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Autore: Nina Ninetta    14/07/2022    6 recensioni
Un tempo, nel castello sito sulla collina del piccolo paesino di Old Castle, vivevano una colonia di fate. A causa di una maledizione furono costrette a mischiarsi alla gente comune, dimentiche dei loro poteri. Una di loro, però, continuò a covare per anni un odio profondo nei confronti della sorella, decisa a riprendersi il dono che le fu tolto per l'altrui felicità.
Toccherà a due ragazzini di tredici anni, Robert e Penny, scongiurare che una catastrofe di abbatti sulla loro cittadina.
Terza classificata al contest "Questione di omonimia" indetto da Earth e Goldenfish sul forum di EFP.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ƥenelope
 


Ƥrologo
 
Old Castle – 1940
Negli anni ’40 la guerra stava ormai dilagando in tutta Europa, ma non in America. Qui la vita sembrava scorrere senza problemi, le persone si godevano il sole, il mare e i loro nuovi elettrodomestici. La guerra, quindi, non pareva affatto turbare la vita degli americani, soprattutto per i cittadini di Old Castle, un piccolo paesino di poche anime nel sud del Paese.
Qui, Ivan - il figlio del droghiere – trascorreva le giornate in soffitta, dove il suo papà teneva scorte di ogni genere. Era così brutto, Ivan, e antipatico, che nessun altro bambino voleva essere suo amico e a essere sinceri a lui andava bene così. Gli piaceva stare lontano da coloro che lo guardavano con disprezzo e lo giudicavano a causa del suo aspetto.
D’altronde, Ivan non si riteneva poi così solo, dal momento che in soffitta vi abitava la sua migliore amica: una tarantola, alla quale si rivolgeva con l'appellativo di Megera.
Ah, quanti pomeriggi trascorsi a conversare con Megera! A ridere dei bifolchi là fuori e a programmare la conquista del Mondo!
Nessuno era a conoscenza dell'esistenza della sua amichetta, se i genitori avessero saputo che dialogava con un animale (e che animale!) lo avrebbero rinchiuso in manicomio – poco ma sicuro – e ammazzato il ragno.
Poi un giorno Megera parlò davvero! Gli confessò un segreto. Gli disse che da qualche parte si trovava una spada magica, una spada capace di esaudire un desiderio, impregnata di un potere speciale che lo avrebbe reso felice. Ma, aveva continuato l’aracnide con i suoi occhietti indagatori, era ancora lontano il giorno in cui si sarebbe potuto impossessare di quell'oggetto magico.
«E quando?» Aveva chiesto impaziente Ivan.
«Quando nascerà la Grazia» aveva risposto Megera.
 
 
 
Old Castle - 1980
Robert si tirò su il cappuccio della felpa, nascondendovi i suoi indomiti riccioli scuri, e uscì in strada. Il suo vecchio era nell'officina, tentò di salutarlo, ma un po' a causa del baccano, un po' perché oramai era mezzo sordo, non si voltò a ricambiare il buongiorno. Robert fece spallucce e proseguì.
Le mattine erano tutte uguali, per questo le detestava. Odiava la routine (per meglio dire odiava la sua di routine) che si ripresentava puntuale al trillo della sveglia ogni stramaledetta giornata! Già sapeva cosa gli aspettava con precisione: colazione con latte e biscotti secchi (o in alternativa pane raffermo); saluto al papà meccanico che tanto neanche lo sentiva; fermata alla drogheria per comprare la merenda delle 10.30 con i pochi spiccioli raccattati per casa; arrivo in classe in ritardo; ramanzina della professoressa.
Robert era sempre, perennemente in ritardo e i motivi erano diversi. Tre, per la precisione: innanzitutto, tendeva a perdersi nei suoi pensieri, a immaginare di diventare un eroe, qualcuno che salva il mondo. A sperare in una svolta nella sua patetica esistenza, insomma. In secondo luogo, nei pressi dell’istituto, tendeva a restare nascosto fin quando i bulli che lo avevano preso di mira non erano costretti a entrare al suono della campanella, così lui poteva evitare di prendersi gli schiaffi mattutini. Ci sarebbe stata tutta la giornata per quelli. Infine, ma non meno importante, mentre cercava di nascondersi dai cattivi, si godeva la visione celestiale (come la definiva lui), ossia l’arrivo in autobus di Penelope, la sua amata.
Giornate identiche l’una all’altra, appunto!
 
