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Autore: sakura_hikaru    12/10/2022    0 recensioni
[The Seafare Chronicles by TjKlune]
Una piccola fic su Derrick (Bear) e Tyson (Kid), quando i due si conobbero per la prima volta.
E come divennero fratelli.
Visto l'argomento di genitore che abusa psicologicamente del figlio (niente di descrittivo, ma metto le mani avanti se è un argomento che infastidisce anche solo per un accenno) sconsiglio la lettura a chi non ha almeno 14 anni (e comunque se leggete di questo fandom, qualche annetto in più dovreste averlo).
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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È là quando torna da casa.

Una vecchia culla di un indefinito colore tra il beige e il color topo. Si muove appena, ma Derrick sa perfettamente che non è vuota.

«Finalmente sei tornato...» la voce della madre stira la sua schiena in tensione, si volta e la trova pallida e con una sigaretta accesa che pende dalle labbra. «Sei stato dal tuo amico?».

«No, c'era un'attività extra...» bofonchia guardando con crescente irritazione il fumo salire verso il soffitto. «Non fa male al bambino?» domanda con un cenno alla sigaretta.

Lei lo guarda con aria più vacua che arrabbiata e si allontana, entrando in cucina.

«Stasera esco. Starai tu con Tyson».

Gli occhi nocciola del ragazzino scattano sconvolti verso la porta della cucina; sente un fremito lungo la schiena, quando riapre la bocca.

«Ma non posso dargli da mangiare io! È troppo piccolo!».

«Sciocchezze...» la voce roca della donna reca con sé stanchezza e seccatura assieme. Ora che ha partorito, vuole ricominciare ad essere libera... «Tu sei bravo, te la cavi sempre».

«Ma-».

«Derrick!» la voce è per un attimo dura, affilatissima. Poi, sembra sciogliersi in qualcosa di acido, come latte andato a male. «Lo sai che ne ho bisogno... e tu sai imparare in fretta. Lasciami andare...».

Derrick stringe nelle mani le spalliere dello zaino dai colori slavati, abbassa il capo e non può fare a meno di ingollare le sue paure.

«V-va bene...».

«Sei un bravo bambino» dice lei, ma sembra una frase così vuota e falsa che Derrick vorrebbe solo scappare e nascondersi sotto le coperte.

 

***
Così, si ritrova da solo, in quella sala dalla moquette sudicia, dal colore ormai indefinibile.

E la culla.

Si muove appena, probabilmente per il respiro del bambino. Tyson.

Derrick non sa se lo vuole vedere.

Ne ha paura e, un po', lo odia.

Insomma, lo sa che non si odiano i bambini. Non sono adulti, non hanno fatto niente di male, ma...

Derrick non vuole. Sa cosa pensa di fare la mamma... e non vuole.

Gli da le spalle, pensa che tanto continuerà a dormire fino a quando la mamma non tornerà, ma è quando sta per uscire dalla sala che una voce alta e arrabbiata si alza dalla culla.

Il rumore sconvolge la testa del ragazzino che preme i palmi sulle orecchie, guardando con aria accusatoria la culla muoversi sempre di più. Vede dei piccoli pugni alzarsi oltre l'orlo, sembrano puntarsi verso il cielo, come ad accusare dio o chi per lui di averlo fatto capitare nella peggiore delle case.

Non accenna a smettere.

Derrick non si avvicina, ma sa che c'è qualcosa che non va. E non sa cosa non va.

Così, il panico prende il sopravvento. E, quando capita, c'è solo una cosa che riesce a fare: chiamare Otter.

Si avventa sul telefono come se fosse l'unica sua speranza e compone il numero di telefono a memoria, sperando che risponda proprio lui. È appena tornato a casa per le vacanze dell'università, forse sarà uscito con gli amici di qua, forse...

«Pronto?».

«Otter! Ti prego, devi salvarmi!».

«Derrick? Che succede?!» la voce di Otter è appena distorta dalla preoccupazione.

«C'è questo... bambino... che piange... e io non so che fare... e la mamma non c'è e...». Sente che la voce si sta incrinando, sa che, tempo due secondi, gli verranno giù lacrime enormi. Ma è nel panico più totale, ed è la prima volta che si sente del tutto perduto.

«Arrivo subito. Aspettami e sono da te».

La telefonata si interrompe; Derrick rimane con la cornetta in mano per qualche secondo, le lacrime già scendono sulle guance, un singhiozzo, poi due, e alle sue spalle il pianto del neonato si fa ancora più disperato.

Vorrebbe piangere, vorrebbe urlare, vorrebbe scomparire e vivere un'altra vita.

Non vorrebbe essere Derrick.

Vorrebbe essere un bambino normale e basta.

Va alla porta di entrata e vi si accuccia di fianco, cercando di chiudere il mondo di fuori, mentre aspetta che Otter giunga.

 

Ci vuole circa mezz'ora, ma lui arriva, trafelato, con un sacchetto in una mano e i capelli biondi arruffati. Derrick gli apre con aria sconvolta e il viso bagnato da lacrime che non hanno smesso di scendere. È un attimo e Otter lo abbraccia, stringendolo senza una parola, perché tanto ha capito ogni cosa.

«Scusa se ci ho impiegato tanto... ho comprato delle cose che possono servire».

«Cose?» chiede Derrick confuso.

«Un biberon, del latte in polvere e dei pannolini... so come si usano, l'ho fatto anche per Creed a suo tempo» sorride il giovane uomo, arrufa i capelli di Derrick e si avvicina alla culla, tra le urla ormai devastanti del bambino. «Certo che ne ha di fiato in gola...». Il ragazzino lo guarda allungare una mano che sparisce oltre l'orlo e, d'un tratto, il pianto si fa più trattenuto, morbido in un certo senso. Otter si volta e sul suo viso c'è un sorriso felice, quasi... raggiante. «Sai che ti somiglia?».

