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Autore: JohnHWatsonxx    27/04/2022    2 recensioni
Un ragazzo incontra un altro ragazzo, non sanno quanto avranno bisogno l'uno dell'altro ma lo scopriranno molto presto. John Watson è un giocatore di rugby con il futuro scritto da altri, Sherlock Holmes è un giovane lasciato in balìa di sé stesso e insieme si faranno strada attraverso le dure leggi dell'adolescenza.
Liberamente ispirata ai graphic novels di Alice Oseman.
[Johnlock] [alcuni cenni Sheriary, soprattutto nei primi capitoli]
Genere: Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Quando era piccolo, gli veniva sempre detto che il suo futuro era già stato scritto. A volte erano le braccia, che avevano i segni della muscolatura, altre volte il collo lungo e robusto, altre ancora le gambe già sviluppate capaci di reggere lunghi periodi di sforzo. Tutto per dire che John Watson apparteneva al campo da rugby, che avrebbe avuto una borsa di studio per lo sport e avrebbe lasciato la tranquilla provincia per vivere nei quartieri più lussuosi di Londra. La sua unica responsabilità giaceva nel seguire quella strada.

Quando si svegliò, quella mattina, pioveva. Sentiva chiaramente il vento e la pioggia inveire come cento uomini sulla serranda della sua camera, sulle cui pareti erano appesi scomposti una serie di poster di band inglesi e giocatori famosi. Davanti al suo letto, più grande di tutti gli altri e subito sopra la sua scrivania, riposava indisturbata da anni la gigantografia della squadra inglese al Torneo Sei Nazioni: tutti i giocatori, come dei dell’Olimpo con i dadi del destino in mano, lo fissavano, sempre e non solo la mattina. John si sedette sul letto, gli occhi ancora semichiusi e i capelli simili a spighe di grano scompigliate dal vento, e sospirò. Odiava il rientro a scuola e odiava la scuola. Odiava le persone che lo salutavano con un sorriso e poi si voltavano a parlargli dietro. Il Natale appena passato ha lasciato poco o niente dietro, solo una manciata di banconote dai suoi parenti, un paio di calzini nuovi e della carta rossa buttata sul pavimento, proprio vicino al secchio.

Sospirò aprendo gli occhi. Sulla sua sedia, tra vari abiti stropicciati, trovò un pantalone e un maglioncino beige che sembravano abbastanza puliti da poter essere indossati, e al loro posto lasciò il pigiama vecchio e con una varia collezione di macchie vecchie e nuove su tutto il tessuto. Da qualche parte sotto al letto recuperò due scarpe uguali e le indossò. Al piano di sotto sua madre e suo padre parlavano sussurrando vicino al lavello, mentre Harriet mangiava lentamente da un piattino di ceramica tutto scheggiato.

“Buongiorno” mormorò ancora assonnato John, e prese un paio di fette di pane, accartocciandosele in bocca come ogni mattina. Il resto della famiglia gli rispose calorosamente, e Jane Watson lo avvicinò baciandogli la nuca.

“Questa mattina mi ha chiamato il tuo allenatore, John” esordì invece il padre David, accomodandosi rumorosamente sulla sedia accanto a lui. “Questo semestre frequenterai matematica con i ragazzi di seconda e dovrai mantenere una media alta per continuare a giocare e sperare per la borsa di studio l’anno prossimo”. John annuì come un cadetto al suo comandante. Pensando a una divisa militare un brivido d’eccitazione gli attraversò la spina dorsale. Parlare con suo padre era come parlare al proprio allenatore personale: era tutta una questione di successo e di vittorie, e se c’era una cosa che amava più di tutte, John del rugby, era la sensazione totalizzante del fischio di fine partita, a vittoria conquistata, quando il suo intero corpo si rilassava e per un minuto o due tutto diventava leggero e sopportabile, e quella brutta sensazione giornaliera scompariva. John ascoltava e annuiva, prendeva appunti ed eseguiva, come un perfetto burattino.

