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Autore: Adeia Di Elferas    23/05/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ti avevo detto di avere pazienza!” sbottò Francesco, le guance asciutte che prendevano sempre più colore, mentre il suo passo di faceva nervoso e rapido: “E invece che hai fatto, appena ho voltato l'angolo..? Ti sei messa a scrivere a mezza Italia!”

Caterina l'ascoltava in silenzio, guardando da un'altra parte. Quel giorno non aveva alcuna voglia di sentire le reprimende del piovano e anche se capiva che la sua era solo una reazione di paura, dovuta al grande affetto che provava per lei, ogni sua parola la rendeva solo più insofferente. Non era abituata a vedere Fortunati perdere le staffe e non ci teneva ad abituarsi a vederlo così, se quello era l'uomo in cui si trasformava quando si arrabbiava.

“Ma ti rendi conto di quanto sia tutto fragile e pericoloso?!” continuava il piovano, la voce sempre più acuta: “E poi... Quella donna! Con che criterio ti sei affidata a Creobola?!”

“Effettivamente – disse a quel punto la Tigre, stanca di sentire le rimostranze del fiorentino – avrei potuto fare una scelta migliore, dato che quella vipera è subito corsa a dirti tutto quello che ho fatto...”

“Dovresti esserle grata! Adesso che mi ha messo a parte dei tuoi maneggi io posso...” iniziò a ribattere l'uomo, ma quell'incipit riaccese la fiamma mai sopita che albergava nell'animo della Sforza.

Muovendo veloce un passo verso di lui e portando istintivamente una mano vicino alla sua gola, come se avesse tra le dita il pugnale che per anni l'aveva difesa, la donna gridò: “Tu puoi cosa? Eh, dimmelo! Cosa puoi fare?! Controllarmi? Tenermi prigioniera? Morto il mio primo marito ho giurato a me stessa che non sarei mai più stata schiava di un uomo! Non crederai di essere un'eccezione!”

Fortunati era ammutolito e sbiancato. Guardava la mano sollevata di Caterina come se davvero impugnasse un'arma. Non si era atteso uno scatto del genere e, guardando gli occhi verdi della Leonessa, non riusciva a vedere nulla se non un abisso senza fondo.

Se fino a poco prima era stato indeciso se parlarle o meno delle mosse di Pandolfo Malatesta, che, da Venezia, sospinto proprio dalle promesse francesi alla Sforza e non solo, si stava muovendo per organizzare un esercito e marciare su Rimini per riconquistarla, dopo averla vista esplodere a quel modo, il fiorentino era sicuro che il silenzio fosse la scelta migliore.

La mente della donna che amava non era stabile, non secondo il suo giudizio di chierico, almeno, e quelle vampate di ardore e rabbia – che erano sempre state una sua caratteristica, ma che non si adattavano più alla sua nuova condizione – la rendevano molto più vulnerabile di quanto lei immaginasse.

“Non voglio controllarti.” disse piano il piovano, non appena Caterina tacque: “Voglio solo aiutarti.”

Come se si fosse sgonfiata di colpo, la donna retrocesse, deglutì e poi, con distacco, disse: “Sono stata nel bosco, l'altro giorno. Da sola. A cavallo.”

Francesco ci mise qualche secondo a comprendere il senso di quella frase e, quando lo fece, spalancò la bocca e la fissò per qualche interminabile secondo.

“Perché?” fu l'unica cosa che riuscì a dire.

“Perché mi sembrava di impazzire.” fu la risposta, semplice e diretta.

“Eravamo d'accordo che saresti andata, nel bosco... Accompagnata. Con calma, una volta che fossimo stati certi che...” prese a dire l'uomo, ma si fermò subito, non appena vide un moto di insofferenza ripresentarsi nella Leonessa.

“Per sentirmi come una prigioniera a cui viene concessa un'ora d'aria?” domandò lei, cupa: “Mi avevi promesso che avresti trovato il modo di farmi andare presto da Giovannino. E voglio andare a trovare anche mia figlia... Non la vedo da troppo tempo, voglio sapere come sta lei e come sta... Il bambino.”

“Per Giovannino non c'è problema...” soffiò Francesco, che, in effetti, era l' anche per parlarle della visita al convento di Annalena che aveva organizzato: “Ma per Bianca...”

“Trova un modo, non mi interessa: io devo vederla.” concluse sbrigativa la milanese, senza precisa che, soprattutto, con la figlia voleva parlare, per avere anche la sua di opinione riguardo allo strano scacchiere politico che si stava venendo a delineare.

