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Autore: BluejayBoi    01/06/2022    2 recensioni
“Questa volta erano entrate dal cancello principale, niente arrampicate dalla finestra. La casa – la villa, la residenza – era avvolta nell’oscurità e nessuna di loro si era preoccupata di accendere una luce. Avevano salito le scale reggendosi a vicenda, c’erano di sicuro dei domestici da qualche parte, ma nessuno le aveva disturbate. Un edificio vuoto, con delle persone all’interno. Vi getta un’occhiata alla porta del bagno e si chiede come sia non essere mai davvero soli, anche quando lo sei.”
Fandom: LoL/Arcane. Ambientata dopo il finale della stagione 1.
In seguito all’attacco del Consiglio da parte di Jinx, Vi riconduce Caitlyn a Piltover e deve fare i conti con l’ultima di una lunga lista di perdite. Lasciarsi alle spalle la sorella si dimostra più difficile del previsto e altrettanto vale per Caitlyn.
Avvertimenti sul contenuto: lutto, ansia, stress post-traumatico, sangue, vomito, flashback, morte.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Caitlyn, Vi
Note: Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Titolo originale: How is my luck? But somehow, I'm with you di BluejayBoi.
Pubblicata sul portale Archive of Our Own il 3 Dicembre 2021, nel fandom Arcane: League of Legends (Cartoon 2021).
Traduzione autorizzata, revisione e adattamento per l'italiano a cura di Stylo_B.

Premessa dell’autore
Avvertimenti sul contenuto: lutto, ansia, stress post-traumatico, sangue, vomito, flashback, morte.
Se sei qui perché hai visto questa serie in un giorno e mezzo e hai gridato contro la TV alla comparsa dei titoli di coda, spero che gradirai. Grazie per la lettura.
- Cam
 
 
Con nient’altro di meglio da fare, Vi aspetta sul letto.

Le fa male la testa e le mani non riescono a smettere di tremare, e Caitlyn – Caitlyn l’ha lasciata qui. Restare in attesa fino al suo ritorno è l’unica scelta possibile.
Per cui sì, farà così.
Sembra una resa, magari lo è, o una tregua. Ciascuno ha riversato nello scontro tutte le risorse a disposizione e adesso non si può far altro che lasciar riempire di nuovo quanto si è prosciugato. Se mai accadrà, se mai sia possibile.
Il vuoto è molto più opprimente di quanto Vi ricordasse. Il peso di una desolazione assoluta, dell’assenza la schiaccia a fondo nel letto, sul tappeto, fino alle fondamenta dell’edificio in cui si è trascinata, con una donna che conosce appena.
Due donne.

‘Credevo…’

Una che voleva riportare a casa e l’altra che non intendeva portarsi dietro.

‘… Che avresti potuto amarmi…’

Casa.

‘… Come una volta…’

Dovrebbe levarsi gli stivali.
Ha macchiato di fango e sporco tutto il tappeto, l’hanno imbrattato entrambe. Di solito non le importerebbe, ma è un bel tappeto morbido, lussuoso. E un letto comodo, pure. Comodo.
Stivali. Dovrebbe levarsi gli stivali. E la giacca, e le fasciature avvolte attorno ai polsi – cazzo. Non le ha cambiate da… La pelle sarà un disastro, raggrinzita, sudicia e squamata. Deve fare qualcosa. Caitlyn avrà degli unguenti, creme, qualcosa. Deve assolutamente, uh, deve –

‘… Anche sapendo che sono diversa.’

Cazzo.

Stivali, giacca, fasciature.
Stivali, giacca, fasciature.
Le tremano le mani però, e non può incasinarsi con lacci e stoffe finché non la smettono. Stringe i pugni.

Basta.

Un problema alla volta.

Basta.

Non funziona.

Basta.

Non funziona mai niente.

“Ah, cazzo.

Vi si alza e cammina verso il lato opposto della stanza, con le mani tra i capelli. Inspira, espira. Non serve a molto, a quanto pare il problema non si limita alle mani. Sono le braccia e le gambe e le spalle e la testa e – e gli occhi? Possibile?
La scazzottata nel bar con Sevika risale a ore prima, l’aveva completamente dimenticata. Avrebbe dovuto attenersi al piano originale e rimanere seduta, in attesa, perché stare in piedi è un problema quando non si è impegnati a tenere dritto qualcun altro. Il ginocchio sinistro minaccia di cedere. Una spalla tira e pizzica a ogni respiro, l’altra è irrigidita, quasi bloccata.

