Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    24/05/2022    0 recensioni
Infine, Levi scosse il capo e permise alle sue labbra di piegarsi in un risolino amaro:
“Forse siamo più simili di quel che sembra, Armin. Due esseri umani fragili che si ritrovano costretti ad essere forti. E dobbiamo fare i conti con la nostra eredità e la nostra condanna”.
[Fanfic scritta per il gruppo facebook "prompts are the way"]
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Hanji Zoe, Levi Ackerman, Mikasa Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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EREDITÀ E CONDANNA 

 

Davanti agli occhi di Levi si stava consumando l'ennesimo fallimento.  

Il colossale non prendeva forma e Armin mostrava di non essere in grado di sopportare le ferite che provava ad autoinfliggersi, né la stanchezza cui gli esperimenti di Hanje lo sottoponevano. 

Gli occhi impassibili del capitano osservavano ogni dettaglio di ciò che stava avvenendo. 

Il piccolo Arlert era di nuovo a terra, coperto di sangue, sudore e fango, quasi arso dal calore che i tentativi di trasformazione diffondevano nel suo corpo sempre troppo fragile. Sbuffi di fumo si levavano dalle sue membra e dal terreno poco distante. 

Probabilmente, la sua carne bruciava in maniera insopportabile, la qual cosa non impedì ad Eren e Mikasa di precipitarsi su di lui, l'ansia che deformava i loro lineamenti, persino quelli sempre un po' rigidi della giovane Ackerman.  

Eren si lasciò cadere vicino al compagno e lo tirò su, senza dar mostra di soffrire egli stesso per tutto quel calore. 

La supplica disperata del ragazzo giunse alle orecchie di Levi, strappandogli un’appena percettibile smorfia di disgusto: 

"Per favore Hanje, adesso basta, così finirà per...". 

"Non morirà, Eren" rispose il nuovo comandante dell'armata ricognitiva. "Tu non sei mai morto, mi pare". 

Nel frattempo, Mikasa si era accucciata accanto ad Eren, una mano sulla sua spalla, l’espressione corrucciata verso Hanje. 

Levi non ebbe problemi ad indovinare cosa stesse pensando: 

“Non rivolgerti ad Eren con questo tono o te la farò pagare, non importa chi tu sia”. 

Hanje non si lasciò impressionare da nessuno dei due, ma Levi era certo di sapere cosa passasse per la testa del suo superiore. La conosceva troppo bene, sotto quella maschera di ironia c’erano tanti sentimenti contrastanti. 

Anche Hanje aveva perso molto, l’unico occhio che le era rimasto si era velato di tristezza, le nuove responsabilità pesavano sulle sue spalle e di sicuro non si divertiva a tormentare Armin: nessuno di loro si divertiva ad infliggere sofferenze a quel ragazzino che aveva già patito troppo e dimostrato tanto, senza mai rendersene conto. 

Fece qualche passo fino ad affiancare Hanje, lo sguardo fisso sulla scena patetica che si svolgeva poco distante. 

Lei esitava, era evidente.  

Il senso del dovere e il bisogno di ottenere risultati l’avrebbero portata a continuare, a insistere fino al crollo definitivo del ragazzino… 

Che sembrava ormai prossimo tra l’altro. 

Ma non era spietata, soprattutto quando teneva a qualcuno. 

“Ancora niente, eh?”. 

Gli rispose un grugnito di disappunto che forse, in un altro momento, avrebbe strappato al capitano uno dei suoi rari sorrisi. 

Ma in quel momento non riusciva a concentrarsi su altro che non fossero quei tre mocciosi stretti gli uni agli altri.  

Armin cominciava a riprendere i sensi e il suo viso era spaventoso. 

I segni del colossale lo solcavano, benché la trasformazione non fosse riuscita e gli abiti erano lacerati, la carne ustionata, perdeva sangue persino dalla bocca. 

Levi si chiese se, nei suoi disperati tentativi, fosse arrivato a trafiggersi la lingua con i denti. 

