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Autore: NPC_Stories    29/08/2022    2 recensioni
Il Carro rappresenta un viaggio, la Luna un inganno.
Attraverso una storia sviluppata come una lettura di tarocchi, un mio villain racconta il suo passato e il suo presente e, soprattutto, le sue motivazioni.
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Le fondamenta



I. Il Mago - Iniziazione, prima tappa su un percorso di conoscenza, talento, nuovo inizio
II. La papessa rovesciata - Intenzioni occulte, cattivi consigli, l'opposto di una spiritualità positiva
XVIII. La luna - Inganno (agito o subito), illusione, doppiezza, traumi non risolti;
ma anche intuizione, accettazione di sé, introspezione, segreti svelati




Non so chi fossero i miei genitori, ma so che ebbero almeno la decenza di garantirmi una vita che fosse migliore della morte.
Com'è prevedibile non posso ricordare nulla delle mie prime ore di vita, ma so che era notte quando qualcuno mi portò alla ruota dei neonati dell'orfanotrofio di Yartar. A quanto pare abbandonare la prole è un'attività preferibilmente notturna, forse perché la gente se ne vergogna, magari non vuole farsi vedere dai vicini. Io lo trovo alquanto sciocco, la notte è il momento in cui la coscienza viene a tormentarci, l'ora del lupo in cui i dubbi esistenziali ci assalgono; se dovessi fare una cosa che va contro la mia morale penso proprio che sceglierei di farla di giorno, quando la mia mente razionale ha il pieno controllo delle mie decisioni.
Ad ogni modo non solo era notte, ma pioveva pure. Un vero e proprio acquazzone estivo, uno di quelli che per un paio d'ore riescono a rinfrescare l'aria, un monsone perfetto per impregnare le fasce di un bambino e farlo morire di polmonite nel bel mezzo della stagione calda.
A quanto pare fu un cane a salvarmi. Era uno dei cani dell'orfanotrofio, una bestia usata come guardiano gratuito e anche come compagno di giochi per i bambini. Il cane si chiamava Waldo, che in effetti è più un nome da cane che da persona, ma quella bestia gentile si accorse che un nuovo fagotto era stato messo nella ruota e cominciò ad abbaiare finché qualcuno non venne a prendermi. Siccome non avevo effetti personali, nulla che riconducesse alla mia identità, il custode notturno dell'orfanotrofio decise di darmi il nome del cane che mi aveva salvato.
Per questo io credo che non cambierò mai il mio nome e non mi presenterò mai sotto un nome diverso; è un nome benaugurante. Brutto come pochi, ma ce l'ho molto a cuore.
Non serbo nessun ricordo di quel cane, che morì quando avevo solo due anni. I ragazzini più grandi mi raccontarono in seguito che Mayrin lo uccise per fare un dispetto a Uta, perché Mayrin era un bullo idiota e Uta era una ragazzetta graziosa che aveva rifiutato i suoi approcci amorosi. Penso che sia assolutamente normale per una bambina di nove anni rifiutare gli approcci di un ragazzo di quattordici. Penso che sia altrettanto normale per una bambina di nove anni mettere del veleno nel bicchiere del bullo che prima ha cercato di toccarla e poi ha ucciso il suo cane preferito.
Questo era semplicemente il modo in cui andavano le cose nell'orfanotrofio: in certi contesti il bullismo era tollerato. Serviva per mettere alla prova il carattere dei ragazzini, per vedere chi subiva, chi si ribellava, chi pianificava in silenzio una vendetta e chi aveva il coraggio di portarla a termine. Chi si imponeva sugli altri come un leader naturale e chi invece lo faceva come un codardo che cerca il consenso altrui perché teme di non valere nulla.
All'epoca ero troppo piccolo per capirlo ma questo era il modo in cui i gestori dell'orfanotrofio dividevano il grano dalla pula.
I più deboli, i bambini dal carattere fragile che non riuscivano a ribellarsi ai bulli e ne soffrivano troppo, venivano indirizzati verso una sede dell'orfanotrofio collocata all'interno delle mura della città di Triboar: laggiù i ragazzini crescevano protetti, nutriti, educati a diventare dei membri funzionali della società. È assolutamente indispensabile che l'orfanotrofio produca individui del genere. Serve a mantenere la buona nomea dell'Istituto. La mia stima è che questi debosciati siano una metà abbondante del prodotto che sopravvive all'infanzia. Noi chiamiamo questi ex-bambini maschere, perché il compito della loro esistenza è mascherare la vera natura dell'organizzazione che li ha cresciuti, far credere a tutti che sia un orfanotrofio normale, gestito con amore e senso civico. Non auguro il male a queste persone: fanno parte del tessuto sociale così come dovrebbe essere, mite, ordinato.

