Avevo
promesso
che non avrei lasciato da parte questo progetto, e come vedete eccomi
qui: so
che ormai è più un meme che altro, io che spunto
dal nulla dopo mesi di
silenzio e posto un capitolo, ma questo è. Se ancora
c’è qualcuno che sta
seguendo questa storia, vi informo che siamo quasi alla fine, lo
assicuro!
Recap
dei capitoli precedenti: Rotwang è partito per la seconda
spedizione in Guyana
alla ricerca di un altro Mew; Emir è rimasto solo nella
villa con Mew per circa
due mesi. Ha iniziato a perdere sempre più coscienza del
tempo che passava e ad
abusare dei farmaci che Rotwang gli aveva lasciato nel tentativo di
aiutarlo a
superare la sua depressione; mentre cercava il laudano e altri oggetti
del
misterioso, folle costruttore della villa, si è accorto che
Mew è evidentemente
in grdo di leggere nel pensiero. A questo punto, ha rimesso in funzione
il
prototipo del macchinario per il sequenziamento del DNA che aveva
realizzato
per la sua tesi di laurea.
Augurandovi
buona lettura, non posso non ringraziare Fiulopis per aver betato
questo pappone
di capitolo.
Dedicato
a Persej Combe, un po’ in ritardo per il suo compleanno.
Capitolo
XIII – Frangibile
Il
giorno del ritorno di Rotwang Emir si fece la barba e si
vestì.
Non
ricordava quando fosse stata l’ultima volta. Si era
rasato, quelle volte che era sceso in paese a comprar qualcosa da
mangiare? Non
gli pareva, ma tutto nella sua mente era ovattato e distante, confuso,
e sul
mento e sulle guance aveva una barba ispida lunga di giorni. A
toccarla, era
ripugnante; ma quando si chinava sullo specchio, avvicinando il volto
al vetro
per osservare se stesso e la barba da vicino, le sue occhiaie
risaltavano viola
sulle sue guance scavate che parevano di un affamato, e quella vista
forse lo
disgustò ancora di più. Tirò fuori
dall’armadio qualche vecchio completo di
quando ancora lavorava, ma quando li indossò e
passò davanti allo specchio per
cercare di sistemarsi, i pantaloni gli ballavano addosso,
l’ultimo buco della
cintura era ancora troppo largo per i suoi fianchi e la giacca ricadeva
sulle
sue spalle informe come un sacco, come fosse quella di un altro. Se li
tolse e
li gettò sul pavimento in un impeto di rabbia, pensando che
Rotwang si sarebbe
accorto di certo che non aveva mangiato, che non era stato ai patti; se
dell’aspetto ossuto, mostruoso che aveva assunto il suo corpo
si fosse accorto
prima, forse avrebbe potuto far qualcosa; ma riprendere peso
nell’ora che lo
separava dall’attracco del traghetto non era possibile.
Cercò di mascherarsi
così come poteva: indossò una camicia che un
tempo gli era andata troppo
stretta e la infilò in un paio di jeans scoloriti che,
quantomeno, non
avrebbero avuto addosso a lui la stessa aria sciatta del velluto troppo
largo.
Aveva l’aria sperduta di un disoccupato di quasi
quarant’anni infagottato in
vestiti vecchi e troppo larghi per lui, ma, con le sue spalle magre e
le cosce
che tra di loro non si toccavano neppure più, quello era
l’aspetto migliore che
poteva ottenere.
Quando
Rotwang era partito, erano andati entrambi al molo
con l’automobile mandata dal Laboratorio a prenderli; in quel
momento, due auto
si trovavano già al molo ad aspettare il ritorno della
spedizione per
riaccompagnare i membri alle loro case e, se il giorno precedente Emir
avesse
fatto una telefonata alla sua ex segretaria, avrebbe potuto farsi
accompagnare
per il viaggio di andata. Si fosse trattato di lei, lo avrebbe chiesto
volentieri; ma chiedere un favore attraverso di lei avrebbe voluto dire
ottenerlo, indirettamente, da Valérien. Chiamò un
taxi che venne a prenderlo di
fronte al cancello in ferro battuto della villa all’ora
convenuta: il tassista
scese in silenzio per aprirgli la portiera, ed Emir ebbe una fugace
visione di
un’altra estate, di un’altra auto che lo attendeva
e di Dale che scendeva ad
accoglierlo nei suoi giorni di gloria. Quei giorni erano finiti. Il
tassista lo
fece accomodare con cortese deferenza, ed Emir trascorse il viaggio
sentendosi
profondamente a disagio nei suoi abiti e su quel sedile, a osservare
con
sospetto nello specchietto retrovisore il volto dell’autista
che ogni tanto gli
accennava un sorriso.
Si
sentì assai sollevato quando intravide il traffico
accrescersi intorno alla zona del molo e il taxi iniziò a
rallentare per
inserirsi tra le auto in direzione degli approdi dei traghetti. Quel
giorno non
c’erano giornalisti né curiosi come nel giorno del
loro ritorno anni prima: la
seconda spedizione era passata sotto silenzio e inosservata proprio
come Dale
aveva progettato. Da quel punto di vista, era stato un successo: la
campagna di
ricerca era stata un perfetto fallimento, ma nessuno ne avrebbe
parlato.
Il
traghetto era già arrivato. Il tassista accostò
appena
al di fuori della corsia di scorrimento, Emir gli chiese di aspettare
un minuto
e si affacciò al di fuori dell’auto per cercare
con lo sguardo. Non dovette
aspettare molto: stavano sbarcando i passeggeri a piedi, scendendo in
file
disomogenee lungo le passerelle, ed Emir aguzzò lo sguardo
per scorgere tra di
essi un volto che conosceva. L’interminabile massa degli
estranei gli appariva
intollerabile, voleva andar via, gli pareva che avrebbero dovuto
smetter di
fluire dal ventre del traghetto e lasciar passare Rotwang, ma
continuavano a
sgorgare a fiotti, e in piedi di fronte al taxi che attendeva Emir si
sentiva
esposto e vulnerabile e rimpiangeva d’esser venuto fin
lì.
Una
mano gli batté sulla spalla da qualche parte al suo
fianco. Emir diede in un sobbalzo pauroso, gli parve che il cuore gli
battesse
tanto forte da rompere le sbarre della cassa toracica, ma quando si
voltò si
ritrovò davanti solo alla risata di Rotwang che si
compiaceva del suo scherzo.
«Nervi
fragili, eh, Fuji?»
Se
avesse potuto comprimersi il cuore nel petto con la
mano, l’avrebbe fatto; ma non si poteva, ed Emir si dovette
limitare a
balbettare nello sciogliersi della tensione: «Da
dove sei arrivato?»
«Sono
sceso da un po’, Lestournelle ha chiesto di farci sbarcare
per primi. In fin
dei conti tutti nella vita hanno uno scopo, a quanto pare il suo era
questo.
Allora, andiamo?»
Dopodiché, senza attendere risposta, Rotwang
spalancò la
portiera del taxi e gettò alla cieca il suo zaino sul
sedile. Aveva preso il
sole, alla maniera dei tedeschi, ossia aveva la pelle arrossata e
screpolata e
bruciature sul naso e sulle guance, e persino sugli avambracci che
rimanevano
scoperti dalle maniche arrotolate della camicia di lino. «Non
mi aspettavo di trovare questo freddo in Kanto. Andiamo a casa, non
vedo l’ora
di infilarmi sotto la doccia... Fuji, ti muovi?»
Rotwang
si aspettava di tornare a casa e trovare tutto come
l’aveva lasciato: Mew, il suo lavoro, il loro letto disfatto,
e di poter
tornare alla vita di prima come se nulla fosse mai accaduto,
perché ancora non
sapeva, e in mezzo a tutta quella folla di gente Emir non poteva
rivelargli che
si stava sbagliando.
«I
tuoi bagagli...»
«Oh,
quelli posso andare a ritirarli in laboratorio nel pomeriggio,
Lestournelle
farà consegnare tutto lì. La roba importante
è nello zaino, perciò possiamo
andare.»
Sentendo
di star accumulando una menzogna dopo l’altra a
ogni parola che non poteva pronunciare, Emir salì sul taxi e
chiuse la portiera
dietro di sé.
Mentre
si lasciavano alle spalle il molo, Rotwang si
allungò sul sedile e stiracchiò le gambe come se
fosse stato a lungo costretto
in una posizione scomoda. «Grazie
di essere venuto a prendermi. Senti, hai già pensato
a qualcosa per cena? Possiamo ordinare qualcosa da asporto, io non ho
la minima
voglia di cucinare. Cosa c’è di aperto questa sera?»
«Devo
dirti una cosa»
disse Emir improvvisamente.
