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Autore: _Lightning_    15/09/2022    0 recensioni
"Sam detesta chiedere favori. Si taglierebbe un braccio, piuttosto che chiedere un favore.
Non che chieda la luna, di solito e, se pure ne sentisse il bisogno, è abbastanza certo che troverebbe un modo per tirarla giù dal cielo per conto suo."
[post-Uncharted 4 // Missing Moment // Nate&Sam // Hurt/Comfort // Angst // molto self-indulgent]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nathan Drake, Samuel “Sam” Drake
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Chiederò la Luna
 
II


 

“I ran away
I could not take the burden of both me and you
It was too fast
Casting love on me as if it were a spell I could not break
When it was a promise I could not make

But what if I was wrong?
Oh, what if I was wrong?”



 

          Sam sbarra gli occhi nel buio, la mano che scatta a cercare una lama inesistente sotto al cuscino, mentre il suo cervello cerca di ricostruire la sequenza di suoni estranei che l’ha destato.

Un tramestio di piedi, un lieve tonfo, tintinnio di vetro, uno sciacquio sommesso. Un “cavolo pronunciato sottovoce che raggiunge le sue orecchie proprio ora. La tensione abbandona i suoi muscoli e Sam rilascia un lieve sbuffo di sollievo. Non è più in Panama, non è in una cella ammuffita, non c’è una guardia che sbatacchia il manganello contro le sbarre per svegliarlo, non ci sono detenuti in cerca di una resa dei conti con lui.

Si tira su a sedere, con un coro di scricchiolii per la posizione inumana in cui stava dormendo, e lancia un’occhiata oltre lo schienale del divano. Individua subito la prevedibile fonte di tutto quel fracasso: il solito Nathan, goffo e rumoroso anche nel cuore della notte. Gli volta le spalle e tiene socchiusa la porta del frigorifero per usare la sua luce soffusa, invece di accenderne una centrale. Sam sorride appena a quella premura, anche se la natura maldestra di suo fratello l’ha resa inutile.

«Ehilà,» lo chiama con voce cavernosa, per poi schiarirsela, e vede Nathan trasalire e voltarsi all’istante.

«Che cavolo, Sam! Vuoi farmi venire un colpo?» esala, stringendosi teatralmente la mano sul lato sinistro del petto.

Sam finge di pensarci su.

«Nah, non ancora. Nervosetto, eh?» sghignazza poi sottovoce, guadagnandosi un’alzata d’occhi al cielo e un “vorrei vedere te” masticato tra i denti.

Nathan scuote la testa e si decide a chiudere il frigo e ad accendere la luce nella cappa della cucina, per poi riprendere ad asciugare l’acqua che ha rovesciato nella semi oscurità. Sam lo osserva per qualche istante. Quando suo fratello rimane zitto, lui che è un jukebox vivente in cui non c’è nemmeno bisogno di mettere una monetina e privo di tasto di spegnimento, decide che c’è qualcosa di strano.

«Tutto bene?» chiede, senza girarci attorno.

«Sì, sì... volevo solo un bicchier d’acqua.» Poi sospira, chiaramente innervosito. «Scusa, non volevo svegliarti. O allagare la cucina, se è per questo.»

«Ah, sono io che mi sono scelto il divano,» ribatte Sam, cercando senza troppo successo di farla suonare come una sorta di scusa per poco prima. «E, comunque, non avevi speranze, ho il sonno leggero.»

«Lo so, ho...» Nathan si interrompe in modo insolito, per poi lanciargli un’occhiata altrettanto insolita prima di gettare lo straccio nel lavandino e distogliere lo sguardo. «Ho cercato di fare piano... ma non è esattamente il mio forte,» conclude, con un sorrisetto compiaciuto che cela dietro il bicchiere.

Sam esala un verso sofferente a quella battuta. Pondera l’idea di lanciargli una scarpa, ma non ha voglia di sporgersi dal divano, né di fronteggiare l’ira di Elena se dovesse mancare il bersaglio e rompere qualcosa.

«Lo so bene,» si limita a rispondere, continuando a spiare Nathan oltre lo schienale.

Sta sorseggiando l’acqua, adesso, poggiato al piano della cucina. I suoi occhi vagano qua e là, senza mai fissarsi troppo a lungo in un singolo punto, come fa spesso quando sta pensando a più cose contemporaneamente.

A dispetto della sua leggerezza, Sam capisce che è turbato, e la cosa lo turba a sua volta. Non è normale vederlo in quello stato di giorno, figurarsi di notte. Nathan dorme come un sasso, al contrario di lui, va a letto presto e si sveglia ancor più presto. Era sempre un’impresa svegliarlo fuori orario.

Però, tutto ciò appartiene al prima, a quando lo conosceva quindici anni fa ed era poco più di un adolescente. Forse, per il suo bene, ha dovuto togliersi quel vizio, visto che non c’era più lui a guardargli le spalle. Sam non sa cosa pensarne, di quell’ipotesi. Spera solo che sia campata in aria e che Nathan avesse semplicemente molta sete, punto.

«Mi sono ricordato che hai il sonno leggero,» Nathan dice all’improvviso, come riprendendo un discorso interrotto, e Sam si fa vigile all’istante. «È una di quelle cose che... che mi tornano in mente di tanto in tanto. Su di te, intendo. Non è che le abbia dimenticate, ma sono, come dire... molto in fondo ai miei archivi mentali, mettiamola così,» continua poi, con un sorriso impacciato, quasi mangiandosi le parole, senza mai guardarlo direttamente. «E adesso mi sono ricordato che hai il sonno leggero. Così, all’improvviso, quando ti ho visto dormire.. e comunque, non ci credo che stai comodo,» aggiunge, indicandolo perentorio.

