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Autore: Kodama_    12/06/2022    6 recensioni
[OsaAka | 5000w]
Keiji sembra delicato. Ha le labbra delicate, l’odore delicato, la pelle delicata, un sapore delicato. Però è tutta apparenza, perché la verità è che Keiji non è delicato, Keiji è un cuore nudo grondante sangue, una nuvola temporalesca, gonfia di tuoni ed elettricità. Keiji quando vuole sa essere affilato come una lama, perché tutte le emozioni che si è sempre tenuto dentro inevitabilmente hanno finito col fondersi alla sua carne, nidificare sulle sua ossa. L’intensità di quello che prova, perlopiù mai esternata, ha trasformato il suo corpo in un vespaio, in un labirinto in cui si alternano lucciole e trappole. Osamu deve fare attenzione, essere prudente, tenere la bussola stretta al petto, o perderà per sempre la strada.
C’è qualcosa di immenso dentro Keiji, oltrepassata la nebbia di delicatezza. Qualcosa che gli fa pensare: non lo voglio perdere, qualcosa che gli rimane appiccicato alla lingua, al palato, una specie di retrogusto, una sfumatura che cambia perennemente il colore del mondo.
E il mondo di Osamu diventa blu.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Keiji Akaashi, Osamu Miya
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Da qualche parte nel blu


Piove.
Osamu intravede la pioggia scrosciare attraverso la parete vetrata dell’ingresso, aghi che precipitano. Sente anche il suo picchiettio violento, che s’intensifica non appena l’ultimo cliente apre la porta per uscire.
Parte di Osamu odia la pioggia. L’altra parte di lui l’adora.
Osamu trattiene il fiato. Rimane solo Keiji, seduto al solito tavolo all’angolo, vicino alla solita finestra. Centellina la sua birra. Ha gli occhiali appannati, le guance leggermente arrossate, cerchi di un viola profondo incisi intorno agli occhi blu, a mo’ di cornice. Occhi blu e piovosi. Occhi bellissimi, come sempre.
Osamu inspira profondamente, e cerca il coraggio dentro di sè. Non lo trova. Perciò cerca più a fondo e trova una briciola di qualcosa che non è proprio coraggio, assomiglia più alla nostalgia, gli ricorda il mare di notte. Qualunque cosa sia, è dolorosa. Dolorosa ma viva, brilla come una stella lontana, il riflesso dell’acqua, un passerotto affamato col becco spalancato che pretende cibo, altrimenti morirà. Qualunque cosa sia, Osamu la prende e se la stringe al petto. Quindi si avvicina, e gli si piazza davanti.
“Keiji,” dice.
Ci prova a dissimulare indifferenza, ci prova a chiamarlo come chiamerebbe chiunque altro, ma non è chiunque altro, è Keiji, e il suo nome gli s’impiglia nella gola per un istante. Come se non volesse pronunciarlo, come se avesse paura di pronunciarlo. La laringe lo tradisce, un tremito impercettibile risuona cristallino nella quietezza del ristorante. Osamu non può controllarlo, controllarsi, come del resto non può controllare la pioggia. C’è e basta: un po’ Osamu la ama, un po’ Osamu la odia.
Keiji lo guarda. Non dice niente. Al suo posto parlano gli occhi spalancati che brillano dietro le lenti offuscate degli occhiali.  
Perché sei qui? vorrebbe chiedergli Osamu. E aggiungere anche: mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, ti prego torniamo insieme.
“Stiamo per chiudere,” gli dice Osamu invece, insulso e spaurito come un verme, ammiccando all’orologio squadrato appeso alla parete.
Keiji non si disturba a guardare l’orologio. Sbatte lentamente le palpebre, e altrettanto lentamente poggia il bicchiere sul tavolo.
Chiedimi se puoi restare. Chiedimi se puoi restare.
“Posso restare?” gli domanda Keiji.
Osamu lascia che quelle parole vibrino nell’aria. Lascia che vibrino insieme alla pioggia, che s’infrangano a terra, nel frattempo Osamu guarda gli occhi di Keiji che sono così stanchi e così belli e così tanto blu.

