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Autore: FrancescaPenna    03/08/2022    0 recensioni
Possono cinque ragazzi non ordinari sperare di trovare il loro posto in una società dove l'essenza viene spesso sottomessa all'apparenza, dove le persone rincorrono una perfezione che non esiste per sottrarsi ai pregiudizi?
Casey e Satèle Johns sono due gemelli albini.
Markus Lancaster ama la lettura e odia le persone.
Johnnie Bailey è silenzioso.
Angel Hassler è un maschiaccio.
Cinque ragazzini diversi con cinque vissuti diversi, che si affacciano al contesto delle scuole medie diventando i protagonisti del primo atto di una storia che parla di diversità, accettazione, amicizie e primi amori, ma anche di bullismo, famiglie disfunzionali, autolesionismo e disturbi mentali.
Una storia in cui impareranno a conoscersi per come appaiono agli occhi di tutti, ma anche e soprattutto per come loro stessi si sentono dentro: strani.
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: De-Aging, Kidfic | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 12 – Il prezzo del talento

 
“Dalla settimana prossima comincerò a insegnarti il registro di fischio”, aveva promesso l’insegnante di canto a Satèle, chiamandola da parte al termine della lezione.
All’inizio, Satèle si era mostrata un po' scettica. Le era sembrata una decisione avventata, considerando i rischi a cui l’avrebbe sottoposta un’esecuzione sbagliata della tecnica, primo su tutti il danno permanente alle corde vocali.
“È la prima volta che decido di insegnare il registro di fischio a una ragazzina di dodici anni, ma tu sei la mia allieva migliore e sono certa che riuscirai a sostenerlo senza problemi”, le aveva risposto Vanessa. “Consideralo un premio, te lo meriti.”
Satèle non vedeva l’ora che arrivasse quel giorno. Tornata a casa, aveva subito raccontato la novità a sua zia, che insieme a Vanessa, allo zio Luke e a Casey, era una delle pochissime persone che credevano nelle sue capacità di cantante, perché i suoi genitori non lo avevano mai fatto.
Per questo motivo, Satèle si esercitava perlopiù quando loro non erano in casa, proprio come in quel momento.
Visto che spettava a lei sbrigare tutte le faccende domestiche in assenza di sua madre, perché Coco si rifiutava sempre di aiutarla, infilò gli auricolari, fece partire la riproduzione casuale e iniziò a cantare sulle note di Something’s Got a Hold on Me mentre spazzava – usando il manico della scopa come se fosse un microfono – mentre lucidava le finestre e mentre spolverava i mobili, rendendo il dovere meno faticoso.
Aveva alzato il volume della musica al massimo, pertanto non sentì il cigolio che produsse la porta della stanza di Coco quando quest’ultima l’aprì per affacciarsi.
Coco, infatti, adorava sentirla cantare, ma, allo stesso tempo, l’invidia che provava ogni volta che Satèle tirava fuori la sua voce la rendeva totalmente incapace di complimentarsi.
Pensava che chiunque, se l’avesse ascoltata anche una sola volta, avrebbe finito col desiderare di possedere la voce di sua sorella.
Stando al profilo tecnico che aveva descritto la sua insegnante di canto, Satèle era un soprano drammatico d’agilità ed era dotata di un’estensione vocale di quattro ottave e di un timbro scuro e graffiante, reso particolare anche dalla leggera deviazione del setto nasale con cui era nata.
Alcune persone affermavano che un giorno avrebbe potuto addirittura eguagliare Whitney Houston o Christina Aguilera, nomi che, appunto, erano da sempre sinonimi di irraggiungibilità; invece la sua insegnante non era pienamente d’accordo.
“Ragionando in termini di fama, forse Satèle potrebbe anche eguagliare una delle due. Ma dire che potrebbe eguagliarle in termini di vocalità è riduttivo perché, così come Whitney Houston e Christina Aguilera possiedono due voci uniche, per le quali vengono considerate irraggiungibili, anche Satèle possiede una voce unica, per la quale verrà a sua volta considerata irraggiungibile dalle cantanti delle generazioni future”, aveva detto una volta. E della stessa opinione era Coco.
Lei non era stata presente quando sua sorella aveva mostrato per la prima volta il suo grande talento, ma ricordava ugualmente come tutto era iniziato grazie al racconto che avevano fatto i suoi zii ai suoi genitori dopo essere tornati da un’uscita in macchina con Satèle e Casey.
Correva l’anno 2005 e, durante il tragitto, i gemelli avevano chiesto a Luke e Dia di fargli ascoltare le canzoni che andavano di moda quando loro erano adolescenti, così Dia aveva acceso lo stereo su una stazione radio che trasmetteva tutti i maggiori successi degli anni ’90.
Dopo una breve pubblicità, era partita Ironic di Alanis Morissette, che entrambi avevano già conosciuto grazie a uno spot che avevano visto in televisione.
Ascoltando il primo ritornello, Luke e Dia avevano notato subito che la voce della cantante suonasse diversa da come la ricordavano.
Solo voltandosi verso i sedili posteriori, dov’erano seduti i gemelli, avevano capito che a cantare fosse Satèle.
Erano rimasti tutti a bocca aperta, in un primo momento non erano riusciti a capacitarsene.
Poi, però, Dia si era ricordata di avere con sé un registratore, così aveva chiesto alla nipotina di cantare il prossimo ritornello uguale a come aveva cantato il primo per farlo ascoltare anche ai genitori.
“Chi sta cantando qui? Non sembra la Morissette”, aveva commentato Hannah quando, dopo aver riaccompagnato a casa i gemelli, Dia aveva fatto ascoltare la registrazione a lei e a Brad.