Sam sorride appena ed esita, prima di rispondere. Non è bravo con le parole, quando non deve usarle per raggirare qualcuno. Così, si umetta nervoso le labbra e reclina la testa sul braccio, riassestandosi sul divano troppo stretto, prima di continuare guardando il soffitto:

«Beh, diciamo che la cosa è peggiorata in prigione. Dovevo sempre tenere un occhio aperto. Non sapevi mai quando qualcuno avrebbe deciso di accoltellarti alle spalle, e ho avuto dei compagni di cella abbastanza... molesti, nel corso degli anni.»

Quando finisce di parlare, il silenzio di Nathan gli pesa addosso come piombo. Sam non sa neanche perché gli sta dicendo quelle cose, perché sta cambiando argomento, perché è lui, quello a infiggere un coltello invisibile nella schiena di suo fratello. Nathan gli ha offerto uno spiraglio su quei quindici anni passati senza di lui, ma non vuol dire che sia disposto a saperne di più sui suoi passati in prigione. Sam vorrebbe quasi costringerlo a farlo, ad ascoltare tutto nel dettaglio.

Tutte le risse e le nocche rotte, le manganellate e le ore di solitaria, tutto il dolore e la disperazione, gli sprazzi di blu del cielo, del mare, degli uccellini che si è tatuato, la sensazione dei giorni che scorrevano e poi si bloccavano, senza una logica, come se il mondo proseguisse a sussulti al di là delle sbarre, a tempo coi giornali su cui riusciva a mettere le mani e le notizie che riusciva a carpire dai secondini.

Forse Sam l’ha chiesta, la luna, in quegli anni, l’ha chiesta ogni volta che la vedeva apparire nel quadratino di cielo buio a quadretti della sua finestrella.

Vorrebbe dirgli tutto questo, tutto, almeno quel tempo smetterebbe di essere un abisso oscuro tra loro. Avrebbe una dimensione, una profondità, dei bordi definiti. Magari è per questo, che tira sempre fuori l’argomento. Una cosa che si conosce fa meno paura, no?

«Posso solo immaginare,» dice infine Nathan, quasi sottovoce, per poi sprofondare nuovamente nel silenzio.

No, è chiaro che non voglia saperne nulla, della prigione: si ritrae ogni volta che muove un passo verso quel baratro lungo quindici anni. Eppure, Nathan è quello che voleva sempre sapere tutto di tutto, non importa quanto fosse spaventoso o orribile o lontano. 

Suo fratello era fatto così, un ragazzino iperattivo e spensierato con gli occhi che brillavano e un sorriso dispettoso, che si arrampicava come una scimmia e che sapeva essere altrettanto insopportabile, impiccione, chiassoso e affettuoso – Dio, gli è mancato tutto, di lui.

Aspettare due anni in più per vederlo è stata un’agonia. Quando Sam è uscito di prigione, non sapeva nemmeno se fosse ancora vivo. Delle tenaglie sembrano strizzargli il petto, adesso, in un punto molto vicino al cuore. Deve sforzarsi per non far incastrare il respiro in gola e rimane immobile come una statua di sale.

Guarda di nuovo di sottecchi Nathan. Il suo bicchiere è vuoto, adesso, però indugia ancora in cucina, coi palmi poggiati sulla penisola centrale e lo sguardo perso chissà dove. Torce le maniche della sua maglia da notte e poi, per un istante, fa per portarsi la mano al collo, dove un tempo pendeva il ciondolo con l’anello di Francis Drake.

Quel gesto, da sempre sinonimo di brutti pensieri, fa partire delle sirene d’allarme nelle orecchie di Sam.

«Nathan?» chiede nella penombra, semplicemente.

Una domanda che non ha bisogno di essere formulata per intero in un “a che pensi?

«Ti ricordi quando ti ho raccontato di Ubar? Di Iram dei Pilastri?»

Quelle parole sfrecciano via dalla bocca di Nathan come frecce mal incoccate, cadendo ai suoi piedi. È chiaro che le sta trattenendo da un po’, ma Sam non riesce a capire se sia da qualche minuto, ora o mese. La sensazione è che siano dette d’impulso, ma che vi abbia rimuginato su un bel po’, anche se le ha sparate via dal nulla.

Nathan sa essere molto riflessivo, al contrario di quanto ci si aspetterebbe da lui. Il problema è che, non importa quanto a lungo rimugini su qualcosa, la maggior parte di ciò che dice o fa è frutto di reazioni istintive e dettate dal momento. Una volta, Chloe gli ha detto che non ha alcun filtro tra cuore e bocca, e Sam tende suo malgrado a concordare.

È difficile parlare con suo fratello faccia a faccia, non perché abbia atteggiamenti sgradevoli, ma perché tende a mettersi completamente a nudo, ad aprirsi senza timore, e Sam non è mai stato bravo a gestire le emozioni altrui; ha già il suo bel daffare con le proprie.

Quindi, è con lingua pesante e mente già sulla difensiva che mette insieme le successive parole.

«Certo che mi ricordo. È stata l’avventura più folle della tua vita, sei quasi morto essiccato nel Rub’al Khali e hai distrutto l’Atlantide del Deserto, ricordo bene?»

«Ottimo riassunto.»

