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Autore: lithnim222000    27/09/2022    1 recensioni
[Prompt #Gene]
-MEDICO! SERVE UN MEDICO!
[Prompt #Vadoma]
La giornata di Vadoma non stava andando bene.
[Prompt #Olivia]
Accucciata a terra, Olivia guardò con il cuore in gola i piedi davanti ai suoi occhi muoversi avanti e indietro sulle assi del pavimento.
Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PROMPT #Gene

[Campo Giove, novembre]
  • Una giornata nuvolosa
  • Un bicchiere di vino
  • Un parente estraneo
 
 
-MEDICO! SERVE UN MEDICO!
Eugene scattò in piedi prima ancora di essere completamente sveglio e picchiò violentemente la testa contro la lampada della scrivania. Il dolore gli esplose come un lampo rosso in cima al cranio, facendolo piegare in due con un guaito acuto. Le sue mani corsero a premere forte sul punto contuso. Nel movimento il suo gomito sinistro urtò la pila di tomi in equilibrio precario sul bordo del tavolino, facendoli rovinare a terra in uno svolazzare di appunti e immagini di organi interni.
-Merde.­- il ragazzo cercò di respirare, gli occhi stretti per trattenere le lacrime. Indietreggiò, incespicando contro la sedia e cercando a tentoni la cinghia del marsupio che aveva appeso allo schienale. Quando la trovò e riuscì ad infilarsi il borsello su una spalla, il dolore della botta si era ormai ridotto ad un pulsare sordo in cima alla testa. Un bernoccolo, niente di più. Eugene si passò la manica del maglione sugli occhi e si fece largo in mezzo al macello di scartoffie che circondava la scrivania, puntando verso la porta.
-MEDICO!- stavolta riconobbe nel grido la voce familiare di una ragazza. Era Vadoma che stava urlando.
-Arrivo, Doma, arrivo!- scese le scale due gradini alla volta, la mano aggrappata alla ringhiera per non aggiungere una gamba rotta agli incidenti di quel giorno.
Irruppe nel chiostro antistante la biblioteca saltando di netto la siepe che lo recintava.
-Eccomi, sono qui, ci sono. Dov’è il ferito?
Vadoma si tolse le mani che aveva tenuto ad imbuto attorno alla bocca.
-Alla buon’ora.- lo apostrofò, incrociando le braccia sopra il petto scarno. La linea delle sue clavicole, evidente sotto la pelle scura, emergeva elegantemente dallo scollo a v del maglione bianco, i capelli acconciati in treccine le scendevano sulla schiena come una cascata e gli occhi chiarissimi, orlati dalle lunghe ciglia vellutate, lo squadravano da capo a piedi con aria seccata.
Non sembrava affatto in pericolo di vita.
-Non c’è nessun ferito.- lo informò in tono sbrigativo –Non riuscivo a svegliarti.
Intorno a loro la luce grigia di un’alba nuvolosa rischiarava le colonne di marmo bianco di uno dei chiostri del college di Nuova Roma. Siepi folte, potate al millimetro, incorniciavano le file di statue che avrebbero tra qualche ora accolto il passaggio degli studenti. A novembre inoltrato le lezioni avevano luogo a pieno ritmo per tutta la giornata.
Eugene sbatté gli occhi e fissò incredulo l’amica.
-Come?
-Non ti svegliavi, Gene. Ti ho scosso per venti minuti, ti ho chiamato, ti ho pure tirato uno schiaffo. Tutto quello che hai fatto tu è stato chiedermi altri cinque minuti.
L’adrenalina evaporò dal cuore di Eugene così in fretta da fargli girare la testa. Dietro di lei restarono solo le ossa indolenzite dalla nottata scomoda, la bocca secca e un sensazione di stanchezza estrema e allucinante, che il risveglio rocambolesco aveva solo peggiorato. Il ragazzo si premette una mano sulla fronte e cercò di controllare il fiatone. Faceva un freddo del diavolo e la gola gli bruciava già.
-E...E tu perché diable non mi hai lasciato stare?
-Perché dovevi svegliarti.- ripeté Vadoma, con il tono di chi dichiara un’ovvietà. Siccome l’espressione di Eugene rimase perfettamente uguale, la ragazza alzò gli occhi spazientita –Per la miseria, Gene, me l’hai chiesto tu! Hai la convocazione straordinaria per i Brumalia, te lo sei dimenticato?
-La convo...- la realizzazione investì Eugene con la forza di un treno. Sgranò gli occhi. Dannazione, era vero. E non poteva assolutamente mancare -Che ore sono?
-Le sette e venti. Hai dieci minuti.