Dovrebbe tornare a sedersi.
Dovrebbe levarsi gli stivali, la giacca e le fasciature, poi tornare a sedersi.
Vi apre e chiude le dita con un fremito di indecisione. La stoffa le comprime gli avambracci, come sempre. È avvolta stretta - flette di nuovo le mani - troppo stretta. L’intento è dare stabilità, supporto e protezione, non si tratta di estetica, non è stile, è funzionale e fa parte di lei; non è sempre comodo, ma non dovrebbe dare questa sensazione, rendere le cose più difficili, renderle peggiori. Decisamente no.

Un rumore a breve distanza la fa voltare di scatto: il bagno, Caitlyn.

Vi rimane in ascolto. Il flusso dell’acqua scorre placido e costante. Caitlyn è entrata in quella stanza in silenzio, non ha detto una parola da – quell’urlo, diretto a Jin- Pow- Jinx – per gridare di fermarsi, di non…
E lei l’ha fatto.
Ha mirato e fatto fuoco contro la torre del Consiglio. Erano tutti all’interno, di sicuro. Jayce sarà stato nel mezzo delle trattative per risolvere la situazione al meglio, per contrattare con la madre di Caitlyn, tra gli altri. Vi si chiede se ci sia riuscito, quanto siano stati vicini a evitare tutto questo prima che Jinx arrivasse e… Rovinasse tutto.
Vi aveva trascinato Caitlyn di nuovo a Piltover, stordita, seguendo il suono delle sirene.
Questa volta erano entrate dal cancello principale, niente arrampicate dalla finestra. La casa – la villa, la residenza – era avvolta nell’oscurità e nessuna di loro si era preoccupata di accendere una luce. Avevano salito le scale reggendosi a vicenda, c’erano di sicuro dei domestici da qualche parte, ma nessuno le aveva disturbate. Un edificio vuoto, con delle persone all’interno. Vi getta un’occhiata alla porta del bagno e si chiede come sia non essere mai davvero soli, anche quando lo sei.

Non intende piombare nella stanza, mossa stupida. Caitlyn potrebbe aver fatto cadere qualcosa, niente di che. Non dev’essere l’unica a sentirsi poco stabile al momento. Vi si raddrizza a quel pensiero e posa una mano sulla parete vicino alla porta. No, di certo non può essere l’unica, non vuole esserlo. Non vuole abbandonare nessun altro.

“Caitlyn?”

Pensava che avrebbe parlato più forte; nessuna risposta, ma il suo tono potrebbe non c’entrare nulla. La mano scivola sulla porta e spinge, con le dita piegate, insicure. Bussare sembra troppo brusco, rumoroso. Vi ha visto abbastanza persone annaspare nella marea dilagante di un lutto da rendersene conto, c’è passata lei stessa. Chi sceglie il silenzio tende ad averne bisogno. Se Caitlyn non ha detto una parola dopo aver assistito alla morte quasi certa di sua madre, non c’è motivo per cui dovrebbe iniziare a farlo ora. Di certo non per la sorella dell’assassina.

‘Credevo…’

Vi appoggia la fronte sullo stipite.

‘Cre-de-vo….’

Dovrebbe allontanarsi da questa stanza, da questa casa. Da tutta la situazione.
Dovrebbe sentirsi sollevata per aver tenuto addosso gli stivali, la giacca e le fasciature, perché così sarà più facile staccarsi da lei e lasciarla. L’ha già fatto una volta, giusto? Può sempre rifarlo.

“Caitlyn?”

No, certe cose sono già abbastanza dure da fare la prima volta. Vi gira la maniglia e apre la porta quanto basta per far passare la voce.

“Ho sentito un rumore” dice, “voglio solo sapere se…”

Stai bene.

Sei ancora lì.

Ti fa piacere che sia qui quando a me che tu ci sia.

Vi rimane in attesa con lo sguardo irrequieto. Non conosce la disposizione della stanza; Caitlyn potrebbe essere nuda o seduta sul bordo della vasca, intenta a parlare tra sé con i pugni serrati.

“Sto per entrare, va bene? Se – se non mi vuoi, mandami a fanculo.”

La porta scivola liberamente, leggera. A quanto pare il bagno è grande almeno la metà della camera da letto e, perfino adesso, per Vi è la cosa più stupida mai vista. Profuma di pulito e umidità.
Caitlyn è sul pavimento con le ginocchia strette al petto, seduta sotto il getto dell’acqua, ancora vestita. Il soffione della doccia è ampio e gli spruzzi d’acqua sembrano fitti e pesanti. È completamente inzuppata, la camicia, la gonna e le calze sono diventate scure, trasparenti, appiccicate al corpo. Nello spazio che le divide, sulle piastrelle, c’è un flacone di sapone aperto da cui cola un liquido rosa.

