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Autore: Marti Lestrange    25/09/2022    2 recensioni
[ Dall'atto I: "Era cattiva, Walburga Black, e forse è proprio la sua cattiveria ad averla tenuta viva negli ultimi mesi, quando la malattia se la voleva portare via ma lei si aggrappava al suo letto con tenacia e perseveranza. Mi sono chiesta che cosa accendesse quella cattiveria, che cosa l’alimentasse persino quando non c’era più nulla, intorno a lei e dentro di lei, al quale attingere." ]
— mini-long in cinque capitoli partecipante all’iniziativa “Cinque fette di torta alla melassa” indetta sul gruppo Facebook “L’angolo di Madama Rosmerta” ;
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Walburga Black
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra, Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'in the name of the Black.'
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NOTA DELL’AUTORE. Per correttezza, ci tengo ad inserire un WARNING relativo a una tematica delicata: Walburga in questo capitolo affronta la sofferenza di non riuscire ad avere figli. So che questo argomento può essere particolare causa di sofferenza per molti, per chiunque ci sia passato o ci stia passando, e/o per chi si senta, più o meno direttamente, coinvolto, quindi ho preferito avvertire. Grazie per l’attenzione 🙏🏻 

 


 

dance of death.

 

[ atto IV — bedsheets ]

 

Le lenzuola sono sporche di sangue. Sembra ci sia sangue dappertutto, in quella stanza: sulle lenzuola, i cuscini; a imbrattare le pareti ricoperte di una tenue carta da parati verde, a fiori; sulle tende chiuse dalle quali non filtra raggio di sole, che sia anche per sbaglio; sul pavimento che adesso oscilla sotto i miei piedi come se mi trovassi sul ponte di una nave nel bel mezzo di una tempesta. 

 

È tutto rosso.

 

✩ 

 

Evan Rosier è nato nel sangue, quasi come se fosse una profezia. O un anticipo del sangue che avrebbe versato da adulto. Nessuno di noi sapeva. Non allora, era troppo presto. Damien mi spiegò che in Gaelico, Evan voleva dire “giovane guerriero”, e che gli sembrava estremamente appropriato per il suo primogenito. Il primo dei tanti figli che lui e Medea avrebbero avuto. “Voglio crescere un esercito di guerrieri, Walburga,” mi sussurrò prima di cambiare argomento e affondare la lingua dentro di me, ancora e ancora. 

 

Non ebbi cuore di dirgli che non me ne importava nulla, né di come avrebbe chiamato suo figlio, né di quanti figli effettivamente avrebbe voluto. Ma lo lasciai parlare, gli piaceva confidarsi con me, e io mi confidavo con lui. Non era un mistero per Damien che io e Orion stessimo faticando ad avere un bambino. Un Medimago aveva visitato entrambi e aveva asserito che eravamo entrambi sanissimi, anche se avevo il dubbio che avesse nascosto qualcosa riguardo la condizione di mio marito, qualcosa che Orion stesso sapeva e che non mi aveva voluto dire. Quindi davvero, non avevamo nulla che non andava, almeno sulla carta, almeno per quel Medimago. Non avevo raccontato a nessuno dei miei sospetti, però, nemmeno a Damien. 

 

Questo nostro accanimento però mi logorava dentro. Era sempre più dura constatare che il nostro impegno e i nostri sforzi non davano alcun risultato, e diventava sempre più dura man mano che i mesi passavano e che un sacco di altre donne della nostra cerchia restava incinta o partoriva un marmocchio. Queste nascite venivano sempre accolte con un gran baccano di feste e brindisi, soprattutto se si trattava di un maschio: voleva dire che le famiglie Purosangue avrebbero avuto un futuro, che sarebbero sopravvissute al tempo e alla storia, imperiture. Era anche il mio desiderio: vedere la casata dei Black allungarsi e srotolarsi avanti a noi negli anni, nei secoli, e per merito mio, mio e di Orion. E invece sembrava che dovessi essere punita per chissà quale errore o fio passato, forse come contrappasso per qualcosa che avevo fatto in una vita precedente, chi lo sa. 

