Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Joy    18/05/2022    2 recensioni
“Dovresti tornare a Paradis, Jean.”
Glielo dice Armin in una serata soffocante di fine estate, una di quelle in cui i venti provenienti dal mare non possono nulla sull'afa del continente. Glielo dice di fronte a due bicchieri intatti e sotto la disapprovazione bonaria dell'oste che non sa niente della loro reticenza nel mandar giù un ormai innocuo sorso di vino.

[JeanxMikasa, scritta per l'Easter Calendar gruppo Facebbok Hurt/Comfort Italia]
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Jean Kirshtein, Mikasa Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Joy Inblue

Fandom: Attack on Titan

Personaggi: Jean/Mikasa

Tag: Ambientata dopo il finale

 

Scritta per La sfida del bucaneve, gruppo facebook Hurt/Comfort Italia

 

Prompt: Spegni la luce, Se n'è andato, Anche il silenzio.

 

 

 

 

Cose belle

 

 

 

 

“Rimani per un po'?”

 

Mikasa glielo chiede due giorni dopo il suo arrivo.

Non lo guarda mentre lo fa, continua a fissare con occhi assenti il vetro della finestra rigato dalla pioggia: Jean se lo sente dentro al petto, quel cielo grigio e lacrimoso.

 

“No, se ti disturbo” le risponde pacato; l'ultima cosa che desidera è lasciar intendere un risentimento che non prova. Sa per esperienza quanto possa diventare necessaria la solitudine e la maggior parte delle attività che svolgeva con Marco, tuttora, preferisce farle da solo piuttosto che aver qualcuno che non sia lui a ricordargli quanto gli manchi.

 

Uno sguardo, lei glielo rivolge. Frettoloso, schivo, polveroso anche, ma si volta e lo guarda.

“Non c'è molto da disturbare, Jean. Passo le mie giornate a fare niente.”

 

Sottolinea le parole con un gesto vago della mano, come a voler sottolineare l'inutilità delle ore, adesso che non c'è più ragione di renderle operose. Adesso che tutto è finito.

 

“Non è sbagliato prendersi un periodo di riposo...” azzarda.

 

Il silenzio lo investe: Mikasa non è mai stata di tante parole, e i suoi occhi stanno di nuovo perforando la barriera di vetro e pioggia, che la separano dal luogo dopo riposa Eren.

Jean ha imparato a non fremere nei momenti di stallo successivi ad un' opinione che ha faticato a farsi uscire dalle labbra, a non passare il peso del suo corpo da un piede all'altro in attesa di sapere se ciò che ha detto sembra una stronzata oppure no, e a mettere a tacere quella voce malevola che nella testa gli ripete: Ma cosa ne sai, tu?

Perché per una volta lo sa. Lo sa cosa si prova a non trovare pace in un mondo che non ospita più niente di bello.

Si porta al suo fianco; non cerca i suoi occhi, ma solo l'orizzonte che sta scrutando: la traiettoria, la direzione univoca dei suoi pensieri.

 

“Devo comunque raggiungere mia madre entro la fine del mese” aggiunge.

 

Le spalle di Mikasa si sollevano impercettibilmente, la sua espressione non cambia.

 

“Fino ad allora puoi rimanere” mormora. “Se ti va.”

 

C'è uno spiraglio nella sua posa rigida, Jean lo riconosce: è nella leggera esitazione che precede quel sospiro troppo a lungo trattenuto, nella spontaneità con cui raccoglie le ginocchia contro il petto e le circonda con le braccia, nel coraggio esausto di volgere le spalle a quell'unico orizzonte immutabile e guardare dalla parte opposta, dove la vita continua e altre cose possono accadere, forse non altrettanto belle, ma comunque degne di avere il loro momento.

 

“Certo” mormora con un accenno di sorriso. “Rimango.”

 

***

 

Non è ancora riuscito a prendere sonno, quando il fruscio delle lenzuola e il cigolio del letto nella stanza accanto, lo avvisano che nonostante la tisana a base di camomilla, Mikasa è di nuovo sveglia.

Dorme poco e male, Jean non è neanche convinto che sia dovuto alla perdita subita, tutti loro dormono male, da quelli che ormai sembrano secoli.

 

“Posso entrare?”

 

Non riceve risposta, ma l'anta della porta si apre docilmente sotto il tocco lieve del suo palmo: per quanto Mikasa non abbia mai fatto mistero della sua propensione alla solitudine, Jean deve ammettere di non averla mai trovata sbarrata.