Il campanellino dietro la porta tintinnò e l'uomo al bancone si voltò sorridendogli, peccato che a Robert venissero i brividi ogni volta fissando i pochi denti in bocca all'uomo, perlopiù scuriti dal fumo.
«Ciao Robby, il solito?»
«Buongiorno signor Ivan! Sì, il solito. Grazie» per solito si intendeva un panino. Vuoto.
Il salumiere cominciò con la sua sfilza di domande retoriche e frasi fatte: papà come sta? Tu come stai? É difficile senza la mamma? Senti la sua mancanza? Fatti forza, non ci pensare. A Robert quell’uomo non piaceva. Aveva qualcosa nei suoi modi di fare che non sapeva spiegarsi, era come… viscido. E sua moglie poi gli garbava ancor meno. Si chiamava Evita e una volta suo padre gli aveva detto che Evita significa vipera, ecco perché quando la vedeva provava un senso di disagio, senza sapere bene cosa fare o come muoversi. Era un po' come trovarsi di fronte a una vipera velenosa. In effetti, Evita anche esteticamente ricordava un serpente: aveva la pelle olivastra e il viso così scarno che gli occhi giallastri sembravano fuoriuscire dalle orbite. Ivan, il salumiere che aveva ereditato il negozio da suo padre, richiamò l’attenzione di Robert, il quale pagò e corse via.
Finalmente in strada, il ragazzo nascose di nuovo il viso sotto al cappuccio e si incamminò, con occhio vigile e il nome della sua amata – Penelope – che gli rimbombava in testa. Penelope si era trasferita a Old Castle qualche mese prima e dal momento in cui l’insegnante l’aveva presentata alla classe per Robert non c’era stata via di scampo, era stato amore a prima vista. Ogni giorno si riprometteva di invitarla a uscire con lui, magari a mangiare un gelato, un trancio di pizza, o al bowling. Con il passare del tempo, però, aveva scoperto di non possedere il coraggio necessario, di essere un codardo.
Penelope quella mattina era già in classe, seduta al suo posto, con lo sguardo immerso in un libro. Penny era sempre immersa in un libro. Un punto a sfavore di Robby, che al contrario odiava leggere, ma era un portento nella matematica. Lei non si voltò neanche a salutarlo, tanto era presa da quel romanzo scritto da un certo Michael Ende. Robert si accomodò al suo banco, proprio alle spalle di Penelope che finalmente si accorse di lui, perciò si voltò e gli sorrise, meravigliosa come la luna. Anzi no, raggiante come il sole, pensò il ragazzo. Lei chiuse il libro e gli mostrò la copertina, il titolo riportato era La storia infinita:
«Quanto mi piacerebbe vivere un'avventura come Atréju.»
«C-chi?» Balbettò Robert.
«Atrèju, il protagonista del libro» Penny scosse la testa, rassegnata. «Lascia perdere» e tornò nel fantastico mondo governato dall'Imperatrice Bambina.
Robert trascorreva gran parte delle ore scolastiche a fissare i lunghi e fulvi capelli di Penny, talvolta così splendenti che era costretto a distogliere lo sguardo, in particolare quando vi battevano sopra i raggi del sole sembravano incendiarsi. All'uscita di scuola Robert avrebbe voluto fermarsi a scambiare due parole con lei, magari con una scusa banale sui compiti o sulla spiegazione di storia, tuttavia Penny si dileguava talmente in fretta che sembrava sparire nel nulla: un attimo primo era lì, quello dopo non c’era più. Nessuno conosceva la sua famiglia, nessuno conosceva la sua casa o il suo numero di telefono. La sua vita privata restava un mistero perfino per gli insegnanti, eppure era così brava a scuola che non avevano mai avuto il bisogno di telefonare a sua madre, la quale si recava agli incontri con i docenti due volte l'anno solo per mera formalità. Coloro che l'avevano conosciuta la descrivevano come la fotocopia della figlia, solo più alta e il viso da adulta. Robert la immaginava bellissima, con un lungo vestito di chiffon azzurro e una corona di fiori tra i capelli, quasi alla stregua di una dea.
 
