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Autore: slanif    17/07/2022    1 recensioni
Se c’è una cosa che odio, è la maleducazione. Purtroppo, l’universo sembra divertirsi a prendermi in giro, facendomi incrociare il cammino con tutta una serie di individui più o meno spiacevoli. Alcuni sono dei veri e propri stronzi, ma... Ehi. Sono una donna matura. Posso fingere di non volerli uccidere lentamente, giusto? Pertanto, quando sul mio fantastico autobus vedo salire proprio lui, devo congratularmi con me stessa alla consapevolezza di non averlo azzannato alla giugulare come prima cosa. Certo, il sorrisetto sarcastico che mi sta rivolgendo non aiuta a lenire i miei istinti omicidi, ma sono lì per lavorare e non per perdere tempo dietro al più grosso cafone che abbia mai avuto la sfortuna di incontrare.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La musica della discordia
di slanif
 
 
 
Se c’è una cosa che odio, è la maleducazione. Purtroppo, l’universo sembra divertirsi a prendermi in giro, facendomi incrociare il cammino con tutta una serie di individui più o meno spiacevoli. Alcuni sono dei veri e propri stronzi, ma... Ehi. Sono una donna matura. Posso fingere di non volerli uccidere lentamente, giusto? Pertanto, quando sul mio fantastico autobus vedo salire proprio lui, devo congratularmi con me stessa alla consapevolezza di non averlo azzannato alla giugulare come prima cosa. Certo, il sorrisetto sarcastico che mi sta rivolgendo non aiuta a lenire i miei istinti omicidi, ma sono lì per lavorare e non per perdere tempo dietro al più grosso cafone che abbia mai avuto la sfortuna di incontrare.
Dovete sapere che questo tizio – che risponde al nome di Dario –, abita due civici prima di me ed è solito mettere uno stereo sul davanzale della finestra, rivolto verso la strada e sparare musica a palla in qualsiasi ora del giorno. Altre volte ancora pensa sia una buona idea deliziare il vicinato scendendo in strada e cominciando a suonare la fisarmonica in mezzo alla strada. Ogni qualvolta capita una o l’altra opzione, i miei nervi subiscono un’impennata verso l’alto nella scala dell’esaurimento e sono costretta a urlargli dalla finestra di smetterla. Ho provato a parlargliene con educazione, a fargli scrivere dal condominio, ma alla fine – di fronte alla sua inesauribile faccia tosta – ho dovuto scendere in strada e mettermici a discutere. Il risultato? Lui mi ha detto che fa tutto questo per la comunità, per renderla felice, e che io sono l’unica che si lamenta. Ovviamente non ho perso tempo nel fargli notare che, se proprio vuole fare qualcosa, potrebbe andarsene al parco a fare una passeggiata; e che comunque vive in un quartiere di Milano, non in mezzo alla campagna, pertanto il suo è un atteggiamento maleducato e irrispettoso, soprattutto se perpetrato nel tempo dopo che, da due anni e mezzo, ti è stato fatto presente che dà fastidio.
La conversazione si è conclusa con un nulla di fatto, nonostante io abbia alluso alla questione che quello che fa è disturbo della quiete pubblica e, considerando lo stress che mi arreca, anche una molestia; ma pensate che gliene importi qualcosa? Se avete risposto di no, siete stati attenti e vi faccio i miei complimenti.
Ad ogni modo, sono sicura che vi starete domandando: “Se ti dà così fastidio, non converrebbe cambiare casa?”. Ma certo. Ci ho anche pensato. Ma si dà il caso che io abbia avuto la fortuna di ereditare un bilocale e che non ho affitti o mutui da pagare, perciò chi me lo fa fare di andare a infognarmi in qualcos’altro? Oltretutto che, permettetemi, ma trovo assolutamente ridicolo il fatto che io debba andarmene da casa mia perché la gente è maleducata. Dovrebbero essere loro a cambiare!
