Anthea
lo aveva aspettato nell’ingresso, c’era una certa
preoccupazione sul volto della giovane donna quando lo vide arrivare,
Mycroft si
era attardato a riprendere fiato dopo le rivelazioni di Alicia, ed era
stato
l’ultimo a uscire.
Era
irritato e nervoso, non aveva sollevato la testa mentre
le passava accanto, le fece solamente un cenno con la mano.
Non
avere nessuna libertà di azione e sapere che ogni sua
mossa era seguita, lo rendevano scontroso e instabile.
Anthea
non aveva colpa, questa era la vita che si era scelto
e lei svolgeva semplicemente il suo lavoro. Una volta ne sarebbe stato
orgoglioso, ma ora sentiva il bisogno di un po' di
tranquillità.
Fuori c’era un
tiepido sole, inusuale per quel primo gennaio.
Lei lo seguì senza dire nulla, gli
aprì lo sportello dell’auto e aspettò
ordini.
Mycroft
si fermò,
titubante, Pall mall non era eccessivamente lontana e aveva voglia di
riflettere.
“Anthea,
se non è un problema vorrei tornare a casa a piedi
e da solo.” La osservò preparandosi alla sua
sorpresa.
Lei
lasciò il cellulare, abbandonò le mani lungo i
fianchi
mosse la testa castana, impensierita.
“Qualcosa
non va capo?” Chiese scrutandolo con attenzione,
lo aveva visto parlare con Alicia e sapeva quanto erano affezionati.
Lui
ridacchiò vedendo il suo bel volto oscurarsi. “No,
è
festa e voglio prendermi una pausa. Credi che possa farlo con le giuste
precauzioni?” Alzò le sopracciglia e rimase
candidamente in attesa, le mani
appoggiate all’auto.
“Penso
di sì, ma non cambiare direzione. Sai le
difficoltà
che abbiamo per la tua sicurezza.”
Lui
annuì, prese il suo ombrello e si avviò
silenzioso, si
girò e alzò la mano per salutarla.
“Buon
anno Anthea, grazie.”
Probabilmente aveva già le telecamere di mezza
Londra puntate addosso.
Assaporò
quella poca libertà che gli concedevano e camminò
senza forzare il passo.
Certo
la sua segretaria avrebbe rimuginato un bel po', però
ne aveva bisogno, era piacevole sentire l’umidità
della tarda mattinata che gli
pizzicava il viso, presto sarebbe scesa la nebbia, ma aveva ancora
tempo.
Qualche
famiglia passeggiava con i figli al seguito, i
piccoli guardavano le luminarie scintillanti, trascinando per le
braccia i loro
papà distratti.
Uno
dolore immotivato gli prese lo stomaco. Come sarebbe
stata la sua vita se avesse avuto una famiglia? Si era occupato
costantemente di
Sherlock, quel fratello irrequieto che spesso si infilava in un sacco
di guai e
che faticava a sopportare le sue attenzioni.
O Sherlock! Quante
volte lo aveva perdonato, capito, assolto per quello che gli aveva
combinava, mettendo
in pericolo anche la sua di vita. A
volte aveva dovuto scendere a patti con Governance per lui.
Il
suo senso di colpa non si era mai spento per averlo
abbandonato quando era andato con lo zio Rudy a Londra.
E
anche Sherlock non glielo aveva perdonato.
Ora
viveva con John e Rosie, la sua famiglia strampalata, Mycroft
sapeva che suo fratello amava segretamente John Watson e sperava che un
giorno
lui lo ricambiasse. Ma non era gay, e John lo aveva sottolineato
più volte.
Eppure
c’era qualcosa nello sguardo del buon dottore che lasciva
intravvedere un certo interesse per Sherlock e c’era sempre
la possibilità che
fosse bisex. Ridacchiò come una vecchia comare che tesseva
la tela per coronare
un amore non corrisposto.
Nel
rapporto con Sherlock aveva avuto le sue colpe, non
poteva negarlo, e adesso sapere che c’era un altro fratello
… barcollò e appoggiò
le mani sul muricciolo che
delimitava il
parco di White Hall. C’erano
dei bambini
che giocavano con un pallone e gli mancò il respiro.
“Tutto
bene signore?” Una voce lo interpellò con
apprensione.
“Sì,
certo, stavo solo riprendendo fiato.” Guardò con
un
sorriso rassicurante il policeman, lo ringraziò con un cenno
del capo e si
rimise in subito in cammino prima che si precipitassero a prelevarlo
allarmati.
Chissà
perché lo prendevano per un vecchio! Aveva solo 42
anni, anche se dopo
Sherrinford era
cambiato e non in meglio.
Camminò
ondeggiando il
suo fidato ombrello. Era quasi a casa, si portò
la mano sulla tasca
interna e prese la lettera. C’era una panchina libera che
costeggiava la riva
del Tamigi, la raggiunse e si sedette.
Fissò
la carta beige, Alicia usava le buste tutte di quel
colore. Si tolse i guanti, li appoggiò alla panchina e
aprì la lettera. Il
primo foglio, era un certificato del DNA del ragazzo comparato con
quello della
famiglia Holmes. Come membro della Governance tutti i suoi parenti
erano
schedati e Alicia non voleva lasciare dubbi. Lesse il resto con il
cuore in
gola.