È in piedi, china sul lavabo, ma nel chiaroscuro della stanza non riesce a veder altro che le sue spalle tremule, i pugni chiusi e i piedi nudi; non capisce neanche se stia ridendo o piangendo, e a dire il vero, gli fanno paura entrambe le opzioni.

 

“Spegni la luce” ordina Mikasa senza voltarsi.

 

Con il buio è più difficile tornare alla realtà, Jean lo sa, ma abbassa ugualmente lo stoppino fino a spegnerlo ed entra nella stanza.

Ringrazia che le nubi si siano diradate, o non avrebbe avuto dalla sua parte nemmeno la luce fioca della luna a illuminare i contorni del mobilio.

 

“Ehi...”

 

Non ha bisogno di chiederle cosa succeda: la sciarpa scagliata con rabbia sul pavimento è già abbastanza esplicativa.

Lo sono anche le lacrime che la bagnano, quando Mikasa ci ripensa e con uno scatto deciso si china a raccoglierla, portandola al viso.

 

Alcune cose Jean ammette di non capirle.

A volte si chiede come faccia a sopportarlo, di essere stata lei a uccidere Eren. A farsi violenza al punto tale da sradicare dal cuore ogni sentimento e spingere le proprie mani a sollevare la lama contro l'unica persona che abbia mai amato.

Si domanda quanto bruciante sia la rabbia e se la provi contro se stessa o contro di lui, quanto subdolo sia il dolore che si è causata e quanto straziante il rimorso.

 

Se sia infine nato dell'odio in mezzo a tutto quell'amore.

 

E se i pugni chiusi che affonda tra i suoi cappelli, insieme ai denti digrignati ne siano la conseguenza.

 

S'inginocchia di fronte a lei e copre le mani con le sue.

 

“Vieni” le dice, “sediamoci insieme per un po'. In cucina il camino non si è ancora spento e tu sei gelida.”

 

Mikasa volta lo sguardo su di lui: ha gli occhi bagnati e forse qualcosa di ciò che ha detto gli ha ricordato Eren perché per un momento sembra quasi sorridere.

 

“Hai raccolto la legna da solo?”

 

Jean non sa cosa voglia dire, ma sa a chi sono rivolte quelle parole: nonostante se ne sia andato, la sua presenza è ancora palpabile. Soprattutto di notte.

 

“No. Ce n'è a sufficienza, Mikasa, non preoccuparti.”

 

Non si aspetta che ritorni subito in sé, ma sente il fremito che le scuote le spalle, quando appoggiandosi a lui nell'intento di rimettersi in piedi, realizza che non si trova accanto alla persona che sperava. Jean non s'illude su questo, del resto nessuno ha mai avuto mani simili a quelle di Marco, né il suo odore.

 

Arrivano in cucina, prima che lei si decida a parlare e il tragitto sembra più lungo di quella manciata di metri che è in realtà.

 

“Jean?” mormora non appena sfiora il velluto consunto del divano e realizza dove si trova.

 

“Sì. Sono qui.”

 

Lei si siede sospirando: “Mi dispiace. Sono un disastro”

 

Jean non lo pensa. Pensa che sia bella, lo ha sempre pensato.

La osserva mentre il riverbero tremulo dei tizzoni quasi spenti illumina le pieghe della sua camicia da notte.

Ha le gambe scoperte e i capelli in disordine, ma non sembra importarle; si prende tra le dita una ciocca arruffata e la solleva: “Dovrei tagliarli di nuovo.”

 

“Non è necessario.”

 

Non sa da dove siano arrivate quelle parole, sa che avrebbe voluto dirgliele prima, in innocente amicizia.

Dirle che non era costretta a tagliare i capelli se non voleva, poteva semplicemente legarli, come faceva Sasha, ma lei è sempre stata brava a convincersi di desiderare ciò che Eren le suggeriva.

 

Lo guarda, ora, così spaesata che Jean non può fare a meno di allungare la mano e sfiorarle le ciocche che si appoggiano appena alla sua spalla.

 

“Puoi liberarti dei nodi semplicemente pettinandoli” propone, e la sua voce esita un po', perché Mikasa ha fatto ricadere la mano in grembo e non sembra intenzionata a muoverla di nuovo. “Posso farlo per te, se vuoi.”