*

La loro storia inizia come ne iniziano migliaia di altre.
Osamu, semplicemente, lo trova bello. Keiji, oltre a trovarlo bello, trova che il suo cibo sia squisito, e si ferma a mangiare al suo ristorante ogni volta che viene a Osaka.
All’inizio, quando ancora non si conoscono bene, Keiji si mostra introverso e perlopiù silenzioso. Non c’è inespressività nel suo modo di comunicare, quanto piuttosto moderazione. Non trasmette una sensazione fredda o diffidente, quanto piuttosto una gentile timidezza. Il suo tono di voce è delicato, la curva delle labbra è appena accennata, ma è morbida e sincera. Si siede sempre al solito tavolo all’angolo, vicino alla solita finestra.
A Osamu piace. E gli piace osservarlo mentre mangia sotto la luce calda del suo ristorante, perché non appena addenta gli onigiri, gli occhi di Keiji cominciano a vibrare. E quell’espressione di pura estasi, così intensa e inaspettata, fa vibrare anche i suoi, di occhi, e Osamu pensa: voglio di più.
E così Osamu, una sera, porgendogli un piatto di onigiri, lo invita a cena fuori. E Keiji arrossisce lungo il collo, sorride, gli occhi che luccicano dietro gli occhiali, e risponde: “volentieri, anche se il ristorante dove mangio meglio è il tuo.”
E qui Osamu viene ferito a morte. C’è qualcosa di fatale nel modo in cui si innamora, come un pugnale mascherato da margherita che gli si conficca nel cuore. Fissa Keiji basito per un istante - perché non può essere reale, deve trattarsi di un sogno, di un’allucinazione. Poi scoppia a ridere.
“Ti posso cucinare qualcosa, se sei d’accordo.”
Keiji è d’accordo.
È una storia che comincia come tante altre, e che come tante altre ha lo stesso sapore della pioggia. Dolce, umido, alcune volte malinconico, altre catartico. Può sopraffarti, inzupparti e lasciarti al gelo come un gattino bagnato. Può essere dirompente, liberatorio e tumultuoso come un acquazzone estivo, delicato come una pioggia primaverile, una nube lattiginosa e impercettibile.
E poi, come tante altre storie, si interrompe.
Non finita. Solo, interrotta. Perché non può piovere per sempre. Perché prima o poi smette.

*

Keiji sale le scale dietro di lui. Osamu ha un po’ di batticuore. Si impone di rimanere calmo, perché è Keiji, solo Keiji, Keiji che ha salito quelle stesse scale decine di volte.
Eppure agitarsi è inevitabile, perché i fantasmi dei suoi ricordi, le vivide reminiscenze di quello che hanno avuto, vissuto e condiviso si aggrappano alle loro caviglie. L’ombra del presente si sovrappone a quella del passato, e questa sovrapposizione imperfetta gli fa tremare il cuore. Accanto a lui, a loro, in quel momento, ci sono un altro Osamu e un altro Keiji che stanno salendo quegli stessi gradini. Osamu in parte li invidia, perché non potrà mai più avere quello che hanno loro. In parte, però, li compatisce. Compatisce la loro acerbità, la loro inesperienza.
Quel tragitto, comunque, pesa. Pesa sul cuore e sull’anima e Osamu ha la sensazione di avere le gambe cementificate. Il passo di Keiji invece è leggero come quello di un gatto, e nell’aritmia dei loro passi, in quella musica tutta stonata, Osamu sente l’odore della pioggia.
Arrivano davanti alla porta. Osamu la apre e la oltrepassa. Keiji esita un istante sull’uscio, ma poi si sfila le scarpe e lo segue. Osamu chiude la porta alle loro spalle e all’improvviso si trovano in un mondo in cui c’è spazio solo per loro.
“Vuoi un tè?” gli domanda, perché è più facile comunicare, rimanendo in silenzio, con una tazza di tè in mano.
Sono le tre, forse le quattro del mattino. Ma non importa. Osamu decide che, per quella notte, il tempo non conta.
Keiji annuisce.
“Grazie,” gli dice.

