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Autore: EcateC    01/05/2022    4 recensioni
Attimi felici di Albus e Gellert, da quella preziosa estate del 1899 fino al ben noto 1928.
Contiene alla fine uno spoiler de "I Segreti di Silente."
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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“Hai capito come si chiama?”
“È così biondo che sembra una macchia di sole!”
“Ieri mi ha sorriso!”
 
Quando in un villaggio di provincia succede qualcosa di insolito, tutti lo scoprono nel giro di un giorno. È straordinario quanto corrano veloci le chiacchiere: passano di bocca in bocca e vengono gonfiate, malintese e rimaneggiate, tanto che alla fine la notizia risulta… Un’altra.
Albus Silente non era solito ascoltare i pettegolezzi della gente, forse perché le faccende amorose dei suoi compaesani non erano questioni che suscitavano il suo interesse. Ma questa volta era successo qualcosa di davvero curioso, nel ridente paesino di Godric’s Hollow.
Pare che fosse appena giunto uno straniero, che tutti avevano visto meno che lui. Un baldo giovine che aveva fatto perdere la testa a tutte le signore e le fanciulle del villaggio. Queste ridacchiavano e parlottavano fra loro e Albus si immaginò facilmente un vichingo biondo, uno di quelli con la pelle bruciata dal sole e il corpo forzuto ma calloso.
Lo immaginò bello, ma più incline a sellare i draghi che a leggere i libri. 
Le donne preferivano questo, in fondo.
In ogni caso, non era niente di particolarmente eccitante. Se l’arrivo di un giovanotto era la cosa più avvincente che poteva capitare tra quelle mura, allora c’era proprio da essere tristi. Albus si sentì in diritto di lamentarsi.
Si trascinò fino a casa, come di consueto era uscito a fare la spesa e a prendere le medicine per mitigare le crisi di sua sorella Ariana. Avrebbe potuto farsele spedire via gufo, ma non voleva perdere l’occasione di fare due passi e allontanarsi da quella casa gravosa e piena di sventure.
La temperatura del giorno ormai era diventata mite e il cielo di maggio era così terso da sembrare estivo. Tutto sembrava promettere un’estate meravigliosa, indimenticabile. Lo stesso Profeta in molti articoli aveva sottolineato che quella del 1899 sarebbe stata l’estate più calda e luminosa degli ultimi novant’anni.
Purtroppo. 
Per Albus non era una gran notizia. Ariana soffriva molto il caldo e gli ovini di Aberforth emanavano degli odori ancor più sgradevoli.
Albus fece un sospiro e decise di prendere una scorciatoia attraverso un campo verde ma facilmente calpestabile. Poteva materializzarsi ma non aveva ancora ottenuto la licenza ufficiale, e per quanto ne fosse già perfettamente capace, convenne che era meglio non sfidare il Ministero.
Scavalcò invece una staccionata e si ritrovò ben presto nel noto e tristo viale di casa sua. Accelerò il passo perché aveva dei fastidiosi aghetti di erba e paglia nelle scarpe e nel farlo vide Bathilda Bath, la sua vicina di casa, a carponi per terra. Albus si fermò e notò perplesso che sbucavano delle insolite fiamme azzurre da sopra la sua testa. Qualche scavezzacollo le aveva bruciato i tulipani…
“Avete bisogno di aiuto, signora Bath?” le chiese Albus, fermandosi perplesso di fronte al cancelletto. Ma quest'ultima sventolò la mano con aria brusca e gli fece segno di andarsene.
D’accordo, pensò, questo era insolito.
 
 
Ariana da un paio di giorni era molto irrequieta. Batteva i pugni bianchi contro il vetro della finestra, e quando era lontana, la indicava. Purtroppo, i farmaci e i tranquillanti che prendeva minavano la sua lucidità. Evitavano certi tipi di crisi, ma ne causavano altre.
Albus l’afferrò per i fianchi e la trascinò via dalla finestra.
“Dai, vieni” le disse pazientemente, ma lei non voleva sentire ragioni, continuava dimenarsi e a indicare la finestra che dava sul retro, nel cortile della loro vicina.
“Non c’è niente là fuori, Ari” le disse stancamente “Smettila di fare la sciocca.”
“Non sto facendo la sciocca!” protestò lei, con l’indice puntato verso il vetro “Vai a vedere!” 
Albus alzò gli occhi al cielo e si avvicinò alla finestra, aspettando di vedere oltre il vetro l’ennesimo gatto o il solito folletto che tanto esagitavano sua sorella. Ma ciò che vide lo lasciò interdetto, così tanto da fargli dischiudere le labbra dalla sorpresa.
C’era una fanciulla seduta sotto al mandorlo della signora Bath. Una fanciulla bianca e bionda, con delle onde morbide sulla fronte e sulle spalle. Albus sbatté due volte le palpebre e si avvicinò alla finestra per guardare meglio e con un certo imbarazzo si rese conto che quella testa bionda non era una fanciulla, bensì un… Bambino? Un ragazzino? Qualunque età avesse, non poteva avere più di dodici anni, capelli del genere si hanno solo in tenera età.
In ogni caso, era davvero strano che uno straniero così giovane fosse nel cortile della sua burbera vicina. Che si fosse perso? Era forse sua premura scendere per accertarsi che stesse bene?
“Attento!" delirò Ariana, un turbine incontrollato di magia gli scompigliò i capelli “Potresti cadere!”
Albus sospirò pesantemente e distolse lo sguardo dalla finestra. Aveva ben altro di cui occuparsi, purtroppo.
“Devi stare attento, Albus” continuò Ariana con un’espressione concentrata, severa “Gli angeli contano le stelle, il diavolo invece si nasconde tra i rovi.”
"Certo, Ari” le diede pigramente ragione "Vieni, andiamo a prendere le medicine."
E detto questo, Albus diede un’ultima occhiata alla finestra e poi chiuse la porta.
 