Comunque, tornando a noi, il mio miglior nemico è appena salito sull’autobus turistico in cui faccio la guida. Avete presente quelli rossi, a due piani, con il secondo aperto? Ecco. Sono proprio lì, pronta  a deliziare il primo gruppo della giornata con la storia e gli aneddoti dei siti di interesse che andremo a visitare, quando lui si siede proprio di fronte a me in prima fila. Anzi, sarebbe più corretto dire che si stravacca in prima fila e che mi fissa con il suo solito sorrisetto arrogante.
Non ho mai incontrato nessuno che mi facesse desiderare così tanto di commettere un omicidio, ma... è chiaro che c’è sempre una prima volta, nella vita.
«Si può sapere che diavolo ci fai qui?» sibilo, mentre al contempo cerco di sorridere agli altri passeggeri in arrivo, che salgono la scaletta chi più chi meno agevolmente. Quella mattina avrei avuto un gruppo di italiani, mentre poi ne sarebbe seguito nel pomeriggio uno straniero in cui avrei detto le medesime cose ma in inglese. Era un lavoro che mi piaceva, seppur non sempre agevole. Sia perché passavo pressoché tutta la giornata in piedi a parlare, sia perché in estate – quando tutti volevano stare fuori – il caldo mi faceva girare la testa.
Dario non sembra per nulla preoccupato dal mio tono (come ogni volta che ci parlavamo, ahimè!). «Partecipo al giro.»
«Abiti a Milano. A cosa ti serve fare un giro su un autobus turistico?» ringhiai, mentre aggiungevo subito dopo con voce squillante agli ennesimi turisti: «Buongiorno, benvenuti! Accomodatevi che così iniziamo!»
Dario mi guarda con un luccichio negli occhi scuri. «Magari non conosco la città.»
Gli lancio uno sguardo di sottecchi. Aveva un accento particolare, che non sapevo identificare, ma con chiaramente un’inflessione lombarda. Quindi no, dubitavo che non conoscesse Milano, soprattutto perché erano almeno due anni che viveva qui, visto e considerato che era altrettanto tempo che ci discutevo.
Sbuffai, distogliendo lo sguardo e concentrandomi sui miei clienti. Spiegai loro che giro avremmo fatto – ovvero le mete più gettonate come il Duomo, il Castello Sforzesco, l’Arco della Pace e così via – e cominciai a raccontare alcune curiosità sulla nostra prima meta, che svettava luminosa alla nostra destra. Il marmo bianco e il cielo azzurro terso creavano un contrasto meraviglioso e anche se faceva già molto caldo nonostante fosse mattina presto, ero davvero felice che il tempo fosse così sereno.
Mentre il nostro autista – Antonio, un napoletano di mezza età con cui mi era capitato spesso di lavorare e che aveva due figlie adorabili – ci porta lentamente in giro, destreggiandosi egregiamente nel traffico, io continuo la mia spiegazione osservando tutte e diciannove le facce che mi fissavano. Rispondo anche a qualche domanda, sempre col sorriso sulle labbra e strenuamente impegnata a ignorare la mia spina nel fianco personale.
«Sai...» dice dopo un po’, mentre ci spostiamo nella meta successiva e il vento gli scompiglia i capelli castani. «Credo che dovresti starmi a sentire. Ti converrebbe.»
Stringo forte il microfono tra le dita. «Sai, credo che dovresti tapparti la bocca. Ti converrebbe,» lo scimmiotto a denti stretti.
Lui ridacchia. «Sono venuto a proporti un patto.»
«Un patto,» dico, con voce monocorde. Pensa davvero che mi fidi di lui e delle sue parole? Dopo che sembra respingere come un muro di gomma tutto quello che gli dico per chiedergli di smetterla?
«Già.» Un altro sorrisino.
Contro ogni buon senso, domando: «E quale sarebbe?»
«Ci scambiamo i numeri di telefono…»
Lo interrompo, orripilata: «Oh, Diavolo, no
Lui ride. «Non ero mai stato rifiutato in maniera così netta.»