La
serenità sul volto di Rotwang si gelò
nell’istante stesso
in cui egli aveva parlato. Gettò un lungo sguardo
all’autista per accertarsi
che stesse ascoltando e proseguì, con un tono calmo e
neutrale e la voce che
ciò nonostante vibrava di tensione: «Un
preambolo piuttosto angosciante, ti pare?»
«Lo
so» rispose Emir. In quella macchina soffocante si sentiva
costretto; avrebbe
voluto scappare, trovare aria, ma abbassando il finestrino nelle strade
affollate si sarebbe sentito ancora più esposto. Si
costrinse a restare calmo e
immobile sebbene gli sembrasse che migliaia di animali striscianti gli
camminassero addosso, sotto la camicia, contro la pelle, e
mormorò: «Non è
nulla d’irreparabile... però bisogna che te lo
dica... quando arriviamo a
casa.»
«Se
sei stato con un altro, non lo voglio sapere» disse
Rotwang improvvisamente.
Emir
si aspettava talmente poco quelle parole che esitò.
«Che cosa vuoi dire?»
«Voglio
dire quello che ho detto» ribatté Rotwang con
un’irritazione quasi dolorosa. Emir aveva la sgradevole
sensazione di non
riuscire a seguirlo. «Sono stato io a dire che non stavamo
insieme, perciò se
hai fatto qualcosa mentre ero via eri nel tuo diritto e non sei tenuto
a dirmi
nulla… solo che io non voglio saperlo.»
Emir
gettò verso l’autista uno sguardo di supplica
senza
neppure sapere chi volesse supplicare, se lui di non ascoltare o
piuttosto
Rotwang di non parlare così di fronte a lui; ma il tassista
aveva lo sguardo
innaturalmente fisso sulla strada come se fingesse di non ascoltare, e
in
quanto a Rotwang non si poteva fermare.
«Ma,
io… non ho fatto niente» balbettò nella
speranza di
metterlo a tacere. «Cioè, non sono
stato… perché pensi che avrei mai...»
Rotwang
si calmò all’istante così come aveva
iniziato, come
se la sua sola parola bastasse a inondarlo di sollievo.
«D’accordo. Allora
cosa?»
Emir
gli lesse negli occhi il momento in cui il pensiero di
Mew gli attraversò la mente e non poté trovare
voce perché al di fuori che
cogli occhi il nome di Mew non si poteva pronunciare.
«No»
esclamò troppo forte e troppo d’improvviso
perché
l’ostentato disinteresse dell’autista, che ancora
platealmente li ignorava
scrutando la strada, apparisse ancora credibile. «No, non
devi… non è nulla di
quello che pensi, solo che… è meglio che tu lo
veda con i tuoi occhi.»
Era
stato sciocco da parte sua anche solo credere di
poterglielo dire o anche solo preparare –
Rotwang doveva vedere. Davanti
all’autista non si poteva dire, a parole non si poteva dire,
se anche si fosse
potuto dire Rotwang non avrebbe creduto: doveva vedere. Doveva scendere
con lui
nel sotterraneo e vedere che cosa aveva fatto.
Rotwang
lo fissò freddamente per un momento, Emir stentò
a
reggere la forza del suo sguardo che lo accusava. Un istante dopo,
Rotwang
distolse lo sguardo da lui, si protese in avanti e domandò
ad alta voce: «Questa
crisi di coppia è imbarazzante per me quanto per lei. Non
è che potrebbe andare
più veloce, eh?»
Ritrovandosi
a fatica costretto a far finta di non aver
sentito nulla quando neppure volendolo gli sarebbe stato possibile,
l’autista
tossì un paio di volte per schiarirsi la voce. «Alla
Villa, dottore?»
«Alla
Villa, come no»
mormorò Rotwang tornando ad appoggiarsi al sedile. Emir
cercò cogli occhi il
suo sguardo, ma invano: ora Rotwang guardava con ostentazione fuori dal
finestrino, ma gli tremavano le mani, e nervosamente tamburellava col
tacco al
suolo. «Abbiamo
da risolvere una faccenda.»
«Ora
mi dirai cos’è successo»
disse Rotwang scaraventando il suo zaino a terra. Emir
arretrò
lentamente di fronte a lui senza dargli le spalle perché
voleva continuare a
vederlo in faccia.
«Scendiamo
giù e te lo spiego.»
«Prima
avevi tanta fretta di colmarmi di angoscia e ora non più?
No, Fuji, non
funziona così.» Rotwang ribolliva di rabbia come
lava sotto una superficie ed
era tanto più pericoloso quanto più era calmo. Si
guardò attorno. «Lei
dov’è?»
«È
giù» insisté Emir disperatamente.
«Ti giuro che sta bene... ma devi venire con
me.»
«Fuji»
insisté Rotwang con una calma glaciale che non gli era
propria. «Che cosa è
successo mentre ero via?»
«Rotwang,
ascoltami» disse Emir. Non s’era nemmeno accorto di
aver continuato ad
arretrare: se ne rese conto quando toccò la parete con le
spalle e s’accorse di
non poter indietreggiare oltre. S’augurò che
Rotwang non lo incalzasse ancora.
«Mew sta bene, ma voglio che tu la veda prima. Capirai tutto
quando la vedrai,
te lo prometto, ma devi venire con me. Per favore.»
Rotwang
temporeggiò per un tempo indefinitamente lungo, i suoi occhi
lampeggiavano.
Trasse un respiro profondo. «Bene»
mormorò. «Allora, andiamo giù. Fuji...
spero
per te che non le sia successo niente.»
Emir
non rispose.
Sbloccò
i vari meccanismi l’uno dopo l’altro mentre Rotwang
scalpitava dietro di lui,
sforzandosi d’ignorare la sua impazienza e la minaccia che
dalla sua rabbia
proveniva. Tutto ora era inevitabile, sarebbe accaduto senza
ch’egli potesse
impedirlo, come ogni cosa dalla notte in cui aveva chiamato Mew e
l’aveva
invitata a giocare con lui: il momento in cui Rotwang avrebbe visto lo
riempiva
d’angoscia e gli pareva di non riuscire a respirare, ma
sarebbe accaduto in
ogni modo, e non si poteva far altro che accelerarlo e affrontarlo
quando
ancora era in grado di controllare le cose. L’ultima porta
celata si spalancò e
discesero la scala che dava nel buio. Alle sue spalle, il respiro di
Rotwang
era un rumore enorme nell’oscurità.
Le
aveva lasciato la televisione accesa quella mattina perché
non si annoiasse.
Quando aveva lasciato il sotterraneo c’era un cartone
animato, ma in quel
momento, quasi ora di pranzo, c’era un programma di cucina, e
Mew s’era
acciambellata sul divano e dormiva. Alla sua vista, Rotwang trattenne
il fiato
per un momento.
«Mew»
chiamò dall’ultimo gradino. Gli tremava la voce.
«Mew, sono qui.»
Mew
spalancò nel buio i grandi occhi, scodinzolò di
gioia e si sollevò sul divano
per guardarlo, scoprendo al di là dello schienale il vasto
ventre rigonfio
della gravidanza.
D’improvviso
non era più Rotwang – era il dottore.
«Ehi»
mormorò. Si avvicinò al divano con una cautela
nuova,
come se temesse di spaventarla; ma Mew non aveva paura di lui.
Soltanto, era
diventata troppo gonfia e pesante per alzarsi, e forse era Rotwang ad
aver
paura.
Si
sedette al suo fianco sul divano e si lasciò annusare,
più per rispetto di lei e dei suoi spazi che
perché ci fosse la possibilità che
non lo riconoscesse; ma erano cambiate tante cose dall’ultima
volta che s’erano
visti, e il medico aveva troppo rispetto di ciò che era in
lei per toccarla
così, familiarmente, come una volta; e forse anche lei era
un po’ cambiata, e
un istinto nuovo la spingeva a esser più cauta di quanto
fosse stata prima.
Rotwang attese con la mano tesa, tremante, e le dita spalancate
finché Mew non
abbandonò familiarmente il muso contro il palmo della sua
mano. Era contenta
che fosse tornato. Rotwang l’accarezzò piano sul
muso, in mezzo agli occhi, là
dove le piaceva molto, e poi a poco a poco, quasi senza che se ne
accorgesse,
fece scivolare la mano verso il suo addome rigonfio. La fiducia di Mew
era tale
che non ebbe moto.
«Sei
stato tu?» mormorò senza guardarlo. Era una
domanda,
ma una domanda sciocca, indegna di lui, poiché entrambi
sapevano che non poteva
essere altrimenti, ed Emir non riuscì a rispondergli.
Rotwang, che non si
aspettava una risposta, non disse niente.
La
pancia di Mew era sporgente e gonfia, ma in modo
innaturale, grottesco, ed Emir non ne distoglieva lo sguardo. Sotto le
mani di
Rotwang, che saggiavano là dove s’aspettava di
sentire qualcosa, era
orrendamente inquietante.
«Perché?»