Se la mattina per Robert trascorreva senza discostarsi troppo dalla noiosa routine, il pomeriggio e la sera non facevano alcuna differenza. Cenava con suo padre e le continue lagne sui clienti che spesso non lo pagavano e lui non sapeva come tirare avanti, perché “crescere un figlio oggi non è come ai miei tempi” e bla bla bla... Quindi gli chiedeva di dargli una mano in officina e puntualmente Robert non riusciva a dirgli di no, perciò si ritrovava alla sera ancora con i compiti da fare.
Ogni notte, prima di andare a dormire, il ragazzo si sedeva al centro del materasso con le gambe incrociate e afferrava da sotto al letto il suo arco, avvolto in un vecchio lenzuolo scolorito. Lo accarezzava e lo rimirava per diversi minuti, chiedendosi a cosa potesse mai servirgli un arco, eppure ricordava ancora la felicità che aveva provato quando a otto anni lo aveva finito con l'aiuto di suo padre e la benedizione della madre. La mamma odiava le armi, ma gli archi no. Diceva che erano le armi preferite degli elfi, esseri nobili che vegliano sull'equilibrio dell'universo. Quando era più piccolo, Robby sognava di combattere al fianco degli elfi, di proteggere il mondo dal male, poi sua madre era morta e gli elfi non avevano fatto nulla per evitarlo, perciò aveva tolto di mezzo l'arco e aveva smesso di incollare immagini di elfi ovunque. Ciò nonostante non aveva perso la speranza che un giorno la sua vita cambiasse, come nei film o nei libri che leggeva la sua dolce Penelope.
 
La mattina seguente la sveglia suonò alla solita ora, Robert si svegliò già stanco, annoiato come non mai, e inconsapevole che qualcosa stava per mutare. Alla drogheria di Ivan qualcosa attirò la propria attenzione: si trattava di un manifesto alquanto originale, dove in caratteri cubitali si sponsorizzava una spada in grado di avverare un desiderio.
«Ti interessa, ragazzino?» Gli chiese Evita, la moglie del salumiere, accorgendosi che Robert era rimasto imbambolato a fissare il bando affisso alla parete.
«Come si fa a vincere q-questa spada?»
«É facilissimo!» Intervenne Ivan, porgendogli il suo solito panino vuoto «Devi vincere la gara trovando la spada, è una specie di caccia al tesoro.»
Robert prese distrattamente il panino che l'uomo gli stava porgendo e notando lo sguardo interrogativo del tredicenne la moglie Evita si affrettò a specificare che, ovviamente, si trattava di una spada speciale che solo i ragazzini erano in grado di vedere.
«Pensaci» continuò Ivan, battendogli una pacca sulla spalla. «Potresti essere tu il vincitore e risollevare così le sorti del tuo vecchio.»
La mente di Robby iniziò a lavorare a cento chilometri orari. Certo, quella spada magica gli avrebbe fatto davvero comodo, magari gli avrebbe cambiato la vita.
Che fosse il mutamento che tanto aveva desiderato?
Doveva provarci. Si trascrisse ora e luogo dell'incontro per la partenza, Evita gli porse una mappa spiegandogli che si trattava del percorso da seguire per giungere a destinazione. Robert scappò via, il panino per quel giorno gli era stato gentilmente offerto dalla casa. Lungo il tratto di strada che lo separava dalla scuola studiò a fondo la mappa e si sentì sollevato: niente paesi sconosciuti o luoghi disabitati, il traguardo era sito al vecchio castello della sua cittadina, quello in cima alla piccola altura.
Sua madre una volta gli aveva raccontato che il castello era stato la dimora di una colonia di fate cadute in disgrazia quando il loro re si innamorò di una terrestre e la sposò, conferendole il potere magico che spetta solo ai nati di sangue puro. Una serie di disgrazie cominciarono ad abbattersi sulle fate: morti inspiegabili, raccolti imputriditi, attacchi nemici. La colpa fu data alla regina che venne bandita dal regno, mandata in esilio a morire chissà dove.
«Ma, devi sapere Robby, che senza la regina il re è vulnerabile, troppo depresso per combattere, come nel gioco degli scacchi, così si arrese agli invasori e il suo popolo si disperse nel mondo mortale.»
«E adesso vivono tra noi?» Aveva chiesto Robert completamente rapito da quella storia.
«Sì, vivono tra noi…» aveva concluso sua madre, lasciandogli un bacio sulla fronte.
Sommerso dai suoi pensieri, quasi non si rese conto di aver preso posto al suo banco, suscitando la curiosità di Penelope che lo tenne d'occhio per tutta la lezione, fin quando Robert non lasciò la classe per dirigersi in bagno. Scaltra come una volpe la ragazzina sbirciò la mappa che lui aveva nascosto fra le pagine del libro di scienze e subito gli occhi le brillarono: una caccia al tesoro con il calar del sole e la luna piena a fare da sfondo profumava di avventura. Senza pensarci due volte trasferì la mappa dal libro del compagno a quello proprio.
 
