui, ed egli fu costretto a scendere all’indietro un gradino dopo l’altro incalzato dal suo petto, ebbe la piena certezza d’essersi spinto troppo in là e che questa Rotwang nn gliel’avrebbe fatta passare. «La giungla...?»

«Spero che tu stia facendo finta di non capire, Fuji. L’hai fatto di nuovo, come nella giungla, quando mi hai portato quel Pokémon sapendo benissimo che non ero in grado di salvarlo e mi hai costretto a portarmi addosso quel rimorso per tutta la vita... anche allora avresti potuto lasciare tutto com’era, ma come sempre hai dovuto giocare a fare Dio, a stravolgere il destino, e poi hai preso i cocci e me li hai portati perché a me restasse il rimorso di non averli potuti salvare...»

Erano rimasti nella giungla per tutti quegli anni, prigionieri della notte in cui era morto M1. Avevano litigato e fatto l’amore e girato intorno a quella notte per anni, come attorno a un fuoco, e avevano provato a scappare da quella notte per anni senza che se ne accorgessero, e in realtà avevano sempre corso una fuga centripeta verso quella morte e quel dolore. Rotwang gli aveva detto fin da quell’alba che era stata colpa sua, e non della morte di M1 – quella non era poi davvero colpa di nessuno – ma d’averlo costretto a sentirselo morire sotto le dita, ed Emir fino a quel momento non aveva capito.

«Morirà anche lei?» balbettò.

«Ti farebbe piacere pensare che fosse così semplice, eh?»

Rotwang si voltà e riprese a salire l’alta scala. Emir rimase impietrito: sapeva che quella schiena che si allontanava era inflessibile e inafferrabile, che Rotwang non si sarebbe voltato più verso di lui, che domandare era inutile e controproducente, eppure si aggrappò al corrimano per inseguirlo con lo sguardo. Erano lontani per sempre.

«Il cucciolo... Rotwang! Il cucciolo si salverà?»

Ma dalle volte delle scale e della volla echeggiò in risposta uno sconcertante silenzio, e da qualche parte, in alto sopra la sua testa, una porta che si richiuse.

 

Echeggiò l’aria di grida.

Gli parve di sentir rimbombare le fondamenta della villa. Emir rotolò giù dal divano svegliandosi di soprassalto come se avesse sognato di cadere; si ritrovò sul pavimento frastornato, più addormentato che sveglio, e si guardò attorno senza sapere dov’era né perché mentre tutto attorno cercava quelle grida. Il grido si ripeté di nuovo, meno forte ma più lungo, ed era identico all’ultimo disperato grido che aveva gettato M1 quella notte... era Mew che gridava?

Si era addormentato in mutande forse qualche ora prima, davanti all’ennesima replica di qualche vecchio film in televisione, e ora aveva la pelle intirizzita dal freddo e scossa dai brividi, ma non aveva neppure il tempo di realizzare che cosa fosse successo: si tirò su i pantaloni di una vecchia tuta, si infilò alla cieca una camicia per coprirsi almeno le spalle e si precipitò lungo le scale.

Gli sembrava che per tutta la villa echeggiasse una sirena d’allarme, come nei bombardamenti dei film di guerra; ma tutto echeggiava soltanto nella sua testa. Nella realtà, la villa era immersa di nuovo in un silenzio d’abisso, e i passi dei suoi piedi nudi rimbombavano lungo le scale nell’aria immobile. Non c’erano più grida, ora, ed Emir ebbe l’impressione di correre in quel silenzio come attraverso un’invisibile densità che lo tratteneva e lo rallentava, in un tempo dilatato a dismisura.

La porta della camera si spalancò proprio mentre lottava con la maniglia per aprirla e Rotwang lo spinse via con una spallata. Emir incassò il colpo col respiro mozzato ma senza ritirarsi.

«Vattene via.»

«L’ho sentita gridare...»

«Non ho bisogno di te. Torna di sotto» ringhiò Rotwang scendendo le scale due gradini per volta. Emir gli corse dietro.

«Rotwang! Perché stava gridando?»