“Cait.”

Un nuovo soprannome. Non sembra il momento adatto, ma le è uscito prima che se ne rendesse conto.

Funziona. Gli occhi di Caitlyn inquadrano le sue gambe, la sua bocca si apre e il viso si contorce. Non le esce alcun suono. Vi si avvicina, fregandosene dell’acqua.

“Ehi” sussurra, “Ehi, va tutto bene, pasticcino. Stiamo bene. Vedi?”

Rannicchiata di fronte a lei, Vi le posa le mani sulle ginocchia. Caitlyn libera le sue e la afferra, il sollievo si fa strada con urgenza e bisogno. Sta tremando, o forse è Vi a tremare e la reazione è contagiosa.

“Vieni qui.”

Accenna a ritrarre una mano e la presa di Caitlyn si rafforza. Quando incontra il suo sguardo, gli occhi sono offuscati, vacui, arrossati e segnati di pianto. Vi osserva una scia d’acqua che scende dalla sua fronte, scorre sulla pelle livida tra gli occhi – un altro regalo di Jinx – fino a formare una piccola cascata dalla punta del naso.

“Va tutto bene” le ripete, è una bugia. “Non vado da nessuna parte” aggiunge ed è la verità.

“Volevo lavare via tutto.”

“Lo so. Ti aiuto io.”

“Volevo, uhm, ho pensato che – E poi mi è caduto…”

“Shhh.”

Peggio di vedere qualcuno che non parla, è guardare qualcuno che ci prova.

Vi libera una mano e raggiunge il rubinetto oltre le loro teste: dopo aver regolato un flusso meno intenso e una temperatura più calda, si volta e allunga le gambe. Infrange la cortina d’acqua con la schiena e arretra fino a sentire le piastrelle fredde attraverso la giacca inzuppata, sotto ai pantaloni e alla biancheria infradiciati la pelle si bagna subito.
Caitlyn si stende rannicchiata contro di lei, le scarpe stridono sul pavimento bagnato quando ritrae le gambe per posarle su quelle di Vi. Lei sobbalza e si riprende subito, non vuole spaventarla. La abbraccia e la tiene così, nel suo grembo, sentendo una spalla premere nello stomaco. Trovata una posizione comoda, sembra che tutto il corpo di Caitlyn rilasci un profondo sospiro tremolante.
La stanza si riempie di vapore.
Vi non ha idea di cosa dire. Sa che nulla può essere davvero d’aiuto. Non ha mai voluto che nessuno dicesse niente, solo che… Rimanessero. Quando è sicura che muoversi non disturberà la donna tra le sue braccia, Vi immerge il viso nel getto d’acqua.

Sono passati anni dall’ultima doccia. Al Drop, fare la doccia era una gara, con tempi e limiti: quattro ragazzini e Vander, dovevano accontentarsi di un minuto a testa o sarebbero rimasti senz’acqua per due giorni. Lavarsi a Stillwater voleva dire un secchio di acqua tiepida e marrone ogni tanto, con due guardie a tenerti d’occhio con le braccia incrociate. A volte, se eri fortunato, ti davano uno straccio macchiato. Non che Vi ne sapesse granché comunque.
L’acqua le scorre sulla faccia, sul collo, nella maglia e nelle orecchie, affonda tra le sue labbra e Vi si rivede sotto alla pioggia, alla luce di un lampione mentre dice “olio e acqua”. Si chiede come diavolo sia possibile rimanere all’asciutto quando tutto continua a pioverti addosso senza permesso.

“Mi dispiace tanto” sussurra. Si piega in avanti verso Caitlyn, imprime le labbra sulla sua testa e la stringe, mentre l’acqua le colpisce il collo e scivola lungo la schiena. Rabbrividisce e parla tra le ciocche bagnate di capelli bluastri.
“Mi – cazzo, mi dispiace così tanto, pasticcino.”

Caitlyn sospira ancora.

“Puoi chiudere l’acqua per favore?” chiede in tono smorzato e Vi obbedisce.

Rimangono a sgocciolare l’una sull’altra, sulle piastrelle, in silenzio. Una mano di Caitlyn si posa sul ginocchio dolorante di Vi e traccia linee sul tessuto. Lei vorrebbe prenderla e stringerla, ma teme di infrangere l’incantesimo che le avvolge. Ben presto Caitlyn si alzerà per fissarla e gridare “è stata tua sorella”, per cacciarla via e sbattere la porta alle sue spalle. In qualsiasi momento, da ora.

“Non è stata colpa tua.”

Quelle parole si avvicinano così tanto alla sua angoscia da far contrarre al massimo ogni muscolo indolenzito.