Il ragazzo abbassò lo sguardo sui propri vestiti e gli venne voglia di piangere. I jeans, già lisi e sformati quando Francis glieli aveva passati, sfoggiavano una gigantesca macchia di caffè poco lontano dal cavallo, il maglione era infeltrito, impolverato e pieno di pallini di lana. Si passò una mano fra i capelli e quando la ritirò trovò fra le dita una ragnatela raggrumata.
Vadoma mollò un sospiro e la sua postura si addolcì un po’.
-Sei stato sveglio a studiare di nuovo in quello stanzino, eh?
Eugene si pulì la mano nell’interno del maglione. Si coprì la faccia con le mani e prese un respiro profondo. Poi sollevò il viso, stringendo le labbra con determinazione, e raddrizzò la schiena.
-Devo andare.- le rispose soltanto, sistemandosi la cinghia del marsupio sulla spalla.
Uscì di corsa dal chiostro proprio mentre Pranjal vi entrava. Il medico indiano si scostò dal suo tragitto appena in tempo per non venire urtato.
-Eugene! Dove vai?- gli gridò dietro. Ma il ragazzo era ormai sparito nei vialetti del college. Allora spostò lo sguardo su Vadoma.
-Qualcuno si è fatto male? Ero in laboratorio e ho sentito gridare per un medico.
La ragazza scosse il capo, senza avere nemmeno la decenza di offrire delle scuse.
-No, signore. Falso allarme.
-Che ci fai qui?
-Non sono di turno da nessuna parte.
-Non volevo accusarti. Intendevo dire che non ci sono lezioni. Le hanno sospese per le celebrazioni di oggi.
La ragazza si infilò le mani in tasca e alzò le spalle. Pranjal la scrutò ancora per qualche secondo, in silenzio.
-Sei venuta a tirare fuori Gene dalla biblioteca, vero?
-Me lo chiede da ufficiale medico?
-No, solo da fratello preoccupato.
La ragazza spostò il peso da un piede all’altro e sbatté lentamente le ciglia. Il suo sguardo magnetico era impenetrabile.
-Beh, io non sono la babysitter di Gene.- ribatté. Pranjal sospirò rassegnato. Le indicò il cancello con un gesto della mano.
-Vai.
Vadoma si allontanò con comodo, ancheggiando negli stretti jeans scuri e scuotendo la sua criniera di capelli. Il medico aspettò che il cortile fosse deserto, poi alzò lo sguardo alla finestrella del secondo piano da cui filtrava la luce di una lampada da scrivania. Le sue labbra si piegarono appena in un sorriso un po’ stanco. Scuotendo la testa, superò la siepe e salì a risistemare la stanza.
 
-La quarta coorte si occupa ogni anno del servizio d’ordine durante la celebrazione dei Brumalia, e da quando sono centurione non ci sono mai stati incidenti gravi.- Massimiano sporse orgogliosamente il petto in avanti, marciando fre le due file di legionari sull’attenti in mezzo all’arena –Vediamo di preservare anche quest’anno il nostro ottimo risultato. Come vedete la giornata è nuvolosa ed è probabile che pioverà. Questo vuol dire scale scivolose, possibilità di fulmini, visibilità ridotta e calca durante i cortei. Perciò è fondamentale che i nostri medici siano ben reattivi e pronti a far fronte a...Delaune, mi stai ascoltando?!
Il ragazzo in questione aprì gli occhi di soprassalto. La testa che gli ciondolava sul petto venne subito rialzata e in un lampo Eugene Delaune era sull’attenti come tutti gli altri commilitoni.
-Sì, signore!
Beh, quasi come tutti gli altri commilitoni. C’erano ancora un paio di dettagli che distinguevano il ragazzo dai legionari che lo affiancavano. Massimiano fece scorrere uno sguardo strabiliato sulla sua figura, registrando l’aspetto stravolto dei suoi capelli, le occhiaie che sembravano ripassate con un evidenziatore nero, le labbra illividite dal freddo mattutino - che il ragazzo affrontava con indosso solo un vecchio maglione - la gigantesca macchia scura sulla gamba dei suoi jeans e...ma era un buco quello in cima alla sua scarpa?
-Sei passato attraverso un uragano, stanotte, Delaune?
Il ragazzo ebbe almeno la buona grazia di avvampare come un pomodoro.
-No, signore.
-E allora?
-Avevo-avevo una ricerca da terminare per il corso di anatomia e mi sono addormentato in biblioteca.