“Hai mica visto un ragazzino biondo, oggi pomeriggio?”
Aberforth alzò le spalle, aveva sempre un’aria strafottente. “No, perchè?”
“Mi è sembrato di averne visto uno sotto al mandorlo della signora Bath.”
“Il diavolo nascosto nei rovi!” cinguettò Ariana, ma nessuno dei due fratelli l’ascoltò.
“Non è che te lo sei sognato?” ghignò Aberforth, ficcandosi un bel pezzo di bistecca in bocca.
“Non me lo sono sognato, è proprio per questo che te l’ho chiesto” ribadì Albus, irritato.
"Beh, io non ho visto niente."
"E voi le avete contate le stelle?" domandò Ariana e Aberforth le sorrise "Le conto tutte le sere, Ariana.”
 
 
Il giorno seguente del fanciullo biondo non ci fu traccia. Alla domanda “avete visto un bambino biondo?” tutti sembravano perplessi.
Albus iniziò a temere di avere le allucinazioni o di esserselo sognato.
Godric Hollow era un paesello piccolo e bucolico, e se c’era un bambino in giro (biondo, per giunta) la gente lo avrebbe sicuramente saputo, come avevano saputo del “vichingo” tedesco che faceva strage di cuori. Albus pensò ragionevolmente che fossero parenti, un fratellino insignificante oscurato dalla presenza del baldo giovane.
Quattro giorni dopo, in modo del tutto inaspettato, il fanciullo ricomparve.
Era seduto sempre sotto al mandorlo e sfidava la calura del primo pomeriggio con disinvoltura. Appena lo vide dalla finestra, Albus gioì, dunque non se l’era sognato! Aprì istintivamente la finestra e si sporse, ma poi si fermò.
Il bambino aveva alzato il viso verso di lui e Albus aveva sbattuto le palpebre, le parole gli erano morte in gola. Si sentì arrossire, lo straniero non era un bambino, ma un ragazzo dall’età indefinita. Aveva le gambe incrociate e i pantaloni sollevati sopra le caviglie, i piedi nudi. Era così bianco e perfetto che sembrava uscito da un dipinto, o sceso da un piedistallo. Il marmo bianco del Bernini non era così puro e immacolato.
Costui tornò alla sua lettura e Albus si allontanò dalla finestra, colpito. 
All’improvviso comprese.
Era il ragazzo tedesco, quello di cui le fanciulle parlavano e per cui stravedevano.
Non era il tipo di tedesco che si era aspettato. Non era affatto un rude e grosso pastore d’oltralpe, barbuto, con le dita callose, le gambe corte e i muscoli pompati fino allo sfinimento. 
Ripensò al suo viso assorto e accigliato e il suo stomaco si contorse in modo strano, in modo sconveniente. 
Si allontanò subito, agitato, come se il pavimento fosse diventato improvvisamente bollente.
Era talmente perso nei suoi pensieri che non si era accorto che sua sorella Ariana, spesso preda dei deliri, era scesa dal letto e lo aveva spiato tutto il tempo. Quatta quatta come un gatto, si era avvicinata alla finestra e l’aveva aperta, si era sporta giù.
“Guarda!” aveva delirato Ariana, sognante alla finestra “Il bambino biondo!”
 
Fuori, ombreggiato dalle frasche del mandorlo, Gellert Grindelwald alzò lo sguardo dal libro di fiabe. La fanciulla che aveva visto sbattere i pugni alla finestra ora lo stava indicando freneticamente, sporgendosi a tal punto da avere le costole appoggiate al davanzale.
Gellert impugnò istintivamente la bacchetta con la destra e la domanda sorse spontanea: perché questi stupidi inglesi non tengono i loro pazzi chiusi nei manicomi?
E infatti, come aveva previsto, la ragazzina si sporse ulteriormente e lui velocissimo scattò in piedi e sollevò la bacchetta. Prima che lei potesse rovinare mortalmente al suolo, l’aveva già salvata.
 