“No, infatti non è lei. È Satèle”, aveva risposto.
Ovviamente, Hannah e Brad non ci avevano creduto. Allora Dia aveva chiamato Satèle, che intanto era andata in camera sua con Casey, per farle cantare quel ritornello proprio davanti a loro.
“Effettivamente è dotata”, aveva ammesso Brad, in maniera piuttosto fredda.
“È vero”, aveva concordato Hannah, “però non capisco dove vorresti andare a parare, Dia.”
“Penso che Satèle debba prendere lezioni di canto da una professionista. Se studiasse, un giorno potrebbe diventare una cantante vera.”
Hannah e Brad si erano scambiati un’occhiata d’intesa. “Assolutamente no.”
“Come immaginavo”, aveva detto Dia. “Non preoccupatevi, sarò io a pagarle le lezioni.”
Hannah aveva liquidato la conversazione rispondendo: “Fa’ come ti pare, ma ti avverto: non permetterò mai a mia figlia di lavorare nello stesso mondo in cui tu ti sei cimentata e hai fallito. Se Satèle vuole cantare per il semplice gusto di farlo, allora puoi pagarle le lezioni, non m’interessa. Ma se intendi farla studiare per trasformarla nella cantante che tu non sei riuscita a diventare, allora faresti meglio a non crearti illusioni, perché non accadrà. Te lo scordi.”
Coco non era mai riuscita a spiegarsi come mai i suoi non accettassero il sogno di sua sorella. Lei, al contrario, più la ascoltava e più l’immagine di una Satèle adulta, che si esibiva su un palco davanti a milioni di spettatori, diventava sempre più nitida, concreta.
All’improvviso, l’intonazione perfetta di Satèle si trasformò in un urlo abbastanza sguaiato: “Ahia! Ma che cazzo fai?!”
Allarmata, Coco uscì dalla sua stanza e si precipitò in salotto. Nessun malvivente si era introdotto in casa, per fortuna: erano soltanto tornati i suoi genitori. Sembravano molto arrabbiati con sua sorella, che non indossava più gli auricolari.
Ecco perché aveva gridato: suo padre doveva averglieli strappati via dalle orecchie con la forza.
“Per prima cosa, modera questi termini! Capito?”, le rispose a tono. “Seconda: quante volte io e tua madre ti abbiamo detto di non cantare a squarciagola a certe ore del pomeriggio? Così disturbi tutto il vicinato!”
Non era affatto vero: nessun vicino si era mai lamentato della voce della piccola di casa Johns. Satèle, infatti, si astenne dal rispondergli.
A quel punto fu Hannah a prendere parola. Si rivolse a Coco e le chiese: “Tu non le hai detto niente?”
Coco esitò. Per una volta avrebbe voluto schierarsi dalla parte di sua sorella; tuttavia i suoi genitori si aspettavano una risposta ben diversa da lei – la figlia modello che avevano cresciuto a loro immagine e somiglianza. Non avrebbe mai voluto trovarsi in quella situazione, invece le toccava davvero scegliere se deludere i suoi genitori o sua sorella. E alla fine scelse di deludere per l’ennesima volta Satèle, perché Satèle era abituata a ricevere rimproveri e a essere considerata un fallimento dalla famiglia, mentre lei no. Deludere Satèle era l’unico modo per non diventare la nuova Satèle.
“Sì, ho provato più volte a chiederle di smetterla. Le ho detto che stavo studiando e che la sua voce mi distraeva, ma lei ha risposto che non gliene fregava niente”, mentì Coco.
Satèle sgranò gli occhi. “Cosa? Non è affatto vero!”, protestò.
“Sì, invece!”, rispose la sorella, continuando a recitare la parte che si era assegnata.
“Sei solo una bugiarda!”, gridò l’altra. “La verità è che ti comporti da vigliacca perché non hai il coraggio di ammettere che non hai fatto ciò che si aspettavano loro! Sei ridicola!”, le rinfacciò prima di avventarsi su di lei.
Hannah provvide ad allontanarla e le tirò uno schiaffo. “Satèle, smettila! Invece di urlare contro tua sorella, assumiti le tue colpe!”
“Cantare non è una colpa!”
“Sono tua madre e decido io quali sono le tue colpe!”, sbraitò Hannah. “Sei una figlia ribelle, rozza e maleducata; in più sei una pessima studentessa e non ci dai mai soddisfazioni: ecco quali sono! Sai solo perdere tempo dietro alle stupidaggini. Davvero pensi di renderti utile alla società tirando fuori un po' di voce? Se è così, non hai capito niente di cosa si aspetta il mondo.”
“Ti sbagli, mamma”, obiettò Satèle. “Io l’ho capito centomila volte meglio di te. Il mondo si aspetta di essere cambiato da qualcuno che sappia trasmettere messaggi importanti attraverso un linguaggio che unisca tutti. Quel linguaggio potrebbe essere la musica. E quel qualcuno potrei essere io.”
Hannah scoppiò a ridere prima di tornare di nuovo severa. “Ma non ti rendi conto di quante sciocchezze dici? L’unica cosa che può cambiare il mondo, Satèle, è la cultura. E a giudicare dai tuoi voti a scuola, tu ne possiedi ben poca. Altro che cantante, puoi solo aspirare a fare la sguattera!”
“Meglio diventare una sguattera che una bastarda come te!”, rispose prontamente Satèle, scatenando l’invettiva di suo padre, che la costrinse a guardarlo negli occhi bloccandole la mascella. “Signorina, siamo i tuoi genitori e sei obbligata a portarci rispetto!”