 

Non è bravo a interpretare i suoi silenzi: nella maggior parte dei casi sembrano risucchiarlo nella loro spirale d'incertezza.“Posso provare” ripete, “se non sei soddisfatta dopo te li taglierò io stesso.”

 

A questa possibilità sembra più propensa: gli volge lentamente le spalle spostandosi sull'orlo del divano.

Con la testa china e la camicia da notte allentata, Jean riesce a vederle il collo nudo e parte della schiena.

Ha la luce della luna sulla pelle, ma nessuna costellazione.

È un po' strano.

 

Si alza per recuperare la spazzola dalla sua stanza e quando torna si accorge del fremito che le attraversa la schiena: è quasi impercettibile, ma Jean riconosce l'onda ruvida di quella attesa incerta sulla pelle diafana.

 

Se prima era riuscito a pensare con lucidità, deve ammettere, mentre solleva la spazzola stringendola contro il palmo, che adesso trema anche la sua mano.

Posa l'altra sulla sua spalla -magari così smetteranno entrambi di vibrare- e passa la spazzola tra le ciocche setose. Il pollice che contro il suo volere accarezza piano la pelle liscia del suo collo gli sembra molto più di un azzardo.

 

“Ti da fastidio?”

Non vorrebbe, ma balbetta.

 

Mikasa rimane in silenzio per qualche istante, poi le sue spalle si abbassano, sgonfiate dal sospiro che le esce dalle labbra.

 

“No” sussurra.

 

Jean impone comunque alle proprie dita di fermarsi, lascia la mano sul suo collo però; lo fa perché ha la sensazione di averla finalmente trovata, in quella notte scura e non vuole perderla di nuovo.

 

Non prima dello spuntare del giorno, almeno.

 

Le setole della spazzola frusciano tra i suoi capelli, scorrono con maggiore facilità di quanto Jean avesse immaginato: non incontrano nodi, solo qualche ciuffo scomposto.

 

Riesce a percepire anche il lieve sentore fresco del sapone che ha usato, ogni volta che li muove.

 

Gli ricorda qualcosa di familiare, che non associa alla caserma o alla vita militare, ma alla sua infanzia: ai fiori che sua madre metteva al centro del tavolo nei giorni di festa. Si concede di inspirare lievemente un' ultima volta, prima di posare la spazzola.

 

“Ecco fatto” mormora. Nel piccolo specchio macchiato riesce a scorgere l'accenno di un sorriso. “Può andare?”

 

Lei annuisce portandosi una mano alla testa esitante; liscia le ciocche, ora ordinate e sospira piano.

Jean ha l'impressione che sia sul punto di parlare, ma non riesca a decidersi a farlo, non è neanche sicuro che voglia farlo con lui: la osserva adagiarsi contro lo schienale e rabbrividire.

 

“Ti preparo qualcosa di caldo.”

 

Le porge la coperta, mentre si alza per mettere il bollitore sul fuoco; la mano di Mikasa che si solleva per prenderla gli sfiora le dita.

 

“Jean...”

 

Il tepore che inizia a invadergli il petto ogni volta che la sente pronunciare il suo nome, è qualcosa che non si aspettava più di provare; si concede di sorriderle in silenzio mentre armeggia al focolare preparando per entrambi una tazza di tè

 

Quando si volta, con l'infuso tra le mani, lei è ancora in silenzio e il suo sguardo ancora su di lui; non riesce a interpretarlo, gli sembra curioso però, come se finalmente lo stesse guardando e non solo vedendo.

 

È bello il modo in cui posa la mano sul velluto consunto del divano in un tacito invito e aspetta che sia seduto al suo fianco prima d'iniziare a sorseggiare il tè.

 

La spalla che sfiora la sua non sembra così casuale: a Jean sembra quasi un grazie, ma forse la penombra della stanza, complice di quella notte surreale lo stanno confondendo più di quanto avesse immaginato.

Gliene è grato lo stesso: non sa più quantificare il bisogno di contatto, calore e conforto, che anno dopo anno è diventato così persistente da sembrargli quasi normale soffrirne l'assenza.

 

Il peso contro di lui aumenta, i capelli che ha pettinato adesso gli solleticano il collo, sente anche il frusciare lieve del respiro di Mikasa vicino all'orecchio.

 

Gli piace, lo fa sentire come se la sua presenza fosse importante, come se lui fosse di nuovo importante per qualcuno.

 

Solleva il braccio e le circonda le spalle senza dire niente.

 

Anche il silenzio è diventato piacevole.

 

 

Fine.

 

 

  
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