«Ne dubito,» commento con tono caustico, mentre osservo il gruppo che è impegnato a fare foto. Ho concluso il mio monologo qualche minuto fa, perciò sto lasciando loro qualche momento per godersi le bellezze che li circondano e portare a casa dei ricordi.
«Sei sempre così permalosa...» mi deride.
«E tu sei sempre un tale stronzo,» ribatto. «Non hai neanche idea di quanto il tuo comportamento mi abbia fatto male, quindi scusa tanto se non ho nessuna voglia di stare a sentire le tue proposte
Aveva cominciato durante il lockdown dovuto al Covid-19, nel marzo 2020.
Non so chi di preciso aveva proposto, per far sentire tutti i cittadini vicini, di riunirsi sui balconi alle sei del pomeriggio e cantare insieme una canzone. L’idea di base era anche carina, se la cosa si fosse limitata a una canzone. Magari due; ma non cento, come poi era successo. Così come un vecchio detto recita: Dario da un dito si era preso tutto il braccio. Aveva usato quella scusa per mandare musica ripetutamente e per me, che ero spaventata da questo nuovo virus sconosciuto, preoccupata per la mia famiglia lontana e i miei nonni, chiusa nella solitudine del mio appartamento di quaranta metri quadri; era stato qualcosa che mi aveva fatto sentire in gabbia. Costretta a sopportare un rumore esterno che non gradivo, senza possibilità di andare da nessuna parte, in trappola sia a causa della situazione globale sia per causa di vicini che avrebbero dovuto avere per lo meno il buonsenso di capire che, viste già le difficoltà, il rispetto reciproco era il minimo sindacale da attuare.
E invece no.
Lui aveva ignorato tutti i miei appelli, se ne era fregato e adesso, a distanza di anni, continuava a farmi i dispetti, venendo a suonare la sua fisarmonica del cavolo sotto la mia finestra, ben consapevole di quanto mi desse fastidio.
Quindi perché diavolo io avrei dovuto sprecarmi ad ascoltarlo?
«È solo un po’ di musica...» sbuffa lui, perdendo finalmente un po’ di quell’arroganza. «Perché la odi tanto?»
«Io non odio la musica. Odio chi me la impone quando io ho tutto il diritto di vivere in casa mia alle mie condizioni, senza che il volere degli altri penetri al suo interno.» Non era un concetto così difficile, giusto? Non era chiedere troppo. Certo, non ero una grande fan della musica. Non avevo un cantante o un gruppo preferito, ma ascoltavo un po’ di tutto e spesso mi capitava di accenderla (piano) in casa mentre facevo le faccende. Tuttavia, il suo comportamento mi aveva a tal punto fatta sentire a disagio che per un anno e mezzo avevo vietato a chiunque di accendere la radio in macchina e io non ne avevo più ascoltata.
Capivo che, a un occhio esterno, la mia reazione potesse sembrare esagerata, ma... Io stavo davvero male.
«Sei una tale bacchettona...»
«Per l’amor del cielo, devi essere fastidioso in tutte le tue affermazioni?» sbotto, sperando che se ne vada, anche se la parte razionale del mio cervello è ben consapevole che non succederà fino a quando il tour non si sarà concluso. Non è che posso lanciarlo giù dal parapetto per togliermelo dai piedi, anche se mi piacerebbe...
Dario mi guarda per un lungo momento prima di sospirare e cambiare tono di voce, usandone uno che non gli ho mai sentito prima. Sembra quasi... gentile. Il che era ridicolo, perché la mia pelle sapeva bene che era incapace di provare gentilezza nei confronti degli altri. «Senti, abbiamo cominciato con il piede sbagliato.»
«Non abbiamo proprio cominciato,» lo contraddico. «E, onestamente, vorrei anche che la finissimo, se tu capissi cosa vuol dire vivere in un quartiere cittadino e non in un Rave Party perenne.»
Lui mi ignora e continua come se non avessi neanche parlato: «Voglio proporti di scambiarci i numeri...»
«Ho detto di no!»