La smorfia sul suo viso si accentuò e questa volta non si trattava di ironia: non poteva nascondere la pena che provava, insieme ad una certa rabbia. 

Ma tale rabbia la considerava egoistica, mal riposta. 

Ce l’aveva con Armin perché stava fallendo e, in questo modo, vanificava il sacrificio di Erwin? 

“Posso essere così meschino?” pensò tra sé mentre, quasi senza accorgersene, si ritrovò in ginocchio accanto ai ragazzi e allungò una mano per sfiorare il corpo di Arlert. 

Il calore era ancora così intenso che lo percepiva senza arrivare a toccarlo e poteva solo immaginare quanto quel corpicino soffrisse una tale tortura. 

Si rosicchiò il labbro inferiore e ridusse gli occhi a due fessure. 

“Arlert…” chiamò, a bassa voce. 

Percepiva gli occhi di Eren fissi su di lui e, soprattutto, ne indovinava la disperazione.  

Quel ragazzo non aveva mai imparato a controllare le proprie emozioni… 

Soprattutto quando si trattava del suo amico d’infanzia… 

Se così si poteva definire. 

La mano di Levi si posò sul viso arrossato del piccolo soldato. 

“Armin” chiamò ancora, lievemente più energico. 

Il viso del ragazzino si contrasse e un lamento sfuggì alle labbra. 

Poi le ciglia vibrarono qualche istante, prima di lasciar intravvedere un cenno d’azzurro. 

Era sveglio. 

Si guardò attorno, con aria smarrita. 

“E… ren…”. 

La prima parola del ritorno alla coscienza: Levi non provò il minimo stupore.  

Quando gli occhi misero a fuoco la sia figura, si fecero più grandi e colpevoli: 

“Ca… capitano”. 

Fece per muoversi e Eren si affrettò ad impedirglielo, stringendolo ancora più forte a sé, abbassò il viso e lo nascose contro la sua spalla, con un singhiozzo. 

Ancora, Levi indovinò i pensieri di chi gli stava intorno: immaginò quanto Eren dovesse sentirsi responsabile per quel che accadeva quotidianamente ad Armin. 

Forse avrebbe fatto qualunque cosa per tornare indietro? 

Per poter cambiare idea e lasciare che il piccolo Arlert si spegnesse in pace, condannando Erwin all’ennesima maledizione della sua esistenza? 

Levi si rese conto di aver serrato i denti in un ringhio silenzioso e ancora non sapeva verso chi provasse tutta quella rabbia: verso Eren, verso Armin… o verso se stesso, per il solo fatto di provarla? 

Allontanò la mano e le sue dita si chiusero appena, quasi volesse dar vita ad un pugno. Invece si fermò e la lasciò semplicemente ricadere. 

Armin provò a divincolarsi dalle braccia di Eren che, colpito da tanta veemenza, ne fu intimidito e allentò la stretta, lasciandolo sgusciare via, ma non senza ammonirlo ed investirlo della sua ansia: 

“Piano… fai piano, Armin”. 

“Sto… sto bene”. 

Davanti agli occhi di tutti, si portò in ginocchio, fece leva su mani e piedi per provare a rialzarsi e, quando fu a metà del gesto, la sua voce sofferente si fece udire di nuovo: 

“Possiamo… continuare”. 

Gli rispose il silenzio ma, nel momento in cui fu chiaro che non sarebbe riuscito a reggersi in piedi e ricadde verso terra, Levi giunse prima di Eren: il ragazzino si ritrovò nell’abbraccio del capitano e reclinò la testa contro il suo petto. 

Eren era rimasto in ginocchio, le mani tese e l’espressione sgomenta. 

“Smettila di fare quella faccia, ti ho già detto che non morirà, sei patetico”. 

Hanje non aveva peli sulla lingua, come Levi d’altronde. 

Almeno in questo si somigliavano, anche se il capitano detestava ammetterlo. 