“Voi non meritate neanche un briciolo del mio rispetto! Non meritate niente perché siete due carogne e mi fate schifo!” gridò Satèle, provando a liberarsi dalla stretta.
Brad, però, le strinse le mani intorno alla gola. “Come ti permetti, mocciosa?! Ti ricordo che così come ti creato ti distruggo, Satheene Johns!”
Pensò che per farsi valere occorresse passare ai fatti, e fu per questo che, all’improvviso, a Satèle arrivò un pugno dritto in faccia, talmente violento da farla accasciare a terra.
La ragazza giaceva inerme sul pavimento; con una mano si massaggiava il fianco su cui aveva urtato e con l’altra si copriva il naso, il punto che era stato colpito con maggior forza. Si allarmò quando cominciò a sentire un sapore metallico in bocca, e vide che il palmo era tutto sporco di sangue: aveva pagato il prezzo del talento.
Rabbrividì e lo stesso fece Coco, che per la paura non riuscì a muovere un muscolo. Hannah, invece, proruppe in un pianto di disperazione e rabbia.
“Cretino, guarda cos’hai combinato!”, urlò al marito, restituendogli il pugno che lui aveva tirato alla figlia. Non aggiunse altro: bastò quello e, in una frazione di secondo, Brad si pentì non solo di quel gesto, ma di tutto ciò che aveva detto e fatto alla figlia nel momento in cui aveva messo piede in casa.
Senza aspettare un minuto di più, si inginocchiò davanti a lei e le prese il viso tra le mani, stavolta con delicatezza.
“Satèle, ti prego, perdonami!”, pianse. “Non so neanche perché l’ho fatto…”
Ma lei lo respinse. “Non toccarmi, mostro!”, strillò. Si rimise in piedi e, per impedire al sangue di continuare a fuoriuscire, si tappò il naso, piegò la testa all’indietro e andò a chiudersi a chiave in bagno.
Hannah e Coco furono le prime a seguirla, Brad si aggiunse successivamente. Bussarono alla porta affinché Satèle li facesse entrare, ma non glielo permise.
“Sat, vogliamo solo assicurarci che tu stia bene e che non sia necessario portarti in ospedale. Ci dispiace tanto, davvero, ma adesso apri, per favore!”, la implorò Coco a nome dei genitori.
“Andatevene tutti, vi odio!”, la sentirono piangere.
A quel punto non ci fu più nulla da fare, se non aspettare con l’animo in pena.
 
Fortunatamente, Satèle non ci mise molto a uscire dal bagno. Il sangue si era fermato da solo, il che era un sollievo per tutti, soprattutto per Brad che si sentiva ancora tremendamente in colpa. Adesso anche Coco ce l’aveva con lui, e Hannah non l’aveva ancora perdonato.
Quando aveva visto Satèle cadere a terra con il naso sanguinante, aveva avuto l’impressione di vedere al suo posto Dia da adolescente. Il modo in cui suo marito l’aveva colpita le aveva ricordato il modo in cui sua madre colpiva Dia, ma anche il modo in cui Satèle aveva reagito le aveva ricordato Dia.
Il fatto che si fosse decisa a uscire dal bagno non significava che fosse disposta a lasciarsi tutto alle spalle. Non aveva cenato prima di andare a letto e quando Hannah aveva bussato alla porta della sua stanza per chiederle come si sentisse non aveva risposto.
“Disattiva la sveglia. Ho deciso che domani non andrai a scuola, è meglio che riposi. Visto che io e tuo padre dobbiamo andare al lavoro, tua zia starà un po' con te”, le aveva detto allora sua madre.
Prima, infatti, Hannah aveva telefonato disperata a sua sorella per raccontarle cos’era successo, chiedendole poi se l’indomani avesse potuto occuparsi di Satèle.
Dia aveva sempre avuto ragione sul comportamento di Brad e lei non aveva mai voluto ascoltarla; per questo, in un primo momento, Hannah aveva pensato che Dia avrebbe rifiutato solo per poterle dare una volta per tutte, adesso che era lei a chiedere aiuto con la coda tra le gambe, la lezione che si meritava.
Ma Dia non aveva fatto niente di tutto ciò, al contrario aveva accettato con entusiasmo di trascorrere una giornata con Satèle. Hannah era rimasta profondamente colpita dal suo sì, ma lo era rimasta ancor di più dal fatto che Dia non le avesse nemmeno rinfacciato di aver ragione. Anche se una piccola parte di lei aveva già immaginato che sarebbe stata indulgente. Perché Dia, a differenza sua, era sempre stata buona.
 
“Altrimenti cosa fai? Sentiamo…”
Satèle, con lo zaino già in spalla e pronta per tornare a scuola dopo il giorno d’assenza, era andata in cucina perché aveva dimenticato le chiavi sul lavello, e non aveva potuto fare a meno di sentire ciò che aveva appena detto suo padre alla persona con cui stava parlando al telefono. Visto che Brad – come al solito – non si era accorto di lei, Satèle prese le chiavi, le infilò in tasca e rimase ferma sulla soglia della porta a origliare.
“Chiamo gli assistenti sociali e ve li faccio portare via tutti e tre”, rispose l’interlocutore. Satèle riconobbe subito la sua voce: era suo zio Luke.
Brad ridacchiò. “Davvero? E dimmi, Lukas, mettiamo che tu riuscissi a farci portare via i nostri figli, poi cosa faresti? Li daresti in affido al primo che capita?”