Aveva
la voce incrinata, tremante, ed era la domanda che
aleggiava tra loro fin dal molo. Emir aprì la bocca,
spalancò le braccia, fece
per parlare, ma in fondo alla sua gola le parole non presero forma.
Abbassò le
braccia senza dir nulla.
«Emir,
perché?»
Emir
non disse niente.
«Hai
usato il prototipo? Quello che mi hai fatto vedere...»
«Sì»
mormorò Emir.
Rotwang
tacque a lungo, cogli occhi socchiusi, come
incassando un profondo dolore. Inspirò a fondo.
«Volevi
vendere i suoi piccoli?»
«No!»
gridò Emir disperatamente, perché Rotwang non
doveva,
non doveva credere questo! «Non è vero, questo non
me lo merito! Lo sai anche
tu che ho rinunciato...»
«Alla
tua carriera?» lo interruppe Rotwang levando lo
sguardo. «Ma alla scienza no, mi pare...»
La
calma della sua voce lo spaventava più della rabbia che
ricordava. Dagli attacchi frontali e dagli scoppi d’ira
sapeva difendersi, ma
dalla calma glaciale della sua voce, da quella no.
«Non
è quello che credi. Io volevo soltanto...»
«Ah,
davvero» ribatté Rotwang
alzandosi in piedi;
d’improvviso gli apparve enorme, spaventoso, Emir
arretrò sentendosene
annichilito. D’un tratto gli parve che se non avesse
attaccato sarebbe stato
sopraffatto.
«Ma
non sei stanco anche tu di vederla debole così?»
gridò,
ma la sua voce era esile e supplichevole e troppo acuta. «Di
vederla indifesa e
dipendente da noi e di dover badare a lei per tutta la vita, e di non
poter
essere liberi mai...»
«Emir.»
Quella calma gelida della sua voce era svanita: ora le sue parole erano
incerte, caute e avanzavano a tentoni per percepire la
realtà e cercare di
delinearne i confini. «Ma
di che cosa stai parlando?»
Tuttavia
la sua voce era ancora distante, remota come se
provenisse da un’ineffabile distanza. Emir aveva ora tutta la
sua attenzione,
eppure sapeva giò da prima di parlare che non avrebbe capito.
«È
così indifesa, eppure così potente... avrebbe
potuto tornare in Guyana, andare
libera dove preferiva, eppure rimane qua prigioniera con noi... io
volevo
soltanto che potessimo essere liberi senza di lei...»
Che
c’entra tutto questo?,
urlavano gli occhi di Rotwang, ma con un dominio ce non aveva eguali,
egli si
sforzò e socchiudendo gli occhi, inspirando profondamente,
si massaggiò le
tempie e disse: «Quello
che dici non ha alcun senso, lo senti anche tu.
Vero?»
Chissà
per quale motivo quelle parole lo ferirono più che se avesse
gridato – ma poi,
perché non gridava, non bestemmiava, perché non
sbatteva le porte? Era soltanto
per non spaventare Mew? Com’era che Rotwang non capiva?
«Quando
studiavamo i fossili in Laboratorio, allora non eri contrario a
intervenire sul
DNA...»
«Sei
intervenuto sul...» Ma prima di porgli la domanda che Emir
temeva di più,
Rotwang ne distolse la mente come se la strattonasse via.
«Emir, intervenivamo
sul DNA perché non sarebbero sopravvissuti in ambiente
moderno. Ma Mew è qui, è
viva, sta bene... ti rendi conto che tutto quello che dici non ha alcun
senso?»
Non
avrebbe capito. Emir si prese il viso tra le mani e rimase in silenzio
sotto la
ferrea logica del suo sterile bunsenso. «Tu la ami
troppo» mormorò in tono
d’accusa, ma più per se steso che per lui, contro
il palmo delle sue mani
chiuse, perché di fronte all’ostinazione della sua
incomprensione non si poteva
obiettare altro se non questo – che Mew era imperfetta ma
semiperfetta e che se
solo fosse stato un po’ più come diceva lui,
allora niente di tutto ciò sarebbe
mai accaduto; che se solo l’avesse amata un po’
meno, allora avrebbe visto che
la ragione della loro miseria era unicamente lei... ma
l’amore che copriva gli
occhi di Rotwang era tale che non avrebbe visto mai quello che vedeva
lui. Ai
suoi occhi, Mew non avrebbe potuto esser mai più perfetta di
così...
Rotwang
attendeva una sua risposta come se da essa dovesse scaturire tutta la
verità,
ma la verità Emir gliel’aveva già
detta, era lui a non volerla capire.
«Richard... io volevo solo renderla migliore di
com’è ora.»
Rotwang
ne fu abbattuto come se lo avesse colpito. Si gettò riverso
sul divano per non
vederlo, e Mew lo guardò con curiosità
perché non l’aveva mai visto far così.
Emir dovette chinarsi verso di lui per percepire le parole che
fuoriuscivano dai
cuscini.
«Non
li hai presi i farmaci, vero?»
La
voce gli incespicò sulle labbra, gli morì in
gola: questa verità forse si
vergognava a dirla più dell’altra.
«Sì, li ho presi, però...»
«Però?»
«Forse
non come hai detto tu.»
Non
c’era altro da dire. Rotwang chiuse gli occhi,
gettò il
capo all’indietro e rimase in silenzio. Emir
s’accorse che stava piangendo solo
perché Mew, che fino ad allora era rimasta immobile, si
sollevò a fatica dal
suo nido di coperte e si accostò al suo viso per annusare le
sue lacrime. Il
suo dolore era tale che Rotwang non la guardò neppure.
«Che
cos’hai fatto sul DNA?» chiese senza guardarlo.
A
questa domanda avrebbe preferito non rispondere. La sua
bocca elaborò una mezza verità prima ancora che
la sua mente avesse modo di
riflettere. «Volevo un maschio. Cromosoma Y.»
«Un
maschio» ripeté Rotwang con voce sorda ed Emir
temette
per un attimo che avrebbe chiesto ancora, che avrebbe voluto sapere
perché,
indagare ancora; ma era talmente sopraffatto che non parlò
più.
Rimasero
in silenzio per un tempo indefinitamente lungo:
Mew li guardava alternativamente, forse perché
s’aspettava un’attenzione che
ora non le veniva prestata e non capiva. Emir sentiva se stesso
respirare nel
buio. Quando a lungo Rotwang l’avrebbe lasciato
così in un limbo?
Mew,
pigolà
Mew in tono di accusa. La sua voce parve restare a lungo sospesa nel
silenzio
senza scopo, ma quando ormai sembrava che non sarebbe accaduto nulla,
Rotwang
aprì gli occhi e si voltò verso di lei. Mew
scodinzolò di gioia.
«Che
devo far di te?» mormorò Rotwang. Emir
levò il capo di
scatto, gli si rivolse in un anelito d’attesa – ma
Rotwang non stava guardando
verso di lui e non aveva modo di comprendere a chi si riferisse.
«Cosa...»
D’improvviso
Rotwang trasse un respiro profondo, si rimboccò
le maniche e si alzò come se si accingesse a un lavoro. Dal
pavimento Emir lo
guardò annichilito. Che stava succedendo?
«Dove
vai?» gridò quando Rotwang girò attorno
al divano per
avvicinarsi alla porta.
«Vado
a cercare aiuto. Non possiamo tenerla in casa in
queste condizioni.»
Tra
tutti gli scenari che aveva vagliato nella sua mente,
questo era l’unico che non c’era.
Emir
scavalcò il divano e gli si parò davanti per
tagliargli la strada. Rotwang lo scrutava dall’alto senza
espressione. «No, no,
no, no...»
«Vuoi
dire qualcosa?»
Emir
non era in grado di articolare più d’un pensiero
compiuto alla volta. La sua mente era sovraccarica
d’informazioni e conseguenze
della sua decisione. «Sei impazzito. Se la fai uscire di qui
finiamo entrambi
in galera.»
La
maschera oscura del volto di Rotwang s’illuminò di
una
luce amara, cattiva, ed egli sorrise. «Ma davvero?»
Emir
si rese conto con orrore che Rotwang sapeva benissimo
che cosa sarebbe accaduto loro, e proprio per questo non
c’era modo di
distoglierlo dalla sua decisione. Si ritrovò ad ansimare.
«Aspetta, aspetta! Tu
non vuoi questo, pensaci ancora bene...»
«Emir.»
La voce di
Rotwang era calma ma inflessibile. «Fammi passare.»
«Rotwang,
sarà tutto finito! Ti rimanderanno in Germania...»
«Emir»
ripeté Rotwang.
«Fammi passare.»
«Tu
non sai come funziona, nemmeno tuo fratello potrà tirarci
fuori...»
«Fammi
passare.»
«Ce
la porteranno
via e tu non la vedrai mai più!»
