Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: WillofD_04    08/06/2022    1 recensioni
Piccolo avvertimento: è fortemente consigliato aver letto almeno "Lost girl" prima di leggere questa storia.
Terzo e (si spera) ultimo capitolo dell'avventura di Cami!
Adesso che la ragazza ha deciso di rimanere nell'universo di One Piece ancora per un po', sarà chiamata a far fronte a molte insidie. Ma a motivarla ci saranno i suoi compagni, con cui condividerà gioie e dolori, e il suo sogno di diventare un grande chirurgo.
La aspetta un altro viaggio lungo e faticoso, ricco di emozioni e colpi di scena, alla scoperta di nuovi sentimenti e alla ricerca del proprio posto nel mondo. Tra vecchi amici, nuovi nemici, folli avventure e crudeli battaglie, nessuno è realmente al sicuro. Camilla riuscirà a sopravvivere in un universo popolato da mostri di potenza? Riuscirà a tornare sana e salva dalla sua famiglia? Riuscirà a superare le difficoltà e a coronare i suoi sogni prima che tutto finisca?
Solo lei ce lo potrà dire.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Hai un aspetto orribile,» commentò Law, appoggiato allo stipite della porta del Polar Tang. Sulle sue labbra c’era stampato un ghigno divertito. A quanto pareva mi stava aspettando al varco.
«Non dire una parola.» Lo oltrepassai senza guardarlo. Non avevo uno specchio con me, ma ero sicura che avesse ragione. Avevo passato cinque giorni – così mi aveva detto Franky – su due isole ostili, senza dormire, mangiando male e rischiando la vita un’ora sì e l’altra pure. Senza contare che avevo dovuto fare da baby sitter a Rufy, un dispendio di energia non indifferente. Ero stravolta, avevo camminato senza fermarmi per tutta la notte. Volevo solo farmi una doccia e dormire per una settimana. I Mugiwara avevano tentato di trattenermi con loro, ma io non avevo voluto sentire ragioni ed ero tornata al sottomarino.
«Devo ammettere che la tua è una strategia interessante,» disse di nuovo il Capitano, facendomi rigirare verso di lui. «Non puoi prendere parte alla guerra, se muori prima.»
Alzai gli occhi al cielo. Non avevo bisogno del suo macabro senso dell’umorismo e non avevo bisogno che mi ricordasse che su di noi incombeva una guerra.
Lo osservai per qualche secondo. Era sempre bello e impeccabile. Una sicurezza in un mare di incertezze.
«Law...» lo richiamai. Probabilmente si aspettava che lo mandassi a quel paese. «Grazie per non essere un pazzo con un disturbo alimentare che cade nei mulinelli.»
Mi sembrava ancora tutto surreale: ero caduta in un mulinello che mi aveva condotto a un’isola segreta a cui avevo appena dato il nome, e per due giorni il mare mi aveva fatto da cielo. Avrei dovuto aspettarmelo, dopotutto ero nel mondo di One Piece, dove tutto era possibile, ma cose del genere, con il chirurgo, non sarebbero mai capitate. Avevo avuto le mie esperienze, anche strane, tuttavia queste erano su un altro livello. In quei giorni avevo capito per la prima volta a cosa avevo rinunciato scegliendo Law come Capitano. E mi ero resa conto che nella decisione che avevo dovuto prendere anni fa, tra Cappello di Paglia e il Chirurgo della Morte... non c’era una risposta sbagliata: ce n’era una giusta e una più giusta.
Per un attimo lo vidi confuso, poi ritornò impassibile. «Mugiwara-ya ci ha invitati a pranzo. Ricordati di chiamarmi Capitano.»
Storsi la bocca all’idea di dover passare altro tempo con la furia di gomma, ma non obiettai.
«Cami! Sei tornata!» esclamò Penguin, correndomi incontro insieme al suo amico.
«Che ti è successo?» chiese Shachi, squadrandomi con preoccupazione.
Scossi la testa. Ci sarebbe voluto troppo per spiegarlo e io volevo solo andare a riposare. Feci per tornare in camera, ma Shachi mi trattenne per un braccio.
«Che ne diresti se sistemassimo tutto con un po’ di vino? Abbiamo fatto rifornimento proprio oggi,» mi bisbigliò nell’orecchio.
«Direi che è un’idea brillante,» affermai compiaciuta. «Facciamo stasera?»
Ci scambiammo un’occhiata d’intesa, poi ognuno andò per la sua strada. Feci un rapido calcolo: erano le nove di mattina, dovevo resistere altre dodici ore. Potevo farcela.
 
Nella sala da pranzo dei Mugiwara c’era il solito chiacchiericcio. Una volta informati che avevamo trovato il Poignee Griffe erano tornati tutti alla Sunny nel giro di qualche ora. Io ero ancora stanca, ma mi sentivo meglio dopo aver fatto una lunga doccia e aver dormito un paio d’ore. Sanji aveva preparato tante cose buone, e mi era mancato del buon cibo. Law aveva tentato più volte di introdurre l’argomento “strategie di guerra”, ma nessuno gli aveva dato retta, pertanto ci aveva rinunciato. Era meglio così, per quanto mi riguardava: finché avessero parlato delle rispettive avventure che avevano vissuto, avrei potuto mangiare tranquilla. Perlomeno, così pensavo.