Un paio di legionari si scambiarono occhiatine complici. Si udì il tintinnio di qualche moneta passata di mano in mano. Massimiano storse le labbra. Se fosse stato chiunque altro dei suoi soldati a presentarglisi in quelle condizioni e con una scusa del genere, gli avrebbe assegnato la pulizia delle latrine fino al nuovo anno. Ma gli ottimi voti di Eugene Delaune erano sotto gli occhi di tutti, al campo, così come il suo impegno instancabile. Il centurione si sarebbe sentito crudele ad infierire troppo sul ragazzo.
-Beh, fila a renderti presentabile.- borbottò -Sarai addetto al primo soccorso, oggi, per questa mancanza.- esitò e gli gettò un’altra occhiata –Pensi di farcela?
Il ragazzo sembrò seriamente riflettere sulla domanda per una frazione di secondo. Ma il dubbio gli passò non appena posò gli occhi sull’espressione accigliata del centurione.
-Sì, signore, certo.
-Bene. Allora levati di torno. Ti rivoglio qui fra un quarto d’ora esatto, quando ci muoveremo per raggiungere le postazioni.- e poi, quando Eugene fece un saluto affrettato e iniziò ad andarsene, aggiunse –E prenditi un caffè, per l’amor del cielo!
Tra i legionari serpeggiarono un paio di risatine.
-Centurione, se Doc si prende un altro caffè gli esplode il cuore.- sghignazzò qualcuno. Massimiano si voltò e li fulminò con occhi che mandavano fiamme.
-Silenzio, insubordinati! O insieme alle primizie, alle capre e ai maiali oggi farò sacrificare anche voi!
 
Si era preparato in tempo record, rinunciando alla doccia calda che aveva desiderato da quando aveva aperto gli occhi in favore di gettarsi in faccia l’acqua del rubinetto e strofinarsi il torso con una spugna per i piatti. Il dormitorio della quarta coorte iniziava in quel momento a svegliarsi e per fortuna qualcuno dei suoi compagni aveva avuto la bontà d’animo – o la pietà – di preparargli una tazza del caffè di cicoria che aveva sul proprio scaffale. Eugene l’aveva bevuto tutto d’un fiato, scottandosi la lingua e rabbrividendo per la scarica di lucidità che la bevanda gli aveva mandato al cervello. Poi si era infilato i jeans e duecento strati di vestiti, aveva completato il tutto con il giaccone viola e oro dei legionari in servizio, e si era fiondato nell’arena appena i tempo per unirsi alla colonna di soldati in marcia verso i Giardini di Bacco.
Vadoma sgattaiolò a cercarlo lassù, qualche minuto prima dell’inizio dei cortei danzanti che si sarebbero protratti per tutta la giornata. Eugene la vide arrampicarsi su per una delle ripide gradinate in pietra che facevano capolino fra i viticci di glicine e si alzò dalla sua sedia sotto la tenda del pronto soccorso. La ragazza non gli lasciò il tempo di salutarla.
-Tieni.- disse, riempiendogli le tasche del giaccone di caramelline alla propoli –Fa troppo freddo per un fiorellino della Louisiana come te. Se ti pigli pure il mal di gola, mi tocca sul serio prenotarti un cubicolo al cimitero.
Eugene non ebbe cuore di dirle che ormai era troppo tardi. Ogni volta che respirava nell’aria fredda sentiva la laringe raschiare.
-Merci.- gracchiò. La ragazza alzò la testa e lo fissò.
-Mi prendi per il culo?
Eugene allargò le braccia con fare rassegnato.
-Sembri un rospo catarroso.
-Anche io ti voglio bene, cherie.
La ragazza gettò un’occhiata ai due legionari che chiacchieravano dietro le spalle di Eugene e poi allungò svelta una mano, rubando la sciarpa d’ordinanza che uno dei due aveva appoggiato sul tavolino accanto al disinfettante e ai pacchi di garza.
-Ecco.- borbottò, avvolgendogliela stretta attorno al collo –Se quel coglione te lo chiede, la sciarpa viene dalla mia divisa e non hai visto che fine ha fatto la sua. E adesso tieni gli occhietti ben aperti e stai fuori dai guai, che domani ti voglio bello pronto per allenarti con me.- si interruppe –Ce l’hai fatta a trovare tempo senza doverti ammazzare?
-Ma certo, Doma.
-Tu dici ‘ma certo’ e io sento ‘voglio morire’.
-Se vuoi ti controllo i timpani.
-Ehi, bellezza, in questa amicizia sono io che controllo te, non il contrario.- la ragazza lo pungolò con l’indice sul petto –Se voglio un dottore, vado in ospedale. Limitati a essere il mio amico caffeinomane e petulante, grazie.