Chi reagisce al bullismo in modo velenoso, come Uta, viene indirizzato con discrezione verso un diverso corso di studi, una preparazione segreta per entrare a far parte della gilda mercenaria alle spalle dell'orfanotrofio: persone come lei diventano assassini, spie, sabotatori. Sono anch'essi ingranaggi fondamentali, il braccio armato di… sto correndo troppo.

Chi reagisce al bullismo con la violenza manifesta, e di conseguenza diventa un bullo a sua volta, prende semplicemente il ruolo sociale del bullo. Queste persone non sono interessanti, sono banali, sono stupide, al massimo possono essere usate come strumenti ma di solito sono strumenti fallaci. Il loro destino più comune è rimanere nell'orfanotrofio finché qualcuno più in gamba di loro non se ne libera. Non superano mai l'adolescenza. Secondo l'etica dell'Istituto non c'è spazio per le persone antisociali.

C'è anche un'altra categoria di persone che reagisce con violenza manifesta, ma poi non prende il ruolo del bullo: i ragazzini con la sindrome dell'eroe. Anch'essi vengono allontanati in una sede secondaria ed educati a diventare maschere. Sono orgoglioso di dire che alcuni di questi ragazzini con la sindrome dell'eroe siano poi diventati avventurieri, ranger, perfino chierici o paladini. Non penso che siano destinati ad una vita lunga, ma questo è ciò che vogliono fare… e noi, nonostante siamo tesi a costruire un Ordine più grande a cui assoggettare il mondo, diamo una certa importanza al libero arbitrio dei nostri ragazzini. È superfluo specificare che sono inconsapevoli, come tutte le maschere, di essere usati per mantenere in piedi una facciata, e se uno di loro scoprisse le nostre vere attività e intenzioni dovremmo ucciderlo. Sarebbe uno spreco, lo faremmo con rammarico, con rispetto e discrezione, ma ciò non di meno è una cosa che andrebbe fatta.

Infine c'è un'ultima categoria di persone: chi reagisce al bullismo con l'intelligenza, sfruttando l'ambiente e sfruttando le debolezze delle persone. Un esempio potrebbe essere fare in modo che lo scherzo cattivo di un bullo venga deviato dalla vittima designata e finisca per colpire un adulto, una persona importante, magari un custode o addirittura il direttore dell'orfanotrofio. Un altro esempio, come fece Moira - ma forse parlerò dopo di Moira - potrebbe essere diventare l'eminenza grigia dietro il capetto dei bulli, tenersi fuori dalle grane e manovrare quegli idioti come burattini. Oppure - che poi è quello che ho fatto io - comprendere le debolezze dei propri tormentatori e sfruttarle. Il bullo della mia generazione si chiamava Karl ed era un ragazzotto umano grassoccio che si era procurato un paio di sgherri halfling; erano più piccoli e più deboli di lui quindi lui aveva la certezza di poterli tenere sotto controllo. Io sono riuscito a incunearmi fra le loro dinamiche di timore e sudditanza, a giocare con le loro paure e distruggere le basi di quella specie di alleanza, che proprio non poteva dirsi amicizia. Riuscii a rendere tutti e tre sempre più paranoici, finché alla fine Karl minacciò di uccidere uno dei suoi sgherri e qualche giorno dopo venne misteriosamente trovato morto nella vasca da bagno con la bocca piena di sapone.