Chopper raccontò che aveva scoperto delle nuove erbe curative e che avrebbe passato il pomeriggio a studiarne le proprietà. Franky era l’unico ad aver trascorso delle giornate tranquille, a bordo della Sunny: aveva lavorato alla mia ascia e l’aveva finita. Sanji e Nami avevano raccontato che avevano passato il tempo a scappare dai ragni giganti e ad evitare geyser. Gli altri raccontarono più o meno le stesse cose, ma sentirli parlare era affascinante, perché ognuno di loro apportava qualcosa alla storia: un colore, un odore, un suono, una sensazione. Usop e Zoro, invece, lasciarono che a parlare fosse il loro Capitano. Sapevo che il cecchino avrebbe detto la sua in seguito, aggiungendo dei dettagli a suo piacimento.
Rufy raccontò del mulinello, dell’isola nell’oceano e del nome che le avevamo dato, del mare che faceva da cielo, delle pruliegie – soprattutto delle pruliegie – e di come eravamo usciti da lì. Anche lui aveva avuto la mia stessa impressione, ovvero che quel posto avesse voluto trattenerci con sé. Non disse niente del Poignee Griffe perché non l’aveva visto, ma ci pensò Usop a narrare di come avesse eroicamente trovato la pietra rossa. Lo sapevano già tutti, lo aveva raccontato almeno cinque volte prima del pranzo.
Quando Rufy finì rimanemmo tutti senza parole, anche io che quelle cose le avevo vissute. Era stato un racconto confusionario, non lineare, ma intenso. Con la coda dell’occhio vidi che Law mi stava fissando in maniera indecifrabile, però riconobbi un guizzo di curiosità nelle sue iridi. Feci un cenno d’assenso, a confermare che era successo veramente.
E poi...
«Dovete ringraziare Cami, comunque, se non mi avesse baciato sarei morto!»
Un brivido gelato attraversò la mia spina dorsale. Sapevo che quelle parole avrebbero fatto scoppiare il finimondo.
«Hai baciato Rufy?» chiese incredula Nami.
«No! No, certo che no. È stato necessario che io gli facessi la respirazione bocca a bocca. Gli ho salvato la vita!»
A pensarci bene, forse sarebbe stato meglio non averlo fatto. Perché non poteva tenere la bocca chiusa, per una volta? Se gliel’avessi tenuta chiusa io, invece di salvarlo, a quest’ora non avrei avuto addosso gli sguardi inquisitori di tutti. Quindi forse ero io quella da biasimare.
Bevvi un sorso d’acqua, all’improvviso avevo la gola secca.
«È come dice Cami, non l’ha baciato, ha solo eseguito una procedura medica,» provò a intervenire Usop, inutilmente. Ormai il treno era partito dalla stazione.
«Brutto idiota, come hai osato profanare le labbra sacre di Cami-san!?» Sanji si era infuriato e ora stava scuotendo con violenza il suo Capitano.
«Smettila di fare le tue patetiche scenette, cuoco di merda.»
«Come hai detto, testa d’alga!?»
Scoppiò l’ennesima lite tra cuoco e spadaccino. Abbassai la testa e mi coprii il viso con una mano, esasperata dalla loro immaturità. Mi ricomposi subito quando mi ricordai che al tavolo c’era anche Law. Sembrava molto divertito.
«È evidente che sia una menzogna. Dopotutto preferisci i biondi,» disse, con una tranquillità disarmante.
Lo guardai esterrefatta. Temevo che gli occhi mi sarebbero schizzati fuori dalle orbite, la bocca era talmente spalancata che quasi toccava terra. Sulla mia faccia c’era un’espressione a metà tra il “che cazzo di problemi hai!?” e il “ti giuro che questa me la paghi.”
Nonostante la confusione, avevano sentito tutti quella frase e stavano osservando interrogativi prima lui e poi me. Lo vidi ghignare appena prima di tornare a concentrarsi sul suo piatto. Strinsi i pugni fino a far diventare bianche le nocche. Me l’aveva combinata bella grossa.
«Scusa Cami, ma che vuol dire che preferisci i biondi? Io allora non ti piaccio?» domandò Chopper, con aria triste.
Avrei voluto rispondergli che mi piacevano tutti loro – come persone, si intendeva – ma non ne ebbi il tempo, perché un gridolino stridulo mi interruppe proprio mentre prendevo fiato per parlare.
«Fermi tutti!» Sanji aveva smesso di litigare con Zoro e si era fatto serio. Ci girammo tutti a guardarlo. «Hai detto che Cami-chan preferisce i biondi!?»
«Veramente io...» tentai di dire, ma fui interrotta di nuovo.
«Ma questa è una notizia meravigliosa!» E fu così che il cuoco iniziò a volteggiare per tutta la cucina e a squittire. Potevo vedere la stanza riempirsi di cuoricini immaginari. Scoppiò un altro battibecco tra lui e lo spadaccino, che trovava ridicolo il suo comportamento.
«Che ingiustizia... Anche io avrei voluto baciare le morbide labbra di Camilla-san,» commentò Brook, sospirando.
«Brook, tu non hai le labbra,» gli fece notare Robin.
«Yohohoho, è vero! Io... le labbra non ce le ho!» esclamò, dapprima pimpante. Poi realizzò. «Oh, io non ho le labbra... E non sono neanche biondo!» Abbassò la testa, avvilito.
«Su con la vita, fratello Brook,» cercò di consolarlo Franky, che in realtà era abbastanza divertito da quel siparietto.
«Vita? Franky-san, io sono morto...»
«Ah, già... Ma almeno hai ancora i capelli!»
Scossi la testa e sospirai sconsolata. La situazione era degenerata. Era assurda, rasentava il ridicolo. Ed era partito tutto da delle stupidaggini. Se questi erano i presupposti, non saremmo andati lontano. Del resto non si poteva pretendere troppo da un’alleanza guidata da un idiota e uno stronzo.