“Avrei dovuto fare di più. Mi dispiace di non esserci riuscita.”

“Non hai nulla di cui scusarti.”

“Avrei dovuto – Avrei potuto raggiungerla. So che potevo.”

Caitlyn si sposta di lato. La mano raggiunge una nuova posizione sul suo fianco, Vi la lascia fare.

“Non avresti potuto fare meglio di così” le dice. “Ne sono sicura, anche se tu non lo sei.”

“Non la conosci.”

“Conosco te.”

“No, pasticcino” prova a ribattere Vi ed è solo un’abitudine, nient’altro, manca di convinzione. “No, non credo che tu mi conosca.”

“So quanto basta. Te l’ho già detto, non è colpa tua.”

“L’ho abbandonata. Ancora.

“Non avevi scelta.”

“Che stronzata, c’è sempre una –”

“Non è colpa tua.”

“Lei non è – Non potrebbe – Non potrebbe mai –”

“Violet, respira. Respira.”

Respira?
Sta respirando, giusto? Sta respirando così forte.
E Caitlyn la sta fissando, inginocchiata accanto a lei. Quando si è alzata?
Perché – perché ha nel petto la stessa sensazione che avverte nelle braccia quando serra le mani troppo forte?

“Non potrebbe” ripete con debolezza. Non sa come fare per lottare ancora, ma non riesce a smettere. “Lei – lei non potrebbe.”

Caitlyn poggia la fronte contro la sua e Vi rimane ad occhi aperti, sorpresa e senza fiato.

“È già successo, Vi” le dice con cautela. “L’abbiamo visto entrambe. Prima Silco e poi mia – mia madre”.

Merda, già, è proprio quello il motivo per cui è entrata in bagno.

‘Io volevo solo aiutarvi.’

“Non lo sappiamo” risponde Vi. “Non – non sapremo cos’è successo finché non avremo notizie da tuo padre.”

‘Io volevo solo aiutarvi.’

“Penso che nessuno sia sopravvissuto. Tu che dici?”

‘Io volevo solo aiutarvi.’

Quante volte l’aveva ripetuto?
La piccola Powder con gli occhi sgranati, terrorizzata dalla propria capacità di distruzione, rischiarata dalla luce delle fiamme, dalla comprensione e dallo spettro accecante delle proprie intenzioni. Supplicava per chiedere pietà, per il perdono. Violet ricorda solo rabbia, la furia e il suono della sua mano quando aveva colpito la sorella minore.

“Lei non è così” dice Vi con fermezza. “No, non è così. Lei – in tanti l’hanno delusa. Così tanti…”.

Caitlyn le prende il viso tra le mani, il suo sguardo è ancora più delicato del suo tocco. Com’è possibile?

Ha ucciso sua madre.

“È stata da sola per troppo tempo, Cait. Da sola.

“Mi dispiace tanto, Violet.”

Perché lei è dispiaciuta?

“No” Vi scuote la testa, intrappolata tra quelle mani morbide. “No, lei… Lei voleva – Lei voleva solo…”

Stringe i palmi e le piega le dita.

“Voleva solo…”

Le fasciature sulle mani tirano e si tendono. Si accorge a stento di essere circondata da un abbraccio.

“Lei…”

Ha undici anni, è in ginocchio lungo il ponte tra due mondi e guarda i corpi esanimi dei suoi genitori.

“Non capisci.

Ha sedici anni e la sua figura esile è curva sul corpo deformato dell’uomo che aveva preso il loro posto nella sua vita e nel suo cuore.

No.

Anche adesso, fa ciò che aveva fatto all’epoca. Urla, si sfalda tra le braccia che la avvolgono strettamente e tira fuori tutto fino a svuotarsi di nuovo. Grida a denti scoperti in direzione della finestra offuscata, dall’altra parte del bagno in cui non voleva trovarsi a fare i conti con tutto questo.

‘Io volevo solo aiutarvi.’

Come se le intenzioni avessero un cazzo di senso quando hai a che fare con disastri e umanità.
 
////
 
A corto di idee migliori, Caitlyn la conduce verso il letto.

Vi torna con la memoria a qualche giorno prima, dopo la pugnalata di Sevika, quando l’ha trascinata per le strade e l’ha seguita giù nel dirupo. Allora, per quanto ammaccata e sanguinante, Vi era riuscita a provocarla e a tenerla a distanza, anche se non per molto. Ora tutto quello che Caitlyn deve fare è sospingerla con garbo sulla schiena e lei barcolla attraverso la stanza, silenziosa e obbediente. I pantaloni in prestito sono troppo lunghi, la maglia troppo piccola. Hanno fatto a turno per asciugarsi e vestirsi, ammucchiando gli abiti usati accanto al lavandino.
Vi si lascia cadere sul letto, la guarda con gli occhi rossi che affiorano nel volto pallido. Caitlyn si avvicina e le prende il viso tra le mani, osserva questa donna forte e coraggiosa che avvicina una guancia per andare incontro al suo palmo, ad occhi chiusi. Quanta delicatezza, per qualcuno così propenso a tirare pugni.