“Assolutamente no”, disse Luke. “Vivrebbero con me e Dia.”
Brad rise di nuovo. Non in modo sfottente, bensì intimidatorio. Satèle gli lesse in faccia quanta fatica stesse facendo per mantenere la calma.
“Scordatelo, hai capito? Io e Hannah non permetteremo mai che i nostri figli crescano con te e quella schizofrenica di tua moglie!”, obiettò.
“Dia non è schizofrenica”, ribatté Luke con fermezza. “E comunque, non stiamo parlando di questo. Io e lei non ci azzarderemmo a torcere un solo capello ai vostri ragazzi, figuriamoci a sferrargli un pugno in pieno viso come hai fatto tu con Satèle!”, gli rinfacciò.
A quel punto, Brad non riuscì più a contenere la rabbia. Si alzò di scatto dalla sedia e batté un pugno sul tavolo, facendo rovesciare la tazza di caffè che stava bevendo.
“Zitto, Lukas, zitto!”, tuonò. “Stai esagerando, alla fine le è uscito solo un po' di sangue dal naso!”
Era completamente fuori di sé. Satèle rabbrividì, tuttavia volle continuare ad ascoltare.
“E ti pare poco? Avresti potuto romperglielo!”, rispose Luke.
“Romperglielo?”, ripeté Brad. “Ma fammi il piacere! State facendo tutti quanti una tragedia per una cosa che è successa solo una volta e che non si è nemmeno rivelata grave!”, sbottò. “Sai perché l’ho fatto?”, chiese. Si diede da solo la risposta: “Perché se lo è meritato! Se lo è meritato, hai capito? Satèle non mi ascolta mai quando le dico che cantare è una perdita di tempo. È lei che mi ha costretto! È lei, con il suo atteggiamento ribelle, che mi ha costretto a usare le mani! La colpa è sua!”
“Calmati, Brad!”, gli ordinò Luke. “Come puoi dire una cosa del genere? È di tua figlia che stai parlando!”
“Proprio perché è mia figlia”, rispose Brad, “so come devo comportarmi con lei. Spero che adesso abbia imparato la lezione una volta per tutte.”
“Ma che razza di uomo sei?”, fu l’ultima cosa che Luke riuscì a dire prima al fratello prima che questi gli staccasse il telefono in faccia, in quanto si era accorto di Satèle aggrappata allo stipite della porta, che tremava e piangeva a singhiozzi.
“Che ci fai qui?”, le chiese. “Disgraziata che non sei altro, chi ti ha dato il permesso di origliare? Vattene!”, le ordinò, indicando la porta d’ingresso.
Ma Satèle rimase ferma perché era troppo sconvolta per riuscire a muoversi. Si era illusa: aveva creduto davvero che suo padre si fosse pentito e persino che le volesse un po' di bene. Ma dopo aver ascoltato tutte le cose orribili che aveva detto, come avrebbe potuto pensare che una persona come lui conoscesse il bene e il risentimento?
“Vattene!”, ripeté Brad, quasi spingendola. “Vattene!”
Satèle abbassò lo sguardo e si diresse verso l’uscita. Per la prima volta in vita sua non desiderava altro che andare a scuola.
 
“Sapete qual è la differenza tra Satèle e un uccellatore? L’uccellatore dice di aver preso cento uccelli anche se non ne ha preso nessuno; Satèle, invece, dice di non aver preso nessun uccello anche se ne ha già presi cento!”
Una barzelletta di pessimo gusto fece ridere tutti i compagni del corso di scienze proprio nel momento in cui la prima campanella della giornata suonò e la diretta interessata mise piede in classe, attirando l’attenzione su di sé.
Fra tutti i volti dei presenti, Satèle non riuscì a distinguere quelli di Markus e Angel. Perché non erano ancora arrivati? Senza di loro non aveva nessuno che la difendesse.
Se quella notizia falsa sul suo conto era arrivata a diffondersi, la colpa era tutta di Melissa, che dopo essersi gustata la scena aveva battuto il cinque con un ragazzo di nome Jason.
Dunque era stato lui a raccontare quella specie di barzelletta, credendo anche di essersi guadagnato l’appellativo di “tipo giusto” per aver semplicemente fatto ciò gli avrebbe permesso di ottenere l’approvazione di quella ragazza tanto popolare quanto perfida.
Satèle avanzò verso di lui come una furia. Voleva restituirgli tutta l’umiliazione subita, voleva colpirlo così forte da fargli saltare i denti.
Ma ecco che, prima ancora di riuscire a mettergli le mani addosso, qualcuno giunse a rovinare i suoi piani. La professoressa Stanley la vide con una mano alzata, in procinto di tirare uno schiaffo, e per questo le ordinò di allontanarsi subito dal ragazzo.
Con pochi secondi d’anticipo erano arrivati anche Markus e Angel, che tuttavia non erano riusciti a capire come mai la loro amica ce l’avesse con Jason.
Intanto la professoressa era riuscita a dividerli, additando Satèle come colpevole e rivolgendole un aspro rimprovero: “Johns, quello che hai appena fatto è riprovevole e non posso transigere, perciò oggi pomeriggio, al termine delle lezioni, sconterai un’ora di punizione. Intanto chiedi scusa a Brown.”
“No, professoressa, io non mi scuso: è lui che dovrebbe scusarsi con me! Lui mi ha insultata, invece io non ho fatto niente!”, protestò Satèle.
Jason negò e ottenne l’appoggio di tutti, tranne che di Markus e di Angel, i quali presero le parti di Satèle perché convinti di conoscerla abbastanza bene per poter affermare che quanto detto da lei fosse vero.