 
Albus aveva visto con la coda dell’occhio ciò che sembrava un uccello bianco precipitare come un sasso dalla finestra dal terzo piano. Un enorme uccello bianco, con una cresta bionda. Ma quando sentì gli strilli acuti e femminei provenienti dal cortile, si sentì gelare sotto i vestiti.
Corse tre gradini alla volta e si lanciò fuori più veloce che potè, la furia fu talmente tanta e talmente accecante che non pensò nemmeno di smaterializzarsi. Sapeva già cos’era successo. Sua sorella era precipitata dalla finestra ed era esanime al suolo. O forse era morta. O forse era ancora viva con tutte le ossa fratturate e gli venne la nausea al solo pensiero.
Spalancò la porta con la morte nel cuore ma ciò che si trovò davanti fu un’immagine surreale. Forse solo un poeta avrebbe saputo descriverla.
Il ragazzo, che gli era sembrato un bambino, teneva in braccio sua sorella Ariana come se fosse una sposa, la quale era illesa e non protestava.
Erano entrambi sotto al sole e lui era alto, atletico come un ginnasta.
“È tua?” gli chiese con uno spiccato accento duro, da tedesco “Si è gettata dalla finestra.”
Albus guardò Ariana, la quale aveva lo sguardo rivolto in alto, verso le nuvole, e poi guardò lui. Era talmente bello che ne rimase folgorato, che il respiro gli si attorcigliò nel petto.
Il bel giovane aggrottò la fronte e lo incalzò con lo sguardo.
“Mi hai sentito?” domandò, impaziente.
Albus annuì vigorosamente, ma non parlò. Il suo interlocutore alzò le sopracciglia, in attesa di una risposta che non sarebbe mai arrivata, e poi gli rivolse un sorriso di scherno e depose a terra la ragazza.
“Du idiot” sogghignò a bassa voce, mentre si voltava e tornava indietro a prendere il suo libro. 
Albus lo guardò inorridito per l’imbarazzo. “Danke shon” mormorò in ritardo di dieci minuti, quando il giovane straniero aveva già voltato l’angolo ed era sparito.
Ora capiva perché le fanciulle lo avevano definito una macchia di sole. 
Lo era.
 
 
 
Rivederlo il giorno dopo lo riempì di meraviglia.
Albus avrebbe giurato che non si sarebbe più presentato dopo quell’incidente assurdo e imbarazzante. Doveva aver pensato che casa sua fosse un manicomio, un conglomerato di idioti, di dissennati.
“È tua?”
“No! Non la conosco, non l’ho mai vista in vita mia!” avrebbe voluto rispondergli, scuotendo la testa con sollievo misto ad adrenalina. La sola idea bastava farlo sentire bene e per farlo sentire un mostro.
Doveva ringraziarlo in ogni caso, aveva salvato la vita di sua sorella, per Merlino!
Doveva. Era un obbligo morale, gli era debitore. 
Scelse la migliore camicia che aveva, quella che usava per le occasioni importanti e che in realtà era semplicemente bianca e inamidata. La abbottonò fino al collo, si pettinò i capelli e per un attimo provò l’impellente desiderio di apparire più robusto e affascinante. Si vedeva così gracile.
Ariana stava dipingendo il muro ormai da due ore, il pennello magico senza tempera era l’unica cosa che sembrava calmarla.
Albus le afferrò le spalle magre e la accompagnò a sedere.
“Resta qui, buona” le ordinò, cercando di sorriderle. Poi fece un incantesimo per bloccarla sulla sedia, non poteva lasciarla da sola troppo a lungo.
“Sarò di ritorno tra venti minuti, Ari.”
“Albus?” singhiozzò lei, sporgendo il labbro “Albus, posso venire anche io?”
Ovviamente il fratello le rispose di no, un no secco e sgarbato. Ariana spesso piangeva quando veniva bloccata con la magia e Albus era stufo sia di doverlo fare che di sentirla lamentarsi. Ma che altra scelta aveva?
Raccomandò quindi la propria anima a Merlino e uscì.
 
 
 