«Lo finisci quello?» Una mano mi sfrecciò davanti e, prima che potessi rispondere, mi tolse il cibo dal piatto e lo inghiottì senza nemmeno masticare.
Grugnii e lo guardai in cagnesco. Sì, la prossima volta avrei decisamente lasciato morire Rufy.
 
In sala da pranzo eravamo rimasti soltanto io e Law. Tutti gli altri, che erano abituati a mangiare in fretta, avevano già finito e si erano alzati da tavola. Il discorso del bacio era caduto nel dimenticatoio, così come quello sulle strategie di guerra e il resto del pasto era trascorso in tranquillità, per mia fortuna.
«Ti diverti a infrangere patti e mettere in difficoltà la tua povera sottoposta?»
Il chirurgo fece spallucce. «Avresti dovuto mettere la divisa.»
Sbuffai una risata. Tecnicamente aveva ragione, mi ero scordata di metterla e mi ero presentata con una maglietta bianca e dei pantaloncini color verde oliva, ma non l’avevo fatto apposta, né voleva essere un gesto di sfida nei suoi confronti. A volte mi dimenticavo di quanto potesse essere pignolo Law.
«Due su due. Non male,» fece dopo un po’, riportando la mia attenzione su di lui. «Ti sei superata. Un peccato che tu non abbia potuto conoscere anche il terzo fratello.»
Dapprima spalancai la bocca, incredula, poi mi indispettii e gli tirai un tovagliolo.
«Tu dovresti difendere il mio onore, non infangarlo.» Non c’era risentimento nella mia voce. Eravamo entrambi divertiti.
«Quale onore?» Mi guardò di sottecchi e poi ghignò.
«Capitano, anzi, Traffy... con tutto il dovuto rispetto, vaffanculo.» Mi alzai da tavola facendogli il dito medio e ridacchiando. Era bello poterci scherzare sopra, nessuno che si offendeva, nessuno che si arrabbiava, solo due vecchi amici – se così potevamo essere considerati – che si prendevano in giro.
Misi il mio piatto nel lavello e poi uscii sul ponte. I raggi tiepidi del sole si posarono sul mio corpo e lo scaldarono. Mi era mancata questa sensazione, non capitava spesso che il sottomarino fosse in superficie nel primo pomeriggio. Feci una panoramica generale. Rufy si trovava al suo solito posto, sulla polena della Sunny, Chopper stava facendo essiccare le sue erbe e Carrot gli stava dando una mano e Brook stava suonando una melodia allegra con il violino, accanto all’albero maestro. Dietro di me, Nami e Robin prendevano il sole mentre Sanji serviva loro dei cocktail. Zoro, Franky e Usop non si vedevano in giro. Se il primo era in palestra, era probabile che gli altri due stessero lavorando a qualche invenzione, nel laboratorio. Questo mi fece ricordare che il cyborg aveva detto che la mia ascia era pronta e che dovevo andare a riprenderla. Prima che potessi muovere un passo, però, udii la voce di Nami che mi chiamava. La raggiunsi e aspettai che fosse lei a parlare. Si alzò dalla sdraio e mi abbracciò. Mi irrigidii per un attimo, non me lo aspettavo, poi ricambiai l’abbraccio.
«Non ho ancora avuto modo di ringraziarti per averci aiutato.» Pressò le sue mani sulla mia schiena. «Come immaginavo, sei stata fondamentale!»
Si staccò e mi fece l’occhiolino. Mi strinsi nelle spalle. Non sapevo cosa rispondere. Non mi aspettavo dei ringraziamenti, né mi aspettavo che potessi essere fondamentale per qualcosa legato alla ciurma di Cappello di Paglia. Ma lo ero stata.
«So bene che stare dietro a Rufy non è facile, perciò grazie.»
«L’ho fatto... con cognizione di causa,» risposi, strappando una risata a lei e Robin. Avrei voluto dire che era stato un piacere, ma ero quasi morta a causa sua, per cui... Lo avevo fatto sapendo ciò a cui andavo incontro. Più o meno.
«Anche io voglio ringraziarti come si deve, Cami-chan!» Sanji allungò le braccia verso di me, l’espressione innamorata.
Fu fermato dal pugno della navigatrice, che gli ordinò di andare a prepararmi un drink e poi mi fece cenno di sedermi accanto a lei. Sosteneva che meritassi un po’ di relax, e aveva ragione.
«Cami, Usop ha detto che hai trovato un modo di copiare il Poignee Griffe. Potresti mostrarmelo?» chiese Robin, sorridendo.
Con tutta la confusione che c’era stata a pranzo, mi ero dimenticata di farle vedere le foto. Tirai fuori il cellulare dalla tasca – lo avevo preparato appositamente per l’occasione – e glielo passai.
«Tecnologia di un altro mondo,» mi giustificai quando vidi la navigatrice fissare il piccolo apparecchio rettangolare con aria dubbiosa.
«La vostra tecnologia è strana,» commentò l’archeologa, che però ne sembrò deliziata. Supponevo fossero punti di vista, del resto lei era cresciuta in un mondo che utilizzava le lumache per comunicare.
Quando finì di leggere, mi ridiede il telefono e mi ringraziò. Continuai a fissarla, in attesa che dicesse qualcosa, ma non parlò. Invece si sistemò meglio sulla sdraio e si calò gli occhiali da sole sul naso.
«Fa sempre così, non rivela mai i contenuti delle pietre. Non subito, almeno,» mi spiegò Nami, che aveva notato la mia faccia perplessa.
Proprio in quel momento arrivò Sanji, che mi consegnò il drink che aveva preparato per me “con tanto amore”, poi – su minacce della rossa – ci lasciò in pace.