Francesco fece un movimento con la mano che avrebbe potuto voler dire tutto e il contrario di tutto, poi, facendo una smorfia, quasi che gli costasse ritornare sull'argomento, ma fosse obbligato a farlo, riprese: “Sei stata nei boschi da sola e a cavallo... Ti ha vista qualcuno?”

“No.” mentì, veloce come un fulmine, Caterina.

“Ti rendi conto che, se qualcuno ti avesse vista...” incapace di sopportare oltre, la Sforza parlò sopra al piovano.

“Ma non è così!” gridò: “Ti ho detto che non mi ha vista nessuno!”

“Come fai a esserne così sicura?” insistette lui, accaldato, ma deciso a non mollare il punto: “Ti rendi conto che tutti sono già convinti che tu stia tramando chissà cosa per riprenderti la Romagna e poi, da lì, marciare su Roma e fare a pezzi il papa e suo figlio?!”

“In effetti mi piacerebbe.” convenne la donna, con un'ironia che il fiorentino non colse.

“Se ti vedessero di nuovo a cavallo cosa credi che penserebbero?!” sbottò lui.

“Che voglio fare una cavalcata?” ribatté lei, sempre con il tono ironico di poco prima.

“Caterina!” esclamò il piovano, esasperato e incredulo nel trovarla tanto sorda a una questione così importante.

“Ne farei anche altre di cavalcate, senza bisogno di andare nei boschi, standomene comodamente a letto, ma purtroppo l'unico uomo che ho sottomano porta la sottana e viene qui solo per litigare!” fu la pronta risposta della Tigre, che, come ulteriore segno di spregio, diede uno strattone al lungo abito nero che, in effetti, Francesco portava anche in quel caldissimo 3 agosto.

Punto sul vivo, incapace di sopportare la leggerezza con cui Caterina parlava di quell'argomento, quando, per lui, cedere e infrangere un voto che aveva preso da ragazzino era stato uno dei punti di svolta più importanti della sua vita, l'uomo scosse con forza il capo e disse, con amarezza: “Pensi sempre e solo a una cosa, tu...”

“A due.” lo corresse la Sforza, decisa, ormai, a dare il peggio di sé e scrollarsi per un po' di dosso il fiorentino, convinta, o, almeno, sperando, che alla fine sarebbe tornato comunque da lei, come avevano fatto tutti i suoi uomini, prima di lui: “Hai dimenticato che ho anche il chiodo fisso di riavere quello che mi spetta di diritto?”

Rendendosi conto di non avere modo di interrompere quel circolo vizioso che li stava portando a un litigio dall'esito imprevedibile, Fortunati decise di abbassare le armi: “Ti farò mandare un carretto per andare da Giovannino. Non penso prima di dopodomani, però.” poi, andando alla porta, senza più guardarla, aggiunse: “E se vuoi vedere Bianca, chiedi a De Marzi. Tanto vi intendete bene, voi due... Sarà felice di aiutarti. Magari non solo in quel senso. Lui non porta la sottana, in fondo...”

Caterina avrebbe voluto ribattere che lei, per Alberto, non provava il minimo interesse e che non aveva alcuna intenzione di avvicinarglisi nel senso inteso dal piovano, ma, quando provò a parlare, si trovò solo la gola secca e la porta chiusa.

Aveva la sensazione di aver sbagliato tutto, ma, malgrado quel peso nel petto, non ebbe il coraggio di uscire di corsa dalla stanza e richiamare a sé Francesco. Non aveva né la forza né la voglia di provare a raddrizzare subito le cose. Gli avrebbe dato tempo, confidando sul fatto che anche lui, come gli altri uomini che le erano passati accanto nel corso degli anni, non riuscisse più a starle lontano e, chinando il capo e piegandosi una volta di più al suo volere, tornasse volontariamente.

Di contro, Fortunati, che stava camminando tanto in fretta da mettersi quasi a correre, aveva la stessa fastidiosa sensazione della milanese: quella di avere sbagliato tutto.

Non riuscì a togliersi di dosso quell'impressione nemmeno quando tornò al suo alloggio in città. Si sentiva in torto, pur sapendo che così non era, se si guardava all'intera questione con occhio oggettivo. Tuttavia era tanto il trasporto verso la Tigre e tanta anche l'umana compassione per tutto quello che la Sforza aveva dovuto affrontare negli anni, che il piovano finiva costantemente per darsi da solo dell'insensibile e dello sciocco.