“Buongiorno” esclamò, e il ragazzo tedesco sollevò subito il mento affilato verso di lui. Albus trasalì, aveva gli occhi di un colore diverso, uno scuro, l’altro chiaro.
“Ciao" gli rispose in modo informale. 
Albus deglutì e supplicò se stesso di parlare. Doveva parlare. 
“Io vi volevo ringraziare per avere soccorso mia sorella malata” parlò velocemente e in modo sgraziato “Vi sono debitore”
Gellert lo soppesò un momento e poi gli accennò un sorriso.
“Nessun problema. Le ragazze si buttano dalla finestra quando mi vedono” scherzò, appoggiando la testa dorata sul tronco del mandorlo. Albus dischiuse le labbra, non sapeva cos’altro aggiungere senza sembrare un idiota o uno stupido. Fortunatamente, lo straniero parlò al suo posto.
“Tu sei inglese, vero?”
Tu!? Gli stava dando del tu?
“Sì” annuì rapidamente “Ma non sono nato qui. Cioè, s-sono nato in Inghilterra ma non proprio qui, perché mi sono trasferito e… e” si sentì arrossire “Comunque sì, lo sono”
“Potresti aiutarmi con questo?” gli chiese spiccio, indicandogli il libro “Ci sono alcune parole che non conosco.”
“Certo!” rispose subito Albus, felice di rendersi utile “Molto volentieri.”
Il bel giovane scivolò verso sinistra sull’erba secca, tanto per invitarlo a sedersi vicino a lui. Albus si sentiva piuttosto impacciato di fronte alla sua disinvoltura, non era abituato a dare così tanta confidenza agli estranei, anche se erano suoi coetanei. Si sedette comunque in modo goffo, ma il suo nuovo amico non parve farci caso.
“Il mio nome è Gellert, comunque” gli disse costui, tendendogli la mano
“Albus” rispose, stringendogli la mano sottile e straordinariamente fresca, vista la calura.
“Albus” ripetè Gellert, sorridendogli “È un nome latino. Sei un purosangue?”
Albus sentì una inspiegabile, feroce urgenza di dirgli di sì. Esitò.
“Sì. Beh, non proprio” farfugliò, indietreggiando col capo e le spalle “Solo mio padre lo era, mia madre era una mezzosangue.”
“La tua situazione famigliare è simile alla mia, allora” lo sorprese Gellert, voltandosi del tutto verso di lui “Mio padre era un nobile, un Purosangue, che si lasciò stupidamente incantare dalla bellezza di mia madre.”
Albus provò un moto di compassione per quell’uomo. 
“Lo posso capire” proferì, stupito dalla scioltezza con cui Gellert gli aveva condiviso quella confidenza.
Quest'ultimo aggrottò delicatamente la fronte “Cosa puoi capire?”
Albus lo guardò. 
“Ehm” si schiarì la voce, imbarazzato “Posso immaginare quello che hai detto."
Gellert gli fece un sorriso aperto e divertito “No, ne dubito.”
Albus non potè che sorridergli di rimando. Lo guardò mentre sollevava il libro da terra e glielo portava vicino.
“Guarda. C’è questa la parola che non capisco” gli indicò sulla pagina bianca “Che significa?”
Albus lesse, ma prestò più attenzione all’unghia del suo indice. La parola comunque era effulgent.
“Significa luminoso, brillante” gli rispose, ma come alzò lo sguardo, sussultò leggermente. Il volto del giovane Grindelwald era vicinissimo e lo stava scrutando con curiosità. In un’altra circostanza Albus avrebbe ritenuto quella vicinanza invadente e maleducata, indecente quasi, ma non in quel momento. Era troppo bello.
“Ah, lo avevo supposto in realtà” soggiunse tranquillamente Gellert, tornando a guardare il libro "Volevo esserne sicuro. Non amo trascurare i dettagli.”
“Cosa state… Cosa stai leggendo?” gli chiese, ansioso di continuare quella strana conversazione.
Gellert gli mostrò la copertina e quando Albus lesse il titolo, ne rimase esterrefatto, tanto che l’altro ridacchiò.
“Perdonami” si scusò subito Albus “Il mio stupore non voleva essere sprezzante.”
“Puoi anche sprezzare, non mi offendo” lo rassicurò Gellert, divertito.
“Non era ciò che mi aspettavo” gli disse Albus, più preoccupato di lui.
“E cosa ti aspettavi?”
Tra tutti i titoli che Albus pensava di poter vedere, un libro per bambini era l’ultimo al mondo.
"Non saprei” rispose "Non un libro di fiabe.”
Gellert scosse la testa, i suoi riccioli biondi lo accompagnarono con grazia.
“Ma questo non è un libro di fiabe.”
“Beh" soggiunse Albus, perplesso “Le Fiabe di Beda il Bardo. Temo proprio che lo sia.”
Gellert rise di nuovo.
“Quindi tu giudichi un libro dalla copertina?” lo stupì, di nuovo “O un ragazzo dal suo aspetto?”
Albus si sentì preso in contropiede “Non sono superficiale, se è questo intendi. Ma la logica…”
“La logica non può nulla contro l’ignoranza e tu ignori ciò che contiene questo libro” lo interruppe prontamente, risultando tagliente pur senza padroneggiare l’inglese.
“Spiegamelo allora” lo sfidò Albus, piccato “Perché ti posso assicurare che non sono solito fare la figura dell’ignorante, anzi."
Avrebbe voluto snocciolargli tutti i suoi successi accademici, le lodi dei professori e le vivaci proposte di lavoro, ma per pudore tacque. Tuttavia quello strano ragazzo, invece di dare legna al dibattito, sorrise. Ricordava l’iconografia di un angelo, eppure c’era qualcosa di diabolico e poco casto in lui.
Con le dita sottili, Gellert scavò un simbolo triangolare sul terreno, che Albus non riconobbe.
“Che cos’è quello?” gli domandò, curioso.
“Lo vedi?” gli sorrise Gellert “Sei ignorante.”
 
 
 
Se gli avessero detto che si sarebbe innamorato di quel giovane poco cortese e poco decente, Albus non sarebbe rimasto molto stupito.
Sapeva di amare gli uomini, anche se non ne aveva mai sfiorato uno. Lo sapeva bene, se n’era accorto dal modo in cui il suo sangue ribolliva quando vedeva Prince Doughart o Colin Prewett.
Ma gli avevano inculcato che era sbagliato. Che era una cosa moralmente bassa, turpe, contro natura. Tuttavia, per quanto fosse reputata vergognosa questa sua inclinazione, Albus sentiva di essere innocente. Sentiva di avere buone intenzioni, sentiva dentro di sé che non voleva fare niente di sbagliato o di degradante, o di meschino. L’amore non era mai meschino, mai, in nessuna forma e in nessun modo, di questo ne era più che certo.
Doveva forse forzarsi di essere ciò che non era? Fingere, prendere in giro una povera ragazza e condannarla a una vita di privazioni e sofferenze? Quello sarebbe stato meschino.
Gellert Grindelwald invece non si poneva i suoi stessi problemi esistenziali. Quest’ultimo, a essere precisi, non si poneva affatto problemi. Era forse il ragazzo meno responsabile e più sicuro di sé che Albus avesse mai conosciuto.
Non che fosse del tutto privo di sani principi, diciamo che aveva una sua propria moralità, ma non la esercitava.
“Rilassati. Che cosa vuoi che succeda?” era ciò che gli diceva sempre, per qualunque cosa. Aveva un temperamento guascone e ribelle, e osava spesso, senza mai apparire teso o in difficoltà. Le sue ambizioni erano altissime, come la fiducia che riponeva in se stesso.
Era stato facile diventare suo amico e concordare con ogni cosa che diceva. Era stato facile seguirlo, lasciarsi tentare dai suoi discorsi e dalle sue mani fresche che lo sfioravano sempre più spesso.
Nelle braccia e nelle gambe aveva una peluria sottile e dorata. Sembrava completamente glabro, ma in realtà era solo molto biondo.
Albus moriva dalla voglia di sfiorarlo quando, seduti chini su un libro, i loro gomiti si toccavano.
Aveva saputo che si chiamava Grindelwald, un cognome che gli parve subito bello, forte.
 