C’è una nota rigida, nella voce di Nathan, una tensione impercettibile nel suo sorriso che si spegne subito. Sam si prende un momento per osservarlo meglio: sì, per lui è sempre stato un libro aperto, ma questa è una pagina che fatica a leggere, come se fosse in penombra. O, forse, è una pagina che non ha mai visto, una di quelle scritte durante la sua assenza.

«Quindi? Che c’entra Ubar?»

Nathan non risponde subito. Certo, è sempre stato lui quello diretto, anche troppo, quello che si dipinge a colori vivaci ogni emozione in volto, ma ciò non vuol dire che sappia esprimersi in modo chiaro. Di solito, tira fuori un groviglio di parole confuse e sconnesse, un groviglio che Sam ha imparato a districare sin da quando suo fratello sa parlare e lui è in grado di capirlo.

«Hai presente...» comincia Nathan, gesticolando con una mano, per poi piantarla sul bancone per tenerla ferma. «Hai presente che c’era... quell’acqua tossica di cui ti ho parlato? E io l’ho bevuta e ho allucinato delle cose fuori di testa?»

«Non sei entrato nel dettaglio, ma sì, mi ricordo,» annuisce Sam, avvertendo un piccolo brivido nella spina dorsale. «Dev’essere stato terribile.»

«È un eufemismo.»

La sua voce si fa aguzza, adesso, quasi taglia l’aria. Sam capta qualcosa di simile a rabbia appena sotto la superficie, qualcosa che non riesce a inquadrare del tutto e che scombina di nuovo tutte le parole sulla pagina. Lo vede deglutire a forza, sempre senza incrociare i suoi occhi.

Sam comincia a mettere insieme i pezzi. Ha avuto un incubo? Non gli sembra plausibile: col sonno pesante che si ritrova, è difficile che si ricordi cosa sogna, è una sorta di difesa naturale contro gli incubi. Gli unici di cui Sam ha memoria sono quelli che ha avuto durante le prime settimane all’orfanotrofio, ma aveva appena cinque anni. Dieci anni dopo si sono ripresentati brevemente, quando a Cartagena è scampato per un soffio alla morte.

Nathan non ha mai incubi – e, nel momento stesso in cui formula quella nozione, Sam si rende conto che è vecchia, obsoleta, una nozione che non prevede l’aver visto morire un fratello davanti ai propri occhi. Il suo “dopo”, in prigione, è stato orribile. Non vuole pensare a come dev’essere stato il “dopo” di Nathan. Neanche lui vuole avvicinarsi a quell’abisso, realizza, con un senso di soffocamento che lo prende alla gola facendolo sentire di nuovo in cella.

Ma è lui il fratello maggiore, quindi non ha l’opzione di tirarsi indietro.

«Vuoi... parlarne?» chiede allora, esitante – no, non è bravo con queste cose, non sa mai cosa dire e quasi spera che Nathan alzi le spalle, dica di no, e se ne torni a dormire.

Nathan alza davvero le spalle, ma non parla, né si muove, e incrocia invece le braccia al petto.

«In realtà, no, ma...» Scuote la testa con forza, per poi passarsi una mano sulla bocca, stringendosi il mento e ovattando le proprie parole. «Non si tratta di quello, non... Non è quello il punto, sto cercando di–»

«Arriva al punto, allora.»

Nel momento in cui parla, vedendo il piccolo scatto di Nathan, Sam realizza che forse è stato troppo brusco. Si tira su in ginocchio sul divano, piantando I gomiti sullo schienale.

«Dai, dammi fiducia, non mi addormento mica,» aggiunge, forzando un tono leggero.

Nathan alza del tutto gli occhi per la prima volta. Sam si blocca, preso alla sprovvista. Hanno una sfumatura strana: sono grigi, più che blu, quasi appannati. Sam capisce solo in quel momento che le parole esitanti e sconnesse di suo fratello non erano dovute solo al nervosismo. Sta attivamente trattenendo le lacrime, adesso ne vede il brillio nella luce soffusa.

Sam si acciglia, con lo stomaco che si contrae in modo improvviso e doloroso, ma si costringe a sostenere il suo sguardo senza tentennare. A che diavolo stai pensando, fratellino?

«Prima di tutto, nell’allucinazione, ho... ho visto che sparavano a Sully, di fronte a me. Mi è morto tra le braccia,» comincia Nathan, senza riuscire a mantenere una voce stabile. «E lì sono uscito di testa. Mi sentivo veramente pazzo, sembrava tutto così vero e finto al contempo. A un certo punto sono tornato a Cartagena e lì Sully... Sully mi ha sparato su quel tetto, invece di salvarmi, e poi... poi ero in Panama, quando tu...» deglutisce a stento, prendendo un respiro tremolante e rinunciando a finire la frase. «Ero ovunque e da nessuna parte, in ogni momento della mia vita, e andava avanti all’infinito e–»

Si interrompe, boccheggiando e aggrappandosi con le mani al bancone. Sam si è alzato senza nemmeno rendersene conto, avvicinandosi un cauto passo alla volta.

«E?» lo sprona, nel modo più delicato che può, poggiando i palmi delle mani sull’altro lato del bancone, di fronte a lui. «Cos’altro hai visto?»

Nathan scuote la testa e la tiene bassa, sfuggendo di nuovo il suo sguardo.

«Te l’ho detto, non è questo il punto. Fa male ripensarci, ma... Ciò che importa è che sembrava tutto così vero. Riuscivo a toccare tutto, sentivo i sapori, gli odori, i suoni. Non sembrava un sogno, ma... dei ricordi. Come se fosse tutto vero.»