Rotwang
si ritirò da
lui come di fronte al sibilo di una vipera. Anche questo sapeva che era
vero,
inappellabile, ed Emir si aggrappò a quell’arma
perché era evidente che era
l’unica, sebbene meschina, in grado di colpirlo. «È
così, lo sai anche tu che è così! La
riporteranno alla Silph,
forse a Zafferanopoli, per tenerla al sicuro. Dale venderà
il cucciolo a
Giovanni...»
«Smettila»
disse
Rotwang in un singulto. Emir lo incalzò così come
avrebbe scavato per allargare
una ferita. «Sì, sì, è
così invece! Sequestreranno il mio materiale, ma la
Silph lo ricomprerà o glielo procurerà il Team
Rocket, e lei...»
«Basta
così» disse
Rotwang scuro in volto. Si prese la fronte tra le mani per isolarsi da
lui e
dal mondo nell’oscurità dei suoi palmi chiusi.
«Che cosa vuoi che faccia?»
Emir
sentì che le
posizoni s’erano invertite, che Rotwang ora supplicava, che
la prospettiva di
perdere Mew era tale da ridurlo così, che soprattutto ora
ogni cosa dipendeva
da lui; ma questa realizzazione non gli diede la minima pace. Aveva
tradito.
«Non devi fare niente! Penserò io a tutto. La
gravidanza procede bene...»
«Non
è vero» rispose Rotwang dal rifugio delle sue
mani. «Devo proteggere te.»
«Non
ti sto chiedendo questo, è soltanto per Mew che...»
«Già,
certo.» Stavolta la voce di Rotwang risuonò
d’un
sarcasmo doloroso e amaro, ed egli finalmente levò gli occhi
dalle proprie mani
per guardarlo. «Avevi pensato a tutto prima, vero? Avevi
progettato tutto,
avevi già le parole da dirmi in tasca. Sapevi già
da prima che tornassi che per
proteggere lei non avrei mai denunciato te...»
Sentendosi
profondamente triste eppure al contempo
consapevole di non aver più alcun diritto di difendersi,
Emir mormorò: «Non
avevo pensato a niente.»
Rotwang
rise duramente. «Ah, davvero? Perché sembrava un
piano molto ben congegnato.»
«Non
ho mai avuto un piano. È la verità.»
Rotwang
levò lo sguardo su di lui in un moto di
disperazione. I suoi occhi
affondati
nell’abisso delle sue orbite supplicavano una
pietà che non poteva raggiungerlo
da alcuna parte.
«Allora
perché?»
Perché
così com’è la odio, urlava
tutta una parte della sua coscienza. Invece rispose: «Non lo
so.»
I
risultati della spedizione erano stati disastrosi.
Quando
erano tornati dal primo viaggio, quasi tre anni
prima, c’era l’urgenza di studiar Mew, e
l’azienda li aveva costretti a tornare
in ufficio dopo appena un weekend di riposo – ma ora non
c’era più nulla di
urgente da fare. Avevano trovato qualche coprolite, addirittura qualche
frammento d’osso dai quali probabilmente sarebbero riusciti,
con molta fortuna,
a estrarre qualche traccia incompleta di DNA e che, con altrettanta
probabilità,
si sarebbero senz’altro rivelati appartenenti a qualche
specie di Pokémon
ancora esistente. Non c’era fretta, e la Silph ritenne
più conveniente
obbligare i dipendenti, dopo quel tour de force, a smaltire un
po’ di ferie
arretrate e a chiudere il Laboratorio per qualche settimana. Persino la
custodia notturna fu allentata: in fin dei conti, non c’era
neanche più niente
d’interessante da rubare.
Emir
avrebbe preferito che Dale avesse avuto una trovata
diversa. Di ferie da smaltire Rotwang ne aveva tante davvero, e questo
significava che sarebbe rimasto a casa per tutte e tre le settimane di
chiusura
previste. Il lavoro almeno l’avrebbe tenuto lontano da casa
per qualche ora, ed
evitarsi sarebbe stato più facile; ma ora che era costretto
a casa, erano
prigionieri entrambi della villa come lui era stato per tutti quegli
anni.
Sarebbe
stato meglio se Rotwang fosse andato a lavorare.
Non
voleva vederlo, non voleva parlargli. Era arrabbiato,
no, era confuso; non gli rivolgeva la parola, e questo forse era un
bene – no,
non lo era, questa era una bugia: Emir avrebbe voluto che urlasse come
ai tempi
dell’ufficio, che lo offendesse e imprecasse e strappasse da
lui le spiegazioni
che non aveva saputo dargli, perché Rotwang avrebbe dovuto
far così, era così
che Emir si era aspettato: di potersi confessare ed espiare la colpa
nella sua
rabbia e nel suo disprezzo, come una volta; ma poi, quando lui si fosse
spurgato della verità come di un veleno, e Rotwang della sua
rabbia come di
un’infezione, allora tutto sarebbe stato superato e avrebbero
lavorato ancora
insieme… Rotwang aveva superato il disprezzo per lui una
volta, quando l’aveva
visto rinunciare a tutto per lei. Avrebbe potuto accader tutto di
nuovo, Emir
avrebbe fatto tutto come si deve, proprio come la prima volta, e poi
sarebbe
nato il cucciolo e tutto sarebbe andato meglio. Sarebbe nato un nuovo
Pokémon,
un figlio di lei; Rotwang non era un mostro, l’avrebbe amato
come amava lei, di
fronte a quella nascita l’avrebbe perdonato; e poi, in lui vi
era sempre lo
scienziato, e lo scienziato, presto o tardi, avrebbe dovuto riconoscere
che
aveva ragione: che era riuscito a creare qualcosa di più
perfetto di lei… ma
Rotwang non gridava. Non parlava neppure.
Scese
nel sotterraneo per vederlo solo dopo qualche giorno.
Aveva il volto ancora abbronzato ma stanco, gli occhi ricolmi di
dolore, e
prese la parola per la prima volta solo dopo un lungo silenzio.
«Non
può rimanere qua sotto, ovviamente.»
Le
sue parole erano tanto improvvise e prive di contestualizzazione
che Emir rimase in silenzio per un po’ in attesa che parlasse
ancora. «In che
senso?»
Rotwang
rimaneva così calmo, tutto era così irreale da
apparire un sogno. «Qui,
nel sotterraneo. Senza aria, né luce... non è
salutare.»
Di fronte alla passività della sua attesa, Rotwang aggiunse,
come a voler
capire l’unico dettaglio, in quanto aveva detto, che gli
pareva non poter esser
chiaro. «Mew.»
Emir
allargò lo sguardo attorno a sé,
nell’imtimità calda e
rassicurante del sotterraneo, sentendosi smarrito al suo interno per la
prima
volta: Mew e il sotterraneo erano sempre stati l’unica
certezza degli ultimi
anni. «Ma
è sempre stata bene qui»
obiettò stupidamente.
Rotwang
iniziò a manifestare in quel momento i primi
segnali di nervosismo, ma rimase calmo, e con una calma innaturale e
forzata
disse a fatica, come se pronunciare quella parola ad alta voce gli
costasse
un’immane sforzo: «Sì,
ma ora è incinta.»
I
suoi pensieri erano sempre per lei, in ogni modo per lei.
Reprimendo la sensazione di fastidio che quel pensiero gli provocava,
Emir
ribatté: «Allora...
sei tu il medico. Che dobbiamo fare?»
Bisognava concedergli il tempo di abituarsi all’idea, e nel
frattempo cedere su un po’ di punti marginali,
perché tutto tornasse come
avrebbe dovuto essere nel suo progetto. «Non possiamo
rischiare che la vedano.»
«Già...
a questo proposito.» Dunque quello era il motivo per cui
Rotwang era disceso
nel suo inferno a parlare con lui: Emir si raddrizzò sul
divano per
dimostrargli tutta la sua attenzione. Era venuto per parlargli di Mew,
certo,
ma quello che davvero gli premeva dirgli e che lo angosciava dover dire
ad alta
voce era quello che stava per venire: «Fuji... non
m’importa più che la
vedano.»
Emir
rimase interdetto per un momento. «Che cosa stai
dicendo?»
Rotwang
pareva determinato a rimanere calmo a qualsiasi costo, ma per fare
questo
evitava di guardarlo. Si passò due dita sugli occhi.
«Che avrei dovuto
denunciarti quando l’ho scoperto e rinunciare a tutto, e se
non l’ho fatto è
perché sono stato vigliacco e non ho avuto il coraggio di
perdere lei. Ma,
Fuji, non intendo continuare a difenderti. L’hai fatto tu
questo casino, non
io. Io posso solo fare quello che posso coi pezzi che tu hai rotto,
quindi...»
«Quindi
che cosa farai?» chiese Emir.