Gli parve quasi di poter udire il sarcasmo delle sue parole senza ch’egli le pronunciasse: perché sta partorendo. Non ti sfugge nulla, eh?; ma quella volta era troppo occupato dalla sua borsa medica e dagli asciugamani da recuperare per perder tempo a rispondergli. Emir cercò invano di sbarrargli il passo, ma Rotwang neppure perse tempo a spingerlo via: lo scansò e basta, scivolandogli accanto senza neppure guardarlo. Al culmine della disperazione, Emir lo afferrò per le spalle e lo scosse. Solo in quel momento gli occhi di Rotwang incontrarono i suoi. «Rotwang, ti prego, lascia che ti aiuti!»

Vi fu un lampo d’esitazione negli occhi di Rotwang, per un istante. Distolse lo sguardo perché il suo cedimento non gli si leggesse in viso.

«Se vuoi esser d’aiuto, chiudi tutte le finestre e resta fuori dalle palle.»

Emir obbedì alla prima metà del suo ordine. Percorse di corsa il primo e il secondo piano, sbatté le finestre e le imposte, e scivolando scalzo lungo i corridoi interminabili corse di nuovo alla camera di Rotwang – era arrivato in tempo? Ma in tempo per cosa – che cosa stava per accadere che sentiva dentro di sé più ancora che nelle grida?

Rotwang era chino sul letto intriso di sangue. Se avesse visto attraverso di lui, Emir avrebbe visto Mew, ne era certo, la sentiva agonizzare; ma fra lui e lei c’era Rotwang, ed Emir non vide nient’altro che le sue spalle tremanti e la grande massa dei suoi capelli, come quella notte... eppure, anche senza vederla, Emir sapeva che cosa stava succedendo, si sentiva legato alla sua sofferenza da un filo più forte di quanto fosse la vista, Emir la sentiva, lui lo sapeva che stava morendo e che non si poteva fare niente...

Rotwang percepì la sua presenza senza bisogno di voltarsi, la sentì dal suo respiro affannato e dalla sua disperazione. Si voltò appena a guardarlo al di sopra della spalla e gridò: «Vattene via!»

«Vuole che l’aiuti!» gridò Emir vicinissimo al letto, stava quasi per vedere cosa c’era sulle coperte, lo stava chiamando, sentiva la sua voce!

Rotwang gli tirò un pugno nello sterno. Emir si ritrovò senza fiato, cogli occhi chiusi e piegato su se stesso, e Rotwang lo afferrò per le spalle e lo trascinò in corridoio. Stava per chiudere la porta della stanza, da quel momento non l’avrebbe rivista mai più, e forse Rotwang non avrebbe saputo cosa bisognava fare: era lui che si sentiva chiamare...

«Rotwang» gracchiò con una voce che non era neppure più voce, ma un rantolo che usciva a stento dal canale sottilissimo della sua gola. «Ha bisogno di me.»

«Stanne fuori, Fuji» rispose Rotwang sbattendo la porta. Il rimbombo che scosse il pavimento fu l’ultima cosa che udì da parte sua.

 

La porta si aprì in silenzio sulla sua disperazione. Emir levò lo sguardo dal pavimento senza sperare più nulla: solo, aspettava.

Rotwang si stagliava sulla soglia immobile, colle maniche arrotolate fino al gomito, i capelli sporchi e il volto bagnato di sudore e lacrime. Non pareva neppure più lui, era evaporato come uno spettro di se stesso. Emir lo guardò senza parlare – sapeva già che cosa era accaduto da prima ancora che uscisse, forse lo sapeva da ancora prima che accadesse; quella voce che aveva sentito gli diceva che era tutto già scritto, forse dal giorno in cui se n’era andata sua madre, di certo dalla notte della giungla, eppure attese ugualmente che Rotwang parlasse.

Non disse che cosa era successo. Per un po’ non disse niente del tutto. Quando parlò la sua voce sembrava provenire da un luogo molto remoto, da un altro universo addirittura.

«Non sei intervenuto solo sul sesso.»

Emir non rispose, allora Rotwang parlò ancora.

«Per quello che hai fatto, non potevi... avevi bisogno di altro DNA per intervenire sul suo. Ma qui non avevi nulla, come hai fatto a...»

Emir sapeva che Rotwang era troppo intelligente per non conoscere la risposta, e dirla ad alta voce sarebbe stato troppo crudele e troppo doloroso, perché sapeva che la verità aleggiava già ai margini della sua coscienza ed egli semplicemente si rifiutava di guardare.