Prese il suo ombrello giallo ed uscì di casa, camminando mesto sotto la pioggia di gennaio e cercando di immaginare il vuoto, così come il suo coach gli aveva suggerito per calmare l’ansia. Camminò lentamente, godendosi il freddo che gli entrava nelle ossa e la pioggia che gli inumidiva i vestiti, e se notava di star accelerando il passo si fermava di colpo e riprendeva a camminare dopo pochi minuti. Non voleva andare a scuola quella mattina, John Watson, ma anche gli ultimi arrivano alla linea di arrivo. La linea era un grosso cancello in ferro battuto, arrugginito e pericolante, e l’arrivo era il grosso edificio che si innalzava subito dietro, tutto in mattoni rossi e finestre tonde e bianche. John si mimetizzò con il resto dei suoi compagni, tutti con la stessa triste faccia, tutti con il segno del cuscino stampato sulla guancia.

Nonostante la lunga e lenta passeggiata, non riuscì ad arrivare in ritardo. Entrò a scuola e raggiunse il suo armadietto, nell’ala sinistra dell’edificio, quella riservata agli studenti del terzo e quarto anno. La sua prima classe, invece, si trovava dalla parte opposta, ma lui non aveva alcuna intenzione di correre, nessuna intenzione di arrivare lì, nessuna intenzione di fare qualsiasi cosa, quel giorno. Sembrava che il poco di pioggia che aveva preso nel tragitto pesasse come mercurio sulle sue scarpe e lui fosse bloccato lì, in quel corridoio quasi del tutto deserto. Nessuno gli parlò, nessuno lo disturbò, e forse questo lo spinse a camminare verso la sua aula, quella di matematica. Le facce che vide lì dentro gli facevano paura: era di un anno più grande eppure si sentiva più piccolo, schiacciato da sguardi giudicanti di coloro che sanno di più e sono convinti di saperne di più del mondo. John incrociò lo sguardo con l’insegnante, un burbero vecchio col naso aquilino, su cui si poggiava un paio di piccolo occhiali tondi, fin troppo piccoli per la sua faccia cadente.

“In perfetto orario, Watson. –lo schernì sarcasticamente- Qui i posti li scelgo io. Lei condividerà il banco con Holmes, nella speranza che ti aiuti a passare questo corso” disse telegraficamente il vecchio, e John annuì come fece col padre la mattina. Mancava solo lui nell’aula e tutti i posti erano occupati tranne un banco doppio, di cui occupò la parte più vicina alla finestra. Subito dopo un altro ragazzo ruzzolò nella stanza, con i panni e i capelli completamente bagnati e il fiatone. I ricci scuri gli ricadevano pesantemente sulla fronte e si muovevano placidi mentre parlava con il professore. Quando il ragazzino alzò gli occhi e li incrociò con i suoi, John Watson smise di essere John Watson.

Holmes- Sherlock- aprì gli occhi quella mattina circondato dal nulla se non le coperte del suo stesso letto. Aveva sempre odiato il fatto di non poter personalizzare la sua camera e di lasciarla asettica, come fosse appena uscita da un catalogo di mobili. Anche l’ordine era dovuto a quello, e nella sua stanza niente era e doveva essere fuori posto. Sherlock, d’altro canto, poteva permettersi di essere sciatto quanto voleva, ma adorava nascondere il proprio disordine dentro di sé, incanalarla nel suo essere e tenerla segreta. Così, all’apparenza pacato, Sherlock Holmes era un vero disastro. Non aveva dormito neanche quella notte e le occhiaie cominciavano ad essere pericolosamente pronunciate, tanto che, quando scese le scale, la madre glie le fece notare con una nota di preoccupazione. Lui, in tutta risposta, alzò le spalle ed uscì di casa senza fare colazione, e senza prendere un ombrello. Era sovrappensiero riguardo ad alcuni spartiti di Tchaikovsky che gli stavano dando del filo da torcere e su un esperimento che aveva lasciato incustodito nel laboratorio di chimica.