«Quindi
non terrò una femmina incinta chiusa in un sotterraneo per
colpa tua» ribatté
Rotwang ad alta voce. Emir sobbalzò sul divano
perché quella violenza
improvvisa, dolorosa, nella sua voce, non se l’era aspettata;
accorgendosene, a
fatica Rotwang tornò a dominarsi e si placò.
«Sto cercando di non arrabbiarmi
con te» scandì molto lentamente.
«Però bisogna che mi aiuti. Fuji. Siamo
intesi?»
Arrabbiati
allora, avrebbe
voluto gridare Emir, urlami addosso, perché ti
trattieni? Dimmi tutto quello che hai pensato in questi cinque giorni; ma
le parole gli mancavano e per l’ennesima volta rimase in
silenzio. Forse
avrebbe dovuto parlare, Rotwang taceva apposta; ma aveva perso
l’attimo e
Rotwang riprese. Quando aveva sbottato, quello era stato
l’unico momento in cui
Emir aveva riconosciuto Rotwang dietro quell’uomo; ma ora era
di nuovo lontano
e irraggiungibile.
Col
volto semicoperto dalle mani, gli occhi perduti nel vuoto, Rotwang
proseguì
lentamente: «Io so che non eri in te in quel momento. Non so
che cosa pensassi
o che cosa intendessi... ma sto cercando di tenere a mente che non eri
te
stesso in quei giorni. È l’unico motivo che ho per
non ammazzarti.» (Ero io,
ero io, ero io, urlava quella voce dentro di lui. Sono
sempre stato io,
sotto i farmaci e la disperazione, erano gli stessi pensieri che avevo
in
quelle notti in Laboratorio quando parlavo con Valérien...
solo che tu non
volevi vedere quello che ho sempre visto io.) «Ma
bisogna che faccia quello
che ritengo giusto. Emir, non potrò proteggere per sempre
sia te che lei. La
priorità adesso è Mew.»
«E
questo che cosa vuol dire?» chiese ancora Emir. Quel
preambolo non gli piaceva
per niente.
«Che
devo proteggere lei» insisté Rotwang come se
dovesse bastargli questo a capire
– e come poteva non essere ovvio? Aveva sempre protetto lei!
Emir non disse
niente. «Non posso lasciarla chiusa qua sotto senza luce
né aria... lo vedi
bene che ne ha bisogno.»
«Quindi
vuoi che la vedano tutti» sibilò Emir.
«Perché è questo che
accadrà, lo sai,
vero? Che pensi di fare, portarla a prendere aria nel terrazzo sul
mare, e
aspettare che tutti la vedano e ci vengano a prendere?»
«Non
sei nella posizione giusta per rispondere così,
sai?» D’un tratto la sua voce
era cambiata, era divenuta asciutta e distante: Emir si sarebbe pentito
d’aver
parlato così se solo non fosse stato tanto arrabbiato con
lui. «Potresti anche
provare a essermi grato di star sistemando i tuoi casini, eh?»
Emir
scrollò le spalle. Per come stavano le cose, mostrarsi
accondiscendente non
aveva più alcun senso. «Quindi che farai quando la
vedranno?»
«Dirò
che sei stato tu a eseguire esperimenti di ingegneria genetica in un
sotterraneo con un prototipo non registrato su un Pokémon
rubato» ribatté
Rotwang alzandosi in piedi. A quanto pareva la conversazione era finita
col
solito sarcasmo. «Fuji, non sono venuto qui a chiedere il tuo
permesso. Ho già
deciso. Credevo che sarebbe stato gentile farti capire con pazienza le
mie
ragioni, ma a quanto pare i miei sforzi sono sprecati con te,
perciò tanto vale
che ti metta di fronte al fatto compiuto: io ho già deciso.
Mew verrà a stare
al piano di sopra con me, dove può prendere luce e aria.
Quello che ero venuto
a dirti principalmente, a dire il vero, era che non voglio che tu abbia
più
niente a che fare con lei.»
Emir
inspirò profondamente perché avrebbe voluto
urlare e sapeva che non poteva
permetterselo. «In che senso?»
«Nell’unico
senso possibile» ribatté Rotwang.
«Pensavi davvero che dopo quello che le hai
fatto ti avrei permesso di occuparti ancora di lei?»
Emir
rimase immobile sul divano. «Non ho mai inteso farle
male.»
«Già,
è stato un effetto collaterale»
commentò Rotwang con accento sarcastico. «Penso
comunque che sia meglio evitare di correre il rischio che accada di
nuovo per
sbaglio, ti pare?»
Emir
allargò le braccia. «E allora dove vuoi che vada?
Da Portia? Oppure...»
«Già,
tanto per destare sospetti, eh? No, Fuji. Questo è il posto
più sicuro al
mondo, lo hai detto tu. Voglio che resti qui» rispose piano
Rotwang.
«Non
ho capito» mormorò Emir.
«Hai
capito benissimo.» La voce di Rotwang era cambiata ancora,
era dolorosa,
spaventata, aveva gli occhi di una bestia in trappola. «Emir,
è l’unico modo.
Non posso lasciare che la tocchi di nuovo.»
Non
era possibile, non era giusto. Emir scosse la testa perché
non poteva essere
vero: «Vuoi chiudermi qua sotto?»
«Tu
ci vivi già qua sotto, Fuji! Non cambierebbe niente. Non mi
pare proprio una
tragedia, per poche settimane...»
«Poche
settimane? Che cosa pensi che cambierà tra poche
settimane?» urlò Emir
alzandosi in piedi. «Che ti fiderai di nuovo di me e mi
lascerai uscire di
qui?»
Molto
lentamente, guardandolo negli occhi, Rotwang rispose: «Tra
qualche settimana
Mew partorirà e potrà volare in sicurezza,
perciò caricherò lei e il cucciolo
su un aereo in una Pokéball e riparerò in
Germania da mio fratello. La cosa
verrà fuori, ma con un po’ di fortuna forse mi
eviterà l’estradizione. Nel
peggiore dei casi, ci vorranno anni per estradare me, e la Germania non
la
rimanderà mai indietro se dichiarerò che sarebbe
in pericolo qui per via della
Silph e del Team Rocket. Mio fratello non sarà uno
scienziato, ma potrà
prendersene cura lui per qualche tempo, e poi vedremo...»
«E
mi lascerai qui.»
«Sarai
libero, dopo» rispose Rotwang. Era lontano da lui in quel
momento, lontano come
se ormai non potesse quasi più sentirlo. «Era
quello che volevi, no?»
«Che
cosa?»
«Lo
hai detto tu quando sono tornato. Che per via della sua debolezza noi
non
saremmo stati liberi mai...»
Era
tutto sbagliato, tutto l’opposto di come aveva pianificato.
Possibile che, nel
suo egoismo e nel suo folle amore per Mew, Rotwang non avesse capito
niente di
tutto ciò che aveva fatto per lui? «Io volevo che
fossimo liberi entrambi»
mormorò.
Lontano
e irraggiungibile da lui com’era, Rotwang si riscosse come se
venisse
richiamato da una grande distanza. «Come dici...? Non ti ho
sentito.»
Non
c’era altro da dire. La lontananza che si era aperta tra loro
era troppo vasta
e invalicabile perché le sue parole potessero sorvolarla.
Emir si ritrovò
inerme e immobile di fronte alla muraglia silente che si era levatra
tra loro,
era troppo alta e imponente per poterla anche solo fronteggiare, e la
sua mente
era troppo esausta per poterne anche solo sostenere lo sguardo.
«Non
importa» rispose. «Non era niente
d’importante.»
Era
rimasto chiuso nel sotterraneo per gli ultimi due anni, e ora che
Rotwang gli
aveva chiesto di restarci per qualche giorno quelle pareti gli
riuscivano
intollerabili. Forse era perché al di sopra di lui ora si
svolgeva una vita
alla quale non era ammesso a partecipare: Rotwang era di nuovo
lì, Emir sentiva
i suoi passi al piano di sopra o forse li immaginava, non sapeva
più; ma quel
che era certo era che era lì ed Emir neppure poteva vederlo.
Non
era recluso senza la possibilità di uscire, e non solamente
perché non esisteva
alcun modo per chiudere dall’esterno le sale sotterranee. Di
quella possibilità
Rotwang non aveva neppure parlato: s’era limitato a
quell’unica conversazione
di quel mattino, quando gli aveva detto che non voleva che tornasse al
piano di
sopra, e questo era quanto. Non gli interessava accertarsi che
effettivamente
rimanesse lì; e questo era quanto. Non gli interessava
accertarsi che rimanesse
lì, e questa forse era la sua più grande
debolezza – che si fidava ancora di
lui. Rotwang voleva rinchiuderlo per punirlo e perché era
ferito, ma che
effettivamente restasse lontano da Mew era qualcosa che affidava alla
sua
coscienza. C’era ancora una parte della sua mente, una parte
lucida e cosciente
che ancora aleggiava in fondo alla confusione della sua mente
– perché a volte
si rendeva conto che c’era come una nebbia indistinta nei
suoi pensieri che una
volta non c’era – che pensava che Rotwang
sbagliasse a fidarsi ancora di lui,
ma che non se ne rendeva conto.