*

Osamu pensa che Keiji avrebbe potuto fare l’archeologo. Keiji adora osservare il mondo e le persone. Un oggetto catalizza la sua attenzione e Keiji ci si avvicina in maniera intelligente e delicata, come quando soffi via una bolla di sapone. Ma anche fatale, ineluttabile. Keiji è una goccia di pioggia quando tutto è sereno. Il cielo è nitido, cristallino, di un azzurro tanto denso che potresti quasi mangiarlo, prenderlo a morsi, e poi di punto in bianco senti le gocce di pioggia sul viso, o le vedi infrangersi sul parabrezza della macchina.
E come una goccia di pioggia improvvisa e inaspettata, Keiji lo bacia. Nella cucina del suo ristorante.
Osamu, durante il giorno di chiusura alla clientela, decide di mostrargli la cucina.
Lo fa entrare nel suo piccolo mondo con gli occhi che brillano, scintillanti come i recipienti di alluminio. Poi sorride, orgoglioso e intenerito, e gli dice: “è una cazzo di meraviglia, vero?”
Keiji lo guarda. Poi esala una risata, e prima che Osamu possa chiedergli ‘perché stai ridendo?’, Keiji lo bacia.
E Osamu rimane con gli occhi sbarrati e le labbra di Keiji premute a stampo sulle sue, su cui si permane ancora un vago sapore di birra e di riso e di salsa di soia - riso che ha preparato lui.
Osamu gli afferra i polsi. Lo bacia più forte. E Keiji si ritrova premuto contro la fredda parete, e comincia a ridere e a rabbrividire, mentre Osamu gli affonda il viso nella curva del collo dove la pelle è così soffice e tenera e si sente il suo odore.

*

Keiji fa il suo primo sorso di tè. Il vapore fluttua intorno al suo viso e gli occhiali si appannano. Osamu lo fissa. Keiji lo fissa da sopra il bordo della tazza.
“Osamu,” gli dice, dopo un istante di esitazione. “Mi manchi tantissimo.”
Gli occhi di Keiji sono blu come la pioggia nel mare. E Osamu all’improvviso si sente trafitto da un diluvio, violente secchiate di acqua lo inzuppano, uno scroscio perenne e appuntito che non accenna a smettere, che non smetterà mai.
“Anche tu,” gli risponde. “Tantissimo.”


*

Keiji sembra disegnato a matita. Quando lo vede nudo per la prima volta, nel fuggevole istante che precede la foga e la follia del desiderio, Osamu pensa che Keiji sia disegnato con una matita blu. È sottile. Sottile e pieno di curve: l’incavo del collo, la curva delle spalle, dei fianchi, delle cosce. Sottile e ondulato come un nastro di seta, sottile e ultraterreno.
Keiji gli ricorda le onde del mare. Un’onda morbida, che accarezza pazientemente la battigia prima di trascinare via con sè i sassolini e le conchiglie. Osamu è il sassolino. Keiji è l’onda dolce ma inevitabile che lo sta ingoiando dentro di sè. Sembra come se volesse dirgli: ti ucciderò, ma ti prometto che sarà bellissimo.
E lo è. Osamu muore ogni volta. E ne morirebbe ancora e ancora e ancora.
Osamu lo tocca, col corpo e con l’anima, e conta. Conta le sue ossa, i nei dietro la schiena, il tempo che passa. Osamu tocca, si lascia toccare a sua volta, conta e mentre conta scopre qualcosa di Keiji che prima non conosceva. E quel processo di rivelazione a piccoli sorsi, che si adagia sullo scorrere dei giorni e delle notti, è meraviglioso eppure straziante, poiché Osamu non può fare a meno di chiedersi quando finirà. Di contare il tempo che resta, quante notte e quanti giorni rimangono ancora.
Il peso di quella fine ineluttabile è una nota fitta di tristezza. È un ago sottile, quasi invisibile, che galleggia in quell’oceano di felicità. Quando Osamu stringe Keiji a sè, quell’ago tanto sottile da essere quasi invisibile lo penetra. E si conficca sempre più a fondo, abbraccio dopo abbraccio.
Keiji sembra delicato. Ha le labbra delicate, l’odore delicato, la pelle delicata, un sapore delicato. Però è tutta apparenza, perché la verità è che Keiji non è delicato, Keiji è un cuore nudo grondante sangue, una nuvola temporalesca, gonfia di tuoni ed elettricità. Keiji quando vuole sa essere affilato come una lama, perché tutte le emozioni che si è sempre tenuto dentro inevitabilmente hanno finito col fondersi alla sua carne, nidificare sulle sua ossa. L’intensità di quello che prova, perlopiù mai esternata, ha trasformato il suo corpo in un vespaio, in un labirinto in cui si alternano lucciole e trappole. Osamu deve fare attenzione, essere prudente, tenere la bussola stretta al petto, o perderà per sempre la strada.
C’è qualcosa di immenso dentro Keiji, oltrepassata la nebbia di delicatezza. Qualcosa che gli fa pensare: non lo voglio perdere, qualcosa che gli rimane appiccicato alla lingua, al palato, una specie di retrogusto, una sfumatura che cambia perennemente il colore del mondo.
E il mondo di Osamu diventa blu.
E mentre Osamu lo guarda, lo sente, lo abbraccia, lo bacia, gli cucina la cena, ci ride insieme, conta, muore, pensa ‘prima o poi finirà. Prima o poi tutto questo finirà.’
Quindi bacia Keiji più forte, lo chiama per nome. Sente le sue unghie conficcarsi nella schiena, incisioni a mezzaluna. E prova a dimenticare.