 
 
“Sei fidanzato?”
Albus scosse la testa, e poi disse di no anche a voce alta. Gellert non sembrava particolarmente stupito e lo studiava, sdraiato sull’erba come una ninfa discinta.
“Come mai?” gli sorrise insinuante.
“Non ho trovato…” Albus si schiarì la voce, pizzicandosi il dorso della mano “Ecco, non ho trovato ciò che cercavo.”
Mentire lo faceva arrossire, doveva ancora raffinare la tecnica.
“Perché questo ti imbarazza tanto?” gli domandò Gellert, colpendolo scherzosamente col piede nudo “Sei tutto rosso.”
Albus sorrise e gli spinse via la caviglia “Piantala”
“Non trovi nessuna ragazza che ti piace?”
Albus non seppe cosa rispondergli, non seppe cosa inventarsi, e finse di provare un profondo interesse per l’erbaccia vicino alle sue scarpe.
Ah” gli sorrise Gellert, di nuovo quel bel sorriso aperto e regolare “Ho capito.”
Albus sgranò gli occhi. Come sarebbe aveva capito? Cosa, in nome del cielo, aveva capito!?
“Non riesco a immaginare cosa tu possa aver capito, visto che ho taciuto" gli disse con una chiara nota di preoccupazione nella voce.
"Non sentirti minacciato, non sei il primo che conosco” gli rispose Gellert, stiracchiandosi mollemente “Il tuo segreto è al sicuro con me.”
Albus sentì come un nodo alla gola, l’urgenza di fuggire gli stava bruciando gli occhi. Era stato un segreto che aveva celato a tutti con grande maestria, senza far trapelare alcun sospetto a nessuno. Nemmeno Elphias Doge aveva idea, nemmeno sua madre, poverina. Albus immaginò il dispiacere se lo avesse saputo, non voleva essere motivo di imbarazzo per la sua famiglia, non lui, almeno. Lui era quello portava gli onori, che teneva alta la bandiera. I suoi voti erano altissimi e i professori erano strabiliati dalle sue straordinarie abilità magiche. Non poteva… Non poteva…
"Credo sia il caso che io me ne vada” disse teso, alzandosi da quel giaciglio scomodo. Grindelwald lo guardò con aria incredula e si appoggiò sui gomiti.
“Al, stai scherzando, vero?”
“È stata una lunga giornata, Gellert” gli rispose stancamente, ma come fece per andarsene Gellert lo afferrò rapidamente per un polso e lo guardò negli occhi. La sua mano era calda questa volta, e ruvida, impolverata. Albus guardò le loro mani e poi guardò lui. Gellert fece scivolare la mano più in basso, i suoi polpastrelli gli solleticarono il palmo, fino a che non intrecciò le dita tra le sue per accompagnarlo in basso, verso di sé. Albus si lasciò trascinare e gli strinse forte la mano, il suo cuore batté più forte quando arrivò di fronte al suo viso. Era bellissimo.
“Io sono come te” gli disse piano Gellert come se fosse un segreto “Sono esattamente come te.”
Un sorriso spontaneo germogliò nelle labbra di Albus. 
“Intendi…?” mormorò cauto, a bassa voce, cercando di trovare nei suoi occhi la risposta.
Gellert ricambiò il suo sorriso “Sì.”
Albus dischiuse le labbra ma non seppe cos’altro aggiungere. Abbassò solo lo sguardo e sorrise, sicuramente un sorriso impacciato, perché dentro di sé si sentiva incredulo. Possibile che stesse succedendo a lui?
“Wow. Cioè, questa… Questa è una buona notizia” balbettò, facendolo sorridere “Forse la prima buona notizia della mia vita.”
“Sai qual è un’altra buona notizia?” gli chiese Gellert, dolcemente.
“Quale?” gli domandò, continuando a sorridere
“Stanotte ho la casa libera, se vuoi venire.”
Albus sgranò gli occhi, le sue guance arrossirono “Come?
Gellert gli sorrise subito “Era una prova. Stavo scherzando” esclamò con fare innocente “Ma se vuoi venire, ho dell’ottimo tè…”
 
 
I maghi dovevano dominare i babbani, la natura stessa lo aveva previsto.
I maghi erano le creature superiori, più forti, all’estremo vertice della catena alimentare.
I maghi dovevano governare il mondo per il bene di tutti, per il Bene Superiore. 
Questo era ciò che Gellert credeva e Albus lo ascoltava, non amava contraddirlo. In parte gli dava ragione, in parte lo considerava eccessivo, ma preferiva chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dall’amore, mentre Gellert con la sua bacchetta tracciava in aria il simbolo dei Doni della Morte e le iniziali del suo nome. Amava farli infrangere contro il corpo rilassato di Albus, come nuvole che si scioglievano nel cielo.
“Dona molto il mio nome su di te” gli diceva “Vorrei tatuartelo sul petto.”
Albus gli sorrise “Puoi farlo.”
“Posso?” gli chiese, stupito.
“Puoi tutto.”
 