Eugene le mostrò un largo sorriso sopra il bordo viola e oro della sciarpa.
-Oh, mamour, come sei dolce. Mi sa che sto per abbracciarti.
-Col cazzo.- la ragazza indietreggiò immediatamente e girò sui tacchi –Me ne torno da Jordan. Vedi di non ammazzare nessuno per sbaglio.
-Non sono mica te.
-Oh, lo so.- la ragazza si voltò un’ultima volta dalla sua parte, prima di imboccare la stretta gradinata di pietra che portava giù. I suoi occhi cristallini lampeggiarono divertiti -Io ammazzerei di proposito.
 
Quando la bambina scivolò sulla pelle di capra, Eugene stava guardando proprio da quella parte e schizzò fuori dalla tenda prima ancora che il suo gruppetto di amici facesse in tempo a mettersi a strillare.
-Fatemi passare, fatemi passare.- si fece largo tra la gente che affollava il viale, scambiandosi tazze di vino e abbracci e augurandosi a vicenda di ‘vivere annos’.
-Dottore.- il gruppetto di cinque o sei bambini si spalancò subito per lasciargli raggiungere la loro amica, che era seduta sulla pietra con le calzamaglie sporche di fango e si teneva un polso con la mano opposta. I suoi occhioni marroni erano lucidi di lacrime e le sue labbra tremavano.
-Mi fa male.- si lamentò.
Eugene si inginocchiò accanto a lei e posò a terra la valigetta con il kit di primo soccorso.
-Non preoccuparti. Sono certo che non è niente di grave.- la consolò in tono tranquillo, sfilandosi rapidamente i guanti. Rigirò la manica della ragazzina e fece scorrere i polpastrelli dal dorso della sua mano fino all’avambraccio, cercando traccia di una frattura. Seppe di averla trovata quando la piccola mandò un gridolino acuto.
-Shh, va tutto bene, coraggio. Sei bravissima.- le tenne il braccio sollevato con una mano e con l’altra aprì la valigetta, tirando fuori una stecca e un rotolo di garza –Dov’è la tua mamma? Il papà?
-A vedere i sacrifici. Una delle capre l’abbiamo cucita io e papà.- la piccola tirò su col naso e sgranò gli occhi spaventata quando vide le forbici che Eugene si era appoggiato in grembo –Oddio, oddio, mi vuoi tagliare il braccio?
-Le taglia il braccio! Le taglia il braccio!- le fecero immediatamente eco i suoi amici, a metà fra inorriditi ed eccitati. Eugene li zittì alzando un sopracciglio.
-Non taglierò nessun braccio. Le forbici mi servono per la garza.- dichiarò. Sorrise alla bambina e si cercò in tasca un fazzoletto per asciugarle le lacrime –Su, non avere paura. Lo so che fa un po’ male, ma ti sei soltanto rotta il polso. Ora te lo stecco e poi mandiamo qualcuno a cercare i tuoi genitori, d’accordo?
Lei annuì un paio di volte, in fretta.
-Voi altri tornate dalle vostre famiglie, per favore.- aggiunse il ragazzo, guardando gli altri. Ma nessuno dei piccoli si mosse.
-Non sappiamo dove sono. Eravamo scappati perché volevamo saltare sulle pelli e se no non ce lo lasciavano fare.- una bimba dalle trecce nere si morse l’interno della guancia con aria colpevole, guardando Eugene da sotto in su –Abbiamo pensato che prima o poi ci avrebbero trovati.
Eugene dovette concentrarsi per trattenere un sorriso, ricordando quante volte anche lui era fuggito dalle cure di sua mamma per fare i tuffi dai rami degli alberi insieme ai suoi amici o ingozzarsi di beignets.
-Restate tutti qui, allora. Manderò qualcuno a cercare anche loro.- sospirò.
Dovette sfilare alla bambina la manica della giacca per riuscire ad avvolgerle il braccio con la garza. Non appena ebbe finito gliela drappeggiò stretta intorno alle spalle, chiudendo il bottoncino sotto il mento per farla stare al caldo.
-Ecco fatto, è tutto a posto. Come ti chiami, piccola?
-Tiana.
-Come la principessa e il ranocchio?
-Sì!- gli occhi della bimba luccicarono. Il ragazzo infilò una mano nella valigetta e tirò fuori un pacco di cerottini colorati.
-Allora ho qualcosa per te.- disse, scegliendone uno su cui spiccava la gonna azzurra della principessa Disney.
-Anche io ne voglio uno!- gli altri bambini si accalcarono, premendogli contro le spalle e allungando le manine –Anche io! Ce l’hai del Re Leone?