“Io penso che Satèle debba aver avuto un motivo per minacciarlo. Jason l’avrà sicuramente istigata, perciò, se proprio deve punirla, punisca anche Jason”, disse educatamente Angel.  
Ma la professoressa non volle sentire ragioni.
“No, non sarebbe giusto. Se la maggioranza della classe sostiene che non sia stato lui a provocare la vostra compagna, io devo credere alla maggioranza”, rispose, consegnando a Satèle il biglietto che avrebbe dovuto mostrare a chi avrebbe sorvegliato la punizione.
“Anche se la maggioranza è costituita da un branco di idioti vigliacchi?”, intervenne Markus, lanciando un’occhiata tenebrosa ai suoi compagni.
“Lancaster, uno studente brillante come te dovrebbe vergognarsi di rivolgersi così ai propri compagni”, lo richiamò la Stanley. “Va’ a posto e scusati.”
Markus fece spallucce. “Proprio perché – come dice lei – sono uno studente brillante, conosco il significato dei termini con cui mi rivolgo alla classe e li ritengo più che appropriati. Non mi scuserei nemmeno se mi pagasse con il suo stipendio, professoressa.”
“Ottimo, mi sa che oggi pomeriggio anche tu passerai un’oretta nell’aula di detenzione”, rispose prontamente l’insegnante, porgendogli lo stesso biglietto che aveva dato a Satèle.
“La ringrazio per avermi concesso quest’opportunità”, rispose Markus, sfoderando quel sarcasmo e quell’arroganza che lo contraddistinguevano e che in quell’occasione diedero non poco fastidio alla docente.
“Fuori, Lancaster!”, gli ordinò infatti.
In tutta tranquillità, Markus prese la tracolla e rimise a posto la sedia, dirigendosi verso la porta. A quel punto si voltò leggermente verso Satèle e le fece l’occhiolino affinché capisse che faceva tutto parte del suo piano.
Quella mattinata era decisamente partita col piede sbagliato per lei, ma quel gesto riuscì comunque a strapparle un sorriso.
Non appena Markus si chiuse la porta alle spalle, Satèle pensò che nessun altro si sarebbe mai sacrificato come aveva fatto lui pur di non lasciarla sola.
 
L’aula di detenzione della McClaine era un buco di dieci metri quadri di muffa e polvere, senza finestre e senza Wi-Fi, in cui gli studenti erano obbligati a stare seduti in silenzio, senza far nulla, per tutta la durata della punizione.
Ciò poteva sembrare tremendo, ma i malcapitati di turno avevano comunque avuto un po' di fortuna perché a sorvegliarli c’era il bidello Arnold, un ultrasettantenne con gravi problemi acustici e di memoria che passava le sue giornate leggendo sempre lo stesso giornale al contrario.
Non trovandosi davanti un temibile aguzzino, Satèle approfittò per avvicinarsi con la sedia a Markus e ringraziarlo per quello che aveva fatto per lei, che non era da poco.
“Non ti avrei mai lasciata scontare una punizione di cui non hai colpa da sola”, rispose lui. “Anche se mi piacerebbe sapere cosa ti ha fatto Jason.”
Allora Satèle gli chiese di porgerle un orecchio per potergli raccontare quella barzelletta squallida senza che gli altri sentissero, perché lei e Markus non erano soli.
“Che porco!”, commentò Markus. “Cosa gli dà modo di pensare certe cose su di te?”
“La domanda non è ‘cosa’, ma ‘chi’”, rispose Satèle. Gli spiegò che a spargere quella voce era stata Melissa, che un po' di tempo prima l’aveva vista mentre un ragazzo più grande provava a toccarle il sedere. “Ovviamente non gli ho chiesto io di farlo”, specificò, “ma Melissa ha deciso di interpretare tutto a modo suo perché mi odia.”
“Dovresti parlarne con qualcuno”, le consigliò Markus. “Melissa non può continuare ad andare in giro dicendo queste schifezze su di te per il resto dell’anno!”
“Facile a dirsi”, rispose Satèle. “A chi potrei raccontarlo? Nessuno mi ascolterebbe. Nemmeno la professoressa Stanley mi ha creduta!”
“Lei no”, convenne Markus, “ma sono convinto che se raccontassi tutto a Miller, lui potrebbe aiutarti. È l’unico prof. a cui importa di noi studenti.”
“Tenterò”, gli promise Satèle, mostrandosi tuttavia un po' diffidente.
“E ricorda”, aggiunse allora Markus, “se anche lui dovesse rivelarsi un cretino come gli altri, potrai comunque contare su Angel e me.”
Satèle sorrise. “Grazie, ma non voglio che ti preoccupi. Hai già dimostrato tante volte di tenere a me, non voglio che tu faccia altro.”
A quel punto Markus decise di usare le sue parole come pretesto per farle la proposta di cui aveva parlato con sua madre qualche sera prima. “Quindi mi stai dicendo che, se questo sabato ti invitassi a passare la giornata a casa mia, non ti farebbe piacere?”, le chiese, rivolgendole anche uno sguardo supplichevole.
Satèle rimase di sasso, non seppe che dire. Era la prima volta che riceveva un invito simile. Non avendo mai avuto amici, non ci era abituata. Tuttavia, sapendo che la scuola inviava sempre un SMS ai genitori dei ragazzi in punizione per metterli al corrente, e sapendo che i suoi non gliel’avrebbe di certo lasciata passare con indulgenza, sarebbe stata costretta a declinarlo.