Rimanemmo in silenzio a prendere il sole per qualche minuto. Cercai di godermi ogni istante di tranquillità e di assorbirne l’essenza: il sole che mi solleticava la pelle, il sapore delicato del cocktail di Sanji, il vociare allegro di Rufy e compagni. Sapevo che presto avrei potuto perdere tutto.
 
«Traffy sta impazzendo nel tentativo di parlare di strategie di guerra con Rufy,» fece divertita Nami, osservando il primo che tentava di approcciarsi al secondo, che invece non voleva saperne niente: era seduto sulla ringhiera con Usop e Chopper, si erano messi a pescare.
Presi un respiro profondo. La quiete era durata una decina di minuti.
«Puoi biasimarlo? Vuole solo avere un piano da seguire. È già difficile così, combattere alla cieca è un suicidio,» lo difesi io. Il fatto che non volessi parlare della guerra che incombeva su di noi non stava a significare che non avremmo dovuto farlo. Era un male necessario, come lo era pulire i bagni del Polar Tang.
«Con Rufy non puoi fare piani,» commentò Robin, portandosi una mano alla guancia e sorridendo.
«Non possiamo farli in ogni caso, fino a che non ci ricongiungeremo con i samurai. Non sappiamo niente di Wa: non conosciamo il territorio, l’entità delle forze nemiche, su quanti alleati possiamo contare. Quando lo sapremo, agiremo di conseguenza.» La navigatrice mi mise una mano sulla spalla. «Stai tranquilla, Cami. Ci faremo trovare pronti per la battaglia.»
Le sue parole non mi tranquillizzarono affatto. Anzi, mi misero addosso ancora più ansia. Non avevamo idea di quello che stavamo facendo. Era un salto nel vuoto. Anzi, nella tana del leone. Non potevamo permetterci di fare passi falsi e tantomeno di presentarci impreparati. Stavamo andando incontro a morte certa, e non dovevo preoccuparmi?
Mi agitai sulla sdraio, finii il drink tutto d’un fiato – ne avevo bisogno – poi mi alzai e mi diressi verso il mio Capitano. Quando gli riferii ciò che mi aveva detto la cartografa passò in rassegna tutti i Mugiwara con aria seccata. Nei suoi occhi, però, c’era una punta di preoccupazione.
«Se non vogliono collaborare, c’è poco da fare,» disse, appena prima di spiccare un salto e tornare sul sottomarino.
Non lo raggiunsi, anche se avrei voluto farlo: c’erano un paio di cose che dovevo fare.
Prima andai da Franky e ripresi la mia ascia. Mi spiegò che aveva utilizzato un metallo più duro e resistente per le lame, infatti mi sembrava leggermente più pesante, e già che c’era le aveva affilate. Mi disse anche, con mia grande sorpresa, che aveva sostituito la catena con quella di agalmatolite che gli avevo dato io. Aveva fatto un lavoro straordinario: in pochi giorni aveva rimesso a nuovo la mia arma ed era anche riuscito a modellare l’agalmatolite!
Lo ringraziai più volte e uscii dal laboratorio. Era il turno di Zoro. Salii la scala di corda e bussai alla porta. Non ottenni risposta, ma ero decisa a entrare, perciò aspettai per qualche secondo prima di varcare l’uscio. Riuscivo a sentire il rumore che facevano i pesi metallici mentre li sollevava anche da fuori.
Quando entrai, un odore mascolino mi invase le narici. Lo spadaccino stava sollevando un peso più grande di Franky. Era a torso nudo, aveva i muscoli tesi e un velo di sudore gli ricopriva il corpo. Non era una brutta immagine.
«Io e te abbiamo una chiacchierata in sospeso.» Cercai di concentrarmi sul suo volto e non sui suoi addominali.
Ci mise una vita prima di rispondere: non poteva permettersi di perdere il conto dei sollevamenti. Mi dispiaceva disturbarlo nel mezzo dei suoi allenamenti, ma avevo fretta.
«Ti ho già detto tutto ciò che c’è da sapere.»
Avrei voluto dirgli che non avevo ascoltato mezza parola a causa del ragno, ma decisi di non inficiare ulteriormente la mia dignità.
«So che una cosa complessa come un fendente volante non si impara in un giorno, ma io devo provarci. Se ho una piccola chance in più di sopravvivere, non me la voglio far scappare.»
Si fermò e mise a posto il peso, poi mi squadrò da capo a piedi. Aveva un’espressione indecifrabile, non riuscii a capire che cosa gli passasse per la mente, se l’avessi convinto o se invece pensasse che fossi una povera illusa.
«Ti prego, Zoro. Sei l’unico che può affrontare questa sfida.» Feci un ultimo tentativo, giocandomi il tutto per tutto: sapevo che sarebbe stato più invitante per lui se gliel’avessi presentata come una prova da superare.
Mi fissò negli occhi, con un’intensità nello sguardo che non gli avevo mai visto. «Perché vuoi imparare a scagliare un fendente volante?»
«Perché stiamo per andare in guerra contro l’uomo più forte del mondo, per di più senza uno straccio di piano,» affermai con la voce più ovvia che potessi fare. Pensavo che l’avesse capito da un pezzo.
«Come immaginavo.» Sollevò un angolo della bocca e si voltò, prendendo un asciugamano e frizionandoselo sul corpo.
Aggrottai la fronte. «Non sono sicura di aver capito.»