Sam comprime le labbra, trattenendosi dal pressarlo ancora, anche se non capisce dove sta andando a parare. Avverte distintamente la lotta che sta ingaggiando Nathan tra mente e parole, una lotta quasi fisica, al punto che gli fremono in modo impercettibile le mani.

«A volte...» riprende poi, soppesando ogni parola con tono più fermo. «A volte ho questi momenti. Di solito di notte. Dei momenti in cui mi sento come se non mi fossi mai svegliato da quel sogno, a Ubar, e sto... continuando a sognare e nulla di tutto questo è reale, è solo il mio cervello che dà i numeri, che inventa ciò che vuole. Cose brutte, belle, non fa differenza e...»

Nathan alza finalmente lo sguardo e lo fissa dritto negli occhi. Ha quella stessa espressione in viso, la stessa espressione di quando l’ha rivisto per la prima volta dopo quindici anni. Come se avesse visto un fantasma.

«A volte, non riesco a credere che tu sia di nuovo qui.»

Sam manca un battito, un tuono vuoto che gli rimbomba nel petto e gli comprime la gola.

«Cosa?» riesce solo a dire, a mezza voce, con la lingua che sembra di carta vetrata e gli scortica a sangue la bocca.

«Lo so che è stupido... ma è così,» bofonchia Nathan, scrollando le spalle troppo debolmente e abbassando lo sguardo. Poi continua, a malapena udibile. «Sembra solo un sogno.»

Sam tentenna tra il voler fare una battuta di cattivo gusto e l’arrabbiarsi senza un motivo, a corto di opzioni. Niente di ciò che ha detto Nathan ha alcun senso.

Lui è tornato, no? Magari avrebbe potuto essere un po’ più elegante nei modi, ed evitare di imbastire tutta la puttanata di Alcázar, ma è tornato, ed è quello che conta. Pensava che la cosa fosse risolta. Ovvio, si era aspettato un po’ di risentimento, ma suo fratello ha il perdono facile e il cuore tenero, quindi non si è dato troppo pensiero. Di certo non si aspettava questo.

«Senti, non so bene come dimostrarti che sono vivo e vegeto e reale, ma lo sono, ok?» sbotta infine, troppo bruscamente, quasi irritato – è irritato, lo è sempre quando non capisce qualcosa, o quando Nathan tira fuori problemi anche quando non ci sono.

«Questo lo so, ma–»

«E le cose che hai visto, le allucinazioni, era tutta roba orrenda, no?» lo interrompe e fa un sorrisetto e non sa nemmeno lui cosa sta facendo, cerca solo di parlare senza alcuna esitazione. «Roba orrenda, terribile. Cosa sono, io, un mostro? Sono così orrendo e terribile?»

Nathan non ride alla battuta come dovrebbe, anzi, il suo volto sembra crollare, afflosciarsi su se stesso, come se Sam non stesse reagendo affatto come si aspettava. Non che Sam sappia cosa aspettarsi.

«Certo che no,» quasi esclama, con quel tono un po’ acuto di quando si offende. «No, scoprire che sei vivo e riaverti qui... è la cosa più bella che mi sia capitata, ma–»

Si blocca di nuovo, inspirando bruscamente e pizzicandosi la radice del naso.

«Ma cosa?» sbotta Sam, sentendo che la sua pazienza cede a quella piccola parola, quel “ma” che mette in discussione tutto. «Cosa stai cercando di dirmi, Nathan? Che non dovevo tornare?»

Gli scappa, quell’osservazione caustica, gli scappa e non può ricacciarsela in gola. Vede la piccola contrazione addolorata sul volto di Nathan, quasi gli avesse dato uno schiaffo. Non reagisce, ma fa un altro piccolo respiro calmante e, quando lo guarda di nuovo, è con l’espressione più seria e al contempo devastata che gli abbia mai visto in viso.

«Ma, quando sei uscito di prigione, mi hai tenuto all’oscuro di tutto per due anni,» dice, stavolta senza la minima esitazione. «È questo, Sam, che a volte mi fa pensare che io stia allucinando tutto, perché non riesco a credere che mio fratello mi farebbe mai una cosa del genere.»

Sam si ritrae istintivamente, sfuggendo i suoi occhi. No, questo non se l’aspettava. Ma forse avrebbe dovuto.

«Ne abbiamo già parlato,» dichiara, staccando nettamente le parole quasi le stesse tagliando con l’accetta.

«No, non ne abbiamo parlato!» ribatte Nathan, a voce più alta, alzando di scatto la testa e fissandolo con una furia di cui Sam non l’avrebbe mai ritenuto capace. «Sì, lo so cosa hai fatto, mi hai detto che hai cercato il tesoro di Avery con Rafe, che hai ripreso vecchie piste, che sei andato alla cattedrale in Scozia e non so cos’altro...»

«Nathan.»

«... ma non mi hai mai spiegato perché non sei venuto subito da me. Non era nemmeno così difficile trovarmi, potevi rintracciare Sully o Chloe o Charlie... che cavolo, persino Rafe avrebbe saputo dirti dov’ero!»

«Nathan.»

«È la prima cosa che io avrei fatto e non riesco a credere–» si interrompe per risucchiare un respiro, a malapena sufficiente per continuare: «Non riesco a credere che tu non l’abbia fatto, o che tu abbia scelto di non farlo, o che hai aspettato finché non hai avuto assolutamente bisogno del mio aiuto. Non ci riesco, a crederci, non voglio, e quando ci provo... quando provo a trovarci un senso... Non voglio trovarci un senso, perché–»

«Nate.»