Eugene li lasciò dividersi tutto il pacchetto, contento di essere riuscito a tirargli su il morale.
-Va bene, bambini. Ora andiamo a sederci da una parte, d’accordo? Qui altrimenti ci calpestano. Posso prenderti in braccio, Tiana?
La bimba gli tese la mano sana a mo’ di risposta. Eugene la tirò su e iniziò a farsi strada tra la folla, facendo cenno agli altri bambini di seguirlo verso la tenda medica.
-La prossima volta che saltate sulle pelli, state più attenti.- li rimproverò, ma con poca convinzione. Cadere e farsi male era nella natura dei bambini, e lo spavento che si erano presi sarebbe bastato e avanzato a fargli imparare la lezione.
-Sì, signor dottore.- gli rispose un coretto di vocine.
-Mi chiamo Eugene.
-Sì, Eugene.
I due soldati che occupavano il presidio medico insieme a lui non furono molto entusiasti di dover frugare tra la folla basandosi sulle indicazioni iperboliche del gruppetto di bimbi (‘mio padre è alto come Atlante!’’mia mamma ha i capelli più neri della gola di Cerbero!’). Eugene si rassegnò ad una lunga attesa prima che tutti fossero riconsegnati alle rispettive famiglia. Per fortuna, la compagnia dei bambini non gli dispiaceva.
Mise Tiana seduta con le gambe a penzoloni sul tavolo, le fece mangiare uno scacchetto di ambrosia e poi si accomodò sulla sedia lì accanto.
-Allora, chi vuole sentire la storia di Beauregard Thibodeaux e il rougarou?
 
Più tardi, mentre sulla strada maestra i sacerdoti continuavano a bere, ballare e saltare sulle pelli sintetiche, Pranjal afferrò una tazza di terracotta dal banchetto di un ambulante e si infilò in uno dei sentierini secondari che portavano alla terrazza panoramica dei Giardini di Bacco.
Trovò Eugene accanto al parapetto di pietra, intento a schiacciare sotto la punta della scarpa un mozzicone di sigaretta.
-Ciao, Gene.
Il ragazzo alzò lo sguardo.
-Ehi, Pranjal.- sorrise –Che c’è? Ti serve qualcosa?
-Nah. Venivo a vedere come sta il mio fratellino preferito.- lo affiancò –La tua amica mi ha detto che eri da queste parti. Fai una pausa?
-Sì, è un momento di calma. Vuoi dire, Doma?
-Mm-m. È una strana tipa, eh? Stamattina voleva mangiarmi solo perché le ho chiesto cosa ci facessi in università, e ora è venuta lei a cercarmi per dirmi di darti un’occhiata. Dice che ti è venuto il mal di gola e che non è sicura che tu non abbia la polmonite.
-Pf.- vide Eugene alzare gli occhi al cielo e mollare un sospiro. La condensa che uscì dalle sue labbra livide era bianca come il cappello di lana che aveva in testa, candido e con una croce rossa al centro, che lo contrassegnava come medico in servizio. Anche il suo viso era ugualmente pallido, con il naso appuntito arrossato dal freddo che spuntava sopra il bavero di una sciarpa viola –Quella ragazza. Vuole essere presa per una dura e fa la mère poule.
Pranjal inarcò un sopracciglio, ma poi decise di non indagare. Eugene veniva da un qualche bayou della Louisiana, dove si parlava francese, si incontravano alligatori attraversando la strada e a carnevale si inseguivano galline vive. Pranjal aveva imparato che a volte era meglio non chiedere di cosa stesse parlando.
-Non sembri in fin di vita, in effetti.- scrollò le spalle e gli tese la tazza -Comunque, ti ho portato questo.
Eugene la osservò sospettosamente.
-Che cos’è?
-Vino caldo al miele.
-Mi fai bere in servizio?
-Guardami in faccia e dimmi che non ne hai bisogno.
Eugene sollevò lo sguardo su di lui, ma non riuscì a negare l’evidenza. Gli prese la tazza di mano, lanciò un’occhiata circospetta ai dintorni e se la portò alle labbra. I suoi occhi si chiusero mentre beveva il primo sorso, il vapore tiepido del vino che gli riscaldava il viso.
-Grazie.- disse, riemergendo –Hai ragione, mi ci voleva.
-Come sta andando?
-Bene. Fa freddo e ho finito le sigarette, ma non ci sono state molte emergenze. Solo una bambina che è scivolata e si è rotta un polso e un vecchio legionario che la folla ha spinto a terra. Galliano, lo conosci? Era centurione della terza vent’anni fa, mi ha detto.