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Il direttore dell'orfanotrofio non ci mise molto a risalire a me. Credevo di aver coperto bene le mie tracce ma avevo solo dodici anni e non sapevo che fossimo costantemente sorvegliati.
Dopo un breve colloquio in cui mi chiese conferma di come e perché avessi portato avanti quello specifico piano, e dopo essersi accertato che non avessi personalmente commesso l'omicidio, fui assegnato ad una classe speciale e molto esclusiva. La più esclusiva di tutte. All'epoca non mi venne ancora rivelato nulla, ma cominciai a studiare materie più complesse come la storia geopolitica di quella regione, le leggi, l'economia, le tecniche della comunicazione per la diplomazia interculturale e altre cose che sembravano volermi preparare ad un futuro in una qualche elite. I ragazzini normali - le maschere - non studiavano questa roba, studiavano un po' di matematica, imparavano a leggere e a scrivere, venivano instradati verso un mestiere che fosse abbastanza affine al loro carattere. Cose come il panettiere, il fabbro, o se proprio andava bene il contabile o il guaritore. Io intuivo che mi stavano riservando un trattamento di favore ma non capivo perché. Imparavo cose che venivano insegnate solo ai rampolli dei nobili, e in cambio mi si chiedeva solo di sostenere un'ora di conversazione ogni cinque giorni con una donna che lavorava nell'orfanotrofio. Non era un'insegnante; non ho una parola per definire cosa fosse, ma il suo compito era analizzare le idee e le intenzioni dei ragazzi di quella classe speciale, tracciare il loro profilo psicologico, decretare se fossero adeguati oppure no a quel particolare percorso. Il percorso che ci avrebbe portati a conoscere la verità su ciò che si celava dietro l'orfanotrofio e perfino dietro la compagnia mercenaria di ladri e assassini: il culto del nostro Signore Asmodeus.

Non so se fu grazie alla mia intelligenza oppure alle mie idee, o a una combinazione delle due cose, ma venni ritenuto degno.
La rivelazione avviene sempre per gradi, i bambini vengono educati un po' alla volta a capire il punto di vista della Cabala di Asmodeus. La società ci indottrina sempre, anche senza volerlo, a credere che il bene e il male siano quello che la maggioranza delle persone pensa che siano. Il bene viene sempre associato alla creazione e il male alla distruzione. Eppure la creazione e la distruzione sono entrambe necessarie per il mantenimento dell'equilibrio, che è il bene più grande di tutti.
Le sciocchezze sul bene e sul male ci avevano raggiunti perfino dentro le mura protette del nostro orfanotrofio. In parte era colpa dei nostri insegnanti, perché non tutti appartenevano al culto di Asmodeus. Naturalmente parlo degli insegnanti che ci avevano educati quando eravamo piccoli, che ci avevano edotto nelle competenze di base; non parlo degli insegnanti della nostra classe speciale. In parte era colpa dei ragazzini che arrivavano all'orfanotrofio quando erano già abbastanza grandi, quelli che avevano almeno otto o nove anni. Portavano con sé un bagaglio di convinzioni erronee maturate nel mondo esterno. Non era colpa loro, perché queste convinzioni erronee sono ingannevolmente intuitive, è molto facile per un essere umano pensare che il male equivalga alla distruzione, perché come spiegavo all'inizio la natura umana è egoista e quindi miope.
Ad ogni modo, mentre ci venivano rivelate per gradi le verità su Asmodeus, sull'universo e su noi stessi, non restavamo con le mani in mano. Alcuni di noi venivano istruiti nell'arte della politica, altri in quella della magia, arcana o divina. I poteri divini non venivano dalla preghiera però; all'epoca non capivo da dove venissero. Mi sarebbe stato spiegato solo in seguito.
Io in quel periodo iniziai il mio tirocinio come mago. A tredici anni mi trasferirono in una sede esclusivamente maschile nella periferia di Yartar. In quel luogo c'erano pochi studenti; eravamo tutti ospitati in una grossa casa vicino alle mura. Da fuori sembrava un edificio normale, senza pretese, ma all'interno l'arredamento era un po' più raffinato di quello che occupava le case dei cittadini di quel quartiere. Il pianterreno era destinato alle aree comuni, come il refettorio, il salotto per le conversazioni, la biblioteca. Al piano di sopra c'erano le nostre camere. Nel seminterrato potevamo svolgere esperimenti magici. Quelle pareti furono testimoni dei miei primi tentativi con gli incantesimi, ma anche delle evocazioni di immondi dei miei colleghi che erano un po' più avanti con gli studi.