“Gabryel
Alexander nato
il 25 maggio del 2002, di anni venti.
Caratteristiche fisiche:
Capelli
castano scuro, occhi grigi, altezza 1,75.
Una
cicatrice sopra l’orecchio destro sotto
l’attaccatura
dei capelli. Una frattura al piede sinistro che gli causa talvolta una
leggera
zoppia.
Figlio
di Margaret Achard, da lei ha preso il cognome, il
padre risulta ignoto.
Diplomato
alla Turing school of mathematics technology. Vive
a Londra nell’appartamento ereditato
dalla madre.
Attualmente non
lavora è seguito dagli assistenti sociali.
Arrestato
per uso di droga nel 2020, recidivo nel 2021. Ricoverato
per overdose al san Bart.
Sotto
sorveglianza per hackeraggio di siti di interesse
finanziario.
Recidivo
per abuso alcool, uso di stupefacenti e per danni
al patrimonio.
Mycroft
si passò la mano sulla fronte, e soffiò aria a
pieni
polmoni.
L’unica
cosa buona era che aveva la stessa mente matematica
del padre. Per il resto c’era da lavorare parecchio.
Sherlock, non
l’avrebbe presa bene, e Sieger suo padre, ancora meno, si
chiese se sapesse di
aver avuto un figlio.
Gran
bella eredità gli aveva lasciato Alicia! Se quel
ragazzo era la sua via di salvezza, era meglio prendesse
l’arma nel manico del
suo ombrello e si sparasse lì, senza pensarci troppo.
Rimise
il foglio nella busta.
Cosa
doveva fare adesso che sapeva dell’esistenza di Gabryel,
nelle condizioni in cui si trovava? Il suo pensiero di farla finita era
quasi
costante, e sapere di avere un fratello che era in condizioni peggiori
delle
sue lo sconvolse.
Piantò
le unghie sotto la manica e calmò il dolore
dell’anima con il dolore fisico, finché
sanguinò e si fermò solo quando il
sangue che gli imbrattava le dita della mano.
Si
asciugò con il fazzoletto, come sempre si ripromise di
non farlo più, ma i buoni propositi duravano
poco e poi ricominciava.
Riprese
a camminare con l’emicrania che riprese a tormentarlo,
tornò a
casa, aprì la porta consapevole
di avere un problema in più: Gabryel.
La
partenza di lady Smallwood era un'altra incognita da
affrontare, lei
l’aveva aiutato trattenendo
a Sherrinford sua sorella anche dopo gli omicidi che aveva commesso. Ma
ora chi
l’aveva sostituita non era più disposto a
mantenerla rinchiusa, visto che non
poteva sfruttare la
sua immensa intelligenza.
Eurus
“era andata oltre”, non dava segni di presenza
attiva.
Era come morta, immobile con gli occhi fissi, inutile per
l’Mi6.
Era
un tormento accompagnare Sherlock e i suoi genitori una
volta al mese per sentirla suonare.
Odiava
quel giorno, e odiava vedere sua madre adorante, mentre
lui rivedeva il sangue che aveva versato, e lo vedeva ovunque.
Eurus
era stata la causa di tutto, desiderava che morisse e
questo lo tormentava… perché era sua sorella.
Come
avrebbero reagito tutti loro nel sapere che non poteva
più tenerla a Sherrinford? Era stato ridimensionato e aveva
dovuto ripulire
tutti i danni che aveva causato.
Si
era dissanguato finanziariamente e aveva dovuto accettare
qualche intervento sul campo, “il lavoro di gambe”
che tanto odiava.
Arrivò
a casa, affaticato.
Avvisò la
sicurezza che
era al sicuro, salì al piano di sopra a medicarsi le ferite.
Si tolse la giacca
e la camicia, i
polsini erano sporchi di
sangue, la buttò dentro un sacchetto nero per liberarsene,
non voleva
insospettire la signora Green che si occupava della casa. Meglio
evitare
spiegazioni per quelle macchie.
Prese
la cassetta di primo soccorso, si
sedette allo scrittoio sotto la finestra
della camera. L’avambraccio destro era segnato da profondi
sfregi rossi, un
paio sanguinavano.
Disinfettò
con cura, strinse la mascella per bruciore che
avvertiva. Non riusciva a mettere fine a quella tortura che si
imponeva, doveva
smetterla.
Non
ci riusciva e tornava a ferirsi con più forza quando
avvertiva il tormento dentro alla testa che lo martellava e gli rendeva
la
giornata buia e dolorosa.
La
sua più grande paura era farsi scoprire, far vedere la
sua debolezza.
Mise un paio di
cerotti, e guardò il braccio sinistro che era in via di
guarigione, sceglieva
con attenzione ora in ora l’altro per non destare sospetti.
Era
bravo a mascherare l’angoscia che lo divorava. Ripose la
cassetta e si cambiò la camicia, prese il sacco nero e lo
portò nel bidone
all’esterno.
Rimase
sulla porta di casa, gli occhi chiusi a godersi un
po' di calore del pallido sole. Rientrò appagato e
passò il resto della
giornata in perfetta solitudine.