Saliva
al piano di sopra, di notte, quando Rotwang dormiva. Ne approfittava
per fare
un bagno, qualche volta – erano passati lunghi periodi nei
quali questo bisogno
non l’aveva sentito affatto, quando era solo e non avrebbe
dovuto curarsene; ma
ora che Rotwang era tornato e che lui doveva nascondersi come i vermi
tra le
forassiti delle pareti, fare un bagno assumeva un fascino
rivoluzionario.
Spalancava la finestra, e immerso nell’acqua della vasca
contemplava a lungo il
proprio corpo che, nella luce della luna, diveniva pallido e livido
come
acciaio. Le sue membra smagrite sembravano non corrispondere
più al ricordo che
aveva di se stesso, eppure, si ripeteva incredulo osservando la pelle
rugosa
delle sue dita ossute, ora il suo corpo divenuto troppo magro era la
sola cosa
che ancora gli apparteneva, poiché sulla sua mente gli
pareva di non esercitare
ormai da tempo più alcun controllo. I farmaci di cui gli
sembrava d’aver tanto
bisogno da non saper più come andare avanti senza, il
prototipo nascosto nello
studio, il ricettivo ventre di Mew che aveva accolto l’ovulo
come se fosse
stato proprio suo, tutto quanto gli sembrava lontano da lui come se si
trovasse
nei ricordi di qualcun altro, non nei suoi, ed egli li stesse
eseminando con
distacco come su una pellicola. La pelle semisommersa
dall’acqua delle sue
mani, inargentata come le squale di un pesce, limpide sotto la luce
lunare, gli
parevano le sole dita umane presenti sulla terra, stranamente reali di
fronte
ai suoi occhi.
Quando
si levava dalla vasca e si stagliava nudo nel bagno, l’acqua
che gocciolava giù
dalle sue membra formava ampie pozze sul pavimento attorno ai suoi
piedi. Le
sue cosce smagrite non si toccavano più tra di loro, ma Emir
osservava tutto
questo con distacco, come se nulla di tutto ciò appartenesse
a lui.
Dopo
il bagno si aggirava in silenzio per la villa. Si sentiva lo spettro di
una
grande magione vuota che si stagliava sopra la città, e
stentava a ricordare
che n quella casa abitassero ancora dei vivi.
Soltanto
una volta provò la tentazione di rivedere Mew. Era
un’ora della notte talmente
profonda che non s’udiva voce dal mare, solo il vocio della
risacca che
s’inerpicava sugli scogli: Rotwang non l’avrebbe
mai saputo. Salì le scale nel
buio, senza bisogno neppure di guidarsi con le mani
nell’oscurità, le piante
dei suoi piedi nudi aderivano sulla superficie del pavimento freddo.
Tutte le
sensazioni erano stranamente intense.
Rotwang
era tornato nella camera che si era scelto una volta, quella con la
finestra
bifora e il piccolo fumoir che era diventato la stanza dei panciotti
– Emir
sorrise tra sé perché quel ricordo gli pareva
lontano nel tempo come se
l’avesse vissuto un altro, non lui. La porta era aperta
– Rotwang ancora non
riusciva a non fidarsi della sua parola. Se aveva tanto paura della sua
pazzia,
allora perché non si chiudeva a chiave per proteggersi da
lui?
Rotwang
era solo un rigonfiamento scuro tra le coperte, Emir intravide nel buio
la
massa folta dei suoi capelli biondi che si riversavano sul cuscino. Ma
nella
lama di luce che si dipanava dalla porta, in un angolo del letto,
dormiva Mew
acciambellata, avvolta nella spirale concentrica della sua lunga coda
che si
arrotolava attorno al suo corpo. Era stranamente diversa da come la
ricordava e
s’aspettava di vederla, la silhouette che si stagliava sullo
sfondo uniforme
del copriletto non si sovrapponeva precisamente al ricordo che Emir
aveva di
lei. Impiegò qualche istante a comprenderne il motivo: aveva
le gambe
stranamente lontane dal busto nella sua posizione fetale, allungate sul
letto
come quelle di un umano. Là dove normalmente avrebbe
ripiegato le zampe stava
il suo ventre osceno, sproporzionato; era grottesco come un tumore e
allo
stesso modo gonfio, orripilante, ed Emir ne rimase ipnotizzato. Non era
come
avrebbe dovuto essere, era sbagliato. Si sorprese con la guancia
appoggiata
contro lo stipite della porta mentre socchiudeva gli occhi per sondare
il buio:
il gonfiore della pancia era troppo alto e troppo esteso, non rimaneva
localizzato nella zona dell’utero, ma risaliva lungo il suo
corpo e occupava
l’intero busto, come un’ascite. Era
raccapricciante, ed Emir si sentì
agghiacciare; ma se se ne era accorto lui, così, al buio,
era possibile che
Rotwang non lo sapesse da prima di lui?
Non
riuscì a tornare nel sotterraneo. Non sarebbe riuscito a
dormire, a far nulla,
il pensiero di quell’addome gonfio come fosse pieno di
liquido non lo lasciava,
non c’era nulla con cui potesse distrarsi. L’alba
lo sorprese nel salotto sul
mare ad ascoltare la risacca, e così Rotwang, qualche ora
dopo, quando scese le
scale. Mew non era con lui. Rotwang rimase interdetto per un momento,
storse le
labbra di fronte all’infrazione dei loro patti e non disse
nulla. Emir balzò in
piedi dal divano, ma non seppe che dire, forse perse
l’attimo, e Rotwang passò
oltre ignorandolo e si diresse in cucina. Emir gli corse dietro.
«Ha
la pancia gonfia.»
«Nuovo
passatempo, Fuji? Spiare la gente mentre dorme?»
«Rotwang,
la sua pancia...»
«Già»
ringhiò Rotwang senza guardarlo, apparentemente troppo
interessato a cercare
qualcosa dentro al frigo per prestargli attenzione. «E il
cielo è azzurro e il
mare è salato, s’impara semore qualcosa di nuovo,
eh?»
Emir
sbatté la porta del frigorifero con una violenza che non
pensava di trovare
dentro di sé. Rotwang ne sfilò via la mano per
miracolo, ma neppure a quel
punto si voltò verso di lui. «Lo sai a cosa... lo
sai.»
«E
ora che lo so, che devo fare? La portiamo in un Centro medico e la
rendiamo
alla Silph?»
Emir
rimase senza parole. «No, ma...che cosa significa?»
«Secondo
te?»
«Che
non sta andando bene.»
«Complimenti,
Sherlock. Non ti sfugge nulla. E indovina chi dobbiamo ringraziare per
questo?»
Dopodiché Rotwang riaprì il frigoriero,
recuperò un cartone di succo di frutta
e lo spinse da parte per lasciare la cucina. Stava andando tutto
storto, tutto
al contrario di come avrebbe dovuto; Emir si ritrovò ad
annaspare mentre
inseguiva Rotwang su per le scale.
«Richard...!
Non puoi fare nulla per...»
Rotwang
neppure si voltò verso di lui mentre saliva rabbiosamente i
gradini dell’alta
scala. «Mi pare di avertelo detto già una volta,
eh, Fuji? Che io non sono in
grado di guarire imponendo le mani. Non posso portarla fuori da questa
casa
perché ce la porterebbero via, perciò se hai da
suggerirmi qualcos’altro, ti
prego, ti ascolto.»
Rotwang
era arrabbiato, era furioso, e aveva ragione, era tutta colpa sua. Per
ottenere
qualcosa bisognava concedere altrettanto, ed Emir si sforzò
di mostrarsi
ragionevole e conciliante per cercare di scendere a compromessi:
«Richard, so
che è successo tutto per colpa mia, ma...»
«Questo
cos’è, Fuji? Pensi di farmi compassione
confessando l’ovvio come se fosse una
grande ammissione da parte tua?» Rotwang si voltò
di colpo verso di lui sulle
scale ed Emir urtò contro il suo petto, ma Rotwang non
arretrò di un solo
gradino. «È ovvio che è colpa tua. Non
può essere colpa di nessun altro e di
certo non è mia, perciò pensi di
intenerirmi?»
Neppure
Emir arretrò. La sua colpa e la sua vergogna erano tali da
annichilirlo, ma
quello che aveva visto quella notte era troppo grave perché
potesse permettersi
di retrocedere di un passo. «Non mi dirai come procede la
gravidanza solo per
punirmi?»
«È
ancora come nella giungla, eh?»
Questo
Emir non se l’aspettava. Rimase interdetto, senza capire, ma
quando Rotwang
scese il primo gradino verso di lui, ed egli fu costretto a scendere
all’indietro un gradino dopo l’altro incalzato dal
suo petto, ebbe la piena
certezza d’essersi spinto troppo in là e che
questa Rotwang nn gliel’avrebbe
fatta passare. «La giungla...?»