-Galliano? Ma certo. Come sta?
-Lui, benissimo. L’emergenza non era per lui, ma per il figlio di Vulcano che lo aveva spintonato. Galliano gli ha rotto il naso con una testata.- Scoppiò a ridere convulsamente, premendosi un guanto contro la bocca –Avresti dovuto vedere la faccia di quel poveretto! Mon Dieu, non è molto bello ridere di lui, vero? Ma era così sorpreso che il suo naso si fosse rotto!
Pranjal sorrise bonariamente e gli calcò meglio il cappello con la croce rossa sulla testa.
-I figli di Vulcano si credono fatti di ferro.
-Allora Galliano è fatto di titanio.
-Non lo escludo. Alla sua età ha ancora le arterie come quelle di un quarantenne.
Un rumore di passi affrettati dietro l’angolo fu tutto il preavviso che ebbero prima che Massimiano sbucasse di gran carriera sulla terrazza.
-Delaune, insomma, quanto dura questa...cosa accidenti stai bevendo?
Eugene si immobilizzò con la tazza di vino fra le mani, sgranando gli occhi per il terrore come un cervo preso nei fari. Pranjal gli mise una mano sul braccio.
-La tazza è mia, Massimiano.- disse con calma, squadrando serenamente il centurione –Gene me l’ha tenuta mentre mi allacciavo la scarpa. Scusa se gli ho fatto perdere tempo, te lo restituisco subito.
La faccia arcigna del centurione diceva che non si era affatto bevuto la bugia. Ma non aveva prove per contestarla.
-Fila sulla via principale, un ragazzino si è storto la caviglia.- abbaiò a Eugene, che mollò la tazza fra le mani di Pranjal e corse via come una freccia.
-Dagli un po’ di tregua, Massimiano.- sospirò Pranjal –Il ragazzo si ammazza di lavoro.
-Fa il suo dovere, com’è giusto.- il centurione si aggiustò il mantello d’ordinanza e gli scoccò un’occhiataccia.
-Oh, andiamo. Fa ben più del suo dovere.
–Questo non mi riguarda. Io ho il compito di tenerlo in riga e verificare che faccia la sua parte. E, a merito di Delaune, lui non mi ha mai chiesto un trattamento di favore.
Pranjal si irrigidì e strinse le labbra, cogliendo la frecciatina.
-Nemmeno io te lo stavo chiedendo. Dicevo soltanto-
Il centurione lo interruppe con un gesto della mano.
-Buon per te.- sentenziò in tono conclusivo –So che Eugene è il tuo fratello più giovane. Ma è un adulto e un legionario. Se becco di nuovo lui o te a bere in servizio, vi sbatto a spazzare le stalle con uno spazzolino.
Pranjal pensò che era una fortuna che Eugene fosse andato via, perché, stanco com’era, non sarebbe riuscito a trattenersi dal ridere di fronte a quella minaccia. E l’espressione di Massimiano non era quella di uno che avrebbe gradito particolamente la cosa.
-Va bene, Massimiano.- rispose –Serve per caso il mio aiuto, alle postazioni del pronto soccorso?
-La quarta se la sta cavando benissimo.- il centurione gli scoccò un’ultimo sguardo storto –Goditi la festa, dottore.
-Buon lavoro.
Massimiano svoltò l’angolo senza rispondere.

La sala comune dei medici era deserta a quell’ora della notte, ma, per qualche motivo, la luce era accesa. Entrando, Pranjal storse il naso per quell’inutile spreco di energia. Come se i divani, la macchinetta del caffè e la libreria carica di tomi di medicina potessero avere paura del buio.
Si tolse la giacca e recuperò da uno degli scaffali la rivista medica che era venuto a consultare. Uno dei suoi ex-professori del college gli aveva fatto sapere di un articolo interessante che era uscito sull’ultimo numero. Pranjal era stato occupato tutto il giorno con i preparativi e la celebrazione dei Brumalia, ma ci teneva a leggerselo prima di incontrare ancora il vecchio dottore, il giorno seguente.
Si avvicinò ad uno dei divani, iniziando a sfogliare le pagine alla ricerca del brano che gli interessava. Stava per sedersi quando buttò casualmente l’occhio sui cuscini e sussultò.
Eugene era rannicchiato in posizione fetale in un angolo del divano, profondamente addormentato. Il fiato gli sfuggiva dalle labbra semichiuse in un lieve gorgoglio. Si era cambiato dalla divisa che aveva tenuto per tutto il giorno e indossava un vecchio paio di calzoni di velluto marrone e un maglione dai disegni geometrici, dal cui scollo sbucava il collo alto di una maglia nera.