*

Il tè è finito. Il picchiettio della pioggia oltrepassa la finestra, le pareti del condominio. Osamu lo sente strusciarsi contro di lui, contro di loro, come un gatto ingombrante che fa le fusa e che odora di acqua dolce e asfalto bagnato.
Keiji lo guarda. Osamu lo guarda. Si fissano senza parlare. Il che va bene, pensa Osamu. Non c’è bisogno di parlare.
Sanno tutto quello che devono dirsi: la mancanza, la rabbia, la distanza. Osamu comincia a contare. Anzi, Osamu sta contando da quando l’ha visto entrare nel locale quella sera. Anzi, Osamu di contare non ha mai smesso, ha sempre contato il tempo passato con Keiji e quello che passava senza di lui, mesi e giorni e secondi e un’eternità intera, un futuro, soffiato via come la fiammella di una candela, il tempo di un’onda che bacia la battigia, poi ruba la conchiglia e ladra ritorna al mare, abbandonandola a se stessa.
Il problema è che non importa quanto sia vero o sentito: l’amore è fragile. L’amore è così infelicemente fragile. È fatto di cristallo, si infrange anche solo guardandolo. Quello che rende l’amore forte è la tenacia di chi si impegna per riaggiustarlo. La testardaggine di chi, ogni volta, si inginocchia, raccoglie i cocci a mani nude e li rimette insieme, a prescindere dal sangue e dalle ferite che sbocciano sui polpastrelli, ancora e ancora e ancora.
Osamu ha decisamente bisogno di una sigaretta. Perciò prende il pacchetto dalla tasca e se ne ficca una in bocca.
“Ne vuoi una?” domanda a Keiji
Keiji esita un istante. “Smezziamola,” propone infine.
Si mettono vicino alla finestra. La aprono, lo scroscio d’acqua diventa più forte, riverbera dentro le costole.
Le loro spalle si toccano. Quella di Keiji è appena più bassa rispetto a quella di Osamu. Osamu si impone di non tremare, di non lasciar trasparire niente, ma la fiamma dell’accendino tremola quando si accende la sigaretta.
Chiude gli occhi. Inspira come se insieme al catrame e alla nicotina potesse inspirare la pioggia e Keiji accanto a lui. Fa un paio di tiri, poi gli passa la sigaretta. Keiji mormora un grazie, si porta la sigaretta alle labbra. Regge la sigaretta in maniera elegante. Osamu la schiaccia fra l’indice e il pollice, Keiji invece la tiene fra indice e medio come se fosse una piuma. Gonfia le guance quando soffia via il fumo in una nuvoletta, che viene bucata dalle gocce di pioggia.
Osamu lo fissa. Keiji si volta verso di lui.
“Perché mi guardi così?”
“E come altro ti dovrei guardare?” sbuffa Osamu, scuotendo la testa. “Sei bellissimo. Ripassami la sigaretta.”
Keiji sorride.