«Non funzionerà, se queste sono le tue motivazioni. Smetti di ossessionarti con questa guerra, non serve a niente.» Il suo tono non fu duro, ma non mi piacque lo stesso. Come poteva dire una cosa del genere? C’era la mia vita e quella di chi amavo in gioco! Solo perché lui dormiva sonni tranquilli non stava a significare che dovessero farlo – o meglio, che potessero permetterselo – anche gli altri.
«Tu ti alleni tutti i giorni per venti ore al giorno. Se c’è qualcuno che ha un’ossessione, sei tu,» gli feci notare, un po’ risentita.
«Io lo faccio per me stesso. Per migliorarmi sempre di più e superare i miei limiti.» Poggiò l’asciugamano e ricominciò a fare i suoi esercizi. «Tu lo fai perché non vuoi morire. È una motivazione lecita, ma di diverso peso.»
Se la metteva in questo modo, dovevo dargli ragione. Ma non era così, in realtà, e se aveva capito questo forse era colpa mia ché mi ero spiegata male.
Mi portai le mani ai fianchi. «Io lo faccio perché ho un obiettivo da raggiungere. Perché sono così vicina a riuscirci che l’idea di morire ora mi fa incazzare. Non si tratta di aver paura di perire, ma di proteggere il mio sogno e i miei compagni.»
Le sue labbra si schiusero in un ghigno e annuì, come se avesse finalmente sentito le parole che voleva sentire da me.
«Prendi un peso. Devi rafforzare il corpo prima di pensare ai fendenti volanti.»
«Ah, cominciamo ora? Così?» Mi guardai intorno, un po’ spaesata. Non mi aspettavo di iniziare quello stesso giorno, non avevo nemmeno i vestiti adatti.
Zoro mi dedicò un’occhiata eloquente e capii che se volevo concludere qualcosa dovevo prima di tutto cambiare mentalità.
«Certo. Vado...»
Rimasi per un po’ a fissare il repertorio di pesi di cui disponeva lo spadaccino. Erano tutti enormi e pesavano varie tonnellate. Se pensava che io fossi in grado di sollevarli, si sbagliava di grosso. Adottare l’atteggiamento giusto non mi avrebbe preservato dal rompermi la spina dorsale in mille pezzi.
«Vuoi iniziare con qualcosa di più leggero?» mi chiese, leggendomi il pensiero.
«Se posso scegliere...» Nonostante lo conoscessi, c’era qualcosa in Zoro che mi metteva soggezione, soprattutto quando gli chiedevo di aiutarmi a diventare più forte.
«D’accordo. Duecento flessioni, duecento addominali e duecento affondi.»
Boccheggiai, il fiato mi venne a mancare già da subito. Non era il mio ideale di divertimento. E neanche di addestramento. Vedendo la mia titubanza, lo spadaccino smise solo per un secondo di fare quello che stava facendo per guardarmi. Incastonò le sue iridi serie alle mie e un brivido mi percorse la schiena.
«Non ci sono sconti per chi ha dei sogni. Sei disposta a lottare per il tuo, o no?»
Presi un respiro profondo e annuii. In fondo avevo fatto cose peggiori che non avrei voluto fare, giusto? Però, cominciavo a pensare che Law avesse – di nuovo – ragione, stavo attuando la strategia più furba di tutte: non avrei potuto prendere parte alla guerra, se fossi morta prima.
 
Neanche a dirlo, mi ci volle tutto il pomeriggio per fare flessioni, addominali e affondi. Zoro aveva detto che non c’era fretta, che l’importante era farli tutti e bene, ma anche se li avevo spalmati in quattro ore, mi sentivo comunque morire. Non ero abituata a lavorare così. Hack aveva migliorato di molto la mia resistenza, però ero fuori forma, le settimane passate avevo concentrato tutte le mie energie sul polso. Lo spadaccino aveva anche detto che ero libera di andarmene in qualsiasi momento, ma che non l’avrei fatto, se avessi voluto andare fino in fondo. E non l’avevo fatto. Ero tramortita, ogni muscolo del corpo mi faceva male e tremava e quasi non riuscivo a stare in piedi, però avevo resistito.
Mi guardai al piccolo specchio che c’era nella stanza: il viso era rosso come un peperone, alcune ciocche di capelli, che avevo raccolto in una coda, si erano appiccicate alle tempie, gli occhi chiedevano pietà. Cercai di darmi una sistemata prima di uscire dalla palestra e tornare al mondo reale.
Zoro rise del mio volto congestionato. «Porti i segni dell’onore.»
«Se lo dici tu...» Gli dedicai una perplessa alzata di sopracciglia. «Abbiamo finito o c’è altro?»
«Abbiamo finito, per oggi.»
«Quindi come rimaniamo? Torno domani?» Sperai che mi dicesse di sì. Ero mezza morta, ma ne avevo bisogno. E, anche se alla fine non fossi stata in grado di scagliare un fendente volante, era pur sempre potenziamento fisico.
Annuì mentre riponeva i pesi – quelli più piccoli – sulla mensola. «Vieni appena pranzo.»
«Ci sarò.» Sorrisi, poi mi affrettai verso la porta: era tardi, e se non mi fossi presentata a cena in tempo, sul Polar Tang, non avrei mangiato.
«Camilla,» mi richiamò poi, facendomi rigirare. La sua espressione si era addolcita appena. «Una guerra non è mai facile, può fare paura, ma devi avere fiducia in te stessa. E nel tuo Capitano. E anche nel nostro. Si è guadagnato ogni Berry che c’è sulla sua taglia.»
Feci un mugugno d’assenso. Il problema principale non era la mia mancanza di fiducia, quanto la loro – e pertanto nostra – mancanza di organizzazione. Come potevamo sperare di avere una possibilità se non sapevamo neanche quanti nemici avremmo dovuto affrontare? Tuttavia non contestai le sue parole, in fondo voleva incoraggiarmi.