 

Non arrivava nessun bambino, e la gente parlava. Li potevo quasi sentire sussurrare alle mie spalle, tirare fuori chissà quali malignità, soprattutto sul mio conto: in fondo, era sempre la donna, il problema; gli uomini erano sempre sani, attivi, dei veri “stalloni”. Non mancavano mai un colpo. Quindi, era colpa mia. Il povero Orion, si vedeva, era magro e pallido, io lo stancavo troppo, e lui si sforzava tanto, si sfiniva a forza di penetrarmi, anche tutta la notte, a volte, povero cuore. E io, io ero una strega arida, una donna asciutta dal ventre sterile e vuoto, una spianata desertica dove niente sarebbe cresciuto mai, ed ero quindi destinata a veder perire il mio nome, e secoli e secoli di storia e tradizioni ed eredità. Questo era quello che si sussurrava dietro alle mie spalle, e che gli uomini borbottavano ad Orion in segno di solidarietà nei loro salotti, una mano sulla spalla, quando bevevano Whisky Incendiario e fumavano sigari e parlavano dei loro affari. Ma non erano mai parole di biasimo, o critiche. No, lui non veniva messo in discussione, anzi, veniva compatito. Quella sbagliata ero io. 

 

Quel giorno ci siamo tutte riunite a Rosier Hall per assistere alla nascita. Continuo a ripetermi che non me importa nulla, di vedere Medea Rosier partorire, e non faccio che chiedermi perché si debba sottostare a quell’usanza inutile, ma dentro di me morivo dalla curiosità di vedere il bambino, e di farmi intimamente del male pensando che quello era il figlio di Damien, sangue del suo sangue, e che se io non riuscivo a dare un figlio a Orion, chissà come potevo anche solo pensare di darne uno a Damien, seppur non legalmente. 

 

Evan viene al mondo strillando a pieni polmoni, facendosi sentire in tutta la tenuta. Gli uomini, tra i quali il padre, sono a bere al piano di sotto, come si usa. Pensando al giorno in cui, forse, sarei riuscita a dare a Orion un figlio, avrei preteso di averlo lì, accanto a me, a sentire e vedere tutto. Non è giusto che la futura madre sia lasciata sola dal marito durante un momento come quello. E Orion merita di soffrire, anche se indirettamente, tanto quanto avrei sofferto io. Medea ora giace esangue sui cuscini incastrati dietro la sua schiena. La Guaritrice che l’ha fatta partorire si sta occupando delle ultime cose. Ha perso del sangue, ma nessuno sembra preoccupato. 

 

Mi porto una mano al collo, dove la collana regalo di Damien mi pulsa sopra la pelle, come a volermi dire, “sono qui, ci sono, ti sto aspettando”. È calda al mio tocco, caldissima, come se fosse appena uscita dalla fornace che l’ha plasmata. 

 

“Contiene qualcosa di infinitamente pericoloso,” mi disse Damien quando me la regalò.

“Che cosa, esattamente?”

“Un demone. Ed è tuo, ora. Da controllare, e sfruttare, come meglio credi.”

“Damien…”

“Niente ma. Una donna come te merita un’arma che sia degna di lei. Puoi avere il mondo intero, Walburga. Puoi anche dargli fuoco.”

“Tu potresti perire insieme ad esso. Non hai paura?”

“Tu mi lasceresti perire?”

“Dipende.”

 

La luce negli occhi di Damien mi spaventò. Per la prima volta da quando avevamo iniziato quella nostra malsana relazione, Damien mi fece paura, ma non per me stessa, no, quello mai, ma paura per ciò che avrebbe potuto fare al resto del mondo, per me, in nome mio. 

 

“Mi lasci tra le mani qualcosa per cui potrei rischiare di perire io stessa, lo sai, vero?” 

“Sei troppo abile. E ciò che c’è là dentro non può nuocerti, fintanto che non lo liberi. Non liberarlo, Walburga. Sfruttalo.”

 

Chissà se Damien aveva immaginato. 

No, sicuramente no.

 

✩ 

 

Non posso dire di non averlo premeditato. Sarei una bugiarda. 

 

Ero già arrivata a Rosier Hall sapendo. Avevo indossato i miei vestiti migliori, sapendo. Mi ero pettinata bene apposta, sapendo. Avevo persino messo del profumo, sapendo. E Orion se n’era accorto, e si era avvicinato per annusarmi, mentre aspettavamo che qualcuno venisse ad aprirci davanti alla porta di casa Rosier. Non aveva fatto domande. In fondo, non era inusuale, per lui, vedermi perfettamente acconciata e vestita. 

 

Il fatto è che mia cognata Druella Black aveva dato alla luce un’altra bambina, soltanto una settimana prima. Andromeda. Bella come la luce dell’aurora, fulgida come l’agglomerato di stelle di cui portava il nome. E io ero crollata. Ero tornata a casa ed ero crollata. Orion non mi aveva vista piangere, mi ero chiusa in camera mia senza che mi vedesse, adducendo come scusa un mal di testa improvviso. Avevamo camere separate, Orion e io. 