*

“Ti sei mai pentito?” gli domanda Keiji, una notte.
Sono nell’appartamento di Osamu, al buio. È notte fonda. Entrambi dovrebbero dormire già da un pezzo, ma quella è una di quelle notti in cui nessuno dei due riesce ad addormentarsi. Osamu sa che Keiji è sveglio, e viceversa. Oramai conoscono il modo in cui dorme l’altro, e quell’intimità è un privilegio, qualcosa di cui Osamu è tremendamente orgoglioso.
Quando non riescono a dormire, di solito non parlano. Si abbracciano, si stringono le mani, trovano conforto nella sensazione della pelle contro la pelle. Osamu sa perfettamente che nessuna persona può possederne un’altra, che nessuno appartiene a nessuno, però gli piace sentirsi di Keiji, almeno un po’. E gli piace che Keiji si senta suo, almeno un po’.  
“Pentito di cosa?”
“Di aver aperto un ristorante. Di aver scelto la cucina.”
Osamu gli stringe la mano. Keiji gli affonda il viso nell’incavo del collo. Osamu sente il suo respiro dietro l’orecchio.
Ci sono momenti, momenti che delle volte durano mesi, in cui Osamu pensa al ristorante e diventa malinconico. Non si tratta di un pentimento vero e proprio, quanto piuttosto di un interrogarsi, un assaporare possibilità diverse: se fosse rimasto a giocare a pallavolo con Atsumu, se invece di frequentare corsi di cucina avesse frequentato quelli di chitarra, se, se, e ancora se.
La verità brutale è che essere chef e avere un locale è estenuante, sia come passione che come professione. Il ristorante è qualcosa che pretende la tua anima, e la pretende tutta. È un patto con il diavolo: guadagni il diritto di afferrare la tua ambizione, il tuo sogno, stringertelo al petto come un cucciolo di gatto, in cambio però sacrifichi tutto te stesso: il tuo corpo, il tuo tempo, il tuo sonno. Sarai risucchiato via con la stessa veemenza con cui Kageyama risucchia il latte dai brick in cartone quando perde una partita, e se vorrai fare spazio per qualunque altra cosa che non graviti intorno al ristorante - come Atsumu, come Keiji - allora dovrai essere pronto a sacrificare molto, molto di più, anche se non ti rimane più niente, scavare per terra e maciullarti le dita, e poi le mani, e poi i polsi, e poi le braccia.
E ci sono momenti, momenti di sconforto prosciugante, in cui il locale è vuoto. E tu ti sei fatto il culo, sei andato a dormire alle cinque la notte prima e alle sei eri già in piedi perché il pesce va comprato fresco, perché devi cambiare il menù in vista della nuova stagione, provare nuove ricette, pagare le bollette del gas, parlare con il rappresentate vinicolo che sarà da te alle dieci e mezza del mattino, cambiare il contratto di internet, pulire e organizzarti per l’apertura a cena. E dopo quella giornata apparentemente infinita, in cui ogni passo è stato faticoso come se stessi camminando immerso nella sabbia fino alle ginocchia, nessuno si presenta a cena per mangiare. Tutto quel dolore, e in cambio hai ottenuto solo una sala vuota e silenziosa. E lì, in quel silenzio tanto greve e opprimente, in quel tipo di silenzio che Osamu odia, con le gambe che tremano per lo sconforto e per il bisogno di riposare, può solo pensare: vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo, che cazzo di schifo, adesso mollo tutto.
E la voglia di slacciarsi il grembiule è irrefrenabile. E sulla lingua assapora l’idea di uscire dalla porta e di non riaprirla mai più: niente più riso, niente più onigiri, niente più odore di pesce. Osamu vuole andare in vacanza sulle spiagge di Nizza a sorseggiare Mojito e succo di cocco, per almeno un anno. E soprattutto vuole dormire, cazzo.
Quei momenti sono i più difficili. Sono i momenti in cui Osamu arriva a odiare qualcosa che ama con tutto se stesso.
La doppia fregatura è quei momenti non durano mai abbastanza per spingerlo davvero a mollare. L’odio non è abbastanza forte, abbastanza persuasivo: riesce solo a destabilizzarlo approfittandosi del suo sconforto, ma Osamu ama troppo quello che fa. Ama visceralmente cucinare, lo ama con ogni singola briciola del proprio essere. E quando una parte di lui vorrebbe solo scoppiare a piangere, mettere tutto in vendita e dimenticare, un’altra parte di lui - quella più stupida e testarda, quella che a Osamu ricorda fastidiosamente suo fratello, e forse è proprio per questo che è la parte di se stesso che preferisce - gli dice: domani. Domani andrà meglio. Ti sveglierai alle sei e continuerai a cucinare perché non si molla un cazzo e perché qualche cliente arriverà. E finché ci sarà anche solo una persona che apprezzerà quello che hai cucinato, allora ne sarà valsa la pena. Finché ci sarà anche solo un granello di soddisfazione in questa gigantesca montagna di merda, allora ne sarà valsa la pena. Perché quel singolo, infinitesimale briciolo di appagamento brilla come mille diamanti, come mille soli, e ripaga il sangue, il sudore, lo sfiancamento, la depressione e le lacrime.
“No,” risponde quindi Osamu. “Cioè, delle volte vorrei bruciare il ristorante e buttarmici dentro. Ma non mi sono mai pentito. Non so perché e non so come sia possibile, visto che sono praticamente un cazzo di cadavere ambulante, ma amo troppo quello che faccio. E ne ho bisogno.”
Keiji gli posa un bacio sotto l’orecchio. Osamu sorride.
“Bene,” gli dice. “Sono felice per te. Ma per favore, non lo fare. Non dare fuoco al ristorante e non buttartici dentro.”
Osamu ride. “Ti mancherei?”
“Più di quanto immagini. E mi mancherebbero i tuoi onigiri.”
“Ti mancherebbero solo i miei onigiri, Keiji. Non credere che non sappia perché stiamo insieme.”
Ora è Keiji a ridere. “Non sto con te solo perché cucini bene. Ci sono tante altre cose che mi piacciono di te.”
“Tipo?”
Keiji ci pensa per qualche istante, poi risponde: “per esempio, mi piace come mi scopi.”
Osamu sgrana gli occhi. L’istante dopo gli è sopra, i denti affondati nella pelle morbida della sua spalla, le cosce strette attorno al suo bacino. Poi gli bacia il collo, le mani che si intrufolano sotto il pigiama, Keiji che mugola.
Osamu conta. E mentre conta, pensa: voglio questo per sempre.