«Spero
che tu stia facendo finta di non capire, Fuji. L’hai fatto di
nuovo, come nella
giungla, quando mi hai portato quel Pokémon sapendo
benissimo che non ero in
grado di salvarlo e mi hai costretto a portarmi addosso quel rimorso
per tutta
la vita... anche allora avresti potuto lasciare tutto
com’era, ma come sempre
hai dovuto giocare a fare Dio, a stravolgere il destino, e poi hai
preso i
cocci e me li hai portati perché a me restasse il rimorso di
non averli potuti
salvare...»
Erano
rimasti nella giungla per tutti quegli anni, prigionieri della notte in
cui era
morto M1. Avevano litigato e fatto l’amore e girato intorno a
quella notte per
anni, come attorno a un fuoco, e avevano provato a scappare da quella
notte per
anni senza che se ne accorgessero, e in realtà avevano
sempre corso una fuga
centripeta verso quella morte e quel dolore. Rotwang gli aveva detto
fin da
quell’alba che era stata colpa sua, e non della morte di M1
– quella non era
poi davvero colpa di nessuno – ma d’averlo
costretto a sentirselo morire sotto
le dita, ed Emir fino a quel momento non aveva capito.
«Morirà
anche lei?» balbettò.
«Ti
farebbe piacere pensare che fosse così semplice,
eh?»
Rotwang
si voltà e riprese a salire l’alta scala. Emir
rimase impietrito: sapeva che
quella schiena che si allontanava era inflessibile e inafferrabile, che
Rotwang
non si sarebbe voltato più verso di lui, che domandare era
inutile e
controproducente, eppure si aggrappò al corrimano per
inseguirlo con lo
sguardo. Erano lontani per sempre.
«Il
cucciolo... Rotwang! Il cucciolo si salverà?»
Ma
dalle volte delle scale e della volla echeggiò in risposta
uno sconcertante
silenzio, e da qualche parte, in alto sopra la sua testa, una porta che
si
richiuse.
Echeggiò
l’aria di grida.
Gli
parve di sentir rimbombare le fondamenta della villa. Emir
rotolò giù dal
divano svegliandosi di soprassalto come se avesse sognato di cadere; si
ritrovò
sul pavimento frastornato, più addormentato che sveglio, e
si guardò attorno
senza sapere dov’era né perché mentre
tutto attorno cercava quelle grida. Il
grido si ripeté di nuovo, meno forte ma più
lungo, ed era identico all’ultimo
disperato grido che aveva gettato M1 quella notte... era Mew che
gridava?
Si
era addormentato in mutande forse qualche ora prima, davanti
all’ennesima
replica di qualche vecchio film in televisione, e ora aveva la pelle
intirizzita dal freddo e scossa dai brividi, ma non aveva neppure il
tempo di
realizzare che cosa fosse successo: si tirò su i pantaloni
di una vecchia tuta,
si infilò alla cieca una camicia per coprirsi almeno le
spalle e si precipitò
lungo le scale.
Gli
sembrava che per tutta la villa echeggiasse una sirena
d’allarme, come nei
bombardamenti dei film di guerra; ma tutto echeggiava soltanto nella
sua testa.
Nella realtà, la villa era immersa di nuovo in un silenzio
d’abisso, e i passi
dei suoi piedi nudi rimbombavano lungo le scale nell’aria
immobile. Non c’erano
più grida, ora, ed Emir ebbe l’impressione di
correre in quel silenzio come
attraverso un’invisibile densità che lo tratteneva
e lo rallentava, in un tempo
dilatato a dismisura.
La
porta della camera si spalancò proprio mentre lottava con la
maniglia per
aprirla e Rotwang lo spinse via con una spallata. Emir
incassò il colpo col
respiro mozzato ma senza ritirarsi.
«Vattene
via.»
«L’ho
sentita gridare...»
«Non
ho bisogno di te. Torna di sotto» ringhiò Rotwang
scendendo le scale due
gradini per volta. Emir gli corse dietro.
«Rotwang!
Perché stava gridando?»
Gli
parve quasi di poter udire il sarcasmo delle sue parole senza
ch’egli le
pronunciasse: perché sta partorendo. Non ti sfugge
nulla, eh?; ma quella
volta era troppo occupato dalla sua borsa medica e dagli asciugamani da
recuperare per perder tempo a rispondergli. Emir cercò
invano di sbarrargli il
passo, ma Rotwang neppure perse tempo a spingerlo via: lo
scansò e basta,
scivolandogli accanto senza neppure guardarlo. Al culmine della
disperazione,
Emir lo afferrò per le spalle e lo scosse. Solo in quel
momento gli occhi di
Rotwang incontrarono i suoi. «Rotwang, ti prego, lascia che
ti aiuti!»
Vi
fu un lampo d’esitazione negli occhi di Rotwang, per un
istante. Distolse lo
sguardo perché il suo cedimento non gli si leggesse in viso.
«Se
vuoi esser d’aiuto, chiudi tutte le finestre e resta fuori
dalle palle.»
Emir
obbedì alla prima metà del suo ordine. Percorse
di corsa il primo e il secondo
piano, sbatté le finestre e le imposte, e scivolando scalzo
lungo i corridoi
interminabili corse di nuovo alla camera di Rotwang – era
arrivato in tempo? Ma
in tempo per cosa – che cosa stava per accadere che sentiva
dentro di sé più
ancora che nelle grida?
Rotwang
era chino sul letto intriso di sangue. Se avesse visto attraverso di
lui, Emir
avrebbe visto Mew, ne era certo, la sentiva agonizzare; ma fra lui e
lei c’era
Rotwang, ed Emir non vide nient’altro che le sue spalle
tremanti e la grande
massa dei suoi capelli, come quella notte... eppure, anche senza
vederla, Emir
sapeva che cosa stava succedendo, si sentiva legato alla sua sofferenza
da un
filo più forte di quanto fosse la vista, Emir la sentiva,
lui lo sapeva che
stava morendo e che non si poteva fare niente...
Rotwang
percepì la sua presenza senza bisogno di voltarsi, la
sentì dal suo respiro
affannato e dalla sua disperazione. Si voltò appena a
guardarlo al di sopra
della spalla e gridò: «Vattene via!»
«Vuole
che l’aiuti!» gridò Emir vicinissimo al
letto, stava quasi per vedere cosa
c’era sulle coperte, lo stava chiamando, sentiva la sua voce!
Rotwang
gli tirò un pugno nello sterno. Emir si ritrovò
senza fiato, cogli occhi chiusi
e piegato su se stesso, e Rotwang lo afferrò per le spalle e
lo trascinò in
corridoio. Stava per chiudere la porta della stanza, da quel momento
non
l’avrebbe rivista mai più, e forse Rotwang non
avrebbe saputo cosa bisognava
fare: era lui che si sentiva chiamare...
«Rotwang»
gracchiò con una voce che non era neppure più
voce, ma un rantolo che usciva a
stento dal canale sottilissimo della sua gola. «Ha bisogno di
me.»
«Stanne
fuori, Fuji» rispose Rotwang sbattendo la porta. Il rimbombo
che scosse il
pavimento fu l’ultima cosa che udì da parte sua.
La
porta si aprì in silenzio sulla sua disperazione. Emir
levò lo sguardo dal
pavimento senza sperare più nulla: solo, aspettava.
Rotwang
si stagliava sulla soglia immobile, colle maniche arrotolate fino al
gomito, i capelli
sporchi e il volto bagnato di sudore e lacrime. Non pareva neppure
più lui, era
evaporato come uno spettro di se stesso. Emir lo guardò
senza parlare – sapeva
già che cosa era accaduto da prima ancora che uscisse, forse
lo sapeva da
ancora prima che accadesse; quella voce che aveva sentito gli diceva
che era
tutto già scritto, forse dal giorno in cui se
n’era andata sua madre, di certo
dalla notte della giungla, eppure attese ugualmente che Rotwang
parlasse.
Non
disse che cosa era successo. Per un po’ non disse niente del
tutto. Quando
parlò la sua voce sembrava provenire da un luogo molto
remoto, da un altro
universo addirittura.
«Non
sei intervenuto solo sul sesso.»
Emir
non rispose, allora Rotwang parlò ancora.
«Per
quello che hai fatto, non potevi... avevi bisogno di altro DNA per
intervenire
sul suo. Ma qui non avevi nulla, come hai fatto a...»
Emir
sapeva che Rotwang era troppo intelligente per non conoscere la
risposta, e
dirla ad alta voce sarebbe stato troppo crudele e troppo doloroso,
perché
sapeva che la verità aleggiava già ai margini
della sua coscienza ed egli
semplicemente si rifiutava di guardare.