E poi naturalmente dovevamo lavorare. Quello stile di vita benestante, al limite del lussuoso, non si pagava da solo. Secondo le nostre capacità dovevamo contribuire e fare in modo che l'organizzazione rientrasse delle spese. Nessuno di noi si è mai trovato con una ramazza in mano, chiariamo questa cosa, non eravamo chiamati a fare lavoro da plebei; però con la nostra magia dovevamo svolgere le piccole riparazioni quotidiane, pulire la casa con Servitore Inosservato e con Prestidigitazione, ricopiare libri con l'incantesimo Amanuensis in modo da poterli vendere (i libri sono ancora beni di lusso, nonostante l'avvento recente della stampa). Una volta al mese due o tre di noi andavano al mercato per vendere erbe e spezie. Era facile creare materia vegetale inerte con Creazione Minore, e non ci importava che quelle sostanze sparissero dopo poche ore.
Le spezie si vendevano a buon prezzo, e per autoconsumo venivano acquistate in quantità così piccole che spesso la gente si accorgeva troppo tardi della sparizione. Poi un giorno a qualcuno venne un'idea ancora migliore: droghe. Molte droghe sono di origine vegetale. Assumerle permetteva di goderne gli effetti inebrianti, e di solito sono consumate immediatamente dopo l'acquisto, quindi non c'era il rischio che scomparissero magicamente dalle borse degli acquirenti come invece accadeva con le spezie. Era un commercio più onesto perché i nostri clienti avevano davvero ciò per cui pagavano. Le droghe create con quell'incantesimo facevano effetto in modo normale, ma poi sparivano rapidamente dall'organismo, diminuendo il rischio di effetti a lungo termine e riducendo anche la possibilità di essere scoperti dopo averne fatto uso.
Dalle droghe ai veleni il passo fu breve. Semi di stramonio e di ricino, foglie di belladonna, radici di aconito, bacche di tasso, piante di cicuta e oleandro. Per dei ragazzini era troppo difficile creare un veleno già sintetizzato con quell'incantesimo semplice, ma ci sono piante che sono così velenose da non aver bisogno di essere lavorate. Dopo aver portato a termine il loro compito, anche le piante velenose, così come le droghe, sparivano dall'organismo di chi le aveva ingerite; ma un morto rimane morto. I nostri veleni temporanei spianavano la strada per il delitto perfetto e nel sottobosco criminale che si può trovare in qualunque città (ma soprattutto a Yartar) facevamo buoni affari.