Quel richiamo lo blocca sul posto, quel vezzeggiativo affettuoso che Sam non usa praticamente mai. Non ricorda nemmeno l’ultima volta che l’ha chiamato così; era normale quando erano bambini, prima dell’orfanotrofio. Poi, la loro vita era diventata un inferno e Sam era dovuto diventare adulto: niente più giochi, niente più fingere che andasse tutto bene, niente più “Nate”. Era una delle tante cose relegate al breve sprazzo di vita normale che avevano avuto.

Il petto di Nathan si alza e abbassa in un ritmo discontinuo, seguendo i respiri agitati che lo scuotono, dopo la valanga di parole che l’ha lasciato senza fiato. Sam si irrigidisce quando vede anche una lacrima che gli scivola lungo la guancia, seguita da un’altra, e poi un’altra, e poi un’altra ancora, silenziose, quasi invisibili. Nathan non prova nemmeno ad asciugarle, come se non appartenessero davvero a lui.

Sam rimane paralizzato sul posto, quasi a occhi sbarrati, senza la minima idea di cosa fare. È come se l’universo si fosse capovolto, come se chiamarlo “Nate” avesse lanciato un incantesimo che ha rotto la diga che stava arginando tutto.

Nathan è emotivo, sì, e si fa influenzare facilmente, si arrabbia per nulla e perdona per nulla, è del tutto incapace di nascondere ciò che prova. È quel libro che Sam può sfogliare senza nemmeno pensarci, un libro che conosce a menadito da quando Nathan è nato.

Sam l’ha visto con gli occhi lucidi e l’ha sentito tirar su col naso in silenzio più di una volta: Nathan non ha mai sentito il bisogno di dimostrare nulla in quel senso, non ha mai pensato di non doversi mostrare debole, soprattutto non con lui. Ma Nathan è anche quello che sorride e fa battute e si lascia scorrere addosso tutto, senza mai lasciarsi abbattere da nulla, è quello che le lacrime le versa ridendo.

Solo che, adesso, è di fronte a lui e sta piangendo, col respiro spezzato, e Sam non ha la minima cazzo di idea di come gestire la cosa. Si è anche dimenticato perché l’ha chiamato “Nate” o cosa stesse per dirgli, e Nathan lo interrompe non appena lo vede schiudere la bocca:

«Dimmi solo la verità, ok?» dice subito, con voce traballante. «Se volevi stare senza di me, se avevi bisogno di altro tempo– lo capirei, Sam, sei stato obbligato a starmi appresso da quando avevi dieci anni, e poi ne hai persi altrettanti in prigione... ed è colpa mia, ho rovinato tutto e ti ho lasciato cadere io, quel giorno. Lo capirei, se non mi avessi voluto vedere per un po’ e goderti la libertà, davvero,» ripete, e stavolta un singulto che non riesce a trattenere gli spezza le parole. «E va bene così, non devi mentirmi o... o inventarti un’altra storia assurda come quella di Alcázar. Va bene in ogni caso.»

La voce sconnessa e rotta dal pianto di Nathan è più di quanto Sam riesca a sopportare – gli ricorda quei primi giorni orribili all’orfanotrofio, quando suo fratello gli si attaccava alla manica, disperato, chiedendo di andare a casa anche se il loro padre di merda non li voleva più. Una fitta atroce al petto gli dice che stavolta ha fatto una cazzata, una cazzata enorme, la peggiore della sua vita.

«Ma che diavolo stai dicendo?» replica invece, in tono così duro che si darebbe volentieri uno schiaffo da solo. «Pensi davvero queste cose? Le stai pensando? È questa l’idea che hai di me?»

«Cosa hai fatto per farmi pensare il contrario? A parte cercarmi solo quando ti serviva? A parte far finta di niente?» il sorriso fiacco e amareggiato di Nathan è il colpo di grazia.

Sam si muove prima ancora di deciderlo, una di quelle reazioni istintive di attacco o fuga che si innescano quando è sotto tiro o sul ciglio di un burrone. È sempre così, con Nathan, è sempre pronto a gettarsi di fronte a un proiettile o ad afferrare suo fratello all’ultimo secondo.

Quindi, stavolta, lo afferra per le spalle e lo trascina bruscamente in un abbraccio spaccaossa, di quelli che non gli dà da forse anche più di quindici anni. Inspira profondamente contro il sussulto di sorpresa di Nathan, quando l’aria gli si incastra in gola, e lo stringe quasi con violenza. Lo stringe per molti secondi, con le parole che gli muoiono più volte in bocca prima di arrivare alle labbra.

«Sei... sei un deficiente,» mormora infine. «Idiota. Testa di merda. Ti sembro un’allucinazione, adesso? Cazzo, sei così stupido che ti picchierei. Mi viene davvero voglia di picchiarti. Giuro su Dio, domattina appena mi sveglio ti do un pugno.»

Invece, lo stringe di più, così forte che probabilmente gli fa comunque male, gli incrina qualche costola e gli lussa le spalle, ma non gli importa. Riesce a sentire i suoi singulti soffocati e il suo respiro lieve e discontinuo direttamente nelle ossa, adesso, e non muove un dito per spingerlo via, ma non ricambia nemmeno l’abbraccio.

Rimane inerte nella sua stretta, come se non la avvertisse. Gli sembra tornato un bambino, quando era ancora abbastanza piccolo da poterlo prendere in braccio per dargli quegli abbracci soffocanti che detestava e lo facevano ridere al contempo.