 

Non potevo sopportarlo. Non avevo nulla contro Druella, davvero, ma sembrava che qualcuno mi stesse schiaffeggiando, e si stesse prendendo gioco di me. Forse avevo deriso troppo le insistenze dei miei genitori, quand’ero più giovane, e loro volevano vedermi sposata, e con dei pargoli al seguito. Forse avevo peccato di superbia. E adesso venivo punita. Adesso che desideravo un bambino più di qualsiasi altra cosa al mondo, adesso che sarei stata disposta a sacrificare ogni cosa, in nome di quel bambino non ancora concepito, il fato mi sbeffeggiava, castigandomi. 

 

E Medea… Ora allunga le braccia ed Evan le viene restituito, pulito, avvolto in un lenzuolino bianco, un cappellino azzurro sulla piccola testa glabra. Medea è stanca, ed è sporca del suo stesso sangue, ma gli accarezza il visino, le guance rosse e sane, passa un dito su quelle labbra così piccole che sembrano un bocciolo di rosa. Le rose dei Rosier. Medea è stanca, ma è bellissima. È comunque bellissima. E felice.

 

La porta si apre con gran fracasso e Damien irrompe all’interno. Roland1 Lestrange e Abraxas Malfoy lo seguono da vicino, probabilmente hanno cercato di impedirgli di entrare fino ad un attimo prima, ma inutilmente. Rimangono fuori, però, rispettosi del momento e della sacralità di quella stanza. Damien mi passa davanti e neanche mi guarda. Io mi scosto, lo vedo sfilare davanti a me e lo vedo anche scivolare via da me, come se fosse fatto di aria. Ha occhi solo per Evan, ora. Il suo primogenito. Il suo giovane guerriero.

 

Lo capisco, ma allo stesso tempo gli vorrei strappare via ogni cosa, persino la pelle. Vorrei cavargli gli occhi e metterli dove non potrà più trovarli, cosicché non potrà più guardare suo figlio; vorrei tagliargli le mani, cosicché non potrà più toccarlo, e accarezzarlo; vorrei sradicargli il cuore via dal petto, cosicché non potrà più amarlo. La mia mano corre alla collana. “Voglio crescere un esercito di guerrieri, Walburga.” Le sue parole mi riecheggiano nella testa come un’eco. Anche quelle si prendono gioco di me, adesso. 

 

So cosa fare.

 

✩ 

 

Lasciamo Rosier Hall che è tardi. Fuori è molto buio, una notte perfetta per gli incantesimi. Damien ci ringrazia di cuore, in piedi nell’ingresso con il suo prezioso Evan tra le braccia. Sorride come non ha mai sorriso prima. Mi guarda negli occhi un po’ più fissamente rispetto a come guarda gli altri, ma io distolgo lo sguardo, mentre Orion mi aiuta a indossare il cappotto. Salutiamo e siamo fuori. Ci incamminiamo lungo il viale alberato per poi Smaterializzarci oltre i cancelli della tenuta. Camminiamo in silenzio, entrambi con le mani rintanate nelle tasche per proteggerci dal freddo di gennaio. Non parliamo, ma tutti e due sappiamo esattamente cosa sta pensando l’altro. Ogni nuova nascita corrisponde un po’ alla nostra morte.

 

Una volta a casa, non ci guardiamo neanche negli occhi. Orion entra in camera mia e richiude la porta, ed è la prima volta che mi spoglia così febbrilmente, ed è quasi famelico, è quasi come se desiderasse avermi, e non soltanto per fecondarmi, ma come avrebbe dovuto volermi sempre. Io mi concedo a lui perché è ciò che devo fare, e perché il fine ultimo di questo atto è tutto ciò che voglio: un bambino. Ma quella notte i miei gemiti sono più alti, l’orgasmo mi colpisce quasi sorprendendomi. Quando Orion viene dentro di me, lo trattengo un po’ più del solito, stringo le gambe come a non volerlo lasciare andare. Quando però questo avviene, noto che mio marito sta piangendo. Distolgo lo sguardo, non voglio che mi veda guardarlo. Gli sfugge un singhiozzo ma non faccio domande, fisso il soffitto, sporca di sperma e sudore. Sento il letto cigolare un’ultima volta e poi lui è scomparso, si è richiuso la porta alle spalle con il suo solito “buonanotte, Walburga” sussurrato a mezza voce. Questa volta, però, la voce è rotta. Io fisso il soffitto ancora un attimo e poi scendo a toccarmi. Sono ancora sensibile, quasi sobbalzo al mio stesso sfioramento. E so cos’è cambiato stanotte, di tutte le notti in cui Orion ha eiaculato dentro di me, in cui abbiamo fatto sesso non con l’intezione di fare sesso ma solo di procreare: stanotte mi è piaciuto. 