«Non tutti hanno il privilegio di avere un Capitano che ha mezzo miliardo di Berry come taglia,» dissi, giusto per spezzare il silenzio che si era venuto a creare. C’era una punta d’orgoglio nella mia voce, perché anche io avevo un Capitano con una tale taglia.
Mi guardò male. «Vuoi dire un miliardo e mezzo.»
Mi immobilizzai all’istante. Non solo con il corpo, ma anche con la mente. Se qualcuno in quel momento mi avesse fatto un encefalogramma, avrebbe visto che era completamente piatto.
«Quanto?» chiesi con un filo di voce, non del tutto sicura di aver capito bene. Era probabile che fosse la stanchezza che mi giocava brutti scherzi.
«Un miliardo e mezzo,» ripeté, gettandosi l’asciugamano su una spalla e avviandosi verso la porta.
«Quando è successo? E perché è aumentata così tanto?» Mi ero persa un passaggio. Forse anche più di uno.
«Dopo lo scontro con Big Mom. Hanno aumentato la taglia a tutti quelli che erano a Whole Cake Island,» mi spiegò, per poi fare un ghigno demoniaco. Era inquietante vederlo così, ma riconobbi quell’espressione. «Dovrò rifarmi a Wa. Non posso permettere che il cuoco di merda abbia una taglia più alta della mia.»
Rimasi in silenzio a far girare gli ingranaggi del cervello, tentando di capire perché non mi fossi accorta che le loro taglie erano aumentate. Ero così stanca che non riuscivo neanche a collocare i fatti in una linea temporale. I pezzi di quello che era successo, a me e a loro, mi fluttuavano davanti e io non riuscivo a incastrarli tra loro. Ma non era importante, perché avevamo preso strade separate. Non dovevo per forza sapere tutto ciò che accadeva ai Mugiwara. Non erano loro il centro del mio universo, non più, e non erano dei numeri su un foglio a fare la differenza: Rufy era ancora Rufy, amava la carne, odiava chi si approfittava delle persone, si metteva nei guai e se ne tirava fuori. Lo stesso valeva per Sanji, Nami e gli altri.
«Hai intenzione di rimanere qui tutta la notte?» La voce profonda dello spadaccino mi riportò alla realtà. Mi resi conto che stava tenendo la porta aperta, in attesa che anche io varcassi la soglia.
Scossi la testa e mi avviai. «A domani.» Gli rivolsi un debole sorriso, che racchiudeva sia la mia speranza di risolvere la questione del fendente e diventare più forte, sia il mio timore di morire per la fatica sotto la sua guida.
«A domani,» mi salutò.
Mentre io e Zoro uscivamo dalla palestra, pensai che non era cambiato niente, ma che tutto era diverso.
 
Mi sembrava di correre da due ore. Invece erano solo un paio di minuti. Mancava un minuto esatto alle otto: dovevo sbrigarmi, se non volevo andare a letto senza cena. Non era facile mantenersi in equilibrio quando i muscoli sembravano gelatina, ma la fame prevaleva su tutto. Era stato un miracolo che fossi riuscita a tornare sul sottomarino intatta. Non c’era una scala che collegava le due imbarcazioni, perciò avevo dovuto saltare sul ponte del Polar Tang. Ero riatterrata in piedi, poi però le gambe avevano ceduto e mi ero ritrovata prima in ginocchio e infine prona, una guancia spalmata sul legno del pavimento. Per fortuna non mi ero fatta male e nessuno mi aveva visto. Se fosse stato per me non mi sarei alzata, ma dovevo almeno andare a farmi una doccia.
Ero in ritardo. Se non avessi fatto in tempo avrei sempre avuto il piano B, Sanji mi aveva invitato a cenare con loro, tuttavia l’idea – per quanto prelibati fossero i suoi piatti – non mi faceva impazzire. Avevo passato più di tre giorni a stretto contatto con i Mugiwara, ed era stata una terapia d’urto. Stare con loro richiedeva una certa energia, un’energia che io non avevo, per cui lo avevo ringraziato per l’invito, avevo rifiutato e li avevo salutati in fretta. Ci saremmo comunque visti il giorno dopo e quello dopo e quello dopo ancora. Adesso volevo stare un po’ con i miei compagni e godermi la loro compagnia.
Mentre intimavo alle mie gambe di resistere perché mancava poco, non mi accorsi che davanti a me c’era una persona. Tentai di frenare, però persi l’equilibrio – già precario – e caddi in avanti. Due braccia pronte arrestarono la mia caduta e mi impedirono di sfracellarmi al suolo. Tentai di rimettermi in piedi, ma i muscoli non rispondevano.
«Scusa,» biascicai imbarazzata, incapace di sostenermi da sola. Avevo la faccia rivolta verso il pavimento, per cui non sapevo contro chi fossi andata a sbattere, speravo solo che non fosse uno dei miei compagni più burberi.
«Stai bene?» Le braccia mi girarono e mi ritrovai di fronte due occhi verdi che mi fissavano preoccupati. Kenji.
Trasalii per un momento, poi feci leva sulle gambe con tutta la forza che avevo e mi misi in posizione eretta, staccandomi da lui. Meno contatti ravvicinati avevamo, meglio era per entrambi. I muscoli protestavano un po’ per la mia scelta, ma si dovevano adeguare.
«Sì... sì, sto bene. Giornata faticosa.» Mi strinsi nelle spalle. «Tu?»