*

Stanno giocando a Mario Kart a casa di Keiji.
Nello specifico, stanno facendo la Pista Arcobaleno. Osamu si morde la lingua: è primo, mentre Keiji è terzo. Sono all’ultimo giro. Poco prima di tagliare il traguardo, però, Osamu imbocca una curva a velocità troppo elevata e precipita nel vuoto. Keiji taglia il traguardo e arriva primo, Osamu quinto.
“SÌ!” esclama Keiji, al settimo cielo. “SÌ!”
Poi balza in piedi e comincia a ballare, evitando le pile di fogli che tappezzano il pavimento. Osamu sbuffa. Sta per dirgli: ‘non ti montare la testa, hai avuto solo fortuna, difatti è l’unica partita che sei riuscito a vincere da quando abbiamo iniziato a giocare.’
E invece gli dice: “Keiji, ti amo.”
Keiji smette di ballare. Si volta a guardarlo con gli occhi sgranati. Osamu scuote le spalle, allibito tanto quanto lui.
“Non devi dirmelo anche tu,” aggiunge in fretta, il collo sudato all’improvviso. “È solo che lo penso davvero. Perciò volevo dirtelo.”
C’è una piccola parte di lui, ingenua come una bambina, la stessa parte stronza che gli ricorda suo fratello e che gli impedisce di chiudere il locale quando è l’unica cosa che Osamu vorrebbe fare, che però ci spera. Spera stupidamente che Keiji risponda: ti amo anche io.
Keiji però non lo fa. E va bene così, pensa Osamu. Va bene così. Ha solo bisogno di più tempo. Va bene, va bene, va bene così.
(No, non va bene. Fa male.)