«Sono morti entrambi» disse Rotwang con voce sorda. «Lei e quella... quella cosa che tu hai fatto. Sei contento? Sei libero, adesso.»

Qualcosa si fermò per un istante nel suo petto perché non era questo che era destinato ad accadere fin da quella notte nella giungla – non doveva morire il piccolo. Non era così che doveva andare. L’aveva progettato e programmato e generato perché vivesse e sopravvivesse a tutto, non come M1, non come M2, e ora Rotwang faceva irruzione lì e diceva che era morto!

Si tirò a fatica sulle gambe perché doveva vedere coi suoi occhi se era vero, e se sì doveva capire che cosa era successo e dove aveva sbagliato e che cosa poteva essere andato storto; ma Rotwang, o quello che di Rotwang rimaneva dopo quell’ultima morte, non si mosse. Il suo corpo grande e forte, svuotato dall’interno, rimase inamovibile sulla soglia, che occupava interamente, ed Emir non aveva modo di oltrepassarlo.

«Tu non vai da nesuna parte» disse Rotwang appoggiandogli sul petto una larga mano piatta. «Non puoi vederla. Non devi toccarla. Non appartiene più a te.»

«Voglio vedere il piccolo» insisté Emir, ma la mano di Rotwang lo trattenne senza neppure bisogno di spingerlo.

«È morto. Non mi hai sentito?»

È mio, avrebbe voluto urlare Emir, ma la sua bocca istupidita non trovava parole. È mio, non appartiene a te. Mew era troppo stupida e debole per generare da sola il compimento della sua specie...

La sua espressione vacua, attonita finì per urtarlo ancora di più, forse perché Rotwang s’era aspettato che quantomeno si ribellasse, piangesse o si disperasse; ma Emir non faceva nulla di tutto ciò perché quello che aveva detto non poteva essere reale. Doveva esserci un errore.

«Non te ne importa?» domandò guardandolo fissamente, cogli occhi spalancati, dilatati, quasi folli. «Non dici nulla?»

«Vogli vederlo» ripeté Emir senza capire.

«Fuji, è morto!» urlò Rotwang. «Anche lei è morta per colpa tua! E perché io non sono stato forte abbastanza da impormi su di te e portarla fuori di qui... perché io...»

«Ce l’avrebbero portata via» mormorò Emir macchinalmente.

«Ma forse sarebbe viva!» gridò Rotwang.D’un tratto non resisteva neppure più, ora piangeva, ed Emir si ritrasse dalla sua disperazione come da qualcosa di estraneo e fuori posto. Era incredulo, come se solo in quel momento stesse cominciando a metabolizzare quella morte e quel dolore. «Ho fatto come hai fatto tu.. non so neppure perché. Ho avuto paura e sono stato egoista e ho pensato soltanto a... non lo so che cosa ho pensato. Di essere un medico e poterli salvare entrambi. E ora Mew e quella cosa sono morti per colpa...»

Emir spinse contro quella mano inamovibile che sul suo petto si faceva sempre più debole e ripeté: «Devo andare da lui.»

«Fa’ come ti pare» rispose Rotwang allontanandosi di scatto dalla porta, e da quel subitaneo cambio di attegiamento Emir rimase stupefatto tanto che non fece un movimento per entrare nella stanza. S’era aspettato di dover lottare ancora, e invece ora che gli aveva detto tutto quel che aveva da dirgli pareva che Rotwang non intendesse impedirglielo più. Emir ristette incredulo, sospettoso, ad aspettare che di punto in bianco Rotwang lo cogliesse di sorpresa e lo colpisse di nuovo o altro... ma Rotwang non fece nulla ed Emir esitò.

«Tu non...»

«Se vuoi vedere il cadavere, vai» sibilò Rotwang. «Non ti rimarrà molto tempo, perciò... se ci tieni tanto, vai. Io vado a costituirmi. Probabilmente ci arresteranno entrambi nel giro di un’ora, perciò, se ti fa tanto piacere vegliare due cadaveri, trascorrila pure come vuoi.»