Eppure, in quel momento, quel che gli accadeva intorno non gli interessava e non sapeva neanche spiegarsi il perché non riuscisse a distogliere l’attenzione dal visetto stravolto di Armin, da tutto quel sangue, quella sofferenza… 

Avrebbe potuto scorgere sul viso di Erwin tutto quel che ora vedeva in Armin… 

Ma di sicuro Erwin avrebbe sopportato meglio ogni cosa. 

Erwin sarebbe riuscito da tempo ad assumere il completo controllo del colossale. 

Si impose di arrestare quel flusso di pensieri, strinse di nuovo i denti: lo stava facendo ancora. 

“Andate via”. 

La sua voce uscì ancor prima che lui stesso potesse rendersene conto. 

Sembrò scendere il gelo sul gruppo e lui comprese che, forse, qualche onda emotiva si era impadronita anche di lui. 

Non andava bene. 

Controllo!  

Era essenziale. 

Sollevò lo sguardo e lo fece correre su ognuno dei presenti, studiando le loro espressioni. 

Eren era allarmato e i tremiti del suo corpo erano evidenti.  

Mikasa stava irrigidita accanto a lui, pronta a modellare le sue azioni sulla scia di quelle di Eren.  

Hanje era rimasta impassibile, ma lo osservava con il sopracciglio visibile sollevato: tutto ciò che lasciava intendere era curiosità. 

“Lasciatemi solo con lui”. 

Il sopracciglio si sollevò un po’ di più. 

Siccome Eren e Mikasa rimanevano immobili e tesi, senza dare l’impressione di aver compreso, Levi si rivolse soprattutto ad Hanje: 

“Portali con te, quattrocchi e lasciateci un attimo. Devo parlargli”. 

Una parte di lui, a tratti, gli ricordava che ormai Hanje Zoe era un suo superiore, ma smettere di avere con lei il rapporto che condividevano da una vita e smettere di affibbiarle quel nomignolo, nonostante ormai non avesse molto più senso dato che di occhio gliene era rimasto solo uno, non gli veniva facile. 

Lei si limitò a stringersi nelle spalle, poi rivolse la propria attenzione ai due ragazzini: 

“Voi due, andiamo” ordinò bruscamente. 

Eren la guardò, poi riportò il proprio sguardo angosciato sul capitano e su Armin… soprattutto su Armin… lo risollevò verso Hanje e così più volte.  

Mikasa non si muoveva, si limitava a fissarlo con sospetto… 

E minaccia non molto velata. 

Levi li fissò uno ad uno, poi puntò i suoi occhi dritti in quelli di Eren, inamovibili. 

Era logico che il ragazzo non avrebbe retto e, infatti, dopo qualche istante, il suo viso si abbassò, deglutì, le mani scivolarono sulle cosce e si strinsero in pugni. 

“Non ho intenzione di rubartelo se è questo che temi, te lo restituirò tutto intero”. 

Il tono cinico del capitano contraddiceva con l’ironia delle parole che, forse, volevano essere simpatiche: se lo chiese lui stesso se il suo intento fosse quello di allentare la tensione. 

“Non sarebbe meglio…”. 

Nonostante tutto, Eren, senza che gli occhi osassero spostarsi da quel puntino che contemplavano a terra, provò a dire qualcosa. 

“Non sarebbe meglio… portarlo al sicuro?”. 

Levi non fece in tempo a ribattere, perché una vocetta flebile lo prevenne, spingendolo ad osservare il viso reclinato sul suo petto: 

“Eren… va tutto bene. Non fare lo stupido”. 

Si capiva che Armin faceva fatica a parlare, quasi era impossibile udirlo, ma questo non gli impediva di lasciar prevalere il proprio orgoglio e la propria testardaggine. 

Nonostante tutto, Levi ebbe un moto di compiacimento: in quel tono così infantile e sofferente non vi era esitazione, se non quella data dalla debolezza del corpo. 

“Bravo ragazzo” pensò. 

“Armin…”. 

Ecco di nuovo Eren che rompeva le scatole. 