*

Scegliendo la cucina, Osamu ha stretto il suo primo patto con il diavolo: dammi il mio sogno, e in cambio ti darò tutto me stesso.
Scegliendo Keiji, Osamu ne stringe un altro: dammi il mio sogno, e in cambio ti darò tutto me stesso alla seconda. Doppia dose di lacrime, doppia dose di sangue, sotto il peso di una doppia valanga di merda. Perché Osamu è disposto a qualunque cosa pur di vedere il suo ragazzo blu. È disposto a dormire ancora di meno, o meglio, a non dormire proprio, a prendere treni di notte per andare a trovarlo e ripartire la mattina presto, prima ancora che sorga il sole. Ma ne vale la pena. Ne vale la pena.
Ma forse per Keiji non è così. Forse per Keiji non ne vale la pena, forse perché Osamu non è un granello abbastanza brillante, forse perché i suoi occhi non sono dello stesso colore del mare.
Osamu comincia a gravitare intorno a Keiji, che però non gravita intorno a lui. E a questo ciclo gravitazionale non ricambiato consegue un vortice di solitudine, di frustrazione ingoiata, scolata come una bottiglia di sakè nelle notti più buie e tristi, sorsi profondi e appuntiti come spilli, con la gola che brucia come se volesse effettivamente bruciare, come se volesse inghiottire l’acqua salata dell’oceano - blu, come i suoi occhi, come se volesse mettersi con la bocca spalancata sotto lo scroscio violento della pioggia - blu, come i suoi occhi, e lasciarsi bucare la lingua, lasciarsi trafiggere dalle gocce-proiettili di acqua dolciastra.
Osamu inghiotte e inghiotte e inghiotte, beve la malinconia e la paura perché non può fare altro, mandare giù in silenzio la mortificazione, perché appesantire se stesso è l’unico modo che conosce per alleggerire ciò che gli sta intorno.
Non vuole dirglielo. Non vuole dirgli: ‘Keiji, io non sono felice. Perché sono sempre io quello che deve fare tutto? Perché sembra che sia l’unico a cui freghi qualcosa di questa storia? Perché io sputo sangue e non dormo la notte pur di trovare una cazzo di ora per vederti, e tu non trovi neanche il tempo di rispondermi al telefono quando ti chiamo? Keiji, non sono felice. È palese che io non sia felice. Perché non te ne accorgi? E perché te ne accorgi e poi non dici nulla?’
Perciò rimane zitto e ingoia.
E poi la tristezza precipita su di loro anche quando sono insieme, improvvisa e affilata.
E Osamu conta. È un conto alla rovescia perenne, tormentato, febbrile, le briciole di tempo svaniscono troppo in fretta, Osamu le fissa con una clessidra cucita su ogni pupilla.
E pranzare o cenare insieme, condividere il letto, abbracciarlo, stringergli le mani, baciargli la fronte e i capelli e sentire le ciglia sfarfallare contro la sua guancia non bastano più per trovare conforto, ma sono istanti che si trascinano dietro una marea di disperazione, un senso di vuoto annichilente, sconfitta.
Osamu annega.

*

“Keiji,” gli dice Osamu un giorno al telefono. Il cielo è nitido, sereno. Osamu lo guarda ma non trova il blu dei suoi occhi, solo un azzurro troppo acceso, fastidioso. “Sono stanco. Non ce la faccio più.”
Sono così stanco di fare tutto. Di portare sulle spalle il mio ristorante, la nostra relazione, me stesso. Non dormo da mesi. Sta diventando tutto troppo sfiancante, e non ne vale la pena, non ne vale la pena se non ti vedo preso come lo sono io, se non ci incontriamo a metà strada, se io continuo a rischiare di svenire per trovare briciole di tempo per vederti, per cercare di fare dei passi avanti, verso di te, mentre tu trovi solo il tempo per fare passi indietro, per mettere ancora più distanza in una situazione che è praticamente fatta solo di distanza, e sono così stanco di sentirti lontano anche quando siamo insieme. È come se tu con me non ci fossi mai per davvero, io guardo te e tu guardi dall’altra parte senza neanche vedermi, ed è tutto così freddo, gelido, a tratti spietato. Non ti piaccio più? Dimmelo. Mi sta bene. Lo capisco, io ti amo e tu no, può succedere, mi deprimerò e Tsumu verrà a buttarmi tutti i pacchetti di sigarette e proverà a farmi ridere con le sue barzellette di merda e poi mi prenderà a schiaffi ed, eventualmente, andrò avanti, perché mi piace andare avanti e mi è piaciuto - ho amato - quello che abbiamo avuto e non ho intenzione di rimpiangere nulla. Ma sto rimpiangendo tutto quello che sto sacrificando per te ultimamente. Sono stanco. Non ne vale la pena. Non più.
“Osamu,” gli dice Keiji. È un sussurro sottile come la carta velina, eppure gli spacca le costole e gli trafigge il cuore. “Osamu, per favore.”
Per un istante, Osamu pensa che forse Keiji lo ama.
È solo un istante, però. Un’unica goccia di pioggia solitaria che precipita sull’asfalto in un caldo pomeriggio estivo.
Osamu è stanco. Vuole solo infilarsi nel letto e dormire.
E, per una volta, lo fa.