Era stata una mossa furba affrontare frontalmente la Leonessa? Ovviamente no. Poteva fargliene una colpa, se desiderava tornare a quando era lei a comandare, a quando sentiva di avere uno scopo e un posto nel mondo? No, no, sempre no.

Però, si diceva anche, mentre si sistemava alla scrivania e preparava con gesti secchi e nervosi il necessario per scrivere, non poteva permetterle di mettersi in pericolo in modo tanto sciocco, quando per anni – per anni! – lui e tanti altri si erano prodigati, a volte a rischio della propria vita o addirittura perdendola, per mettere in salvo Caterina.

Gli era chiaro che, ormai, da che lui e la Sforza erano diventati amanti, non era più in grado di gestirla con lucidità. Voleva disperatamente qualcuno che potesse fare da cuscinetto tra loro, almeno in quel frangente e che, soprattutto, potesse confermare a viva voce che le speranze riposte dalla Tigre nel re di Francia rischiavano di deluderla amaramente.

Così, seppur nutrendo scarsa fiducia nel destinatario della missiva, ma non trovando alternative valide, il fiorentino iniziò a scrivere una lettera per Ottaviano Riario, ancora a Piacenza. Gli riassunse di nuovo la situazione e poi, come a volergli dare davvero una scadenza prefissata per il suo rientro a Castello, decise di non usare mezzi termini e scrisse, grattando sulla pagina in modo deciso: 'et pel bisogno vostro et fermare la mente de vostra madre sarebbe bono ce fussi stato ad questa hora 6 giorni'.

 

Quel venerdì mattina, il sole cocente di un 5 agosto milanese rendeva incandescenti le teste di tutti i presenti, specie quella del re di Francia, che, incurante delle temperature già proibitive a quell'ora, si era messo in un punto che non gli offriva nemmeno uno spiraglio d'ombra.

Era come se i suoi quarant'anni e le due rughe profonde scavate sulle guance gli permettessero di sopportare anche il fardello del caldo con lo stoicismo di un eroe antico. Malgrado tutti – o quasi – i testimoni accorsi quel giorno lo conoscessero anche come un uomo capace di grandi volgarità, infinite bevute di vino e notti brave passate a crogiolarsi tra cortigiane e guitti, nel vederlo immobile a quel modo, in attesa del suo indigesto ospite, nessuno avrebbe osato dire anche solo una mezza parola contro la sua fermezza d'animo.

Era almeno da due giorni che la corte francese di Milano era in subbuglio. Erano stati avvisati proprio all'ultimo minuto della decisione del Valentino di ricongiungersi al sovrano, per discutere dei recenti risvolti della campagna militare in Toscana, e solo per pura fortuna anche coloro che si trovavano a Pavia erano riusciti a raggiungere Luigi XII in tempo per sussurrargli all'orecchio ancora qualche spiacevolezza riguardante il figlio del papa.

Finalmente il drappello di Cesare Borja si avvicinava, a passo lento, indugiando sotto all'ombra fornita dal limitare del bosco, alle spalle del re di Francia si sollevò un leggero brusio.

Il Duca di Valentinois era accompagnato dal cognato, Alfonso, ma di questo nessuno si indispettì, dato che si era saputo che il figlio del pontefice arrivava più o meno direttamente da Ferrara.

Ciò che stupì molti, fu il leggero sorriso che si aprì sul volto di Luigi XII.

Il sovrano sentiva alle sue spalle un brusio che lo infastidiva parecchio, ma non aveva alcuna intenzione di lasciarsi condizionare. Aveva già deciso da tempo come accogliere quello scomodo alleato.

Li conosceva bene, ormai, gli uomini che gli guardavano la schiena, dicendo peste e corna tanto del Valentino quanto di lui... Tra loro c'erano nomi illustri, era vero, ma molti di loro non valevano davvero quanto il loro nome... C'era Guidobaldo da Montefeltro, lì solo per piagnucolare di quanto il Borja fosse stato ingiusto con lui, senza avere nulla da proporre per recuperare davvero il sui Stato. C'era poi Giovanni Sforza, che odiava i Borja da quanto l'avevano costretto a dichiararsi impotente davanti al mondo, per annullare il matrimonio con Lucrecia. C'erano anche Alessandro Bentivoglio e sua moglie Ippolita Sforza, che si trinceravano dietro al cognome di lei, alludendo di continuo alla parentela con la Tigre di Forlì, ma senza mai farne apertamente menzione. C'era perfiino Ercole da Varano, parente dei Varano di Camerino, ma da sempre abitante a Ferrara, che si era ricordato dei legami di sangue solo nel momento in cui, secondo un suo calcolo astruso, avrebbero potuto portarlo a guadagnare qualcosa a fine guerra. Come non citare, poi, Francesco Gonzaga, inviato controvoglia a Milano dalla moglie, incapace di esprimere un pensiero proprio e in perenne attesa di un congedo che gli permettesse di tornare a Mantova e dedicarsi alla caccia e alle donne...