Sam non l’ha mai visto così... a pezzi. Li vede cadere davanti ai suoi occhi e non sa come rimetterli a posto. Quasi spera che, stringendolo abbastanza forte, possa ricomporli in qualche modo. Nathan articola le parole successive in un singhiozzo quasi incomprensibile, mettendo in chiaro che, no, non sarà così semplice:

«Pensi che quello che ti è successo sia colpa mia?»

«No,» ribatte lui all’istante con un vuoto allo stomaco, stringendolo ancora e portando una mano alla sua nuca. «Certo che no.»

«Allora perché hai aspettato due anni?»

Cristo santissimo. È veramente un mostro. Sam si sente il cervello sottosopra, che balza da un pensiero all’altro senza alcuna logica, ma quella è l’unica, inconfutabile conclusione a cui arriva.

I loro genitori li hanno abbandonati, in un modo o nell’altro. Nathan quasi non se li ricorda, ma sa di essere stato abbandonato. E ha avuto solo lui, solo Sam, per tutta la vita, la sua unica ancora, l’unico appiglio sicuro, il punto fermo a cui poteva sempre rivolgersi.

Sam sa che, più di una volta, Nathan si è sentito un fardello, ma ha sempre fatto del suo meglio per togliergli quell’idea dalla testa prima che mettesse radici. Pensava di esserci riuscito.

Solo che, a un certo punto, anche Sam l’ha abbandonato. E poi non è tornato subito da lui, pur avendone la possibilità. Ha aspettato, gli ha mentito, ha dato di nuovo terreno fertile a quella pianta tossica e l’ha fatta attecchire.

Sam può solo immaginare come debba apparire tutto ciò, visto dagli occhi di Nathan. Quanto deve essere doloroso. Che pensieri orrendi può evocare un atto simile. Sentirsi usato e gettato via, lasciato indietro, di nuovo, non voluto. Percepisce la sofferenza che si irradia da suo fratello, quel tipo di sofferenza opprimente che non lascia nemmeno spazio alla rabbia e ingoia ogni atomo d’aria nel petto.

Preme il palmo sulla nuca di Nathan, con l’altro braccio che continua a cingergli le spalle, e stavolta è lui, a sentirsi tremare il respiro. Nathan ancora non ricambia la stretta e si appoggia a lui quasi a peso morto, con la fronte premuta contro la spalla. È silenzioso, adesso, ma continua a piangere, lo sente dalla macchia umida che gli si allarga sulla maglietta.

Non l’ha mai visto così, e quel pensiero martellante va a colpire la realizzazione che sta lottando per emergere da minuti interi: non l’ha visto nemmeno dopo che credeva di averlo perso per sempre. È stato così anche allora? È stato peggio? Sam sa che deve essere stato peggio, molto peggio di così.

Lui non riesce nemmeno a concepire l’idea di perdere Nathan; in prigione l’ha sfiorato, più volte, ma poteva sempre appellarsi alla speranza e al non sapere nulla per certo. Nathan questo lusso non l’ha avuto.

Sam chiude gli occhi, facendo scorrere la mano sulla schiena di Nathan, goffamente, nel tentativo di calmarlo e calmarsi a sua volta.

Cazzo. Ha fatto un casino. Un vero casino.

«Ti ho cercato non appena sono riuscito a rientrare negli Stati Uniti. È stata la prima cosa che ho fatto,» comincia poi, in un mormorio, come quando da bambini gli leggeva una storia o ne inventava una sul momento. «Sono tornato a Boston, al nostro vecchio appartamento, ma non eri lì. Ci è voluto un po’, tutti i nostri contatti si erano trasferiti o erano spariti, ma alla fine ti ho rintracciato a New Orleans. Sono venuto qui subito. Non vedevo l’ora di rivederti.»

Sam fa una pausa e sorride appena, con quei ricordi dolceamari che si scontrano nella sua testa come eserciti che scendono in guerra. Nathan tace, respirando appena.

«Non sapevo cosa aspettarmi. Avevo persino paura di non riconoscerti,» aggiunge, con un piccolo sbuffo. «Poi ti ho visto. Ed eri... felice. Non ti avevo mai visto così felice. Avevi una casa, un lavoro, una moglie, una vita bella, normale. Anche senza di me.»

Sam deglutisce, cercando la forza di pronunciare quelle parole che hanno continuato a sfuggirgli per mesi.

«Ho avuto paura, credo. Non avevo il coraggio di parlarti. Non sapevo cosa dirti. Eri andato avanti, era chiaro, e io ero ancora bloccato al prima, a fantasticare su tesori e avventure come un ragazzino, e potevo offrirti solo tredici anni di prigione.»

«Pensi che mi sarebbe importato più di riavere mio fratello?» interviene Nathan, sottovoce, premendo con più forza la fronte contro la sua spalla, quasi a fargli male.

«Ti meritavi un fratello migliore di così.»

Nathan si scosta da lui, spingendolo via di scatto per guardarlo in volto. Ha gli occhi rossi, le guance rigate da scie umide e salate che non si cura di nascondere.

«Sam, per quindici anni ho pensato di averti lasciato morire in quella prigione. Invece eri vivo e non mi sarebbe importato di nient’altro. Non mi importa ora e non mi importerà mai.»

«Ah, adesso non ti importa? Ti sei guardato in faccia?»

Nathan distoglie lo sguardo e si sfrega gli occhi quasi con furia con l’orlo della manica, ma continua a respirare in modo discontinuo, con le ciglia ancora fradice, e deglutisce in modo udibile, senza replicare.

«Dovevo offrirti qualcosa, per poter tornare,» riprende Sam, con la sensazione di dare voce a parole inutili, vuote. «Non potevo semplicemente bussare alla tua porta a mani vuote e rientrare nella tua vita, come se nulla fosse.»