-Per il serpente di papà.- il medico si prese la radice del naso fra il pollice e l’indice e soffocò un gemito di esasperazione. Ma era possibile che suo fratello non riuscisse a mettersi a dormire in un letto?
Si chinò su di lui e gli scosse una spalla.
-Eugene. Ehi, su, in piedi.
Eugene sussultò come se gli avesse dato la scossa. Si tirò su e lo guardò con gli occhi spalancati e vagamente persi. Pranjal inarcò un sopracciglio.
-Stavi dormendo? Anche qui?
-No.- la risposta arrivò troppo veloce. Il medico indiano scosse la testa e si lasciò sfuggire una risata incredula.
-Ma perché non te ne vai ai dormitori, una buona volta? È davvero così scomoda la tua branda?- scherzò. Il nervosismo di Gene parve sciogliersi un po’ di fronte alla battuta.
-È che ho il turno in reparto, domattina.- spiegò, strofinandosi gli occhi -Se dormo qui risparmio sul tempo si spostamento e guadagno mezz’ora di sonno.
-Il turno delle sei?- Pranjal aggrottò la fronte -No, ci dev’essere un errore. Dovresti essere esonerato se sei stato convocato per i Brumalia.
-Sì, ero stato spostato al turno di pomeriggio. Ma ho promesso a Vadoma che mi sarei allenato con lei e lei può soltato domani alle quattro, perciò ho fatto a cambio con un medico del turno di mattina.
-Ma non ti reggi in piedi!
Eugene piegò la testa, valutando. Si premette le mani sulle ginocchia e si spinse su, alzandosi e stiracchiandosi un po’. Spostò il peso da un piede all’altro.
-Nah.- rispose alla fine, voltandosi verso il fratellastro con un ghigno –Ce la faccio ancora per un po’.
Pranjal lo spintonò leggermente su una spalla.
-Scemo.
-Moi?- Gene si posò una mano sul petto, fingendo un’aria sorpresa –Mais no. Io sono solo un povero studente di medicina, cher. Cerchiamo tutti di sopravvivere alla specialistica, non è quello l’obiettivo?
-Di solito si sacrifica la vita sociale, prima di cadere a terra morti.- puntualizzò Pranjal.
-Vadoma non è la mia vita sociale. È mia amica.
Il medico indiano si infilò le mani nelle tasche e lo guardò con simpatia, la rivista stretta sotto il braccio. Non c’era niente da fare. Anche nei momenti in cui lo esasperava di più, Eugene riusciva ad uscirsene con frasi che facevano ricordare a Pranjal perché, fra tutti i suoi fratellastri lì al campo, fosse lui il suo preferito. Non era soltanto perché erano vicini quanto ad età e avevano in comune più cose rispetto ai loro fratelli più grandi. Era la sua semplicità d’animo che lo conquistava ogni volta. Eugene non era come gli altri figli di Esculapio, a cui la medicina interessava soprattutto per la curiosità di scoprire nuove cure o l’arroganza di farsi un nome con la propria bravura. A Eugene interessavano le persone.
-Te lo faccio io il turno.- propose -Conosco le infermiere del mattino, non diranno niente. Firmerò a tuo nome e nessuno si accorgerà che sono andato al posto tuo.
Ma era la cosa sbagliata da dire. Eugene, la cui postura si era progressivamente rilassata durante la conversazione, sollevò il mento di scatto.
-No, Pranjal. Ti ringrazio, ma non ce n’è bisogno.
-Lo faccio volentieri.- insisté Pranjal –Andiamo, Gene. È chiaro che sei esausto.
-Sono stanco.- ammise Eugene –Ma non significa che non possa fare il mio dovere.
-E io non sto cercando di impedirtelo. Ma se ti lasci aiutare, solo per questa volta, poi potrai farlo meglio.
-È una mia responsabilità.- negò di nuovo Eugene, scuotendo testardamente il capo –E se succede qualcosa? Se un paziente si sente male?
-Sei uno specializzando, non il loro medico curante.
-Se sbagli una diagnosi?
-Non ti fidi di me?
Eugene sbuffò.
-Certo che mi fido di te. Ma di sbagliare capita a tutti. E io non posso, in coscienza, farti prendere il mio posto.
-Fratellino...
-Pranjal. Puoi insistere quanto vuoi. Non te lo lascerò fare.
Il medico indiano gettò le mani in aria in un gesto di resa e si lasciò cadere sul divano.
-Sei veramente cocciuto come un mulo da soma.