Forse, tra tutti quelli che bisbigliavano malevoli alle spalle del re, gli unici due uomini degni di tale qualifica erano, per Luigi, Gian Giacomo da Trivulzio e Troilo De Rossi.

Mentre valutava come, oltre a tutti i notabili predetti, con lui quel giorno c'era anche una nutrita schiera di inviati fiorentini e veneziani, il re vide che il Borja era finalmente arrivato a tiro d'orecchio.

Allargando le braccia, come se volesse stringerlo a sé, benché fossero lontani l'uno dall'altro ed entrambi a cavallo, Luigi si apprestò a salutarlo come un fratello.

Mentre alle spalle del re cominciava ad aumentare l'indignazione generale, il Duca di Valentinois chinò il capo in segno di saluto sia verso il francese, ma, soprattutto, verso tutti gli uomini che gli stavano alle spalle.

Quel gesto, che venne visto da molti come uno slancio di spavalderia, in realtà era nato per caso: il figlio del papa era convinto che con il re ci fossero dei notabili francesi con, magari, anche qualche esponente di spicco della corte milanese. Non si era aspettato di vedersi accolto da buona parte di coloro che poteva definire i suoi peggiori nemici.

Li riconobbe quasi tutti al primo colpo, e se anche dentro di sé sentiva il bisogno di scappare e mettersi in salvo – ben immaginando quanto ciascuno di loro avesse trafficato in quelle settimane e in quei mesi, per convincere Luigi del fatto che lui fosse solo un nemico – altro non fece se non sfoggiare il suo migliore sorriso e comportarsi come se lì, oltre a lui e al francese, non ci fosse assolutamente nessuno.

Il Duca, addirittura, smontò da cavallo, portando il sovrano a fare altrettanto e, quando si trovò proprio dinnanzi a lui, lo abbracciò e fece in modo che questi lo assecondasse, baciandolo più volte sulle guance, cosicché tutti i presenti capissero quanto era solida l'amicizia tra loro due.

Luigi disse a Cesare che era felice di vederlo, ma che avrebbero discusso con più calma quella sera, dopo cena. Il Borja non poté far altro che accettare e ringraziarlo per l'accoglienza e poi, sempre ignorando tutti gli altri, rimontò a cavallo e chiese al re che lo accompagnasse fino al castello.

“Perché è lì che mi auguro di alloggiare...” aggiunse, con un sorriso che stavolta tradiva davvero il suo nervosismo: “Non si può venire a Milano e non dimorare in quella che è stata la casa degli Sforza...”

Il francese non lo stava ascoltando, avendogli messo appresso un paio di guardie, in modo che lo guidassero, ovviamente, ma lo tenessero allo stesso tempo d'occhio.

Il resto della giornata trascorse per il Valentino in modo abbastanza lento. Dapprima venne portato nelle stanze che erano state preparate per lui, poi gli venne dato un piccolo pasto, che consumò in solitudine, e infine, quando chiese di poter visitare il Palazzo di Porta Giovia, gli venne vietato quel privilegio, con la scusa che a breve sarebbe stata ora di cena.

La cena per il Duca fu un vero e proprio incubo. Seduto a capotavola, non si era aspettato di dover desinare davanti a un nutrito pubblico. Quasi tutti gli uomini che già quella mattina avevano costituito il corteo del sovrano.

Ad aggravare la situazione e rendergli difficile la digestione, ci si mise proprio Luigi in persona che, con la scusa di omaggiare il suo ospite, si era piazzato proprio al suo fianco, in piedi, continuando a dare ordini ai servi affinché gli portassero ogni genere di pietanza, incurante del fatto che il povero Cesare già dopo tre portate sentiva lo stomaco chiudersi e la testa farsi pesante.

Il Borja sapeva di dover tenere duro, perché dopo quell'estenuante cena avrebbe dovuto discutere con il re della sua campagna militare e dei privilegi a cui non intendeva rinunciare.