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Tutto questo però riguardava solo l'utilizzo creativo di capacità basilari che avevamo appreso. Il vero potere sarebbe arrivato dopo, e sarebbe stato cucito su misura per noi. Ognuno aveva le sue inclinazioni, le sue potenzialità. Io avevo affinità per i misteri divini, ma pregare un dio o una dea per ottenere poteri mi sembrava degradante. Sottomettersi al capriccio di un essere superiore, avere i propri poteri concessi o revocati dopo una scrupolosa disamina del proprio comportamento da parte di creature che non hanno alcun metro per giudicare gli uomini, era una prospettiva odiosa.
Avrei potuto rivolgere le mie preghiere ad Asmodeus, ma con quale diritto? Non ero che un ragazzo che aveva appena sentito parlare della sua grandezza e del suo ruolo nel cosmo, non avevo titoli per chiedere favori, e soprattutto ero fieramente indipendente. Anzi, ero un leader naturale. Fin da giovanissimo sono stato capace di convincere altri a seguirmi, un po' perché ispiravo fiducia a pelle, un po' perché… una volta che qualcuno si affiliava a me, mi prendevo veramente cura dei suoi interessi. Non sono mai stato il tipo di leader che sfrutta i suoi sottoposti, ho sempre pensato che avere dei seguaci soddisfatti fosse la via più sicura per un successo a lungo termine. E così, anche se i miei studi di magia arcana si erano arenati sui concetti più basilari, avevo sempre un amico o un alleato che potesse lanciare incantesimi per me. Anche se non ero il più forte in combattimento, avevo sempre accanto un compagno o una compagna che potessero farmi da scudo. Che si trattasse di compiere qualche missione diplomatica in città oppure un'escursione per reperire preziose materie prime nelle terre selvagge, avevo sempre un gruppo su cui contare e che poteva contare su di me. Nel frattempo cercavo di migliorarmi come persona e di migliorare la mia posizione all'interno del culto di Asmodeus poter arrivare, un giorno, ad essere qualcosa di simile ad un sacerdote. O meglio… qualcosa che ne avesse i poteri.
Non mi è mai piaciuto piegarmi davanti a nulla. Asmodeus ci insegna il valore dell'indipendenza, del creare il nostro successo attraverso le nostre capacità e la nostra intelligenza. Non riuscivo a credere che pregarlo per ottenere dei poteri soprannaturali fosse davvero una strada percorribile: forse era facile, ma non era… da vincitore. Era come indebitarsi; era da perdenti. No, non avrei chiesto al più potente dei diavoli di condividere una scintilla della sua magia con me. Il suo compito era troppo importante perché io lo privassi anche solo di quella scintilla.
Avrei ottenuto il potere che mi serviva da qualche altra parte, e dopo aver dimostrato più volte il mio valore una nuova Maestra venne a cercarmi. Con tutte le risposte che bramavo.

Mi rivelò una cosa meravigliosa: la magia può essere rubata.
Può essere rubata agli uomini, come fanno i ladri magici quando si baloccano con i loro poteri da due soldi, oppure può essere rubata agli dei.
La mia nuova Maestra - non posso fare il suo nome, perché non mi è mai stato rivelato - mi insegnò le basi teoriche di quel procedimento rischioso, ma mi disse anche una cosa: per puntare così in alto, serviva la più forte delle volontà. Io non ero certo di essere pronto. Lei sapeva che non ero pronto.
La volontà può essere temprata solo attraverso il confronto, il conflitto. Fino a quel momento, nulla aveva mai scosso le fondamenta della mia vita privilegiata. Non avevo mai sperimentato le vere difficoltà che chi vive da solo è tenuto a superare. Ero uscito per brevi avventure, avevo combattuto contro mostri e briganti, ma mai contro dubbi o paure. Non avevo mai combattuto contro la fame, il freddo o la disperazione.

"Vai, dunque", mi disse lei, al termine della mia preparazione teorica. "Vai nel mondo, e non tornare finché non avrai perso e ritrovato te stesso. Lord Asmodeus ti indicherà la strada."
E io andai, perché era giunto il momento di crescere. Avevo sedici anni, un'età in cui potevo considerarmi un giovane adulto, e il mondo mi affascinava e mi spaventava in ugual misura.

   
 
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