Annuì e mi fece un mezzo sorriso imbarazzato. Prima o poi avremmo dovuto chiarire la situazione, non potevamo continuare ad avere il timore di incontrarci per i corridoi del Polar Tang, tuttavia non era quella la sera giusta.
«Facciamo...» Puntai l’indice in direzione della cucina.
«Tardi per la cena, sì,» mi interruppe. Si incamminò verso la stanza lasciandomi con il dito a mezz’aria e la faccia da ebete.
Quando varcai la soglia, tirai un sospiro di sollievo. Ero appena in tempo, i miei compagni stavano prendendo posto. Intercettai il chirurgo prima che si mettesse seduto e andai da lui.
«Law,» cominciai, guadagnandomi un’occhiataccia. Alzai gli occhi al cielo e mi corressi: «Capitano
Sollevò un angolo della bocca. «Dimmi, sottoposta.»
Alzai di nuovo gli occhi al cielo. A volte non era facile resistere all’impulso di dargli un pugno. «Volevo notificarti che mi allenerò con Zoro nei prossimi giorni. Tutti i pomeriggi, probabilmente per tutto il pomeriggio.»
Mi guardò con la sua solita espressione indecifrabile, come se stesse facendo le sue considerazioni a riguardo.
«Non ti sto chiedendo il permesso. C’è una guerra da combattere e io ho bisogno di diventare più forte.» Avevo lo sguardo fermo, le iridi puntate in quelle del Capitano.
«Mi chiedo come mai tu abbia scelto proprio Roronoa...» Mi guardò con malizia e ghignò.
Non capii subito a cosa stesse alludendo, ma quando lo feci una parte di me si indignò. Sapevo che stava scherzando, però non faceva ridere: non per le insinuazioni, quelle erano diventate parte del nostro rapporto, ma perché era di una guerra che si stava parlando. Potevamo morire tutti, non era un gioco.
Scossi la testa e, prima che potessi rispondergli e magari iniziare una lite, Ryu annunciò che la cena era pronta. Girai i tacchi e andai a sedermi al mio posto.
«Non metterti troppo comoda, perché ci devi raccontare delle tue avventure,» mi sussurrò Penguin. Con la coda dell’occhio vidi il suo amico che mi riempiva il bicchiere di vino e mi sfregai le mani. Ora si cominciava a ragionare.
 
«La voleva chiamare “Isola delle pruliegie”?» chiese Shachi, perplesso.
«La voleva chiamare “Isola delle pruliegie”,» confermai io, per poi ridacchiare. «Isola delle fottute pruliegie.»
Anche i miei compagni si misero a ridere. Avevo raccontato loro tutte le mie disavventure e, da sadici quali erano, si erano divertiti. In fin dei conti lo avevo fatto anche io, tolti i ragni giganti, i geyser, il mulinello, le notti insonni e vari altri traumi.
«Perché non ci hai riportato un po’ di quei frutti? Avrei potuto ideare qualche ricetta,» brontolò Ryu.
Alzai un sopracciglio. «Perché è già un miracolo che sia riuscita a tornare io.»
Ridemmo di nuovo tutti. Quella sera ero così stanca che mi erano bastati un paio di bicchieri di vino per andare su di giri. Non ero ubriaca, solo... allegra. Mi meritavo una serata spensierata.
Feci per portarmi il calice alle labbra, ma incrociai gli occhi di Kenji, che mi guardava con un po’ di delusione, e lo rimisi sul tavolo. La situazione stava diventando pesante, dovevamo chiarirci al più presto. I suoi sguardi sofferti mi facevano male. Pensare che una settimana prima avevamo la complicità che hanno i migliori amici e che adesso facevamo fatica a guardarci era triste, per entrambi. Lui si vergognava per come aveva agito, lo percepivo, mentre io non volevo ferirlo più di quanto avessi già fatto. Che potevo fare? Che potevo dirgli per convincerlo che non doveva sentirsi imbarazzato per il bacio? E che parole dovevo usare per non affondare il coltello nella piaga? Non lo sapevo, e la stanchezza e il vino di certo non mi aiutavano. Forse, se ci avessi dormito su, mi sarebbero venute in mente. Non volevo rassegnarmi all’idea che le cose tra noi potessero essere cambiate per sempre.
Sospirai e mi alzai dalla sedia.
«Ehi, dove stai andando?» mi chiese il cuoco.
«Non hai sentito tutto quello che ho dovuto passare negli ultimi giorni? Sono stravolta, me ne vado a letto.»
Salutai tutti e uscii dalla cucina. Mentre camminavo per il corridoio, meravigliandomi di come le mie gambe reggessero ancora il mio peso, mi accorsi che dietro di me c’era qualcuno e mi girai.
«Posso esserti utile, Capitano?» Sperai di no. Sentivo il richiamo del letto da decametri di distanza.
«Come hai trovato Cappello di Paglia in questi giorni?»
«Da quando in qua il Chirurgo della Morte si preoccupa per qualcun altro?» lo canzonai, incrociando le braccia e sogghignando.
Anche nella penombra riuscii a scorgere la sua espressione infastidita.
«Cappello di Paglia-ya è una parte fondamentale dell’alleanza. Dovrà combattere al mio fianco contro Kaido. Lui potrebbe essere la nostra salvezza o la nostra rovina. L’esito della battaglia dipenderà molto dalle sue condizioni.» Lo spiegò come se davanti a lui ci fosse una bambina di otto anni. Non c’era bisogno di usare questo tono, non ero stupida, semplicemente non ci avevo pensato. E non ci avevo pensato perché l’idea che dipendesse tutto da un’imprevedibile malattia mi metteva ancora più angoscia. Non solo non avevamo un piano, non avevamo neanche la certezza che Rufy potesse combattere al massimo delle sue potenzialità.