Le labbra di Armin si piegarono nel tentativo di un sorriso, mentre la testa provava a sollevarsi, quel tanto che gli fu sufficiente per incontrare il volto dell’amico. 

“Levati dai piedi” mormorò, mentre il sorriso stanco si mutava in un ghignetto. 

“Che peste” pensò Levi. Era sempre più ammirato. 

Eren si alzò e, benché un po’ esitante, si apprestò ad obbedire.  

Levi si fece qualche domanda su chi fosse il più forte tra i due. 

“Sparite, topi” mugugnò, ma non vi era cattiveria nella nuova imposizione. Temette anzi di essersi espresso in modo fin troppo gentile. 

Con la coda dell’occhio intravvide il sorriso di Hanje. 

“Ci… vediamo dopo… Armin”. 

Armin rivolse all’amico uno sguardo rassicurante e lo salutò con un leggero cenno del capo. 

Eren si sforzò di dar loro le spalle e di compiere i primi passi. 

Solo a quel punto Mikasa lo imitò, non prima di aver lanciato un’altra occhiata ammonitrice al capitano, che conteneva il messaggio: 

“Stai attento a come tratti il nostro Armin, io sono pronta a farti a pezzi”. 

“Che paura” rispose mentalmente Levi. 

Prima di sparire definitivamente, i due ragazzini furono più di una volta sul punto di voltarsi e solo le spinte decise di Hanje li convinsero a proseguire il proprio cammino. 

Levi li seguì con lo sguardo, poi lo riabbassò su Armin, che stava di nuovo fluttuando sul margine dell’incoscienza.  

“Finalmente soli” borbottò il capitano.  

Appoggiò il ragazzo all’albero vicino, la schiena contro la corteccia. 

Quel movimento gli strappò un lamento e gli occhi del piccolo tornarono a schiudersi: il nuovo svenimento lo aveva gettato di nuovo nella confusione e, per qualche istante, sembrò non ricordarsi dove si trovasse. 

Il sangue aveva smesso di sgorgare dalle ferite, ma aveva lasciato tracce ovunque. 

Levi gli prese il polso per controllare i battiti: constatò che erano più regolari di quanto avesse temuto. Anche la temperatura corporea cominciava a calare. 

Tuttavia, il ragazzino appariva più smarrito rispetto a poco prima: di sicuro la stanchezza e, forse, non percepire più la presenza dei due amici lì vicino, contribuivano a renderlo insicuro. 

Si agitò quando Levi lo liberò dei pochi strati di stoffa che ancora lo ricoprivano, per accertarsi delle condizioni del suo corpo. 

L’uomo comprese il suo nervosismo: ritrovarsi così, nudo e in balia di attenzioni che non riconosceva, probabilmente risvegliava in lui ricordi sgradevoli. Il capitano lo capiva, forse meglio di chiunque altro. 

“Buono, Armin” mormorò. “Sto solo cercando di farti sentire meglio”. 

Gli occhi del ragazzo seguirono il suono della sua voce, provò a dire qualcosa, ma uscì solo un suono spezzato. 

“Non sprecare fiato” lo ammonì Levi. Versò su un fazzoletto l’acqua della sua borraccia e prese a tamponare le ferite e le ustioni. 

Per quanto cercasse di essere delicato, quei tocchi risultarono dolorosi e Armin lottò con se stesso per non urlare: strinse i denti, gemette e qualche lacrima comparve agli angoli degli occhi, ma nulla più.  

Levi rimase colpito. 

Eppure lo sapeva, dai tempi in cui, assecondando la volontà di Erwin, Arlert era stato al centro delle loro attenzioni: la fragilità del corpo avvolgeva un animo dalle doti intellettive e morali che nulla avevano da invidiare a nessuno.  

Gli passò il fazzoletto sul viso, per pulirlo e rinfrescarlo, cercò di attenuare le chiazze di sangue intorno al naso e alla bocca, che si confondevano con i solchi scarlatti che la sua natura di mutaforma ancora manteneva in evidenza, pur in seguito alla fallita trasformazione.  