“Mi piace quando lo fai” mormora Vi. Ha la voce roca, Caitlyn non ne è sorpresa.

“Quando faccio cosa?”

“Mi tocchi la faccia. È una bella sensazione.”

Il pollice scorre su uno zigomo arrossito e tatuato. “Pensavo di essere io quella dolce.”

Vi borbotta: “La più dolce, pasticcino”.

Per un istante Caitlyn pensa che potrebbe voltarsi, per depositare un bacio leggero sotto le dita. Per un istante, lo spera. La sensazione delle sue labbra impresse tra i capelli, sotto la doccia, non è ancora sbiadita. Invece Vi si distende sul letto, con i piedi scalzi che sfiorano il tappeto e le braccia piegate sotto la testa. Quand’erano in bagno l’ha aiutata a disfare le fasciature, ha ignorato il suo pianto silenzioso – di sollievo, forse – e l’aspetto della pelle non esposta all’aria da qualche tempo. Ora sa che i tatuaggi si avvolgono attorno ai polsi fino al dorso delle mani, con forme di ingranaggi simili a quello visibile sul collo; non è la prima volta che Caitlyn si chiede quando li abbia fatti e se abbiano un significato.

Vi ha chiuso gli occhi e Caitlyn è divisa tra la speranza che sia già addormentata e l’intenzione di raggiungerla senza svegliarla. Sembra più giovane così, stesa sul suo letto con addosso i suoi abiti. La maglia viola che le ha dato si è sollevata abbastanza da mostrare le cicatrici sulla pelle e chiazze di lividi violacei; ha bisogno di cure mediche, servono ad entrambe.

Caitlyn aggiunge anche questo alla sua lista.

Innanzitutto hanno bisogno di cibo, poi di trovare suo padre, di avere aggiornamenti riguardo sua madre e gli altri consiglieri. Non ha idea di dove siano tutti, ma di certo suo padre dev’essere vicino. Sarà andato al lavoro, non si sarebbe mai intromesso sulla scena dell’esplosione, a prescindere da quanto volesse farlo. Sa bene che è meglio tenersi alla larga dalla prima linea. Il pensiero dei genitori le fa salire un nodo alla gola e serrare gli occhi, il viso ferito si contrae e si concentra sul dolore.

“Caitlyn?”

Oh.

“Devo andare al piano di sotto” dice dopo aver schiarito la voce. Sì, c’è del lavoro da fare. “Potrebbero esserci notizie di mia madre.”

Vi si mette seduta con un grugnito: “Vengo con te”.

Caitlyn scuote la testa e le posa una mano sulla spalla, per racimolare la poca autorità che le resta: “No, no, devi riposare. Sei esausta”.

“E tu invece no?”

“Non quanto te.”

“Non è una gara, Cait.”

Eccolo di nuovo.

Cait.

Solo Jayce la chiama così.
Jayce.
Dev’essere stato insieme agli altri consiglieri, di certo.

“Caitlyn?”

Riprende il controllo della sua espressione per renderla neutra, più distesa.

“Stavo pensando che sono d’accordo con te” risponde. “Se fosse una gara lo sapremmo, perché starei vincendo.”

Vi sorride, un piccolo accenno, ma genuino: “Scommetto di sì”.

“Sembri proprio un tipo da scommesse.”

Si stende di nuovo con le mani raccolte sullo stomaco.

“Vander ci ha insegnato a giocare a carte da piccoli” spiega a bassa voce. “Sfidavamo tutti gli abitanti di Piltover che incontravamo. Mylo – Mylo truccava il mazzo e Powder trovava il modo di…”. Esita e fissa il soffitto sopra al letto, senza battere ciglio. Caitlyn aggrotta le sopracciglia, ondate di inquietudine e incertezza la attraversano.