Il cuore prese a martellarmi nel petto, la testa girava. Appoggiai la schiena al muro e mi passai una mano tra i capelli, inspirando ed espirando profondamente. Law fece un passo verso di me.
«Stai calma.»
«Non dirmi di stare calma.» Lo fissai, lo sguardo affilato. «La situazione è disastrosa, e lo sai anche tu. Non abbiamo dei dati concreti, non abbiamo un piano e Rufy è una bomba a orologeria, in tutti i sensi.»
«Ha avuto spasmi muscolari?»
Scossi la testa. «Ha avuto un attacco di sonnambulismo correlato alla fame. Beh, ha sempre avuto fame... Ed è quasi morto annegato, come già sai ho dovuto fargli la respirazione bocca a bocca, ma niente spasmi.» Non ero stata a controllarlo tutto il tempo, ma se li avesse avuti me ne sarei accorta.
«Non sono sintomi della Sindrome di Noxyd.»
«No, infatti.» Sospirai. Era un appiglio. Piccolo, ma pur sempre un appiglio. Tornai a guardarlo. «Lui lo sa. Sa che il suo corpo ha qualcosa che non va. Gli ho detto di non sforzarsi, di andarci piano con i combattimenti e lui mi ha assicurato che lo avrebbe fatto.»
Conoscendo Monkey D. Rufy, una malattia non lo avrebbe fermato dal compiere il suo destino. Anche per Gol D. Roger era stato così: sapeva di essere malato, sapeva che sarebbe morto, ma aveva resistito. Chissà che non avessero la stessa sindrome. Forse faceva parte della Volontà Ereditata. Forse non era una Volontà, ma una maledizione. O forse non c’era nessuna connessione. Ero così esausta che avevo i pensieri annebbiati. Le gambe, alla fine, cedettero e iniziai a scivolare lungo il muro.
«Suppongo che dovremo fidarci della sua parola.» Law mi afferrò per un braccio e mi tirò su prima che il mio didietro potesse toccare terra.
«Tu non sei preoccupato?» gli chiesi, cercando di captare qualcosa, qualsiasi cosa, nelle sue iridi.
Non lasciò trapelare niente e non replicò. Feci un mugugno d’assenso. Come immaginavo. Anche il silenzio era una risposta.
«Vatti a riposare,» mi disse, lasciando andare il mio braccio. Il suo tono era morbido, ma sapevo che era una specie di ordine. Un ordine a cui, per una volta, avrei obbedito volentieri.
Non me lo feci ripetere due volte. Mi staccai dalla parete e feci per andare in camera. I miei muscoli, però, non erano dello stesso avviso e mi abbandonarono non appena cercai di muovere un passo. Il chirurgo mi acchiappò di nuovo, risparmiando alle mie ginocchia l’impatto con il pavimento. Lo sentii sbuffare quando capì che avrebbe dovuto accompagnarmi fino alla mia cabina e tentai di nascondere il sorriso che stava nascendo sulle mie labbra. La sua premura valeva il doppio.
«Tu sapevi dell’aumento di taglia di Rufy?» gli chiesi dopo qualche secondo di silenzio imbarazzante.
«Sì.»
«E perché non mi hai detto niente?»
«Perché sono il tuo Capitano, non ho alcuna obbligazione verso di te. Se ci avessi tenuto tanto, avresti potuto controllare il giornale,» rispose in tono di scherno. Provava piacere nel ricordarmi quali fossero le gerarchie. Come se non fosse già chiaro a tutti chi comandava la baracca.
«Io credo che tu sia solo invidioso di Rufy e che me l’abbia tenuto nascosto perché non ti andava giù l’idea di essere stato superato,» lo provocai, sogghignando. Spesso pensavo a Law come chirurgo e non come pirata. Ma c’era anche quella parte di lui, quella che amava razziare, depredare e infrangere la legge e che era in competizione con le altre Supernove.
Il moro mi strattonò il braccio e poi lo lasciò, facendomi sbilanciare e ricadere in ginocchio. L’impatto con il suolo non fu gradevole e mi lasciai sfuggire un lamento.
«Ops. Deve essermi scivolata la mano,» fece, un enorme ghigno sulle labbra.
Mi rialzò, in un gesto di carità estrema, e si rimise a camminare con me al seguito. Mi stava supportando e trascinando lui, io non ero più padrona del mio corpo.
«Sai che la tua reazione non fa altro che darmi ragione, vero?» lo sfidai una seconda volta, regalandogli un’occhiata maliziosa.
Il Capitano, al contrario di quanto mi aspettassi, si fermò e mi piazzò davanti a sé, le sue iridi si allacciarono alle mie. Era tornato serio.
«Hai parlato con Kenji?»
«No, ma lo farò,» mi affrettai a dire, assumendo un’espressione solenne. Poi mi feci sfuggire un sospiro. Era una cosa che mi metteva pensiero, però andava fatta.
«Sì, lo farai.» La sua era un’imposizione, non avevo scampo.
Mi lasciai condurre fino alla mia cabina e quando fummo davanti alla porta mi girai a ringraziarlo. Mi rispose con un mezzo bofonchio irritato, si voltò e si incamminò per l’oscuro corridoio. L’idillio era finito.
«Buonanotte, Capitano Law,» gli dissi, facendolo fermare per qualche istante. Stava ponderando quelle parole, stava cercando di capire se gli andasse bene o meno essere chiamato così. Alla fine sollevò blandamente una mano in segno di saluto, senza rigirarsi.
Ghignai vittoriosa. Avevamo trovato un compromesso.
   
 
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