“No, non fraintendermi, non sto dicendo questo”, premise. “Certo che mi farebbe piacere, ma non credo proprio che potrò venire.” Per fargli capire la situazione, gli spiegò che i suoi genitori erano molto severi e che l’avrebbero sicuramente messa in punizione per essere stata in punizione.
Markus invece rispose che a casa sua nessuno avrebbe fatto storie. “Non è la prima volta che finisco in punizione e vedrai che non sarà neanche l’ultima. Se qualcuno pensa davvero che basti questo per ‘correggermi’, si sbaglia di grosso. Io non prendo ordini da nessuno”, disse, ed ebbe anche modo di dimostrarlo.
In quel momento – com’era già accaduto precedentemente e grazie a chissà quale miracolo – il bidello Arnold lo sentì parlare e gli ordinò: “Silenzio, Dan!”
Era stato Markus a dirgli di chiamarsi così. All’inizio dell’ora il bidello lo aveva rimproverato per essere entrato in aula con la gomma da masticare in bocca, perciò gli aveva chiesto il nome per appuntarselo.
“Mi chiamo Dan Geruss”, aveva risposto Markus, facendo ridere tutti – che avevano colto il suo intento di volersi prendere gioco di quel povero vecchio – per l’assonanza con la parola ‘pericoloso’.
Il bidello doveva aver creduto sul serio che quello fosse il suo nome, visto che se n’era addirittura ricordato.
Markus ne approfittò per far continuare il divertimento inventandosi un nome ancora più ridicolo. Nel momento in cui il signor Arnold lo ammonì, lui gli rivolse uno sguardo perplesso e disse: “Chi è Dan? Io sono Genny. Genny Tull.”
Inutile dire che gli altri risero di nuovo e di più, perché quel nome suonava come ‘genitale’.
“Silenzio!”, gridò il bidello. “E tu non dire cose sconce!”, ordinò a Markus.
“Non sto dicendo cose sconce, è il mio nome!”, insisté il ragazzo, ma il vecchio signor Arnold era tornato a leggere il suo giornale nel frattempo, perciò non lo ascoltò e non gli rispose.
Da lì in poi fu tutto tranquillo. L’ora di punizione volse al termine e il suono della campanella venne accolto con un sospiro di sollievo dai ragazzi, che si affrettarono a radunare le loro cose e uscire da quello stanzino pieno di muffa.
“Spero di non rivederti, Genny”, disse il bidello. Desideroso di prenderlo in giro per l’ultima volta, Markus gli rivelò finalmente il suo vero nome e riuscì anche a convincerlo di avergli detto sin da subito che fosse quello. Lui e Satèle rimasero a fissare il suo sguardo confuso per un po', dopodiché lasciarono l’aula e si diressero verso l’uscita dell’edificio.
Lì incontrarono il professor Miller, che chiese loro se avessero da poco finito qualche corso pomeridiano. I ragazzi gli spiegarono che in realtà erano stati in punizione e Markus si offrì di raccontargli tutta la vicenda.
“So di essere stato maleducato con la professoressa Stanley”, ammise infine, “ma non ho potuto fare altrimenti. Non volevo lasciare Satèle da sola – avrebbe dovuto esserci Jason al suo posto!”
Il professor Miller concordò sul fatto che Satèle fosse stata punita ingiustamente e per questo le assicurò che avrebbe parlato con la professoressa Stanley, chiedendole di non tenere conto di quell’ora di punizione e di dire in segreteria di cancellare il messaggio che era stato inviato sia alla sua famiglia che a quella di Markus – a patto che quest’ultimo gli promettesse di andare a scusarsi con la docente.
I due ragazzi lo ringraziarono di cuore, specialmente Satèle che per poco non gli gettò le braccia al collo. Era così sollevata!
Il professor Miller è proprio un eroe, pensò quando lasciò l’edificio.
Visto che i suoi non avrebbero mai saputo della punizione, forse l’avrebbero lasciata andare a casa di Markus. Eppure, qualcosa le faceva pensare che non sarebbe stato così…
 
Che fosse per un brutto voto a scuola, per non aver adempito alle faccende domestiche in maniera impeccabile o anche per una banale dimenticanza, Hannah trovava sempre un pretesto per punire e rimproverare Satèle di essere una “figlia inutile”. Con testuali parole.
“Che me ne faccio di te?”, le aveva chiesto una volta, dandole uno spintone per poi andarsene senza neanche degnarsi di guardarla.
Satèle aveva trattenuto le lacrime fino alla porta di camera sua.
Come se non bastasse, da quando aveva iniziato la scuola media era stata catalogata subito come una poco di buono, una cattiva ragazza, una da cui bisognava tenersi alla larga.
Melissa e Kelly erano state le artefici della sua cattiva reputazione in quanto ci avevano messo lo zampino per prime, ma anche altre ragazze e alcuni ragazzi avevano contribuito a renderla quasi una reietta.
Non c’era da stupirsene: era facile prendersela con l’unica ragazza albina dell’istituto, nonché l’unica a chiamarsi Satèle, perché il suo nome la rendeva fin troppo riconoscibile ai suoi aguzzini.
Angel e Markus (soprattutto Markus) l’avevano spronata più volte a parlare della sua situazione con il professor Miller e lei aveva sempre promesso che un giorno l’avrebbe fatto senza mai agire concretamente.
Loro non sapevano più come comportarsi. Avevano pensato che la cosa migliore da fare, a quel punto, sarebbe stata andare a parlare con Miller al posto suo, ma allo stesso tempo avevano pensato che a lei avrebbe potuto dare fastidio.