 

✩ 

 

A mezzanotte mi alzo, e mi preparo. Le lenzuola sono rimaste sporche di sperma e di sudore, le cambierò il giorno dopo. Invece io sono andata in bagno, ho lavato via tutto con l’acqua e il sapone. Ho indossato una camicia da notte pulita, e ho raccolto i capelli dietro la nuca con un paio di bacchette di legno. 

 

Accendo le candele e l’incenso, preparo il cerchio per l’evocazione. Sul pavimento, traccio il sigillo del demone con un gessetto bianco, che poi cancellerò con un colpo di bacchetta. Mi sfilo la collana, l’appoggio dentro il cerchio. Quello che sto per fare mi spaventa e mi eccita insieme. Ha un potere immenso: la magia che sto per padroneggiare è più potente di qualsiasi altra magia abbia mai praticato. Non ho mai evocato un demone, ma so come si fa. Qualcuno in Giappone me l’ha insegnato, diversi anni prima - una vita fa, quasi. 

 

Chiudo gli occhi e lascio che il fumo intorno a me mi trasporti. Sono ancora lì, eppure allo stesso tempo non ci sono più. Il mio corpo è ancorato alla terra sulla quale sono rannicchiata, ma il mio spirito è altrove. 

 

Ripeto il nome del demone tre volte. 

 

E attendo.

 

Quando riapro gli occhi, lo vedo di fronte a me nello specchio. 

 

Il suo riflesso ha le mie sembianze. È pieno dei miei desideri più profondi, trabocca oscurità. 

 

Sorrido.

 

La magia è già compiuta. 

 

✩ 

 

Quando mi risveglio sono nel mio letto. Non so cosa sia successo dopo che il demone è apparso nello specchio. È tutto confuso - è tutto nero. 

 

Mi alzo, puntellando i gomiti sui cuscini. Fuori è già giorno inoltrato. Mi chiedo quanto ho dormito. La porta si apre e il viso di Orion spunta all’interno.

 

“Sei sveglia.” E non è una domanda. 

“Cos’è successo?”

 

Orion entra e richiude la porta. Occhieggia il bordo del letto e io gli faccio cenno senza parlare di sedersi, così prende posto sul materasso, ad un’appropriata distanza da me, come se non volesse disturbare. 

 

“Non so cosa sia successo, ma mi sono spaventato da morire, Walburga.”

 

È forse la prima volta in cui l’espressione di mio marito tradisce un’emozione. È sempre stato impermeabile, Orion Black, quasi passivo, come se la vita e gli eventi gli scorressero addosso senza che da lui arrivasse la benché minima reazione. È difficile da leggere, anche. È come se un velo gli oscurasse lo sguardo e impedisse agli altri di scorgervi neanche il più piccolo bagliore. È un modo per difendersi, magari, oppure è soltanto la maschera che indossa davanti al mondo. 

 

Questa volta, gli occhi di Orion sono accesi di paura: semplice, cieca, paralizzante paura. Le sue mani corrono a prendere le mie. Lo lascio fare, il suo tocco oggi non mi disturba. “Per favore,” inizia, “non ti ho mai chiesto nulla, né come marito né come uomo, ma per favore, Walburga, non farlo più. Qualsiasi cosa tu abbia…” esita. “Non lo so,” aggiunge poi scuotendo la testa. “Non lo so, ma eri bianca, pallida, sembravi morta. Stringevi quella collana,” e indica il comodino, e ricordo solo ora la collana - e tutto mi torna alla mente: l’evocazione, il fumo, il fuoco; l’immagine del demone nello specchio, quella richiesta che era suonata come una preghiera, ciò che gli avevo domandato; mi volto a lanciare un’occhiata al piccolo teschio di corvo argentato, sembra così innocuo, ora. “Non so cosa sia e da dove venga, ma è pericolosa. Molto pericolosa.” 

 

Ora lo so. Ciò che ho fatto mi riecheggia nella mente. Non posso ripetere quelle parole. Non posso più. 

 

Mi ritrovo ad annuire. “Va bene.” 

“Va bene?”

“Non la metterò più.”

Orion mi sorride. Il suo viso si distende. “Grazie.”