Da un lato, stanno parlando di un’assassina. Una ragazza che le ha teso un’imboscata nella sua camera, a pochi metri da dove si trovano ora, e ha organizzato una sorta di macabra cena, prima di far esplodere l’intera dirigenza della città, nonostante i vari tentativi di riportarla alla ragione. D’altra parte, stanno anche parlando della ragazza la cui altezza veniva misurata a cadenza regolare insieme alla donna sul suo letto, e ora sia lei che i loro nomi, segnati nel luogo custode della loro crescita, non esistono più.
Si fa strada la consapevolezza che quanto sta provando – o la probabilità, la possibilità del lutto, uno scenario ancora ipotetico, finché non ne sapranno di più – è qualcosa che Vi ha sperimentato innumerevoli volte. L’ha vissuto e attraversato senza una guida, alla cieca, ogni colpo che si abbatteva più forte del precedente con il passare degli anni.
Caitlyn siede sul letto accanto a lei e con un dito le allontana un ciuffo umido dagli occhi. Se davvero non rivedrà più sua madre, dovrà tenere viva la sua memoria raccontando storie su di lei a chiunque la ascolterà. Se vuole concedersi un po’ di rancore, deve prima superare la tristezza.

“Voglio sapere” le dice dolcemente. “Puoi parlarmi di lei.”

Vi schiarisce la voce e volta la testa per avere una conferma, prima di continuare: “Lei truccava i dadi. Li intagliava e li scavava l’interno. Ci metteva dei pesetti”.

“Davvero furba.”

Un altro piccolo sorriso: “Vincevamo un mucchio di soldi. Vander si incazzava”.

“E tu che facevi nel frattempo?”

“Ah, io stavo tranquilla e guardavo da lontano.”

“Certo, come no.”

Anche se l’ha già fatto una volta, Caitlyn non resiste e scosta di nuovo quella ciocca di capelli; la pelle è fresca e asciutta, il gesto le solletica il polso. Vi socchiude stancamente gli occhi e poi si costringe a riaprirli, testarda.

“Volevo anche scendere in cucina” continua Caitlyn e si spinge ad accarezzarle un lato del viso. “Se non hai intenzione di dormire, posso almeno darti qualcosa da mangiare?”
 
////
 
La cucina dei Kiramman è addirittura più esagerata del bagno di Caitlyn. Di nuovo, Vi rimane sorpresa per quanta indignazione riesca portare a galla il suo passato miserabile.

“Non dovremmo mangiare qui” commenta Caitlyn mentre lei è intenta a crogiolarsi nello sdegno, il che non è certo di aiuto.

“È una cucina.

“Appunto. Si mangia in sala da pranzo.”

Vi rimane immobile dal suo lato della spaziosa isola in metallo lucente, grande almeno quanto il letto di Caitlyn.

“Non capisco se mi stai prendendo per il culo.”

Parlano entrambe in tono sommesso, come se qualcuno potesse sentirle. La notte è appena scesa, eppure non hanno visto nessun altro. La casa minaccia di inghiottirle e respira paziente intorno a loro. L’incantesimo che Vi ha immaginato è ancora intatto, per il momento la bolla non è scoppiata.

“Credimi, Vi” ribatte Caitlyn con un sorrisetto, a quanto pare anche lei cerca di godersi il momento. “Se ti stessi prendendo per il culo, lo sapresti.”

Vi sussulta: “Hai appena detto una parolaccia?”

“Stai zitta.”

Vi risponde con un ghigno e trascina uno sgabello verso l’isola, con un gesto lento e impacciato, per poi salirvi e restare a guardare Caitlyn che si aggira per la stanza, recuperando vari ingredienti dal frigorifero. Tipo, parecchia roba, visto che sono in due. Oh beh, al diavolo.
Una volta finito, la raggiunge con un altro sgabello preso da un angolo, come se la cucina non fosse più grande della vecchia stanza che Vi condivideva nella cantina del Drop e non ci fosse altro posto dove sedersi. O piuttosto come se l’unica ragione che le ha sostenute fin qui fosse la vicinanza reciproca, e allontanarsi ora fosse una provocazione verso il destino.

“Non è granché” dice Caitlyn e posa i piatti sul ripiano. “Ammetto che le mie abilità siano ben lontane dalla preparazione del cibo, ma non volevo disturbare il cuoco a quest’ora.”

Vi si sforza di non sembrare troppo divertita, non ha mai visto la giovane Agente così insicura. Cucinare, tra tutti i possibili punti deboli nella sua armatura. Prende un grosso boccone del suo panino e commenta a bocca piena: “Per me va più che bene”.

Caitlyn alza gli occhi al cielo.

Mangiano in silenzio. Caitlyn finisce per prima e inizia ad armeggiare nel lavandino, prima di tornare al fianco di Vi con due panni avvolti attorno a del ghiaccio. Lei la guarda con sospetto, mentre accenna le sue intenzioni, poi annuisce; Caitlyn allora le distende la mano libera sul ripiano e posa con attenzione il fagotto sulle nocche livide. I cubetti di ghiaccio schioccano tra loro e Vi sospira, il fresco sollievo risale lungo il braccio.