Tuttavia, finito il travagliato pasto, il Valentino arrivò nella saletta designata dal re con un gran desiderio di vomitare tutto ciò che aveva ingerito a forza e di mettersi a dormire. Quasi incapace di parlare, lasciò che a farlo fosse il francese e così, dopo appena un paio d'ore, si congedò per andare a riposare, portandosi appresso la croce di un accordo tutt'altro che favorevole.

In breve, sconfitto da una cena più che da una guerra, il Duca di Valentinois aveva formalmente rinunciato a tutta la Toscana, promettendo di restituire tutte le terre già occupate e di non avanzare mai più pretese su Firenze. Era riuscito a tenere solo Urbino, che, evidentemente, Luigi XII non aveva interesse a restituire ai Montefeltro.

Nell'accordo era rientrata anche Bologna, forse complice l'assiduo sussurrare di Ippolita Sforza all'orecchio del re: i Bentivoglio non dovevano più considerarsi sotto la protezione – o meglio, il controllo malcelato – dei francesi.

L'unica cosa che permise al Valentino di prendere sonno, quella notte, fu il ricordo delle ultime battute che aveva scambiato con il sovrano che, per l'occasione, aveva risposto con uno stentato, ma preciso, italiano.

“Avete davvero intenzione – aveva chiesto con un filo di voce il Borja, quasi sulla porta – di rendere alla Sforza di Romagna le sue terre?”

Luigi l'aveva guardato per un lungo istante, quasi divertito, come se non si capacitasse del fatto che anche in quelle condizioni precarie, pur avendo appena ricevuto una batosta incredibile sia moralmente che diplomaticamente, l'unica preoccupazione del Duca fosse ancora essere certo di aver tolto per sempre le zanne alla Tigre.

“Se fossi un pazzo – gli aveva risposto, con un sorriso – allora gliele ridarei davvero.”

 

“Non vedo l'ora di insegnarti a cavalcare...” disse piano Caterina, mentre Giovannino correva davanti a lei per farle vedere quanto era diventato veloce.

La donna era felice di essere finalmente riuscita ad andare al convento d'Annalena dal figlio e e nemmeno la freddezza di Fortunati, che non l'aveva voluta incontrare prima di quella visita, aveva avuto il potere di incidere negativamente sul suo umore. Certo, non aveva ancora ottenuto il permesso di incontrare Bianca, ma per il momento era già felice di riabbracciare Giovannino.

Il piccolo Medici, che aveva ormai passato i quattro anni, le sembrava diventato davvero grande. Si esprimeva in modo più complesso, rispetto all'ultima volta in cui l'aveva visto, anche se dava sempre l'idea di essere di poche parole, e soprattutto era diventato più alto e prometteva di avere un fisico robusto, adatto all'esercizio.

Il bambino, nel sentirle dire quella frase, si fermò di colpo e, accaldato, le si avvicinò e le disse, abbassando gli occhi verde scurissimo, come se si vergognasse: “Come sono i cavalli?”

Ovviamente ne aveva visti, da che era nato, ma in effetti era ormai rinchiuso tra quattro mura da tanto di quel tempo, che la sua parve alla madre una domanda più che lecita.

Con pazienza, mettendoselo sulle ginocchia, la donna gli spiegò con parole semplice come fosse un cavallo e a cosa servisse, gli parlò dello stallone che aveva cavalcato in guerra e di quello che aveva appena imparato a conoscere, alla villa.

Per tutto il tempo, Giovannino l'ascoltò rapito, tormentandosi, di quando in quando, il colletto dell'abito chiaro che indossava. Era ancora vestito da femmina e questo dettaglio sembrava infastidirlo più del solito. Era probabile che non si rendesse conto di non avere addosso gli abiti più consoni, dato che era vissuto quasi sempre in mezzo a sole donne, ma di certo quei pizzi stretti e la sottana abbastanza lunga non lo aiutavano nei suoi giochi più scatenati.

“Mi piacciono, i cavalli.” sentenziò il Medici, quando la Tigre ebbe finito il suo breve resoconto.

“Ne sono felice.” fece eco lei, ipotizzando che l'esternazione del figlio fosse più un apprezzamento per la sua presentazione che non per l'animale in sé, che, poteva ben crederlo, nella sua immaginazione doveva avere una forma vaga e inconsistente.