La freschezza della stoffa imbevuta strappò al ragazzo un sospiro di sollievo, trovò la forza di sollevare il viso e riaprire gli occhi, anche se solo un poco e a riconoscere il suo benefattore. 

“Capitano…” pronunciò in un sussurro fievole. 

“Ci sei, Arlert?”. 

Strinse I denti, in una smorfia dettata forse più dalla rabbia che dal dolore del corpo: Levi si stupiva di quanto riuscisse ad intuire cosa provasse il giovane Arlert. 

Era perché il suo animo si leggeva così facilmente?  

O, forse, era una condivisione emotiva più profonda di quanto si potesse immaginare tra loro? 

Armin provò a muoversi, con risultati non ottimali, lo sguardo che fuggiva ovunque.  

Nonostante la timidezza che lo contraddistingueva sempre, Levi non poté fare a meno di notare quel lampeggiare nel fondo dei suoi occhi: determinazione, orgoglio… 

E un grande coraggio… 

Non ne era convinto lo stesso Eren? 

Il più coraggioso… 

Armin Arlert che non scappava mai. 

Ne era convinto Eren, ma non solo. 

“Erwin non sbaglia mai…”. 

Il sussurro era sfuggito inatteso alle sue labbra. 

Armin si irrigidì, i loro occhi si incontrarono e, per un istante, la timidezza in quelli di Armin svanì.  

Levi cercò di convincersi che si trattasse di suggestione: cosa poteva mai avere a che fare, quel moccioso, con Erwin Smith? 

Eppure, Erwin lo aveva notato, lo aveva preso sotto la propria ala e quell’ammirazione nei confronti di un topolino tremante aveva contagiato lo stesso Levi, nonostante tutto, nonostante avesse odiato il piccolo Arlert per un istante… 

Solo per un minuscolo istante, in un rigurgito di immaturità che subito aveva ricacciato dentro il suo animo. 

E subito dopo aveva odiato se stesso, perché il suo odio non lo meritava Armin che nulla aveva potuto, così come Erwin non meritava il suo biasimo per una scelta che era stata solo sua. 

O di entrambi, perché Erwin non gli avrebbe mai perdonato una scelta diversa.  

Ma la mano che iniettava il siero era stata la sua. 

Alla fine, non c’era nessuno da odiare, se non i loro nemici comuni. 

Ma era proprio così?  

C’erano nemici in tutto quell’inferno? 

Quante verità ancora da portare alla luce? 

Il volto di Armin, intanto, si riabbassò, gli occhi si chiusero un poco sotto le ciglia lunghe: 

“Mi dispiace… capitano”. 

I sensi di colpa dovevano essere insopportabili, Levi ormai lo conosceva abbastanza da saperlo. 

“Sei stato bravo, Armin. Non avere fretta”. 

Fu forse la dolcezza che l’uomo seppe di aver infuso nelle proprie parole, più che le parole stesse, a convincere il ragazzino a risollevare il viso e a contemplarlo, le labbra schiuse in un commento che non riuscì a prendere vita. 

Poi, però, il capo si scosse e tornò a terra, in un’espressione abbattuta: 

“Ancora non capisco…”. 

Non ebbe bisogno di dire altro, perché Levi sapeva perfettamente come avrebbe desiderato continuare: 

“Non capisco cosa ci faccio qui, perché sono vivo…”. 

“Perché è morto?”. 

Levi ebbe un moto di stupore: non si era aspettato che sarebbero state quelle le parole di Armin. 

Il ragazzino si portò una mano agli occhi e soffocò un singhiozzo: 

“Cosa posso fare?”. 

Levi corrugò le sopracciglia, poi strinse in un pugno ferreo le dita intorno al polso di Armin e lo costrinse ad abbassare il braccio: i loro occhi si incontrarono nuovamente.  

“Cercare di non morire anche tu, Armin”. 

Le labbra del ragazzo tremavano. 