Quella sera, dopo cena, Robert si chiuse nella propria camera, mentendo al padre di non sentirsi troppo bene. Mancavano solo venticinque minuti all’inizio della gara, perciò cercò la mappa ma non la trovò. Rovesciò l'intero contenuto dello zaino sul pavimento, eppure del foglio nemmeno l'ombra. Adesso mancavano solo quindici minuti, doveva sbrigarsi o rischiava di non arrivare in tempo. D'istinto afferrò l'arco e lo infilò nello zaino, dove teneva una bottiglietta d'acqua e metà del panino offertogli da Ivan quella mattina. Sgattaiolò fuori di casa e si meravigliò di vedere altri ragazzi come lui dirigersi al punto d'incontro. Un po' si demoralizzò, con tutti quei partecipanti figuriamoci se fosse riuscito a vincere. Non fece caso a Penny che se ne stava silenziosa qualche fila indietro, con i capelli intrecciati e un sorrisino sulle labbra.
Ivan salì su una panchina per potere essere visto e ascoltato da tutti, sua moglie gli era di fianco. Qualche sera prima, la sua amica di sempre, la tarantola Megera, gli aveva detto che finalmente era giunta l'ora desiderata, che il potere tanto ambito poteva finalmente essere preso. Ma non era facile, lui era ormai troppo vecchio per impossessarsi della spada, serviva un tramite, una persona giovane e leale, una persona che aveva un animo nobile e un desiderio altruista o l'oggetto magico non si sarebbe rivelato. Con Evita avevano elaborato un piano per raggiungere il loro scopo e ora eccolo lì, circondato da adolescenti smaniosi di partire per un'avventura senza precedenti. Un'avventura tutt'altro che facile.
«Io vi attenderò al traguardo, per festeggiare insieme la vittoria di uno di voi» concluse Ivan, specificando che non c'erano regole precise da seguire, ma un unico e solo obiettivo: la Spada d'Oro. Per la prima volta l'uomo la chiamò con il suo vero nome, suggeritogli dal ragno appollaiato sulla sua spalla destra, attento a non farsi scorgere dai partecipanti. Evita alzò un braccio, contando all’indietro:
«Tre. Due. Uno. Via!».
 