 
Faceva male a dire il vero, faceva parecchio male.
Ma era qualcosa per cui valeva la pena sopportare. Non era un vero dolore, era ciò che più lontano esisteva dal dolore.
Gellert lo copriva col suo corpo e tutto intorno a loro spariva, Ariana e i suoi deliri sparivano. Le arti oscure sparivano, le sue stupefacenti abilità magiche sparivano. Il peso di lui sopra il suo corpo lo liberava di tutti gli altri pesi. Albus vedeva solo le fronde verdi sparse nel cielo estivo, non più doveri, non più abnegazione, non più aspettative da soddisfare.
Il suo mondo ormai gravitava intorno a lui. Ogni particella del suo corpo e ogni fibra del suo essere erano rivolte a lui e fremevano d’amore per lui. Amava Gellert in modo completo e assoluto, i suoi giorni erano scanditi da momenti in cui era con lui e i momenti in cui era senza di lui. I momenti senza di lui li trascorreva a fantasticare, sognava di parlargli, di baciarlo, qualche volta si spingeva oltre e il suo corpo ne subiva le ben note conseguenze fisiologiche. 
Albus ebbe più erezioni in quel mese che in tutta la sua vita, ma non poteva farci niente. Il suo cervello si era completamente ubriacato, il suo corpo voleva fare l’amore con lui e faceva di tutto per comunicarglielo. Era veramente in uno stato di gioia e di esaltazione psicofisica mai provata prima.
“Sto iniziando ad amarti seriamente.”
Gellert non era il tipo che si lasciava impressionare da frasi del genere. Era bello e forse le aveva sentite pronunciare troppo spesso.
“E quindi?” lo aveva provocato, sorridente.
“E quindi voglio stare con te.”
“Stai già con me.”
“Voglio stare per sempre con te, non per un’estate” si sbilanciò Albus, e finalmente catturò le sue attenzioni.
“Ho un’idea” gli sorrise Grindelwald, nella sua mente iniziò ad aleggiare il sogno del Patto di Sangue.
 
 
 
Gellert Grindelwald aveva questa strana peculiarità di guardarti dritto negli occhi e di avvicinarsi tanto, troppo, come se volesse incantare e al contempo neutralizzare le sue prede. C’era qualcosa di poco casto nel suo sguardo e nel modo in cui parlava. C’era qualcosa di perverso nel suo interesse verso le arti oscure. Era stato espulso da Durmstrang a causa di esse.
“Esprimi un desiderio” gli sussurrava, steso accanto a lui “Qualunque cosa sia, con le arti oscure puoi avverarlo”.
Albus rabbrividiva di fronte a quei discorsi peccaminosi ed euforici. Ma qualcosa dentro di lui lo tratteneva e gli imponeva cautela. Le arti oscure erano estremamente pericolose, sia per chi le praticava sia per chi, malauguratamente, le subiva. Erano oscure proprio perché infrangevano le leggi della natura e corrompevano gli animi dei pochi che le sapevano praticare. Ma Gellert non era come gli altri… Gellert non aveva il cuore arido o spietato o egoista di un mago oscuro.
Lui agiva per un Bene Superiore.
“Con la Bacchetta di Sambuco, potremo avere tutto senza correre alcun rischio”
Ma io ho già tutto, pensò Albus.
“…Perfino guarire tua sorella, Al.”
Albus lo guardò, esterrefatto. “Dici che sarebbe possibile?”
“Con la giusta bacchetta sì, lo sarebbe”gli rispose Gellert, tentatore “Basta trasferire quel germe in un altro corpo.”
Il germe, l’obscurus
“Ma non sarebbe giusto…”
“Non è nemmeno giusto che tua sorella soffra così tanto. Se ci fossi io al suo posto, non faresti di tutto per aiutarmi?”
Albus lo guardò e sorrise. Oh sì, farebbe di tutto, ma tentò comunque di dargli un fermo.
“Tutto ciò che voglio io sei tu” gli disse Albus, sfiorandogli la mano “Ma non potrei averti con le arti oscure.”
Grindelwald esitò, il suo viso ispirato era attraversato da una lama di sole.
“A dire il vero, con la Bacchetta di Sambuco…”
“Gellert” lo fermò subito.
 
I Doni della Morte, leggendari manufatti magici creati in un tempo ignoto, andati perduti, forse distrutti, erano ciò che Gellert voleva più di qualsiasi altra cosa. Per cambiare mondo, dopotutto, bisognava brandire le armi adatte.
“Gregorovitch, colui che fabbricò la mia bacchetta, è quasi impazzito nel tentativo di riprodurre quella di Sambuco.”
“Davvero?” gli domandò Albus, basito “Che stupido. Non è un compito all’altezza di un comune fabbricante di bacchette.”
“Infatti” concordò Gellert “Ma sai questo cosa significa?” gli chiese, con gli occhi che brillavano.
Albus gli sorrise “Che cosa, amore?”
“Che lui possiede quella vera” gli rispose, tutto in lui esultava, anche il bacio che gli stampò sulle labbra sapeva di vittoria. Albus divaricò le cosce per farlo aderire meglio contro di sé e gli passò le dita tra i capelli.
“Ti amo” gli disse, il ciondolo del loro patto venne schiacciato dai loro petti “Con o senza Doni della Morte. Ti amo per sempre.”
“Anche io ti amo per sempre” gli promise Grindelwald "Non dimenticarlo mai.”
 