“Grazie.”

Caitlyn annuisce, di nuovo seduta, e sistema l’altro involto sul proprio naso chiudendo gli occhi.

Vi coglie quella rara occasione per studiarla, senza essere osservata a propria volta. Non riesce mai a sostenere a lungo lo sguardo di Caitlyn, quegli occhi affilati in grado di scorrere lungo la canna di un fucile e individuare un bersaglio distante centinaia di metri. Di recente c’è stato fin troppo in quello sguardo, nel modo in cui ha iniziato a considerarla. Non è stupida. Ripensa alla sera prima quand’erano raggomitolate sul letto al piano di sopra, a quegli occhi azzurri così sinceri, profondi e generosi, perfino esitanti. Un’offerta, o una promessa.
Non sa se ha la forza di custodirla, qualunque cosa sia, e non si perdonerebbe mai se le scivolasse tra le dita. Vi la guarda raddrizzare il fagotto di ghiaccio contro il livido in espansione al centro del viso. Quello è un promemoria, d’un tratto sente la bocca prosciugata.

‘Stamattina ho fatto una visita alla tua ragazza.’

Ah, non di nuovo, cazzo.

‘Le ho preparato uno snack.’

Ha già quasi perso il controllo una volta, no?

‘Le

Ho

Preparato

Uno…’

Vi cerca di scrollarsi di dosso il pensiero, porta l’attenzione sul piatto e al mezzo panino che non ha ancora toccato. Ora la sua mente si riempie di risatine, una sghignazzata folle.

No, non folle. Non è giusto.

Si concentra sul cibo preparato per lei e non sul suono della sorella che perde la ragione. Le tremano di nuovo le mani. Ha iniziato a sudare, sente l’umidità condensata sui palmi, sul petto, sulla fronte.

‘Ragazza…’

Dita le avvolgono un polso. Il contatto sulla pelle è un segnale di allerta, concreto e radicato alla realtà – le sue braccia vengono lasciate esposte così di rado. Sotto al fagotto del ghiaccio, il suo palmo aderisce al metallo liscio. La presa estranea si rafforza, quanto basta per essere del tutto intenzionale.

‘Snack…’

La cucina svanisce.

Vede soltanto un lucente vassoio da portata con indicibili orrori nascosti da un coperchio.

“Vi?” il volto di Caitlyn è pallido, gli occhi spalancati.

La testa di Caitlyn.

“Stai bene?”

La bocca le si riempie di saliva e Vi inghiottisce. La risatina ritorna, assordante.

‘Snack…’

‘Snack…’

‘S n a c k.’

Lo sgabello si ribalta e cade rovinosamente a terra quando balza in piedi. Raggiunge a fatica il bordo del lavello e, dopo nemmeno un secondo, le si rovescia lo stomaco. Ne escono acidi, mezzo panino masticato e qualunque altra cosa il suo corpo possa buttar fuori. Un intenso bruciore le arroventa la gola.

“Va tutto bene” dice qualcuno dietro di lei, con gentilezza. Avverte una mano sulla schiena che disegna carezze circolari. “Calma, Vi – calmati adesso.”

Vomita e tossisce, svuotandosi del tutto.
Sempre il vuoto.
Un’altra boccata di sbobba indescrivibile raggiunge il fondo del più grande lavandino che Vi abbia mai visto. Già, questi fottuti ricconi. Sputa e ansima, si asciuga la bocca con il dorso della mano, troppo accartocciata per sentirsi in imbarazzo.

“Merda” gracchia, una volta sicura che dalla bocca possa uscire solo la voce. “Ugh, cazzo.”

“Va tutto bene” ripete Caitlyn, forse perché la sua testa è ancora attaccata alle sue spalle ed è tutto a posto, questa volta.

Vi si allunga su un avambraccio, ancora piegata sul lavandino.

‘Ma dai!’

Si passa le mani sulla faccia e cerca di calmare il respiro, l’odore del fiato le fa contrarre lo stomaco.

‘Non sono mica così matta!’

Scivola fino ad aprire rubinetto e si raddrizza il più possibile. Il tocco sulla schiena è ancora lì e i muscoli dell’addome stridono gli uni sugli altri. Raccoglie dell’acqua tra le mani, prende un sorso e sputa il resto. Caitlyn veglia su di lei, traboccante di preoccupazione, infine chiude il rubinetto e le chiede qualcosa.

“Sto bene” replica Vi, senza aver colto la domanda. “Non avevo tanta fame.”
 