Inizialmente ci fu una calca di gente, ragazzini che urlavano spintonandosi a vicenda. Robert saltò da una panchina all'altra, evitando la ressa e riuscendo da subito ad allontanarsi, si voltò indietro a guardarli, molti di loro non sarebbero riusciti neanche a lasciare la piazza. Troppo preso a contare quante persone aveva alle spalle, non vide il luccichio dei capelli di Penelope, che era riuscita ancor prima di lui a correre via.
Senza mappa non sapeva di preciso dove andare, ma la prima tappa la ricordava: la piazza antistante la scuola, quella con la statua di un militare a cavallo, in onore dei caduti di guerra. Il salumiere aveva specificato pocanzi che avrebbero trovato degli ostacoli lungo il percorso, peccato si fosse dimenticato un particolare: si trattava di vera e propria magia. Robert non poteva credere ai suoi occhi quando vide la statua di bronzo andarsene a zonzo, menando fondenti a destra e a manca con la spada che stringeva in una mano. Parecchi ragazzini fuggirono impauriti, altri tentarono di continuare la gara a discapito dei compagni, tra questi vi era Penelope che furtiva si era allontanata senza che il militare la notasse. Robert però non fu così fortunato, si ritrovò a dover schivare i colpi della statua e stremato inciampò nei suoi stessi piedi. Temette che tutto fosse finito, poi un gufo volò sopra la testa del soldato, distraendolo e permettendo al tredicenne di svignarsela.  
Robert seguì i pochi ragazzi che erano riusciti a superare la prova della statua, ma la prossima si rivelò da subito più complessa. Davanti al GrandMarket un cannone – un vero cannone – della Prima Guerra Mondiale aveva occupato quasi mezza corsia, facendo retrocedere anche l’avventuriero più spavaldo.
Il ragazzo si arrestò di colpo, cercando di studiare un modo per evitare anche quel problema, quando il gufo che pocanzi aveva distratto la statua planò sull'albero lì vicino, parlandogli. Robert quasi svenne.
«Non essere stupido» aveva una voce profonda. «Come pensi di battere quel coso lì?» Robert scosse la testa, aveva la gola secca. «Immaginavo» proseguì l'animale, volando via. Lui lo osservò, sbattendo le palpebre e convincendosi che si trattava di un sogno. Fece per proseguire, da lontano poteva vedere gli altri scontrarsi con il cannone che sparava nell'aria una nube bianca, causando sonno nei concorrenti che crollavano al suolo addormentati. Quando si decise ad affrontare il cannone, udì la voce di una vecchietta provenire dal vicoletto accanto. Le si accostò:
«Nonnina non stia qui, è pericoloso.»
«Forse lo è per te, giovanotto!» rispose indignata l’anziana. «Prendi queste frecce, sono speciali» aggiunse, porgendogli cinque frecce dalla punta dorata. «Buona fortuna, giovanotto!» Concluse, prima di sparire nel buio così velocemente che Robert non ebbe neanche il tempo di riprendersi dallo shock. Afferrò il suo arco e puntò una di quelle frecce contro il cannone.
Combattere un cannone con una freccia è come volersi salvare da uno tsunami con un salvagente, pensò, ma scoccò comunque la freccia che si conficcò direttamente nella bocca del cannone. Attese qualche secondo, poi il cannone sparò di nuovo e questa volta al posto della polverina bianca ne uscirono petali di fiori. Robert guardò il suo arco e urlò di gioia: adesso nessuno avrebbe potuto fermarlo.
 
Megera, tuttavia, era lì che tramava nell'ombra. Quel potere magico lei lo conosceva bene, così come avrebbe riconosciuto l'odore del gufo e della vecchia ovunque: poteva assumere la forma che desiderava, eppure l'odore di sua sorella era inconfondibile, poiché era l'odore dell'amore.
 