Da quando era piccolo è stato il figlio di nessuno, specie quando Violet e Siger erano impegnati con l’educazione e il successo del loro primogenito Mycroft che era al termine del suo ultimo anno di college. E quando non erano appresso a lui, erano preoccupati per sua sorella minore che aveva difficoltà ad essere “normale”. Sherlock amava essere invisibile, amava essere abbandonato, perché gli concedeva la possibilità di essere libero e di poter scegliere qualsiasi strada lui avesse voluto: anche senza quella libertà gratuita, probabilmente avrebbe fatto lo stesso. Dalle passate vacanze e dal suo compleanno aveva ricevuto diversi libri concernenti diversi ambiti di studio, due tra tutti la chimica e la musica.

Arrivò a scuola in netto anticipo e corse nel laboratorio dove il professor Dornan lo stava aspettando.

“Ciao Sherlock, non ho avuto il coraggio di toccare il casino che hai lasciato prima delle vacanze” scherzò lui dalla sua scrivania. Anche a lui Sherlock non rispose, ma anzi corse verso la sua coltura di batteri, che in quei venti giorni era egregiamente proliferata. Sorrise, il ragazzo riccio, mentre sistemava gli appunti empirici del suo esperimento sotto lo sguardo attento del professore. Harry Dornan non era seriamente preoccupato per Sherlock, non lo era dall’inizio dell’anno, da quando poteva controllarlo concedendogli di usare liberamente il suo laboratorio. Quel ragazzino sembrava avere la spiccata capacità di passare inosservato agli occhi di tutti gli adulti, orfano con i genitori e una famiglia. Harry lo teneva d’occhio da quando lo aveva scoperto in un angolo della scuola, rannicchiato su sé stesso per nascondersi dai bulli. A quanto pareva qualcuno aveva sparso la voce che lui fosse gay: Sherlock non aveva negato (e avrebbe successivamente confessato al professore di esserlo davvero) e da quel momento erano iniziate le prese in giro e le occhiatacce dai più grandi, ora ex studenti della scuola. Sherlock, però, non aveva smesso di rifugiarsi nel laboratorio, anche solo per staccare la mente dalla tortura scolastica.

Mentre sistemava alcune piastrine il cellulare trillò: sullo schermo apparve un messaggio breve da parte di Jim, che gli chiedeva di incontrarlo subito dopo matematica in biblioteca. Sospirò, contemporaneamente allo squillo della campanella.

“Sono in ritardo” si disse, raccattando velocemente le sue cose. Salutò di fretta il professor Dornan, che gli concesse un piccolo sorriso, e affrettò il passo verso l’aula di matematica. Dentro era già pieno: aveva scordato la brutta abitudine del professor Smith di scegliere lui i posti, e inoltre il suo ritardo non gli aveva permesso di ribattere alle sue parole.

Per il resto del semestre avrebbe condiviso il banco con un ragazzo di un anno più grande, un tale John Watson. Lo notò subito, al terzo banco, vicino alla finestra: i capelli biondo grezzo gli cadevano sul viso ogni tanto, e lui se li spostava con un gesto lento e calcolato; gli occhi sembravano grigi perché riflettevano il colore delle nuvole, ma al di sotto erano azzurri. Sherlock si fermò per un attimo, indeciso se effettivamente raggiungerlo o starsene lì impalato in mezzo alla classe. Poi camminò verso di lui e vi si sedette accanto, senza dire niente.

“Ehi” sussurrò John Watson.
“Ehi” rispose Sherlock Holmes.

Quando la campanella suonò, Sherlock fu il primo ad alzarsi e correre via. Non era stupido, sapeva perfettamente che Jim non voleva altro che il suo corpo, ma non poteva fare a meno di quelle attenzioni finte che gli riservava nel privato di un corridoio o di una biblioteca. Semplicemente adorava essere visto, adorava essere apprezzato, anche solo per essere usato. Inoltre, Jim era l’unico che lo riuscisse a vedere. Non dovette aspettare molto, nella zona dei libri di archeologia in biblioteca prima che lui arrivasse da dietro, circondandogli i fianchi e baciandogli il collo.