Adesso non riusciva più a trattenere le lacrime: quelle che non aveva versato per il dolore e la fatica, le versava ora per il senso di colpa che, a tratti, si faceva insostenibile.  

Adesso Levi sapeva perché aveva preteso di restare solo con lui: non potevano più lasciare certe cose in sospeso, lo doveva ad Armin, ad Erwin ed anche a se stesso, se gli restava un po’ di amor proprio, tutto quello che pensava di aver lasciato su quel tetto a Shiganshina, insieme al senso della sua stessa esistenza.  

“Cosa gli direbbe Erwin?” si chiese e intanto lasciò che fosse l’istinto a guidare la sua mano sul viso del ragazzo, gli posò le dita sotto al mento e puntò i suoi occhi fermi in quelli stravolti dal pianto: 

“Testa alta, Arlert. Sempre testa alta. So che sei in grado di farlo, lo hai dimostrato spesso”. 

Armin si morse il labbro, segno che l’incertezza era padrona di emozioni e reazioni, non poteva muovere il viso perché la mano di Levi lo tratteneva, ma i suoi occhi corsero ovunque. 

“Lei dovrebbe odiarmi, capitano. Eppure, ogni volta che mi viene vicino, io questo odio non lo percepisco”. 

L’uomo lasciò ricadere la mano lasciandolo libero e Armin si rannicchiò su se stesso, raccolse le ginocchia al petto e affondò il mento su esse: cominciava a muoversi con maggior agio, non stava bene chiaramente, ma il corpo rispondeva alla sua volontà in maniera più pronta. 

“Perché dovrei odiarti? Per una decisione che ho preso io? Non sarei degno di lui”. 

Il piccolo sussultò e lo stupore fece sì che riuscisse di nuovo a guardarlo. 

Prima di ricominciare a parlare, Levi dovette deglutire, imporsi di mantenere salda la propria voce, perché quando si trattava di pensare ad Erwin, a quel giorno maledetto, a quella decisione che era pesata sulle sue spalle, i suoi occhi si inumidivano, a volte versava qualche lacrima, ma le sue lacrime non dovevano essere mostrate a nessuno... 

Mai... 

“Capitano...”. 

Fu lui a sussultare questa volta, il sussurro stupito di Armin si insinuò tra i pensieri che lo stavano conducendo su strade pericolose: era troppo tardi. 

Lo stupore di Armin era dovuto a quella lacrima, l’unica, solitaria e silenziosa, che solcava la sua guancia. 

“Mi dispiace così tanto...”. 

Il fatto che quel moccioso provasse pietà per lui avrebbe dovuto renderlo furioso e invece, chissà perché, il leggero sfiorare della guancia concesso da quelle dita sottili fece scendere in lui un calore avvolgente, non quello del colossale, che ustionava e distruggeva le viscere, ma quello gentile, delle carezze e della condivisione umana. 

Aveva pensato di sottrarsi, invece chiuse gli occhi, in un’accettazione che stupì egli stesso e che generò nel suo animo sollievo anziché frustrazione. 

Fu un attimo di sospensione che durò pochi istanti, perché poi Levi riprese il controllo delle proprie emozioni, si tirò indietro e si alzò in piedi, ristabilendo le distanze che gli erano proprie e le barriere dietro le quali si sentiva protetto. 

Abbassò il viso e scorse quello di Armin, inclinato verso l’alto, che seguiva le sue mosse in preda ad un evidente imbarazzo. 

“Mi... mi scusi...”. 

“Sono io che devo scusarmi con te, Armin”. 

Il ragazzino avrebbe voluto ribattere, ma l’imbarazzo, la timidezza, la confusione data dall’instabilità del fisico e del cuore, gli impedirono di formulare qualunque parola. 

Levi tornò ad inginocchiarsi: aveva ripreso totalmente il dominio di sé, fissò l’altro negli occhi, i suoi ora di nuovo asciutti e nella sua espressione vi era l’implicita richiesta, nei confronti di Armin, di non distogliere i propri, di mantenere intatta la propria dignità. 