Grazie a quelle frecce Robby non ebbe più nessun tipo di problema. Inoltre, gli ostacoli peggiori sembravano essere stati i primi due, forse per sfoltire la folla di concorrenti, si disse quando si rese conto di essere rimasti davvero in pochi a gareggiare. Penelope era tra questi, correndo verso il traguardo lungo una via parallela.
Raggiunta la salita per la collinetta, dove si poteva notare la torre del vecchio castello, Robert venne circondato da uno stormo di pipistrelli che sbucò dal boschetto lì vicino. Subito strinse il suo arco, aveva scoperto che le frecce magiche, una volta scoccate, tornavano indietro, nello zaino dove erano custodite. Nonostante tutto, però, i pipistrelli erano davvero tanti, non sarebbe mai riuscito a liberarsene completamente. In lontananza, la tarantola se la rideva sulle spalle del salumiere: fare fuori un concorrente così valido era un peccato, ma il potere che gli era stato donato era un pericolo troppo grande da ignorare. Vedendolo in difficoltà, si allontanarono: era inutile assistere al supplizio di quel povero ragazzo.
I pipistrelli avevano oramai sommerso Robert che non aveva più spazio per stendere l'arco, si limitava a proteggersi il capo con le braccia, urlando aiuto. All’improvviso, cominciarono a cadere uno a uno ai suoi piedi, altri volarono via. Quando riaprì gli occhi Penny era dinnanzi a lui, in mano stringeva un pugnale e saltellava per scacciare i pochi animali rimasti.
«Non fissarmi come se fossi un alieno, dammi una mano!» Esclamò lei e per Robby fu come uno schiaffo. Impugnò l'arco e riprese a scoccare le sue frecce incantate.
«Cosa ci fai qui?» Le chiese, mentre combattevano schiena contro schiena.
«Voglio vivere un'avventura! Una vera avventura!»
«É pericoloso» le fece notare lui.
«Lo so, perciò mi piace» rispose Penelope, abbattendo l'ultimo pipistrello, quindi si voltò a guardare il suo compagno di classe, non aveva mai notato i suoi occhi chiari. «Tieni, questa è tua» disse, estraendo dalla tasca dei jeans la mappa della gara. Robert fece per prenderla ma lei la tirò via. «Solo se facciamo la strada insieme.»
«Ok» rispose il tredicenne e questa volta gli permise di prendere la mappa. Appollaiato su un ramo, un gufo li osservava.
 