“Buongiorno, bellezza” gli sussurrò dolcemente all’orecchio, baciando la linea della mascella per giungere alla bocca. Sherlock rispose al bacio girandosi tra le sue braccia, aggrappandovisi come fosse l’unica cosa reale della stanza. Jim Moriarty era un anno più grande ed era particolarmente affascinante: aveva i capelli neri e gli occhi ancora più scuri; era l’alunno più bravo del suo anno e non c’era niente che non andasse nella sua vita. Parlava poco con Sherlock e tanto con gli altri ragazzi, ma questo lui non lo vedeva. Adorava baciarlo contro il muro, schiacciando il più piccolo come a volerlo ingabbiare e adorava il brivido di eccitazione di quando qualcuno era in procinto di scoprirli. I suoi genitori erano due bravi cristiani, che andavano in chiesa ogni domenica e pregavano prima di ogni pasto. Non c’era niente che andasse nella sua vita, ma la prigionia che percepiva la sfogava tutta sulle labbra di Sherlock, l’unico segreto che possedeva gelosamente tra le mura asettiche della scuola, lontano da occhi indiscreti. Sherlock amava farsi baciare in quel modo da lui, e anzi era convinto fosse l’unico modo esistente, quello in cui si lasciava comandare da altri e vi si abbandonava.

Non parlavano mai se non all’inizio e alla fine delle loro sessioni di baci e Jim tra la folla neanche lo salutava: Sherlock voleva evitare di pensare che stessero insieme, ma non riusciva a levarsi quel tarlo dalla mente che gli suggeriva che forse quello era l’unico modo per due ragazzi gay di frequentarsi, quindi dissipava ogni suo dubbio dalla mente e continuava a baciarlo. Lo salutava alla fine di ogni pausa con un sorriso che Jim non ricambiava mai: il tempo di uscire dalla biblioteca e Moriarty era diventata tutt’altra persona. Sherlock non ci fece troppo caso e corse alla sua lezione successiva.

Faceva ancora molto freddo fuori, ma questo non impedì a lui e a Molly Hooper di pranzare al solito tavolino. Non c’era nessuno nel cortile tranne che per alcuni ragazzi che si stavano lanciando la palla ovale: tra di loro Sherlock ne riconobbe uno.

“John Watson!” esclamò nello stesso momento la sua amica, guardandolo stralunata.
“Sì, ci siamo solo salutati. A quanto pare già mi conosceva” rispose lui giocando con la sua uva, sovrappensiero.

“Sherlock Holmes?” chiese in quello stesso istante Gregory Lestrade al suo migliore amico. “il ragazzino strambo del secondo anno che l’anno scorso veniva ripetutamente preso di mira da quelli più grandi?” John annuì mentre gli ripassava la palla.
“Non ci siamo praticamente parlati. Spero in realtà che mi dia una mano con matematica, perché sono proprio scarso, ma ho un po’ di paura a parlargli” ricevette la palla dal suo amico e se la rigirò per alcuni istanti tra le mani, la pelle rovinata della palla gli faceva prudere la pelle.
“Beh è molto piccolo di statura, e tu giochi a rugby da quando hai imparato a camminare, quanta paura ti potrà mai fare?” chiese Greg, e John non rispose: non poteva di certo dirgli che era stata la sensazione strana che aveva avuto guardandolo negli occhi ad averlo spaventato.

In quel momento sembrava che il suo cuore si fosse fermato per un secondo.

“Sherlock? Sherlock!” chiamò Molly, e il ragazzo si ridestò dai suoi pensieri. “Non farti strane idee su John Watson: è possibilmente più etero dell’eterosessualità stessa” ridacchiò.
Sherlock accennò un sorriso ma non la stava davvero ascoltando: dall’altra parte del cortile Jim Moriarty stava baciandosi con una ragazza. Il riccio abbassò lo sguardo sul suo pranzo intatto e poi si alzò di scatto.

“Farò tardi a educazione fisica” sussurrò prima di correre via. Non si accorse dello sguardo di John Watson su di lui.

Harry Dornan sembrò preoccupato nel vederlo lì all’ora di pranzo. L’ultima volta che Sherlock si era seduto nell’angolo in fondo al laboratorio di chimica era rannicchiato su sé stesso, il viso tra le gambe e le mani tra i capelli mentre lui, poggiatosi sulla cattedra, gli chiedeva incessantemente cosa fosse successo fino a spingerlo a confessare tutti gli episodi di bullismo.