A quel punto, Nathan si lascia sfuggire un verso incredulo.

«È esattamente ciò che hai fatto due anni dopo, stronzo.»

«Sì, ma avevo trovato una pista per il tesoro. Non ero a mani vuote e...» la sua voce si affievolisce nel rendersi conto che Nathan sta per fare un passo indietro, un lampo di incredulità – no, di delusione – a illuminargli il volto distrutto.

No, no, no. Lo afferra per le braccia e lo obbliga a rimanere lì, per poi stringerlo di nuovo a sé mentre parla rapido, sottovoce, come se ci fosse qualcuno ad ascoltarli, ma quelle parole deve sentirle Nathan, solo Nathan:

«Dovevo finire quello che avevamo iniziato, Nate. Dovevo farlo, dovevo trovare il tesoro di Avery e completare la ricerca di mamma con te. È l’unica cosa che non mi ha fatto impazzire in prigione, ci pensavo sempre, sempre. E se non l’avessi fatto, sarebbe stato davvero solo tempo perso, tredici anni persi, così,  per niente. Dovevo dare un senso a quel tempo, e dovevo farlo con te, dovevo riempire quel vuoto con qualcosa.»

Fa una pausa, senza fiato, per poi continuare ancor più piano:

«Non è stata una passeggiata, tornare nel mondo vero dopo tredici anni in una cella. Erano cambiati due Presidenti, non potevi più viaggiare come e dove ti pareva, chiunque aveva un cellulare, la gente si vestiva in modo assurdo, non sapevo nemmeno cosa fosse un social. Mi sentivo tagliato fuori, come se non avessi più un posto mio in quel mondo. Non sapevo nemmeno più chi fossi tu e non sapevo se quello che ero diventato sarebbe stato abbastanza, da solo. Quindi dovevo ricominciare tutto da capo con... con qualcosa di familiare, qualcosa che conoscessi come le mie tasche.»

Sam si interrompe di nuovo, con la gola secca e lo sa, sa che sta parlando a vanvera, che è sconclusionato, ma spera comunque di poter dare un senso a quelle parole.

«E andare a caccia di tesori è sempre stato qualcosa di solo nostro, no?»

«Era la cosa che ci riusciva meglio,» dice Nathan, e Sam lo sente sorridere appena, seppur con voce flebile.

«È la cosa che ci riesce meglio,» lo corregge, sorridendo a sua volta, con la vista che si appanna.

Spinge via Nathan con delicatezza, per guardarlo di nuovo negli occhi.

«Ho fatto una cazzata, fratellino. Lo so.» Gli dà una piccola pacca sulla guancia bagnata e lascia lì la mano, impacciato, goffo. Lui non si tira indietro. «Ma non ho mai, mai pensato di abbandonarti. Levatelo dalla testa, ok?»

Nathan annuisce appena contro il suo palmo, poi tira le labbra in una riga sottile, severa, gli occhi che si fanno duri dietro il velo liquido che li annacqua.

«L’unico “idiota” qui sei tu. Lo sai, vero? E ti meriteresti un pugno.»

«È vero, ma sto cercando di... di...»

Sam si interrompe, lasciando ricadere la mano. Non è mai stato bravo con queste cose. Dare voce alle emozioni, mostrare affetto, scusarsi. E adesso sta facendo tutte quelle cose insieme. Si sente esausto.

«Lo so,» lo sorprende Nathan, e stavolta sorride appieno, in quel suo modo un po’ timido e genuino che gli assottiglia gli occhi.

Lo tira di nuovo a sé, abbracciandolo davvero per la prima volta, con forza, proprio come quando l’ha rivisto.

«Dispiace anche a me... per averti detto quelle cose. Non le penso davvero.»

Sam rinuncia a parlare e accetta l’abbraccio, annuendo piano contro la sua spalla. Quelle due lacrime traditrici che gli tremolavano all’angolo degli occhi gli scivolano lungo le guance al primo battito di ciglia. Sono solo quelle due, solitarie, ma portano con sé un sollievo che non si sarebbe mai aspettato.

Ha pianto più di quanto gli piacerebbe ammettere, durante i primi due o tre anni di prigione. Non che ci fosse qualcuno a guardarlo, quindi non gli sembrava mai di piangere davvero. Voleva solo uscire, respirare l’aria fresca, crogiolarsi al sole, sentire il vento tra i capelli e guardare la luna senza sbarre a ingabbiarla.

Tornare da Nathan e sapere che stava bene, abbracciarlo con tutte le forze e giurare che non l’avrebbe mai più lasciato. Quella speranza si era affievolita con ogni giorno passato dietro le sbarre, con la luce che sembrava sempre più lontana all’orizzonte e la sua risolutezza che barcollava sempre più, senza mai crollare del tutto.

Ha scritto così tante lettere che non hanno mai raggiunto suo fratello. Ha provato a scrivere al loro vecchio indirizzo a Boston, a Sully, a Chloe, a qualunque indirizzo riuscisse a ricordare. Ha scritto persino all’orfanotrofio, preso dalla disperazione, ha scritto addirittura a loro padre senza nemmeno sapere se fosse ancora vivo.

Ma sa che le sue lettere non hanno mai nemmeno raggiunto l’ufficio postale e sono state probabilmente stracciate e buttate via non appena la guardia incaricata varcava la porta del suo blocco. Ha smesso di scriverle, dopo un po’.