 
 
Quella fu una delle ultime cose che gli disse in quella torbida estate del 1899.
Gellert arrivò quasi a supplicarlo, ma Albus non volle ascoltarlo.
Il cadavere di sua sorella, steso sul pavimento di casa, gli aveva aperto gli occhi. Albua aveva urlato contro di lui tutto ciò che la parte lucida del suo cervello gli aveva suggerito da sempre: ciò che Gellert diceva era un abominio. Era ingiusto, contro natura, infattibile.
Glielo aveva gridato in faccia, ma Gellert non si era scomposto, sapeva essere algido e imperturbabile quando voleva.
“Sei sconvolto per la morte di tua sorella, lo capisco. Ma non puoi rinnegare il nostro futuro, tutto ciò che abbiamo deciso di fare insieme. Le nostre aspirazioni meritano di essere perseguite.”
Albus si asciugò le lacrime e lo supplicò con lo sguardo “Le nostre aspirazioni sono le tue aspirazioni! Io volevo solo stare con te” ansimò, pentito e disperato “Ti prego Gellert, dimentica tutto. I Doni della morte, i babbani… cosa ti importa ora che mia sorella è morta?”
Ma il volto di Grindelwald si fece duro come la pietra. Dove Albus si aspettava dolcezza e comprensione, venne solo asperità e gelo. “Credevo che tu fossi diverso, credevo che fossi come me.”
Albus lo guardò, incredulo e deluso quanto lui. “Anche io ti reputavo diverso.”
“Evidentemente, abbiamo visto solo ciò che entrambi volevamo vedere” constatò Gellert, freddo.
“Mi stai lasciando?” gli chiese Albus, diretto. Gellert esitò prima di rispondere, ma poi lo guardò negli occhi e scosse la testa, la sua espressione si addolcì.
“No, certo che no.”
“Peccato, perché io sì.”
 
 
 
 
 
 
 
Passarono molti anni da quel giorno e tanti dolori si assommarono gli uni sugli altri, ma Albus riuscì a mantenere il sorriso e la sua cordialità. Il suo nome, a suo malgrado, divenne popolare e con gli anni imparò a controllare la magia e praticarla in un modo che nessun altro mago poteva sperare di eguagliare. Ma pur avendo la strada spianata sia per la corsa alle elezioni ministeriali che per diventare un potente Auror, Albus scelse un altro tipo di vita. Una vita ritirata, in mezzo al cuore innocente e spensierato dei giovani.
Gli piaceva insegnare, i ragazzi lo apprezzavano e gli erano molto affezionati, pur con qualche inevitabile eccezione, in particolare modo nella Casa di Serpeverde. 
Ma il clima disteso di Hogwarts non bastava per fargli dimenticare Grindelwald. Il suo amico non aveva mai accettato il fatto di essere stato lasciato e spesso si era ripresentato da lui, convinto che erano uniti da un legame ben più forte del loro passato. Il Patto di Sangue era come un sigillo nel loro cuore, una catena intorno ai loro polsi, un pegno d’amore che li avrebbe tenuti insieme in eterno. Bruciava quando uno dei due era in pericolo e Albus era intervenuto un paio di volte a salvargli la vita e a combattere contro dei nemici che nemmeno conosceva. Contro dei nemici che magari erano persone innocenti.
A parole poteva anche negarlo, ma il loro amore si era cristallizzato dentro a quel ciondolo e lì sarebbe rimasto per sempre, al sicuro.


 
Albus aveva appena salutato il suo amico di lunga data Nicholas Flamel quando sentì una mano premere sulle sue spalle.
Sussultò e si voltò di scatto, ma invece che una mano si trovò di fronte un guanto nero, che volteggiava magicamente all’altezza dei suoi occhi. L’oggetto gli accarezzò dolcemente una guancia e il suo stomaco fece una capriola. Albus si guardò subito intorno, perlustrando con sguardo agitato le vie della Parigi notturna, ma non scorse nessuno, nemmeno un passante babbano.
Il guanto intanto gli aveva porto il palmo, in un tacito invito a stringerlo.
“Sei incauto” lo rimproverò, ma il guanto restò nella stessa posizione “Oh, per Merlino.”
Il professore obbedì, afferrò quella mano magica e si lasciò materializzare.
 