Mentre risalivano la scarpata per giungere al castello, Robert le raccontò la storia delle fate e lei l'ascoltò rapita, chiedendosi se un giorno avesse vissuto lo stesso amore, così grande e potente da andare oltre ogni impedimento. Giunti in cima alla collinetta, vi trovarono il salumiere e sua moglie ad attenderli, alquanto stupiti. Stando alle parole della tarantola, solo uno sarebbe stato il vincitore, il corso degli eventi era stato mutato. Inoltre, i pipistrelli non erano riusciti a fermare Robert, al quale era stato dato in dono un potere fatato, ciò poteva significare una sola cosa.
«Uno dei due» sussurrò il ragno all'uomo. «L'altro è qui solo per fortuna, non ci serve.»
Ivan si avvicinò ai due ragazzi battendo le mani, aveva un'aria strana che mise i brividi a entrambi, i quali si presero per mano istintivamente. Tuttavia, mentre erano concentrati sul salumiere, Evita comparve alle loro spalle e attirò a sé Penny.
«Ehi, lasciala andare!» mai Robert aveva usato quel tono con un adulto, mai era stato così sicuro di ciò che voleva, poi Ivan gli mise le mani sulle spalle.
«Che belle frecce, sono tue?»
Il ragazzo indietreggiò di qualche passo.
«Vedi Robby, il fatto che siate arrivati tutte e due qui è un problema, adesso non so chi di voi può essermi realmente utile, perciò a turno vi inoltrerete nel castello e mi porterete la Spada d'Oro.»
«Nel regolamento non c'era specificato che avremmo dovuto darla a te la spada!» ringhiò Penny e subito Evita le diede uno scossone, intimandole di tacere.
«E-esatto! Ha ragione lei!» Le fece eco Robert.
«Ma qui il regolamento lo faccio io e ho deciso di cambiarlo. Portami subito la Spada d'Oro o giuro che la tua fidanzatina non vedrà mai più la sua mamma!»
Robert guardò Penelope, la quale scosse il capo, come a dire di non ascoltarlo, ma il ragazzo non vedeva via d'uscita e si accinse a entrare nel castello, quando sentì qualcosa volare sopra la sua testa: era il gufo che lo aveva aiutato con la statua animata.
La tarantola si nascose sotto un masso, mentre il gufo planava sui rami di un albero, osservando la scena, emise qualche verso, poi esclamò:
«Fatti vedere Megera, lo so che ci sei! Il tuo tanfo si sente a chilometri di distanza.»
Tutti i presenti rimasero sbalorditi, eccetto Robert che lo aveva già sentito parlare. Nell'interdizione generale, Penelope morse Evita al braccio e scappò. Le mancava tanto così per raggiungere il suo compagno Robert, quando la tarantola le si parò davanti. Penny urlò con quanto fiato aveva in corpo, la sua peggiore paura la stava fissando dritta negli occhi e soprattutto le stava rivolgendo la parola:
«Lei è tua figlia, non è così Anita? Ha il tuo stesso odore...» Così dicendo la tarantola si trasformò in una vecchia rugosa, così magra da poterle contare le ossa del viso, senza denti e con radi capelli bianchi. Il suo vestito nero era logoro e strappato, qualche ragnatela le ricadeva qua e là. Afferrò Penelope per un polso e la ragazzina si sorprese nel constatare quanto fosse forte quella persona all'apparenza fragile.
«Lei non c'entra Megera, prenditela con me» al posto del gufo comparve una splendida donna che un balzo felino lasciò il ramo dell'albero, indossava un semplice jeans e una camicia azzurra.
«Mamma?!» Penelope non poteva credere ai suoi occhi, sua mamma era un gufo? O il gufo era sua mamma?
In verità nessuno ci stava capendo niente, neanche il salumiere che si stava chiedendo dove fosse finita la sua amica tarantola; Evita, dal canto suo, si sedette sul terreno, pensando di aver urgente bisogno di una vacanza.
Robert, invece, non si era lasciato distrarre, la sua unica priorità adesso era salvare Penny. Tese l'arco e scoccò una freccia diretta alla vecchia, la quale la fermò con una sola occhiata. La freccia cadde sul terriccio e si sbriciolò. Robert ne lanciò subito un'altra, ma questa volta la freccia invece di sbriciolarsi cambiò direzione e tornò indietro. Avrebbe colpito sicuramente il ragazzino se la mamma di Penelope non l'avesse afferrata con il palmo di una mano. Megera aprì la bocca, dalla quale ne fuoriuscirono una miriade di pipistrelli, proprio come era accaduto poco prima, come se il suo copro fosse stato una caverna. Penelope urlò disperata di lasciarla andare, doveva aiutare sua mamma e il suo amico, evidentemente in difficoltà. I pipistrelli erano troppi, li avrebbero sfiniti fino a ucciderli, ma la vecchia iniziò a trascinarla con sé, fin quasi all'entrata del castello, mormorando che anche lei andava bene per i suoi scopi, non le serviva quel rincitrullito che ogni giorno si recava in salumeria a comprare un panino vuoto. Talvolta Ivan glielo dava anche vecchio, del giorno prima.
Che spasso, vero?
A Penny si oscurò la mente e la vista, improvvisamente sentiva solo tanta rabbia e la voce di sua madre che la chiamava, che le diceva di stare tranquilla, l'avrebbe raggiunta subito. La ragazzina si piegò in due, urlando con quanta forza aveva in corpo, urlò come non aveva mai fatto prima, mentre sentiva qualcosa crescerle dentro. Il pugnale che teneva con sé si illuminò di luce propria, fluttuando sopra le loro teste e irradiando a giorno l'intera zona. I pipistrelli volarono via, Megera si dimenticò di Penelope, tanto era attratta dal pugnale luminescente. Fece per prenderlo, ma Anita le intimò di non toccarlo, mentre Robert scagliava la sua freccia magica contro la vecchia, ferendola alla mano, evitando così che si impossessasse del pugnale.
«Megera vattene» disse Anita.
L’anziana allungò la mano sanguinante per afferrare il pugnale, ma Penelope fu più veloce di lei e riuscì a farlo suo con un balzo. La vecchia l'aggredì e d'istinto la ragazza le conficcò l’arma nel cuore. Una luce violenta invase il corpo decrepito della vecchia Megera, della quale ben presto non rimase che un mucchietto di polvere.
Anita corse ad abbracciare sua figlia, stampandole baci sulla testa. Robert si avvicinò silenzioso e quando la donna lo vide strinse a sé anche lui.
Il salumiere e sua moglie si guardavano intorno spaesati, più tardi Anita avrebbe spiegato ai due ragazzi che erano stati vittima di un incantesimo lanciato da Megera.
Con Robby e Penny al suo fianco, la donna raccontò che quel castello una volta era stata la dimora delle fate, poi costrette ad abbandonarlo e a mischiarsi ai comuni mortali. Megera era sua sorella, erano state sempre molto unite, fin quando un giorno non aveva conosciuto il suo grande amore. Anita guardò Penny e le sorrise dolcemente:
«Tuo padre» specificò.
Aggiunse che Megera era stata così gelosa di lei che i capelli prima le si erano scuriti, poi erano diventati bianchi e aveva iniziato a invecchiare a vista d’occhio. «Perché, ragazzi, ricordate che l'invidia e l'odio invecchiano il corpo e la mente, l'amore lo tiene giovane». Quindi spiegò che, per le fate in particolare, l'odio le corrode come acido, così Megera si svegliava ogni mattina sempre più vecchia e cattiva.
«P-perché Megera voleva quel pugnale?» Era stato Robert a parlare.
«È il pugnale della regina mortale, moglie del re che l’amò. Ha il potere di esaudire un desiderio. Ogni fata ha questo dono, a ogni fata è concesso il privilegio di esaudire il desiderio di un'altra persona, ma poiché la regina era una semplice umana, il re relegò il suo potere in quest’arma, così anche lei avrebbe avuto il dono di esaudire un desiderio altrui.»
«Anche Megera aveva questo dono?» chiese Penelope e la donna annuì. «E lei ha esaudito il sogno di un'altra persona?»
«Si, ha esaudito il mio: quello di trovare il grande amore.»
«Ma poi papà è morto» fece notare la ragazzina. Sua madre le lasciò un lungo bacio sul capo, senza risponderle: c'erano giorni in cui credeva che il suo grande amore non fosse stato l'uomo che aveva sposato, ma la figlia che aveva avuto.
Robert se ne stava in silenzio da un po', quando Penelope gli porse il pugnale la guardò stupito:
«Hai vinto la gara, prendilo, è tuo.»
Robby scosse il capo, un potere così grande, una responsabilità tanto importante lui non la voleva. In realtà, credeva che a nessuno spettasse la facoltà di poter scegliere per gli altri. Non aveva il diritto di esprimere un desiderio al posto del padre, né doveva peccare di presunzione convinto di sapere cosa desiderasse veramente il suo vecchio.
«Non mi serve, i desideri ce li dobbiamo costruire da noi. É questo il bello no? Il tragitto che porta alla ricompensa» si alzò e si stiracchiò, affermando di essere davvero stanco, inoltre stava spuntando l'alba, se il suo vecchio non lo trovava nel letto gli prendeva un infarto, scherzò. Sorrisero e insieme si accinsero a ripercorrere la strada del ritorno.
 