“Tutto okay, Sherlock?” chiese, subito dopo averlo visto entrare di fretta. Il ragazzo sembrò confuso all’inizio, ma poi annuì tranquillamente.
“È da parecchio tempo che non venivi a nasconderti qui”

“Non mi sto nascondendo!” reagì seccato il ragazzo, sedendosi per terra e consumando lentamente il suo pranzo.

Il professore finì di sistemare alcuni compiti mentre l’alunno mangiava in silenzio. Era un’abitudine creatasi tra di loro, stranamente confrontante per entrambi anche se il ragazzo non sarebbe dovuto essere lì e l’adulto non avrebbe dovuto incoraggiarlo a farlo: ma Sherlock era un ragazzo particolare, si diceva Harry Dornan, tanto intelligente quanto impacciato con le basi della vita; inoltre aveva paura che si potessero ripetere le stesse cose dell’anno precedente e non aveva assolutamente voglia di ripercorrere quella strada.

“Professore?” richiamò la sua attenzione lui.

“Dimmi, Sherlock”

“Cosa vuol dire quando qualcuno si comporta in un modo solo con te ma poi davanti alle altre persone si comporta in maniera totalmente diversa?” chiese ingenuamente. Harry gli sorrise, un po’ addolcito dalla sua ingenuità, un po’ per pietà (doveva ammetterlo) per quel ragazzo fin troppo intelligente.

“Parliamo di un amico? O, forse, di qualcun altro?” alluse il professore.

“Beh…ci frequentiamo, più o meno” confessò il ragazzo, ma la sua voce era macchiata da un tono di dubbio palpabile.

“Sherlock –sospirò l’adulto- non devi stare con qualcuno solo perché è la prima persona che ti dà attenzioni, ma perché ti tratta bene sempre, sia da soli che davanti agli altri. Mi sembra che questo ragazzo non ti rispetti molto”

Sherlock non rispose subito, intento a finire il suo pranzo. “L’ho visto baciarsi con una ragazza, poco fa” confessò poi. Il professore non ci mise molto a collegare i puntini. Sospirò nuovamente ed ebbe l’impulso di avvicinarsi e abbracciare il suo alunno, ma si trattenne.

“Vuoi che ti dica cosa fare? Non posso farlo. Devi sapere tu cosa fare”

“Vorrei che qualcuno comandasse quella parte del mio cervello che mi spinge ad avere interazioni sociali. Sono inutili eppure ne sento il bisogno quasi fisico. Anzi, non vorrei proprio provare niente come…come…”

“Una macchina” concluse per lui Harry “Ma tu non sei una macchina, sei un ragazzo, un adolescente. E come tutti i giovani ragazzi anche tu devi passare questo terribile periodo. Ti assicuro che durerà poco” riuscì a dire solo questo prima che la campanella cominciasse a suonare. Sherlock si tirò in piedi.

“Lo spero” concluse, prima di uscire dall’aula senza salutare.

Il corridoio era già pieno di persone che correvano verso le loro lezioni. Sherlock doveva raggiungere velocemente il campo esterno, prima che la professoressa Halley decidesse di mettergli una nota per il ritardo. Sandra Halley aveva la fissa per la puntualità e la precisione: nella sua ora tutti dovevano indossare la stessa divisa. Il corridoio era attraversato da non molte persone, così che lui potesse correre liberamente. Poco avanti a lui un’altra persona stava correndo: era John Watson.

Non ci mise molto a raggiungerlo, avendo le gambe più lunghe delle sue presto si ritrovarono a correre spalla a spalla.

“Ehi” disse John Watson.
“Ehi” rispose Sherlock Holmes, che da lontano intravide Jim e decise di alzare la mano e salutare anche lui.

Moriarty lo guardò dall’alto al basso velocemente, e poi rise. Sherlock rallentò immediatamente la corsa. Se era vero ciò che il professor Dornan gli aveva detto, doveva assolutamente chiudere con lui, per il bene anche del suo petto, che all’occhiata di Jim aveva preso a bruciare forte, come se si volesse consumare per sempre.