Piombò all’improvviso nel salotto di una casa babbana, non troppo lontano da dove si trovava prima.
“Anche tu qui a Parigi?” lo sorprese una voce calda alle sue spalle. Albus si voltò e come prima cosa gli sorrise, era più forte di lui.
“Hai sentito tutto?” gli chiese, stancamente. Gellert ricambiò il suo sorriso.
“Se ti riferisci alla conversazione che hai appena avuto con l’alchimista, no, non mi interessa” gli rispose placido “Ma l’altra sera ti ho visto passeggiare con Scamander lungo le rive del Tamigi, e questo sì, mi interessa. Siete intimi?”
Albus alzò le sopracciglia come a chiedergli se facesse sul serio, poi si guardò intorno.
“Dove siamo?” gli chiese invece, più duramente “Di chi è questa casa?”
“Di qualche babbano che si è assentato. Puoi stare tranquillo.”
“Non sono mai tranquillo con te, Gellert” gli rispose invece “Perché mi hai portato qui?”
“Non è ovvio? Voglio vederlo” replicò Grindelwald con ovvietà, ma Albus sostenne il suo sguardo senza fare altro.
“Tiralo fuori, Albus” gli ordinò e poi gli accennò un sorriso “Non farti pregare, non è da te."
Albus allora si mise una mano nella tasca del soprabito e, come se fosse una calamita, il ciondolo del patto di sangue scattò subito tra le sue dita. Gellert sospirò e osservò il manufatto in un misto di bramosia e dolcezza.
“Mi è stato sottratto con l’inganno. Suppongo che tu non abbia niente in contrario a restituirmelo.”
“Te l’ha rubato uno snaso” lo corresse Albus, trattenendo un sorriso “Non userei davvero la parola inganno."
Grindelwald lo guardò e assottigliò lo sguardo, lo stava forse prendendo in giro?
“Me lo restituisci o no?”
“No.”
“Perché?” gli chiese Gellert, calmo.
Albus alzò lo sguardo, guardarlo negli occhi era diventato un atto di coraggio. “Perché devo deciderne cosa farne.”
“Non puoi distruggerlo” osservò subito Grindelwald, guardandolo attentamente.
“Da solo no, ma con te sì” esclamò, cercando di non lasciarsi incantare dal suo sorriso magnetico. 
“Questo è vero” gli concesse con un mezzo sorriso “Ma è davvero questo ciò che vuoi? Distruggere ciò che l’amore ci ha portato a creare?”
Albus lo guardò amaramente “Che altra scelta mi dai, Gellert?”
“Quella di unirti a me” gli rispose Grindelwald “Mi ferisce e mi inquieta il fatto che tu anteponga quegli esseri inferiori, quegli animali, a me, a noi, a quello che siamo stati e che siamo tuttora.”
“Non siamo più niente…”
“Ma davvero?” replicò Gellert, calmo “Albus, guardami negli occhi e dimmi che non mi ami più.”
Albus lo guardò negli occhi ma non seppe dire una menzogna del genere.
“Devo andare” disse invece, brusco, ma Grindelwald gli afferrò il polso, proprio come aveva fatto molti anni prima, e fece scendere la sua mano calda e ruvida sulla sua.
“Stai scherzando vero?” gli chiese, ripetendo la stessa frase che aveva usato da ragazzino. Albus gli sorrise e abbassò lo sguardo, era più forte di lui.
 


***
 
 
 
Grindelwald era noto per essere un uomo composto e imperturbabile, che raramente si lasciava andare all’ira o all’entusiasmo. Le emozioni sembravano non appartenergli, ma ci fu attimo nella sua vita in cui la sua maschera di cera crollò e lui si sentì perso, apparve perso.
Era certo che il Patto sarebbe stato sempre parte integrante della sua vita, come era certo che Albus prima o poi sarebbe tornato da lui. Erano due certezze che si assommavano a tante altre, ma che erano forse le più importanti e soprattutto le più durature.
La fiala del Patto di Sangue era rimasta per trent’anni in mano sua. L’aveva custodita con devozione e accarezzata con le dita. Ogni volta che si mostrava in pubblico, Grindelwald l’appendeva sui suoi abiti come se fosse un gioiello, una spilla, per ricordare ad Albus che il loro amore era ancora intatto ed era lì, vivo.
Ma ora la fiala, il suo gioiello preferito e ciò che gli aveva dato speranza fino a quel momento, era caduta e si era infranta in mille pezzi, piccoli frammenti di un amore immortale.
Gellert si sentì perso, il suo cuore si spezzò esattamente come quel vetro e Albus se ne accorse, ma non si voltò.  Gellert fece un passò verso di lui, ma lui fece un passo indietro.
Gli gridò quindi la domanda con rabbia, come se fosse un’accusa.
“Chi ti amerà adesso, Silente?”
Chi mi amerà adesso, Silente?
“Resterai solo!”
Resterò solo.
Albus non si era voltato nemmeno allora.
Per un attimo, a Gellert parve davvero finita, ma solo per un attimo.
Il volto di Albus, finalmente voltosi dalla sua parte, era cupo e segnato dal dispiacere almeno quanto il suo. Questo gli diede la forza di reagire.
“Non ero vostro nemico” gridò Grindelwald prima di andarsene, e questa volta lo guardò dritto negli occhi. Non ero tuo nemico
“E non lo sarò.”
E non lo sono.
Non dimenticarlo mai.
 
 
 
 


Note
È stata dura scrivere questa storia, giusto perché ho sempre scritto di Grindelwald attenendomi alla caratterizzazione che ne ha fatto Depp, ovvero quella di un Gellert seducente e teatrale. Il Grindelwlad di Mads è invece algido e composto, sembra imperturbabile, e in questa storia io ho creato di ispirarmi alla sua interpretazione. Spero di esserci riuscita e che la storia vi sia piaciuta.
A presto,
Ecate
 
 
 
 

 

   
 
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