«... cosicché tu possa mandarmi un messaggio ogni volta che non ci sei, dandomi la possibilità di mettere la musica. Quando invece sarai in casa, non lo farò. Che ne dici?»
Lo fisso. Lo fisso davvero.
E no, non gli è spuntata un’altra testa o un terzo occhio in mezzo alla fronte. Non sembra diverso dal musicista saputello che mi tormenta da anni. Eppure... Poteva avere un senso? Certo, avrei dovuto dargli il mio numero (cosa che trovavo tutt’altro che accattivante), ma non era forse un piccolo prezzo da pagare per avere la mia agognata pace? Il silenzio in casa quando volevo guardare la televisione stravaccata sul divano senza un sottofondo non richiesto? La sacrosanta possibilità di rimanere a finestre aperte senza avere l’ansia che lui cominci con le sue spiritosaggini da un momento all’altro?
Vivo da così tanto tempo in questo stato di perenne allerta che ho dimenticato cosa vuol dire godersi la propria casa. Spesso, anche stanca morta, esco per non sentirlo, per non subire la sua invadenza, perché ho talmente paura che cominci che mi sento sopraffatta e mi viene l’istinto di fuggire.
È giusto, vivere così? No. Certo che no. Soprattutto se è dipeso da un individuo che non capisce cosa sono i limiti, l’educazione e il rispetto reciproci.
«Penso sia un accordo che accontenta entrambi,» prosegue, cercando di convincermi, mentre la Basilica di Sant’Ambrogio si fa sempre più vicina e il mio tempo per rispondere scarseggia.
«E chi mi dà la certezza che rispetterai il patto?» ribatto, ritrovando la mia parlantina. «Se non l’hai notato, hai tutt’altro che dimostrato di essere una persona corretta.»
«Pur di non sentirti più blaterare?» Alza gli occhi al cielo prima di guardarmi. «Lo rispetterò, Sabrina.»
Lo avrebbe fatto davvero?
«Ti avverto,» dico, puntandogli contro un dito, mentre l’autobus svolta sulla sinistra e il suono delle campane riempie l’aria, segnalando che eravamo praticamente arrivati. «Se non rispetterai i nostri accordi, stavolta andrò davvero a denunciarti per disturbo della quiete pubblica, molestie e qualsiasi altra cosa mi verrà in mente, è chiaro?»
Lui ride. «E vuoi davvero che ti credano?»
Sfodero un sorrisetto maligno mentre gli confido: «Per tua informazioni, ho prove video, audio e scritte sin dall’inizio. Due anni di materiale. Ho tutto quello che mi serve, non preoccuparti.»
Lui mi guarda con gli occhi sbarrati prima di inghiottire a vuoto. Ovviamente, non sa se credermi (anche se dovrebbe, visto che non sto mentendo) ma non è così stupido da rischiare. Così, alla fine mi allunga il suo telefono. «Inserisci il tuo numero, così ti squillo e hai il mio.»
Facemmo come detto e, in questo modo, il patto fu sancito.
Io proseguii nel mio lavoro, tornando in carreggiata.
Lui finì il giro in silenzio.
Quando, molto più tardi quella sera, torno a casa e guardo il cellulare, vedo che c’è un suo messaggio: “Domani in che orari lavori?”.
Sospirando, glieli dico.
Allora mi scatenerò domattina e domani pomeriggio avrai tutti i cinguettii di uccellini che vuoi”.
Spero di non aver riposto in cattive mani la mia fiducia mentre, preparandomi la cena, realizzo che forse, con quel piccolo compromesso, entrambi possiamo avere quello che desideriamo senza più metterci i bastoni tra le ruote a vicenda. Che sia la volta buona?
Ma dimmi... Che musica ti piace?”.
O magari no.
Se il tuo intento è di diventare amici, puoi anche evitare di fare la fatica”.
Come sei negativa! Magari potremmo addirittura innamorarci!”.
Lancio il telefono con uno strillo vedendolo atterrare sul divano, mentre un brividio di disgusto mi serpeggia lungo la schiena.
Davvero. Una. Pessima. Idea.
   
 
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