 
Ɛpilogo
 
 
Robert si alzò felice. L'arco giaceva sulla scrivania, decise che lo avrebbe appeso alla parete della sua camera come un quadro. Non mangiò i biscotti secchi, li detestava, bevve solo una gran bella tazza di latte fresco. Suo padre era intento ad aggiustare la marmitta di un’auto, non lo avrebbe mai sentito, perciò gli si avvicinò e lo salutò con un gesto della mano e lui ricambiò con un cenno del capo.
Il negozio di Ivan era chiuso, non vi era rimasta alcuna traccia e nessuno pareva farci caso. Che si fosse trattato di un incantesimo durato tutti quegli anni?
S'incamminò verso la scuola, la statua del milite era immobile, lo sguardo fiero puntato dritto davanti a sé. Robert vi passò sotto, guardandola con attenzione e quasi urlò quando Penelope gli sferrò una pacca sulla spalla:
«Guarda che non morde mica» scherzò, poi insieme si accinsero a raggiungere l'istituto scolastico, chiacchierando come non avevano mai fatto.
Robert si convinse che all'uscita da scuola le avrebbe chiesto se le andava di prendere un gelato insieme, quel pomeriggio.
 
Quando tornò a casa trovò una tavola imbandita di ogni bene, fissò suo padre, fece per dirgli che non potevano permetterselo, ma l’uomo lo anticipò:
«Mi hanno pagato, Robby! I clienti stamattina sono venuti a saldare i debiti!» Ci mancò poco che iniziassero a saltellare intorno al tavolo.
«Ah papà…»
«Si?!»
«Oggi non potrò aiutarti con il lavoro. Ho un appuntamento».
 
 
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