«Sono
morti entrambi» disse Rotwang con voce sorda. «Lei
e quella... quella cosa che
tu hai fatto. Sei contento? Sei libero, adesso.»
Qualcosa
si fermò per un istante nel suo petto perché non
era questo che era destinato
ad accadere fin da quella notte nella giungla – non doveva
morire il piccolo.
Non era così che doveva andare. L’aveva progettato
e programmato e generato
perché vivesse e sopravvivesse a tutto, non come M1, non
come M2, e ora Rotwang
faceva irruzione lì e diceva che era morto!
Si
tirò a fatica sulle gambe perché doveva vedere
coi suoi occhi se era vero, e se
sì doveva capire che cosa era successo e dove aveva
sbagliato e che cosa poteva
essere andato storto; ma Rotwang, o quello che di Rotwang rimaneva dopo
quell’ultima morte, non si mosse. Il suo corpo grande e
forte, svuotato
dall’interno, rimase inamovibile sulla soglia, che occupava
interamente, ed
Emir non aveva modo di oltrepassarlo.
«Tu
non vai da nesuna parte» disse Rotwang appoggiandogli sul
petto una larga mano
piatta. «Non puoi vederla. Non devi toccarla. Non appartiene
più a te.»
«Voglio
vedere il piccolo» insisté Emir, ma la mano di
Rotwang lo trattenne senza
neppure bisogno di spingerlo.
«È
morto. Non mi hai sentito?»
È
mio, avrebbe
voluto urlare Emir, ma la sua bocca istupidita non trovava
parole. È mio, non appartiene a te. Mew era troppo
stupida e debole per
generare da sola il compimento della sua specie...
La
sua espressione vacua, attonita finì per urtarlo ancora di
più, forse perché
Rotwang s’era aspettato che quantomeno si ribellasse,
piangesse o si
disperasse; ma Emir non faceva nulla di tutto ciò
perché quello che aveva detto
non poteva essere reale. Doveva esserci un errore.
«Non
te ne importa?» domandò guardandolo fissamente,
cogli occhi spalancati,
dilatati, quasi folli. «Non dici nulla?»
«Vogli
vederlo» ripeté Emir senza capire.
«Fuji,
è morto!» urlò Rotwang.
«Anche lei è morta per colpa tua! E
perché io non sono
stato forte abbastanza da impormi su di te e portarla fuori di qui...
perché
io...»
«Ce
l’avrebbero portata via» mormorò Emir
macchinalmente.
«Ma
forse sarebbe viva!» gridò Rotwang.D’un
tratto non resisteva neppure più, ora
piangeva, ed Emir si ritrasse dalla sua disperazione come da qualcosa
di
estraneo e fuori posto. Era incredulo, come se solo in quel momento
stesse
cominciando a metabolizzare quella morte e quel dolore. «Ho
fatto come hai
fatto tu.. non so neppure perché. Ho avuto paura e sono
stato egoista e ho
pensato soltanto a... non lo so che cosa ho pensato. Di essere un
medico e
poterli salvare entrambi. E ora Mew e quella cosa sono morti per
colpa...»
Emir
spinse contro quella mano inamovibile che sul suo petto si faceva
sempre più
debole e ripeté: «Devo andare da lui.»
«Fa’
come ti pare» rispose Rotwang allontanandosi di scatto dalla
porta, e da quel
subitaneo cambio di attegiamento Emir rimase stupefatto tanto che non
fece un
movimento per entrare nella stanza. S’era aspettato di dover
lottare ancora, e
invece ora che gli aveva detto tutto quel che aveva da dirgli pareva
che
Rotwang non intendesse impedirglielo più. Emir ristette
incredulo, sospettoso,
ad aspettare che di punto in bianco Rotwang lo cogliesse di sorpresa e
lo
colpisse di nuovo o altro... ma Rotwang non fece nulla ed Emir
esitò.
«Tu
non...»
«Se
vuoi vedere il cadavere, vai» sibilò Rotwang.
«Non ti rimarrà molto tempo,
perciò... se ci tieni tanto, vai. Io vado a costituirmi.
Probabilmente ci
arresteranno entrambi nel giro di un’ora, perciò,
se ti fa tanto piacere
vegliare due cadaveri, trascorrila pure come vuoi.»
Tutto
si era svolto in un circolo del tempo che ora tornava a chiudersi su se
stesso:
la morte, la polizia, la minaccia, la giungla e poi il tradimento; e
ora tutto
ricominciava da capo, e al centro di tutto, come sul palcoscenico di
una
tragedia, c’era la villa. All’inizio di quel
circolo Emir l’avrebbe impedito,
avrebbero combattuto e litigato e per la rabbia forse
l’avrebbe ammazzato; ma ora
che aveva capito d’essere all’interno di un circolo
che eternamente si
ripeteva, e che all’interno di esso era risuonata quella
voce, d’un tratto
vedeva con irripetibile chiarezza che tutto ciò non
importava più. Non poteva
impedirlo in ogni caso, e forse persino doveva andare così.
Si
fece da parte. «Vai» disse. «Non ti
fermerò.»
Rotwang
esitò un istante; forse avrebbe voluto dir
qualcos’altro, ma non c’era altro da
aggiungere, e gli passò accanto senza una parola. Emir
sentì ancora per qualche
minuto i suoi passi nella grande casa vuota, lo scrosciare
dell’acqua, i suoi
passi di nuovo; aspettò tranquillamente. Ora che Rotwang
stava lasciando la
villa, di certo per sempre, d’improvviso non c’era
più alcuna fretta. Si udì
infine, lontano, il boato del grande portone, rimase
nell’aria per un po’ sotto
forma di vibrazioni: Emir attese che anch’esso si spegnesse.
Avanzò
solo quando tutto fu silenzio. La camera non gli sembrava
più la stessa; tutto
tranne lui era immobile, forse morto. Il suo era il solo respiro.
Il
letto era disfatto. Le coperte arrovesciate formavano catene montuose
che
ostacolavano il suo sguardo; Emir s’inoltrò nella
stanza a poco a poco,
cautamente, e a misura che s’avvicinava la sua vista si
accresceva e spaziava
sul letto come su un orizzonte.
Mew
aveva gli occhi spalancati e la bocca aperta. Era la stessa creatura
che egli
aveva amato all’inizio, tanto quanto aveva odiato poi; eppure
Emir stentava a
riconoscerla perché i suoi occhi ora privi
d’espressione erano infissi nel
vuoto. Il suo sguardo passò oltre il suo corpo morto.
Accanto al suo cadavere,
sul letto, c’era una gran massa oscena, violacea,
sanguinolenta, che doveva
essere la placenta; Emir ignorò anch’essa e
guardò oltre.
Fino
a quel momento non aveva avuto idea di che aspetto avrebbe avuto il
piccolo. Lo
guardò con interesse. Non era come si aspettava. Era
minuscolo, e questo era
ovvio, ma fino a quel momento nella sua mente se l’era
immaginato enorme,
monumentale; lo sarebbe stato se fosse cresciuto, però. Ma
come poteva non essere
sopravvissuto? Tutto era stato calcolato; avrebbe dovuto vivere a
dispetto di
tutto e diventare il Pokémon più potente, allora
che cosa era successo? Forse
Mew non era stata forte abbastanza da dargli la vita; e nel disperato
tentativo
di venire al mondo, egli aveva risucchiato anche quella di lei?
Aveva
il corpo asperso della stessa peluria morbida e rada di quello di lei,
più
livido però, quasi viola, e di muco e sangue e una sorta di
ripugnante
gelatina. Aveva gli occhi chiusi, forse perché non aveva mai
davvero vissuto, a
differenza di lei, e a Emir dispiacque perché gli sarebbe
piaciuto vederne il
colore.
Rimase
in silenzio accanto ai cadaveri di quei morti per un tempo
indefinitamente
lungo. Di tanto in tanto, tendeva l’orecchio: si aspettava di
sentire da un
momento all’altro la sirena di un’auto della
polizia che veniva a prenderlo
come aveva detto Rotwang, o almeno il rumore di un motore, il suono del
campanello o del telefono... ma ancora non arrivava nessuno. Poteva
darsi che
ci volesse un po’, in fondo. Non c’era fretta.
Avrebbe aspettato lì con loro.
Il
cucciolo spalancò gli occhi e nello stesso istante Emir
sentì rimbombare la sua
testa della stessa voce che fino ad allora gli pareva aver soltanto
mormorato
al suo orecchio per chiamarlo.
«Se
n’è andato.» Emir si ritrovò
in ginocchio con le mani sulle orecchie, era certo
che stessero sanguinando; ma il piccolo neppure aveva aperto la bocca,
la sua
voce era soltanto nei suoi occhi e nella sua mente.
«Finalmente siamo rimasti
soli.»
6
febbraio. Mew ha
partorito. Il piccolo si chiama Mewtwo.