“Ho chiesto di restare solo con te per questo. Anche quel giorno, su quel tetto, chiesi la medesima cosa... solo tu, io ed Erwin... e Berthold che in quel momento era l’autentica vittima sacrificale”. 

Le membra di Armin vennero percorse da un brivido così intenso che, per un attimo, Levi credette che sarebbe andato in pezzi. La piccola mano salì alla bocca, a contenere un conato. 

Quante volte aveva vomitato al ricordo di ciò che era accaduto, Levi non osava immaginarlo: qualcuno gli aveva detto che non riusciva quasi più a mangiare senza rigettare ogni cosa.  

Questo spiegava la magrezza che si accentuava, giorno dopo giorno. 

“Mi devo scusare per aver scelto la serenità di Erwin... a discapito della tua. Perché non ti ho salvato… ti ho condannato”. 

“Capitano, non...”. 

Levi fece un cenno imperioso per imporgli di tacere: 

“Ho desiderato che Erwin smettesse di soffrire. Quel giorno io non ho scelto te... ho scelto Erwin... ho scelto la sua salvezza”. 

“Capitano... non deve darmi spiegazioni... davvero...”. 

“Fai silenzio, non ho finito!”. 

“Mi scusi” borbottò Armin, il viso rintanato tra le spalle. 

 Levi annuì, i suoi occhi si levarono al cielo, come in cerca di ispirazione: 

“Quel giorno ho anche obbedito ai suoi ordini”. 

Li riabbassò, voleva accertarsi che il ragazzo recepisse le sue parole, che ne comprendesse l’importanza e il valore che dovevano avere per entrambi: 

“Ascoltami, Armin. Io sono stato duro a riguardo, lo so, ma perché io stesso sono un essere umano, ho dubbi e paure, non ho sempre ragione...”. 

Gli impose di nuovo con lo sguardo di tacere, perché Armin era di nuovo sul punto di ribattere. 

“Ho una certezza però... forse l’unica... e cioè che Erwin Smith sapeva cogliere la forza morale delle persone. E aveva colto la tua”. 

“Capitano...”. 

“Lui ti ha notato subito e tu hai dimostrato più di una volta che non sbagliava”. 

Il rossore che divampò sul volto del ragazzo non era dato solo dal calore del suo corpo, i suoi occhi sconvolti e i brividi che lo scossero erano generati dallo scombussolamento emotivo che in quel momento provava. Levi poteva capirlo, ma se c’era una cosa che il piccolo Arlert doveva ancora imparare era l’autocontrollo, perché erano i suoi sentimenti che avrebbero rischiato di distruggerlo, non le sue capacità e il suo intrinseco valore. 

Riguardo a quelli, aveva già superato ampiamente le aspettative, anche se in pochi erano in grado di rendersene conto. 

Tra questi pochi non figurava di sicuro lo stesso Armin. 

“Adesso ti dirò una cosa, ti rivelerò le parole che Erwin ha rivelato solo a me e ad Hanji”. Cambiò posizione, si mise seduto a gambe incrociate, le mani intrecciate in grembo, chiuse gli occhi e respirò a fondo. “Ci ha confidato che per lui eri un figlio, Armin. Non poteva permettersi di dimostrarlo apertamente, ma teneva a te e ti ammirava... e avrebbe voluto poterti donare un futuro diverso”. 

Quando aprì gli occhi per osservarlo, Armin aveva ripreso a tremare, le sue membra non riuscivano a stare ferme, tanto che Levi pensò che l’emozione stesse contribuendo a fargli salire la febbre. 

“Al tempo stesso era certo che, perché tu potessi realizzare il tuo sogno e lui il suo, anziché proteggerti avrebbe dovuto spingerti ad andare avanti, a comprendere quale fosse il tuo reale valore. Era convinto che per tutti noi, tu saresti stato una risorsa irrinunciabile... la chiave di tutto, colui che, forse, ci porterà alle risposte che cerchiamo... e a uscire fuori da queste mura”. 