*

La depressione gli rovina addosso una settimana dopo quella telefonata. E con la depressione arriva anche suo fratello che gli butta i pacchetti di sigarette e che prova a staccarlo dalla bottiglia quando il locale è chiuso, o che beve con lui quando non riesce a farlo. Parte di Osamu pensa che sia tutto così stupido. I problemi sono altri. I problemi sono altri e sono tantissimi. Crescere significa anche quello, avere sempre più problemi da affrontare e nessuno che li risolva al tuo posto. Crescere significa avere sempre meno tempo, perdere il privilegio di poter dire domani. Non puoi dire domani. Non ce l’hai più, un domani, perciò o lo fai in questo istante oppure rinunci a quella cosa per sempre, perché le occasioni non sono infinite come credevi da bambino, le occasioni non si ripresentano e non tutto ciò che si rompe si può aggiustare. Crescere significa accorgersi di essere rimasto impigliato nei ritmi febbrili imposti da qualcun altro, perciò o rimani al passo con l’ansia che ti scuote come vetro al vento, oppure ti lasci calpestare, sconfitto e inerte e miserabile.
Osamu però non credeva che crescendo, il cuore si potesse comunque spezzare. Le tragedie sono altre. I lutti, le malattie, i soldi che non bastano mai, la paura costante.
E invece Osamu sta malissimo semplicemente perché non si è sentito dire ‘ti amo anche io’. Si sente spiaccicato da qualcosa di immenso, pesante come il cielo. Ed è sconcertante la potenza dell’amore, una miccia perennemente in fiamme che catalizza su di sè l’attenzione nonostante la vita sia la culla di sofferenze ben più atroci. È così stupido e irrazionale. Perciò, un po’, è anche bellissimo.
Bellissimo come Keiji, quando entra nel suo ristorante dopo mesi. E Osamu dentro trema, e fuori piove fortissimo, e fissa quella sagoma sottile e curvilinea, disegnata a matita, matita color blu, che sorride impacciata non appena incrocia il suo sguardo.
Poi Keiji si siede al solito tavolo all’angolo, vicino alla solita finestra, e aspetta.

*

Osamu spegne la sigaretta nel posacenere, poi chiude la finestra. Il bagliore di un lampo accende le pareti della stanza.
Guarda Keiji, in piedi accanto a lui. Keiji lo fissa di rimando, poi esita un istante prima di prendergli la mano. Osamu chiude gli occhi, le spalle attraversate da uno spasmo.
Le sue dita. La forma delle sue dita e della sua mano stretta dentro la sua. Tutto torna al posto giusto, è una magia, sono la gioia e il sollievo nella loro essenza più pura e disperata.
Keiji gli stringe la mano più forte. Osamu ricambia la stretta e dopo un istante si stanno abbracciando come se il pavimento sotto di loro si stesse sbriciolando.
“Mi ami ancora?” gli chiede Keiji, il viso premuto contro l’incavo del suo collo.
Osamu sente il suo respiro, l’umidità delle sue labbra, la montatura storta degli occhiali schiacciata sotto la mascella.
Certo che ti amo ancora, gli dirà Osamu. E poi si scuserà. Si scuserà per tutto il peso che gli ha piantato addosso. Si scuserà per il suo egoismo, per non avergliene mai parlato. E gli dirà: per favore, per favore, non piangere, e Keiji gli dirà: mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, è solo che avevo bisogno di più tempo, è solo che io mi perdo sempre, anche nelle cose belle.
È solo che a Keiji sembra di morire ogni giorno, tranciato via dall’ansia, dalle secchiate di impegni e scadenze imminenti. La verità è che Keiji ha sempre dovuto contare molto più di lui. La verità è che è stato Keiji quello ad annegare nel suo stesso blu. Osamu, invece di aiutarlo a galleggiare, gli ha soltanto sbattuto in faccia l’ennesima data entro cui terminare qualcosa, l’ennesimo compito da svolgere prima che il tempo gli portasse via anche l’amore.
Ma possono rimediare. È quello che faranno. Capiranno come nuotare insieme e come fermare il tempo mentre si tengono per mano sotto la pioggia, nel loro meraviglioso mondo blu.


Note
CIAAAAO! OSAAKA!!!!! LI AMO!!!!!! *ruggisce scatena lancia i piatti per aria ringhia abbaia sale sul cucuzzolo della montagna e urla OSAAAKAAAA*
Vabbè. Grazie per aver letto. Vorrei rimanere qui più a lungo perché adoro dire cazzate abusando di questo spazio ma.... hahaha.... esame.... tre giorni di tempo... e io qui a scrivere fic..... HAHHA:......,,,, di bocciare me lo merito.
INSOMMA. Grazie davvero di cuore per aver letto! I LOVE THEM SO MUCH spero di tornare con un papiro su di loro bello drammatico MORTE MORTE DATEMI LA MORTE MUAHAHAH (no ok devo /davvero/ andare via cioè lo stress proprio è palese.)
Spero che stiate tutt* bene!!!!
See ya! ♥
   
 
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