John non seppe dire cosa, ma la faccia di Sherlock si era stranamente trasfigurata mentre correvano l’uno di fianco all’altro, prima che il più piccolo rallentasse e rimanesse indietro. John rallentò con lui e seguì il suo passo.

“Tutto okay?” chiese, e Sherlock alzò lo sguardo, sorpreso dal fatto che il re del rugby lo avesse visto. Lui annuì, continuando a correre.

“Dove stai correndo?” chiese ancora John.

“Educazione fisica” rispose con un mezzo sorriso Sherlock.

“Io ad allenamento di rugby” aggiunse il biondo. Il più alto non rispose, ma anzi lo superò nel corridoio, staccandosi di diversi metri, sempre più veloce, lasciando John Watson indietro, a guardarlo scheggiare via: il giocatore non aveva mai visto qualcuno così veloce.

Né lui, né nessun altro che fosse passato in quella scuola: Sherlock Holmes era estremamente veloce, e nessuno aveva ancora battuto il suo record. La Halley era clemente con lui proprio per quello, se no, fosse stato per lei, Sherlock non avrebbe mai lasciato l’aula punizioni, per i suoi continui ritardi. Era di almeno 20 metri avanti alla sua classe e continuava ad accelerare: aveva sempre amato correre, specie quando da piccolo aveva Barbarossa che correva accanto a lui. Dopo la sua morte aveva mantenuto quell’abitudine, arrivando a correre anche venti chilometri in una sola mattina. Correva per pensare, per non pensare, per evitare i problemi o affrontarli con più lucidità: ogni sua emozione poteva trasformarsi in energia per la corsa.

John Watson era appena arrivato sul campo da rugby, e lì ad aspettarlo c’erano Greg e il resto della squadra. La coach Higgs stava già urlando comandi ed esercizi, e lui si mimetizzò tra i compagni a fare riscaldamento. Alla sua destra Lestrade gli sorrideva, alla sua sinistra Anderson non lo degnò neanche di uno sguardo. Eccezion fatta per Greg, sotto sotto John odiava la sua squadra, odiava il modo in cui tutti si sentivano superiori e il modo in cui trattavano gli altri. Ma nonostante questo rancore perenne verso i suoi compagni, essi erano anche le uniche persone con cui si incontrava regolarmente e con cui era intrappolato ogni mattina all’ingresso della scuola. Almeno, tra di loro, c’era Greg, l’unico con cui passava del tempo anche fuori dalle mura domestiche. Con lui fece coppia (come sempre) per fare dei lanci di riscaldamento.

“Hai sentito quello che ha detto la Higgs prima?” chiese Greg. John scosse la testa:  “sono arrivato tardi, dovevo passare all’armadietto a prendere la divisa”
“Dobbiamo trovare una riserva per poter giocare, uno qualsiasi perché siamo senza un uomo. McCarter si è rotto una gamba queste vacanze, sulla pista di pattinaggio”

“Uno qualsiasi?” chiese il biondo.

In quel momento le urla di un insegnante nel campo accanto al loro attirò la sua attenzione. Al di là della ringhiera un gruppo di ragazzi del secondo anno stava correndo. A comando della fila, con uno stacco di almeno trenta metri, vi era Sherlock Holmes.

‘Uno qualsiasi…’



NdA: ciao a tutti! Sono tornata su questi schermi dopo parecchio tempo, ma fortunatamente è uscita la serie tv Netflix di Heartstopper e ho pensato che sarebbe stato bello scrivere una Johnlock, una teenlock, in quelle corde. Se avete visto la serie più o meno sapete cosa aspettarvi: niente drammi pesanti o cose troppo dark. Tutta la storia sarà un enorme fluff in cui vi verrà voglia di stritolare le guance a tutti i personaggi. Inoltre questa storia mi serve per dimostrare che Alice Oseman è una johnlocker perchè Nick e Charlie sono letteralmente John e Sherlock scritti in un altro font. Spero vi sia piaciuto questo primo capitolo, a presto con il prossimo :)
-A
   
 
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