////
 
Vi si lascia accompagnare sul letto e non lascia spazio ai pensieri inevitabili. Caitlyn non ha più accennato a cercare qualcuno dei domestici, suo padre non è comparso e il suono delle sirene fuori dalla torre del Consiglio si è ammutolito, per ora.
Hanno rinunciato, un accordo sottinteso. O hanno smesso di sforzarsi, qualunque cosa volessero, anche se nessuna delle due ha il coraggio di ammetterlo. Rimangono distese sopra le coperte una di fronte all’altra, alla distanza di un tocco con le mani unite all’altezza degli occhi, anche se alla fine Vi ha chiuso i suoi. Un giorno, quando avrà a disposizione due neuroni funzionanti, dovrà trovare il modo di sollevare lo sguardo nei paraggi di Caitlyn Kiramman. È un bel guaio, dannazione.

Per ora, meglio evitare.
Lei però ha sempre avuto un debole per mettersi nei guai.

“Sei sicura di sentirti bene?”

“Sì.”

“Abbiamo dei farmaci da qualche parte, se ne hai bisogno.”

“No. Grazie.”

“Mi fa davvero piacere che tu sia qui” le dice poi Caitlyn.

In risposta, Vi le stringe appena le mani. “Shhh.”

Il dorso di un dito la accarezza su una guancia e, oh, Caitlyn non la smetterà più di sfruttare quella sua particolare debolezza, vero?
Quel gesto la rilassa: è un contatto lieve e per nulla invadente, non la fa ritirare in se stessa, ma è anche un’attenzione difficile da fraintendere. Forse è qualcosa che faceva sua madre, pensa, quando non riusciva a dormire; non è sicura se sia un ricordo o qualcosa che ha immaginato, o solo il modo in cui il suo cervello interpreta quella sensazione.
È protezione, intuisce con gli occhi inumiditi. Le sta dicendo che è al sicuro. Lo sono entrambe, per ora.
Vi decide che se proprio devono cedere a quella situazione e smettere di lottare, possono anche perdersi del tutto.

“Vieni qui.”

Trae a sé la mano nella sua e allunga l’altra, si solleva quanto basta per far trasparire le proprie intenzioni. Con un lieve rossore, Caitlyn si volta sul fianco e scivola indietro, mentre Vi si avvicina e la circonda alle spalle con le braccia. Accostandosi a quella schiena, Vi ricorda che nessuna delle due indossa i soliti tre strati di vestiti e avverte il calore – calore corporeo, la forza vitale di un’altra persona – che inizia ad attenuare il suo dolore. Sprofonda nel materasso e, quasi all’istante, evade dalla realtà, per quanto sia possibile chiudere il mondo fuori dalle massicce porte decorate di quella camera da letto.

“Scusa se ho vomitato dopo che mi hai dato da mangiare” mormora, le sembra che andasse detto a voce alta. Caitlyn si agita tra le sue braccia, scossa da una risata sommessa.

“Non l’ho presa sul personale.”

“Bene.”

Si accomoda meglio contro al corpo rannicchiato e ignora il fastidio alla spalla.

“Stavi pensando a – quella cosa della cena, vero?” indaga Caitlyn un minuto più tardi. “Il vassoio con il coperchio. Quando ti ha provocato.”

“Non ero sicura che l’avessi sentito.”

“Ho sentito tutto.”

Vi affonda il viso tra i soffici capelli bluastri, umidi e profumati. Ha ventidue anni ed è in lutto per una sorella che non sa come compiangere, malgrado sia morta ormai per la seconda volta. Non ha perso ogni cosa però, sarebbe un insulto alla donna fiera e sensibile tra le sue braccia. Fanculo il senso di colpa. Fanculo tutto, per questa notte.

“Ero così spaventata per te” le sussurra.

Caitlyn allunga una mano indietro, alla cieca, le sue dita la sfiorano sul collo.

“Mai quanto lo ero io per te.”

Lascia la mano dov’è, anche se dev’essere tutt’altro che comoda.

Vi crede di saperlo ora, come si sarebbe sentita a crescere in questa casa enorme, con stanze enormi e una cucina piena di cibo che non puoi mangiare fino a scoppiare, e i maggiordomi o i domestici o chissà chi altro, ovunque si nascondano. Non si è mai sentita più sola e meno sola di così, allo stesso tempo.

A questo potrebbe abituarsi, con molta, molta fortuna.
 
 
 
Note dell’autore:
Il titolo deriva da “Space They Cannot Touch” di Kate Miller-Heidke, il riferimento è dovuto. È davvero una bella canzone.
Infine, i miei complimenti a chiunque scriva abitualmente di coppie canon. Che impresa!
Se sei arrivato fin qui, mi viene da pensare “Wow!” e vorrei ringraziarti, davvero.
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