Tutto si era svolto in un circolo del tempo che ora tornava a chiudersi su se stesso: la morte, la polizia, la minaccia, la giungla e poi il tradimento; e ora tutto ricominciava da capo, e al centro di tutto, come sul palcoscenico di una tragedia, c’era la villa. All’inizio di quel circolo Emir l’avrebbe impedito, avrebbero combattuto e litigato e per la rabbia forse l’avrebbe ammazzato; ma ora che aveva capito d’essere all’interno di un circolo che eternamente si ripeteva, e che all’interno di esso era risuonata quella voce, d’un tratto vedeva con irripetibile chiarezza che tutto ciò non importava più. Non poteva impedirlo in ogni caso, e forse persino doveva andare così.

Si fece da parte. «Vai» disse. «Non ti fermerò.»

Rotwang esitò un istante; forse avrebbe voluto dir qualcos’altro, ma non c’era altro da aggiungere, e gli passò accanto senza una parola. Emir sentì ancora per qualche minuto i suoi passi nella grande casa vuota, lo scrosciare dell’acqua, i suoi passi di nuovo; aspettò tranquillamente. Ora che Rotwang stava lasciando la villa, di certo per sempre, d’improvviso non c’era più alcuna fretta. Si udì infine, lontano, il boato del grande portone, rimase nell’aria per un po’ sotto forma di vibrazioni: Emir attese che anch’esso si spegnesse.

Avanzò solo quando tutto fu silenzio. La camera non gli sembrava più la stessa; tutto tranne lui era immobile, forse morto. Il suo era il solo respiro.

Il letto era disfatto. Le coperte arrovesciate formavano catene montuose che ostacolavano il suo sguardo; Emir s’inoltrò nella stanza a poco a poco, cautamente, e a misura che s’avvicinava la sua vista si accresceva e spaziava sul letto come su un orizzonte.

Mew aveva gli occhi spalancati e la bocca aperta. Era la stessa creatura che egli aveva amato all’inizio, tanto quanto aveva odiato poi; eppure Emir stentava a riconoscerla perché i suoi occhi ora privi d’espressione erano infissi nel vuoto. Il suo sguardo passò oltre il suo corpo morto. Accanto al suo cadavere, sul letto, c’era una gran massa oscena, violacea, sanguinolenta, che doveva essere la placenta; Emir ignorò anch’essa e guardò oltre.

Fino a quel momento non aveva avuto idea di che aspetto avrebbe avuto il piccolo. Lo guardò con interesse. Non era come si aspettava. Era minuscolo, e questo era ovvio, ma fino a quel momento nella sua mente se l’era immaginato enorme, monumentale; lo sarebbe stato se fosse cresciuto, però. Ma come poteva non essere sopravvissuto? Tutto era stato calcolato; avrebbe dovuto vivere a dispetto di tutto e diventare il Pokémon più potente, allora che cosa era successo? Forse Mew non era stata forte abbastanza da dargli la vita; e nel disperato tentativo di venire al mondo, egli aveva risucchiato anche quella di lei?

Aveva il corpo asperso della stessa peluria morbida e rada di quello di lei, più livido però, quasi viola, e di muco e sangue e una sorta di ripugnante gelatina. Aveva gli occhi chiusi, forse perché non aveva mai davvero vissuto, a differenza di lei, e a Emir dispiacque perché gli sarebbe piaciuto vederne il colore.

Rimase in silenzio accanto ai cadaveri di quei morti per un tempo indefinitamente lungo. Di tanto in tanto, tendeva l’orecchio: si aspettava di sentire da un momento all’altro la sirena di un’auto della polizia che veniva a prenderlo come aveva detto Rotwang, o almeno il rumore di un motore, il suono del campanello o del telefono... ma ancora non arrivava nessuno. Poteva darsi che ci volesse un po’, in fondo. Non c’era fretta. Avrebbe aspettato lì con loro.

Il cucciolo spalancò gli occhi e nello stesso istante Emir sentì rimbombare la sua testa della stessa voce che fino ad allora gli pareva aver soltanto mormorato al suo orecchio per chiamarlo.

«Se n’è andato.» Emir si ritrovò in ginocchio con le mani sulle orecchie, era certo che stessero sanguinando; ma il piccolo neppure aveva aperto la bocca, la sua voce era soltanto nei suoi occhi e nella sua mente. «Finalmente siamo rimasti soli.»

 

6 febbraio. Mew ha partorito. Il piccolo si chiama Mewtwo.

   
 
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