 

Non gli dico che non lo sto facendo per lui ma che lo sto facendo per me. Non gli dico che lo sto facendo perché ho paura: la sento bruciare dentro di me, ancora adesso, proprio come stanotte qualcos’altro ha minacciato di annientarmi, proprio come stanotte ha tentato di fare, ma non poteva ribellarsi, non poteva trovare scampo, non al giogo che lo teneva rinchiuso. Non la indosserò più, a parte quando vedrò Damien. Non posso deluderlo e non voglio attirarmi domande alle quali non saprei come rispondere senza scoprirmi. E Damien non deve sapere, non deve sapere cos’ho fatto, per nessun motivo. Mi tremano le mani, ancora strette in quelle di Orion. 

 

“Ti faccio portare qualcosa da mangiare da Kreacher.”

“D’accordo.” 

Orion mi lascia le mani e si alza. Mi lancia un’ultima occhiata e sparisce oltre la porta. Questa volta non la richiude. 

 

Io mi riappoggio ai cuscini e sospiro. Mi volto a guardare la collana, che riposa sul comodino. Sembra quasi innocua, ma io so cosa cela al suo interno. Quel qualcosa se n’è tornato nelle sue profondità, stanotte, di nuovo quieto. Non posso permettere che ci riprovi. Non posso rischiare di nuovo tutto quanto. 

 

Penso a Damien, e al pericolo che ho corso per perpetrare la mia vendetta. Non me ne pento, dopotutto. Il pentimento non è da me, e non rientra nell’elenco delle mie debolezze. La rabbia, quella sì, e l’invidia, e il rancore. Mi rendono debole eppure mi rendono viva. Non posso rinunciarvi, sarebbe come rinunciare a una parte di me stessa. Tiro su la collana e la vado a mettere sul tavolino da toilette. Dal letto non posso vederla, e per adesso è meglio così.

 

✩ 

 

“Hai davvero evocato un demone, quindi.” Sono sbalordita. “Si tratta di magia nera un sacco avanzata.”

La vecchia Walburga sorride di un sorrisetto compiaciuto. Alla sua età, e così vicina alla morte, sa ancora gioire delle sue “prodezze”. 

“Lo so,” risponde. “Non ne avevo paura, fino a quel momento.” 

“Non l’hai più evocato, dopo quella notte?”

“No, mai.”

 

“Cosa gli hai chiesto? Cosa hai chiesto a quel demone?” Posso immaginarlo, lo sento quasi crepitarmi sotto pelle, ma voglio sentirlo dire da lei. Voglio che esca dalla sua bocca, dalle sue labbra incartapecorite. 

“Gli ho chiesto di non dare più alcun figlio a Damien e Medea Rosier.” 

Rimango in silenzio. Il crepitio si ferma. 

“Ha funzionato.” Lo so. Lo so perché Medea Rosier, Medea Greengrass, era mia zia. Una sofferenza muta si impossessa di me, ma mi sforzo per non lasciarla uscire sotto forma di rabbia cieca. 

“Non hanno più avuto figli dopo Evan, ma questo lo sai. Almeno, penso sia stato per colpa di ciò che avevo fatto. E, quando Evan è morto, non è rimasto loro più niente. Niente per cui augurarsi di vedere un nuovo giorno al termine della notte, niente di cui essere fieri, niente da amare. Li ho privati della cosa più preziosa che avrebbero mai potuto avere.”

 

Ricordo bene mio cugino Evan. Era un uomo molto bello e molto oscuro. Abilissimo con gli incantesimi e in battaglia, ma forse era caduto per la sua troppa sicurezza. Aveva peccato di superbia. 

 

“Evan è caduto in battaglia da eroe. Quel dannato di un Moody l’ha fatto fuori senza riserve. Che ironia.” Walburga ridacchia, e suona come un latrato. 

Non le chiedo a cosa si riferisca, non penso di averne voglia. Anzi, penso di averne abbastanza dei suoi racconti del terrore, ma c’è un’ultima cosa che voglio sapere. 

 

“Che ne è stato della collana?”

“La collana del corvo?”

Annuisco. 

“L’ho data via.”

Sbarro gli occhi. “Come? E a chi?”

“A mia nipote. Mia nipote Bellatrix2.”

 

✩ ✩ ✩

 

NOTE

1. Roland Lestrange è un personaggio di mia invenzione, padre di Rodolphus e Rabastan.
2. Walburga regala a Bellatrix la collana: lo potete leggere nel capitolo XIX della raccolta “In the name of the Black”

Altri piccoli punti vengono dipanati 👀 Ci stiamo avvicinando all'ultimo atto, dove tutti i nodi arriveranno al pettine. Siete pront*? 

Grazie a chiunque stia leggendo/seguendo questa piccola avventura ♡ A martedì 27/09 con l'ultimo capitolo!


Marti

   
 
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