Passandogli una mano tra i capelli castani, la donna lo osservò per un po'. Il taglio degli occhi era sempre più simile a quello di Giovanni, eppure il profilo del naso andava delineandosi in modo molto più severo, rispetto al Medici. Il naso, pensò Caterina, era ciò che più di ogni altra cosa, al momento, rendeva chiaro come Giovannino l'avesse partorito lei e nessun'altra donna.

Interrogandosi su quanto quel bambino, crescendo, sarebbe stato simile a lei o al padre, la Leonessa gli diede un bacio sulla fronte. Giovanni era un intellettuale, un letterato, non era mai stato un uomo d'armi, non per vocazione, almeno... Quando era stato necessario, si era dimostrato all'altezza della situazione, imbracciando le armi e scendendo in campo come un vero armigero, ma...

“Cosa ti piacerebbe fare da grande?” chiese la Sforza, accarezzando lentamente la guancia liscia del figlio.

Giovannino, un po' confuso, si accigliò e si mise a pensare. In effetti non era semplice, per un quattrenne che aveva passato quasi tutta la sua vita nascosto tra le suore, immaginare un futuro... In fondo lui non sapeva nemmeno quali fossero le possibilità, per un uomo come sarebbe stato lui, con un cognome e una discendenza come la sua...

“Io da grande voglio essere come te.” concluse, dopo un lungo silenzio, il piccolo Medici.

Commossa da quella risposta inattesa, la Leonessa lo strinse con forza a sé. Da un lato si augurava con tutto il cuore che il figlio non le somigliasse e non prendesse la strada che aveva imboccato lei, ma che, piuttosto, ricalcasse le orme paterne, istruendosi, raffinandosi e vivendo di ideali e buoni sentimenti.

Dall'altro lato, però, anche se con una punta di senso di colpa, sperava invece che sì, che ricalcasse proprio le sue, di orme, che si facesse forte e impetuoso e scegliesse il mestiere delle armi. Poteva quasi immaginarselo già adulto, bello, alto, muscoloso, in armatura, pronto a sfidare il peggiore dei nemici. Gli avrebbe insegnato tutto quello che sapeva, gli avrebbe fatto capire quanto fosse importante, per un vero soldato, combattere solo per cause giuste e con onore...

Mentre lasciava il bambino libero di rimettersi a correre davanti a lei, Caterina incrociò le braccia sul petto, sentendosi un mostro. Come poteva una madre augurare a un figlio un futuro del genere?

Come poteva augurargli davvero di vivere in armatura, in guerra, nella paura e nella fatica?

Distratta, mentre Giovannino si fermava e, ancora ansante, le raccontava una volta di più le sue giornate in convento – tra preghiere e marachelle – la Tigre si fece un breve esame di coscienza. Ciò che l'aveva fatta sentire un mostro poco prima, non era forse ciò che sperava anche per suo figlio Galeazzo?

Forse il suo non era essere una madre degenere, ma essere una madre, quello era vero, ma anche una Sforza...

“Madonna Sforza...” la voce un po' roca della suora che di norma controllava Giovannino la riscosse dai suoi pensieri.

Mentre il piccolo le correva in braccio, stringendosi a lei, come se temesse che fosse già giunto il momento di separarsene di nuovo chissà per quanto tempo, la Leonessa chiese alla monaca cosa volesse.

Questa, che era appena arrivata, camminando troppo in fretta, si prese un istante per tornare a respirare lentamente e poi rispose: “Madonna Salviati è arrivata qui in convento e chiede di vedervi.”

“Sapeva che ero qui?” chiese la Sforza, immaginando che fosse stato Fortunati a informare Lucrezia Medici della sua presenza, quel giorno, al convento d'Annalena.

“Sì.” rispose laconica la suora.

Caterina diede un bacio ancora a Giovannino e poi, dicendosi che spettava alla Salviati attendere, se davvero la voleva vedere, concluse: “Se proprio ci tiene la incontrerò... Ma solo quando avrò finito di salutare mio figlio.”

La suora fece un mezzo inchino e lasciò di nuovo la Leonessa sola con il bambino.

“Avanti, fammi sentire di nuovo come sai bene le preghiere...” sussurrò la Sforza al figlio, desiderosa di avere un pretesto qualsiasi per prolungare la sua visita e ritardare l'abboccamento con la Salviati, non avendo alcuna voglia di separarsi dal figlio per andare a discutere con una donna che, in tutta onestà, ancora non aveva capito cosa volesse da lei.

 

   
 
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