Un piccolo soriso ricomparve sulle labbra di Eugene. Il ragazzo si sedette accanto al fratello e si tirò le gambe al petto, circondandole con le braccia e rannicchiandosi fra i cuscini del divano.
-Merci.- rispose, sbadigliando.
-Mmf.
Restarono per una manciata di secondi in un silenzio tranquillo, lasciando la fatica della giornata scivolare via dalle ossa. Pranjal pensò che Eugene si fosse riaddormentato di nuovo, ma quando voltò la testa dalla sua parte trovò gli occhi scurissimi del ragazzo che lo fissavano con attenzione.
-Posso farti una domanda?- chiese Eugene.
-Spara.
-Perché ci tieni così tanto a badare a me? Lo hai fatto per tutto il giorno.
-Sembravi più stanco del solito. E poi anche Vadoma era preoccupata, perché lo chiedi a me?
-Doma fa così con tutti i suoi amici, si impiccia e vuole tenerci sotto la sua ala. Ma tu non ti preoccupi così per gli altri nostri fratelli. Però non sei...- si interruppe, cercando le parole giuste –Non...non voglio offenderti, Pranjal. Io ti stimo davvero tanto, ti voglio bene, e sono fiero che abbiamo lo stesso padre. Ma tu non sei...non sei davvero la mia famiglia. Capisci cosa intendo? Ti conosco solo da quando sono arrivato al Campo. Non hai il dovere di pensare a me.
Pranjal non poté impedirsi di sentire un pungolo di delusione a quelle parole. Nemmeno per lui Eugene era ‘famiglia’ nel senso in cui lo erano sua madre e le sue sorelle, a casa nel New Jersey, ma negli anni quel ragazzo magro della Louisiana, dall’accento marcato e il viso serio, aveva finito per guadagnarsi un posto molto vicino al loro, nel suo cuore. Tuttavia, sotto lo sguardo teso di Eugene, che lo guardava come se temesse di averlo offeso mortalmente, il medico abbozzò un sorriso.
-Tu pensi ai tuoi pazienti solo per dovere?
-No.
-Nemmeno io.
Il ragazzo ridacchiò nervosamente.
-Vuoi dire che mi consideri un paziente?
-Voglio dire che siamo simili.- Pranjal allungò una mano e gli tirò indietro i capelli. Eugene chiuse brevemente gli occhi sotto quella specie di carezza, come se volesse godersela senza essere visto –Mi preoccupo per te perché so cosa vuol dire avere il desiderio di spendersi per gli altri. E so che può portare a mettere da parte noi stessi troppo a lungo. Io ho imparato questa lezione a mie spese, e probabilmente prima o poi dovrai farlo anche tu. Quando succederà, voglio essere accanto a te per aiutarti a rimetterti in piedi.
Quando lo guardò di nuovo, il viso di Eugene era serio.
-Grazie.- disse il ragazzo, con sincerità disarmante –Grazie, Pranjal. Anche io sono contento che tu ci sia.
Il medico gli strinse le dita sull’avambraccio, senza rispondere niente. Non c’era bisogno di aggiungere altro.
-Vieni qui.- disse alla fine con un sospiro, facendo segno a Eugene di mettersi comodo contro le sue gambe –Stenditi, almeno. Ero venuto qui per studiare in santa pace un nuovo articolo sul glioblastoma. Posso leggertelo ad alta voce per un po’, finché non ti addormenti. Questo me lo lasci fare?
Eugene si mise giù con un sogghigno, posando la testa sulla sua gamba e seppellendosi fra i cuscini con la delicatezza di un uragano estivo. Pranjal gli gettò addosso una coperta di pile che trovò drappeggiata sul bracciolo del divano.
-Narrami, o Musa, del tumore multiforme...
-Ah, e così sono la tua musa?
-Beh, non ancora, visto che non ti sento narrare.
-Ehi, specializzando, rispetta i superiori.- ma a dispetto di quelle parole, la mano che posò sul capo del ragazzo era gentile. Eugene lo sentì e si rilassò contro di lui, rannicchiandosi con un sospiro soddisfatto nella sua coperta. Pranjal aprì la rivista con l’altra mano e tenne il segno con il dito.
-In quanto forma di tumore cerebrale più frequente negli adulti, il glioblastoma...








Note dell’Autrice
Ciao a tutti!
Data la scarsa adesione e il fatto che scrivere one-shot è divertente, ho trasformato questa cosa in una raccolta di one-shot ambientate al Campo Giove! I personaggi saranno OC, anche se l'universo è quello di Rick Riordan!
   
 
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