Armin gemette, sollevò le mani e si fissò i palmi: l’incredulità si diramava da ogni fibra del suo essere. 

“C’era un discorso che ripeteva sempre ad Hanje ed a me: ci pregava di vegliare su di te, di proteggerti nei limiti del possibile senza andare ad infierire sulla tua autostima. E credimi, era molto difficile trovare il giusto equilibrio. Ce lo ha ribadito, per l’ennesima volta, alla vigilia della battaglia di Shiganshina. E nonostante tutto...”. 

Esitò, il suo sguardo vagò a terra, di colpo si sentiva vinto dalle proprie debolezze: 

“Nonostante tutto, sono stato sul punto di deluderlo. Se avessi dato a lui il siero, Erwin non me lo avrebbe mai perdonato, perché avrei privato il genere umano di quella che lui riteneva un’indispensabile risorsa, più di se stesso”. 

“Capitano!” Armin si tese in avanti, la sua voce risuonò acuta ed energica. “Erwin non sarebbe mai rimasto deluso da lei, lei era la persona più importante per il comandante!”. 

Levi sobbalzò, lo fissò e, suo malgrado, si trovò ad essere scosso lui stesso da un tremito.  

Tra loro intercorse qualche istante di silenzio, occhi negli occhi, animi intrecciati. 

Infine, Levi scosse il capo e permise alle sue labbra di piegarsi in un risolino amaro: 

“Forse siamo più simili di quel che sembra, Armin. Due esseri umani fragili che si ritrovano costretti ad essere forti. E dobbiamo fare i conti con la nostra eredità e la nostra condanna”. 

Armin si abbandonò all’indietro, la schiena contro l’albero, gli occhi che contemplavano i movimenti nervosi delle proprie dita: 

“Capitano, io... la ringrazio per avermi detto queste cose”. 

“Te lo dovevo. Ti chiedo solo di fare del tuo meglio per capire che né Erwin, né Eren, né Hanje... e nemmeno io... ci sbagliamo su di te. Se hai anche solo un po’ di fiducia in quel che pensiamo, in quel che vediamo e sentiamo, sforzati di pensare che non siamo tutti proprio così ciechi”. 

Lo scrutò, lo vide stringere le labbra e gli occhi, trattenere ulteriori lacrime e serrare le mani in pugni tesi sulle gambe: Levi sapeva che ci avrebbe provato, non fosse altro che per la fiducia che davvero nutriva nei loro confronti. La fiducia di Armin verso le persone per lui importanti era sconfinata. 

Riuscire, in nome di essa, a trovare la fiducia in se stesso era un’altra questione. 

Levi poteva solo sperare che migliorasse. 

Sospirò. 

“Adesso rientriamo, Armin, prima che Eren torni a vedere se ho osato torcerti un capello. Devi riposare, almeno fino a domani”. 

Fece per aiutarlo a rialzarsi, ma Armin tentò di respingerlo: 

“Faccio da solo, capitano”. 

Purtroppo, non appena riuscì a raddrizzare le gambe, la schiena ancora appoggiata all’albero, barcollò e Levi fu lesto a sostenerlo. 

“Essere forti significa anche saper accettare l’aiuto altrui quando serve”. 

Armin si raccolse tutto, si fece piccolo in preda all’imbarazzo e, rassegnato, permise al capitano di ricoprire con la propria giacca il corpo nudo e ferito e di sollevarlo tra le braccia.  

Nonostante le reticenze mostrate dal ragazzo, Levi percepì il suo sollievo nell’abbandonarsi contro di lui e, prima di mettersi in cammino, si perse qualche istante ad osservare la testa bionda che si adagiò contro la sua spalla. 

Levi era più basso di Armin, ma la leggerezza del ragazzino era spaventosa: il suo pensiero, mentre si avviava verso gli alloggi, era che il giorno dopo avrebbe controllato che si nutrisse, a costo di imboccarlo lui stesso. 

 

   
 
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