Ultimamente stava diventando difficile per Markus e Angel fare previsioni sulle reazioni di Satèle. Spesso sembrava che lei provasse più emozioni contrastanti contemporaneamente e questo la portava ad avere sbalzi d’umore alquanto repentini. Spesso sembrava che nessuno riuscisse a capire cosa passasse nella sua testa.
Satèle non era più la stessa ragazza di un paio di mesi prima. Era come se si stesse rassegnando ad accettare le etichette che le erano state cucite addosso, perché niente e nessuno sarebbe riuscito a cambiare la sua condizione e di certo non ci sarebbe riuscita da sola.
O almeno, così credeva…
 
Essendo arrivata a scuola in anticipo quella mattina, Satèle cominciò a vagare per i corridoi senza una meta ben precisa nell’attesa che i suoi amici arrivassero.
Il piano terra era pressoché desolato, c’erano soltanto pochissime persone che con i loro occhi ancora impastati dal sonno sembravano più simili a degli zombie. Salì al primo piano e notò che le luci erano ancora spente, perciò dedusse che la situazione fosse identica sugli altri piani e decise di ritornare al piano terra.
Ricominciò a vagare senza prestare attenzione a dove andava, quando, all’improvviso, giunse davanti a una porta che recava una targa su cui si leggeva “glee club”.
Presa dalla curiosità di scoprire cosa ci fosse nell’aula in cui si riunivano i cantanti e gli strumentisti, entrò e iniziò a guardarsi intorno.
Subito sgranò gli occhi perché le parve di stare in paradiso. Quel posto era gigantesco oltre che stupendo. In fondo all’aula, sul lato sinistro, c’era un piccolo palco rialzato con tanto di luci e sipario, circondato da sedie con gli schienali colorati. A destra c’era una batteria e sulla parete era stato dipinto un murales raffigurante un pentagramma e le sette note musicali, ma alcuni spazi erano stati lasciati vuoti e dotati di pratici supporti a gancio per appendere alcuni strumenti al muro.
A catturare l’attenzione di Satèle, però, fu un pianoforte a coda nuovo di zecca. Essendo che a casa ne aveva uno verticale in stato pietoso, volle assolutamente sapere cosa si provasse a suonare un pianoforte come quello.
Una parte di lei si sentì in colpa a lasciare le proprie impronte su quei tasti ancora immacolati, ma quella che ebbe il sopravvento la incitò a sedersi e suonare il primo brano che lesse sullo spartito. La scelta cadde su Bohemian Rhapsody e, lasciandosi trasportare dalla melodia, iniziò a cantare anche il testo.
 
Markus era arrivato a scuola con l’espressione annoiata di uno che non aveva chiuso occhio per notti intere si era dovuto accontentare di una Red Bull perché non aveva trovato alcun caffè da rubare in sala professori.
Anche Angel non sembrava di buon umore: aveva appena finito di discutere con Kevin Martinez, il playmaker della squadra di basket, che continuava imperterrito a insistere su quanto lei fosse inadeguata per il ruolo di guardia tiratrice.
“Giuro che un giorno di questi lo strozzo!”, sbottò.
“Se lo fai davvero, fatti filmare e mandami il video. Almeno così mi faccio due risate”, rispose Markus.
Non si dissero altro, perché improvvisamente tutti quelli che erano arrivati da poco, in corridoio, smisero di parlare per ascoltare meglio la voce femminile che stava cantando Bohemian Rhapsody.
Markus e Angel la conoscevano già, ma il professor Miller, che gli si avvicinò proprio per chiedergli se sapessero a chi appartenesse, riuscì a farsi una vaga idea di chi fosse la proprietaria di quella voce grazie al suo accento irlandese.
“Sapete chi sta cantando?”, chiese ai due ragazzi, ma, prima che i due potessero rispondere, un uomo seguito da un gruppo di ragazzini si avvicinò e disse al loro posto: “Chiunque sia, diventerà la nuova stella del mio glee club!”
 
Markus, Angel e il professor Miller avevano seguito il coordinatore del glee club e i suoi allievi nell’aula di musica, dove c’erano già molte altre persone ad assistere alla performance.
Le supposizioni del professor Miller si erano rivelate esatte: seduta al pianoforte c’era proprio Satèle.
Dopo un po' arrivarono anche Kelly e Melissa, seguite da Peter Evans, il patetico fidanzatino di quest’ultima. Markus vide entrambe diventare verdi d’invidia – specialmente Melissa. Evidentemente, scoprire la voce di Satèle era stata una bella doccia fredda per lei.
Ben ti sta, pensò Markus. La sua amica stava ottenendo il riscatto che meritava e per un attimo gli sembrò di rivedere in lei la stessa ragazza grintosa che aveva conosciuto il primo giorno di scuola.
Concentrata sull’unica cosa che la faceva sentire bene, Satèle non si era accorta di tutte le persone che la stavano guardando e ascoltando.
I sometimes wish I’d never been born at all, fu l’ultimo verso che cantò prima di voltarsi, trasalendo, in seguito agli applausi che si levarono alle sue spalle.
In mezzo a diverse persone che non conosceva, ne riconobbe giusto qualcuna con cui aveva qualche corso in comune; poi vide Markus che sembrava quasi commosso, Angel sorridente che le faceva un pollice in su, Melissa e Kelly con la fronte aggrottata, Peter con lo sguardo sognante, il professor Miller e – con sua sorpresa – Coco, che sembrava fiera di lei.