A volte, vorrebbe non aver smesso. In quel momento, gli era sembrato di aver accettato che Nathan fosse morto, o che lui, Sam, fosse destinato a invecchiare e morire in quella prigione. Gli era sembrato di firmare la sua stessa condanna a morte. Ma Nathan è vivo, di fronte a lui, ed è diventato esattamente l’uomo che sperava diventasse quando erano solo ragazzini. Diverso da lui, ma comunque simile.

Lo ammira, realizza Sam, ammira il modo in cui ha continuato a vivere e a fare ciò che amava a dispetto di tutto, portando avanti la loro passione e, con essa, il suo ricordo; ammira il fatto che sia rimasto una persona buona, nonostante avesse più di un motivo per non esserlo; ammira che sia riuscito a diventare affidabile e sicuro di sé, al punto che a volte adesso sembra lui, il fratello maggiore.

Sam si è quasi sentito invidioso, all’inizio, nel sapere che lui era rimasto bloccato nello stesso punto ed età per mezza vita, mentre Nathan aveva avuto la possibilità di lanciarsi nelle avventure più folli, quelle che avrebbero dovuto vivere assieme. Quel sentimento era evaporato strada facendo, rimpiazzato dall’affetto puro e assoluto che aveva continuato a coltivare in prigione, ma che era esploso, cento volte più potente, nell’essere di nuovo accanto a lui a fare ciò che amavano di più.

Non sa quando sia accaduto, di preciso. Forse quando Nathan si è rifiutato di lasciarlo morire sulla nave in fiamme. Forse ancor prima, quando Nathan l’ha rivisto per la prima volta dopo quindici anni e si è lanciato in un abbraccio senza nemmeno pensarci, senza la minima esitazione. Forse proprio ora, nel sentire il suo perdono che gli scorre nelle vene come un balsamo.

Non importa quando è accaduto. Sa solo che gli è mancato da morire e che è fiero del suo fratellino, con ogni fibra del suo essere. Non glielo dirà mai, probabilmente, ma spera che lo capisca lo stesso.

Sam lascia andare un breve respiro, per poi sorridere appena.

«Ti viene in mente qualche altra cosa a caso su di me, adesso?» gli chiede, quando è sicuro che la sua voce non suonerà troppo incerta.

Nathan ridacchia piano, tirando un po’ su col naso, senza curarsi di nascondere il suo subbuglio interiore.

«Qualcuna. Non metti mai niente di rosso. Ti piacciono i rettili e volevi un camaleonte domestico.»

«E l’avrei anche avuto, se non fosse stato per te.»

«Ci ho risparmiato un sacco di domande scomode e una multa alla dogana brasiliana,» replica Nathan, apparentemente senza alcuna intenzione di staccarsi da lui. «Poi... quando mangi, ti tieni sempre per ultimo quello che ti piace di più. Odi gli ombrelli... e a Boston era un problema, ne hai persi almeno una decina. Hai iniziato a fumare solo per far colpo su una ragazza... Crystal, giusto?»

«Ma come cavolo fai a ricordartelo?» Sam fa un verso buffo col naso, trattenendo una risata.

«Mi ci hai ammorbato per mesi,» ribatte pronto Nathan. «Cos’altro? Volevi imparare a disegnare, ma se sempre stato troppo orgoglioso per chiedermi di insegnarti.»

«Io so disegnare.»

«Certo, disegno omini stilizzati molto artistici, e cani che sembrano mucche,» sghignazza Nathan, e Sam gli pianta un dito tra le costole per zittirlo. «Ah, e detesti bere la Samuel Adams, perché ha il tuo nome completo scritto sopra.»

Quell’ultimo commento strappa a Sam una risata piena, una di quelle abbaiate e assordanti che osa concedersi solo davanti a suo fratello, una di quelle che ha scoperto di riuscire ancora a tirar fuori anche dopo la prigione.

«Buon per me, allora, ho comprato la Bud Light,» dice, lasciandogli un’ultima pacca sulla schiena prima di scostarlo da sé, tenendo però un braccio sulle sue spalle. «Che ne dici?»

Nathan annuisce, asciugandosi le ultime lacrime residue, anche se i suoi occhi rimangono lucidi e intensi – non di tristezza, stavolta, tutto il contrario.

«Sì. Sì, perché no.»

Sam sogghigna compiaciuto, col petto che si gonfia e riempie della cosa più simile alla felicità pura dopo tanti anni. Per una cosa così piccola, dopotutto, ma che per tanto tempo è sembrata impossibile.

Perché, se Sam ha mai chiesto la luna in vita sua, è stato quando ha desiderato di riavere indietro suo fratello e passare la notte a bere birra scadente con lui. E, se dovesse chiedere la luna adesso, sa che la chiederebbe a Nathan e poi la tirerebbe giù dal cielo con lui. 



 

FINE
 

✧ ✧ ✧


 


Note dell’Autrice:
Qualcuno ha detto angst e hurt/comfort? Beh, eccolo.
Mi sono divertita molto a scriverla, ce l’avevo in testa da un sacco di tempo e non mi aspettavo venisse fuori un mostro di quasi 10.000 parole, but here we are.
Ogni commento è gradito, grazie per aver letto fin qua ♥
-Light-

Note:
- La Samuel Adams è una birra prodotta a Boston.
- Sam va in prigione più o meno nel 1997-98 ed esce quindi nel 2013-14, lo dico come promemoria nel suo riassumere cosa è cambiato da allora.
- La menzione del non poter viaggiare liberamente è riferita all’attentato dell’11 settembre, in seguito al quale hanno introdotto molte delle odierne misure di sicurezza aeroportuali.

 

 

   
 
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