Di quella folla che la acclamava gridando “Brava! Brava!” facevano parte anche alcune ragazze che fino al giorno prima le avevano sputato in faccia cattiverie orribili e Jason Brown. Che ipocriti, pensò Satèle.
Quando tutti smisero di applaudire, il professor Miller si avvicinò e le mise una mano su una spalla, facendole i complimenti per la sua voce.
Miller lasciò l’aula al suono della campanella insieme alla maggior parte dei ragazzi. Rimasero soltanto Markus, Angel, i ragazzi del glee club e il loro insegnante.
“Non ci posso credere!”, esclamò quest’ultimo. “Non ho mai sentito una ragazzina cantare come te, hai una voce unica!”
“Grazie”, rispose Satèle, lusingata.
“Mi presento”, disse l’uomo, “sono il professor Davis e mi occupo del glee club. Tu invece sei?”
“Satèle Johns.”
“Bene, Satèle, vorrei tanto che tu ti unissi al gruppo… e vorrei anche parlarne con i tuoi genitori, se fosse possibile.”
Satèle rimase senza parole. Essere un membro del glee club era come un sogno che diventava realtà. Una realtà di cui lei non avrebbe mai potuto far parte, purtroppo. Non osava nemmeno immaginare il conflitto che si sarebbe scatenato se i suoi avessero saputo che si era messa a cantare a scuola.
“La ringrazio, ma non penso che sia fattibile. Ho già degli impegni pomeridiani, inoltre i miei genitori lavorano tutto il giorno e dubito che possano venire a parlarle”, mentì.
“Ne sei proprio sicura?”, chiese Davis, un po' deluso. “Non hai degli impegni a cui puoi rinunciare?”
“Temo di no, mi dispiace.”
A quel punto furono i ragazzi a supplicarla.
“Andiamo, ti prego!”, fece una ragazzina afroamericana, quella che aveva cantato Disturbia alla festa di Halloween. “Il prof. ha ragione: qui nessuna di noi ha una voce come la tua. Ci serve un altro soprano – perché tu sei sicuramente un soprano. L’unica ad avere la tua stessa estensione vocale è Queen”, spiegò, indicando una ragazzina robusta, castana di occhi e di capelli.
“Vero”, confermò Queen, “anche se non abbiamo proprio lo stesso timbro. Io sono un soprano leggero, mentre tu sembri più un soprano drammatico.”
“Io direi un soprano lirico”, intervenne una ragazza di nome Isabella, che sempre alla festa di Halloween aveva cantato Toxic.
A quel punto un ragazzino si fece largo tra i compagni e si avvicinò a Satèle. “È un soprano drammatico d’agilità”, precisò, con il tono altezzoso di chi sta ribadendo qualcosa che dovrebbe essere scontato per tutti. “Significa che la sua voce possiede sia le caratteristiche del soprano drammatico che quelle del soprano leggero. Lo so perché mia nonna era una cantante lirica, infatti è stata lei a insegnarmi la differenza tra i diversi tipi di voce.”
Mentre parlava, Markus si burlava di lui facendogli le smorfie alle spalle e imitando tutti i gesti che faceva con le mani.
Quel ragazzo era stato capace di rendersi antipatico e presuntuoso ai suoi occhi in una manciata di secondi. Con quel carré biondo spettinato, il maglione oversize a righe orizzontali, i jeans denim strappati e le Converse, poi, sembrava la brutta copia di Kurt Cobain. Anche se di brutto aveva ben poco, anzi: era carino.
“Comunque”, aggiunse il ragazzo, “mi sono dimenticato di presentarmi. Piacere, mi chiamo Julian.” Allungò una mano a Satèle e lei gliela strinse. “Anch’io vorrei che ti unissi a noi, Satèle. Ci serve una cantante brava e bella come te.”
Markus si mise sull’attenti. Quel tizio si stava prendendo un po' troppa confidenza per i suoi gusti.
“Si capisce che questo qui mi sta già sulle palle?”, sussurrò all’orecchio di Angel.
“Davvero? Non l’avrei mai detto…”, rispose lei sarcastica.
Intanto, Satèle ignorò il complimento e ripeté a Julian che non poteva far parte del glee club, proprio come aveva spiegato poco prima al professor Davis.
“Anche se non puoi unirti a noi, cerca però di convincere i tuoi genitori a venire a parlare con me. Non gli porterò via troppo tempo”, promise l’insegnante.
“D’accordo, ci proverò”, garantì Satèle. Ma sapeva perfettamente come sarebbe andata a finire.
Fiducioso, il professor Davis lasciò l’aula insieme ai suoi ragazzi. A quel punto rimasero solo Markus e Angel, che si fecero finalmente avanti.
“Sei stata bravissima!”, disse Angel. “Markus stava per commuoversi.”
“Be’, no, forse…”
Angel non gli diede neanche il tempo di formulare una frase di senso compiuto che subito lo spinse verso Satèle. “Vi lascio soli”, annunciò, “io devo incontrarmi con la squadra di basket. Ciao!”
Ovviamente, pensò Markus, è tutta una scusa. Non che non gli facesse piacere stare con Satèle, era solo che in quel momento non sapeva cosa dirle.
Per fortuna lei lo salvò. “So come farmi perdonare per averti fatto commuovere”, ammiccò.
“Uhm, vediamo…”
“Questo sabato i miei lavoreranno fino a tardi, quindi non si accorgerebbero della mia assenza se io decidessi di venire a casa tua. Soltanto se l’invito è ancora valido, ovviamente.”
L’accenno di un sorriso increspò le labbra di Markus e a lei parve una risposta più che esaustiva.
   
 
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