Derrick si irrigidisce, ancora una volta, e sfugge a quel sorriso.

«Non credo...».

«L'hai guardato?». Quella voce... Otter sa usare un tono morbido, dolce, qualcosa da cui Derrick si farebbe cullare ogni giorno, anche se non lo ammetterà mai.

«Non ne ho bisogno...».

Ed ecco che il sorriso del giovane uomo si stempera, allontana la mano dalla culla, il pianto si rialza.

«Vado a preparare del latte caldo per lui, va bene?».

Derrick annuisce appena, il fianco stretto contro il divano, gli occhi ancora puntati testardamente a terra: non gli piace sentirsi così. Lui non è fatto così. Non è capriccioso, o rabbioso, o stronzo, come sembra essere in quel momento.

Ma... non sa cosa sentire. E continua ad avere paura di quel “coso” dentro la culla. Ha paura di sapere cosa deciderà del suo futuro, la sua presenza.

Passa una manciata di minuti, il pianto ormai è esasperato. Otter, finalmente, esce dalla cucina con un biberon pieno in una mano, una pezza nell'altra.

«Ora gli diamo da mangiare... come si chiama?».

«T-Tyson...» bofonchia l'altro, rubandogli veloci occhiate.

«Tyson... Ty. Carino...».

Si avvicina alla culla e lo vede poggiare da una parte il biberon e allungare le braccia con una delicatezza che Derrick non gli ha mai visto addosso. Poco dopo, alza dalla culla un cosino tutto rosa e capelli, una tutina di spugna verde addosso e le gambe contratte in quella posa da neonati che a Derrick pare invece causato da tutto quel pianto rabbioso.

«È arrabbiato» dice lui con mezza voce, evitanto lo sguardo di entrambi.

«Aveva fame, è normale» spiega con dolcezza Otter, poggiando il bambino sul braccio e avvicinandogli la tettarella. Come un animale in un deserto, la bocca di Tyson si avventa sul biberon e, per la prima volta da quasi un'ora, il silenzio torna a regnare sull'appartamento.

Silenzio che continua, almeno fino a quando Otter non si siede sul divano e non chiama Derrick a sé.

«Avanti, vieni a vederlo...».

Derrick non sa se vorrebbe, ma se è Otter a chiederlo...

Si mette in piedi, di fianco al divano, e, dall'alto, riesce a vedere chiaramente il neonato: poppa come un disperato, le manine ancora strette a pugno, vicino al biberon, come se volesse fare tutto lui, come se sapesse che dovrà crescere velocemente in quella casa...

«Vuoi provare a tenerlo tu? Non è difficile...» il sorriso di Otter è sempre così sincero e luminoso che riesce a farti fare cose che non avresti mai voluto fare.

Eppure...

«Lo farò cadere».

«Non dire sciocchezze, non lo faresti mai...» gli occhi attenti di Otter lo catturano ed è un attimo che Tyson passa da braccia a braccia. Derrick sente il peso, lieve, addosso, e gli sembra così terribilmente reale e concreto che ogni traccia di pianto si cancella dal suo cuore.

Il bambino ciuccia, di tanto in tanto prende un grosso respiro, e poi ricomincia. E ha gli occhi stretti in concentrazione, perché mangiare è l'unica cosa di cui ha bisogno.

Però, quando Derrick si siede accanto a Otter, affondando appena nel divano verdognolo, gli occhi del bimbo si spalancano sul ragazzino: è vero che appena nati sono come i cuccioli, che vedono solo ombre, e che non sorridono se non dopo qualche settimana dalla nascita.

Ma Derrick è certo che, quando gli occhi di Tyson si aprono lo guardano, la boccuccia abbandona la tettarella e... è una smorfia? Il principio di un pianto? Vuole tornare a poppare?

Oppure è un sorriso?

Il ragazzino ingolla a quella vista, la tettarella, spinta da una mano di Otter, torna nella bocca di Tyson, e se il sorriso è sparito, lo sguardo attento di quel neonato è tutto per Derrick.

«È incredibile...» mormora il giovane uomo guardando prima uno e poi l'altro. «A Creed non piacevo così tanto, quando era un neonato...».

«Non gli piaccio...» esce la risposta, scorbutica e mugugnata, del ragazzino. «E l'ho fatto piangere per un sacco... e non sapevo cosa fare con lui...».

Otter, al suo fianco, si china verso i due fratelli, sospira e gli accarezza il capo.

«Questo vuol dire che, se l'avessi saputo fare, non l'avresti mai fatto piangere. Sei già un bravo fratellone...».

Gli occhi nocciola di Derrick si spalancano su di lui, il viso si fa paonazzo e le lacrime, prima asciutte, tornano a pungergli gli occhi.

«Non sono un fratellone... devo essere come te con Creed e io...» eccole le lacrime, maledette. «Non lo sono...».

«Per me sarai meglio di me e Creed. Fino a qualche anno fa, litigavamo. E io non lo sopportavo. Lo chiamavo scimmietta, e un po' è rimasto scimmietta anche ora».

Non sarà granché, ma quello fa ridere Derrick, tra le lacrime.

«Non ci credo...».

«Hai reso mio fratello molto più sopportabile...». Otter allunga ancora una mano, un panno stretto in mano che va a pulire del latte sfuggito al bimbo. «Hai fatto un miracolo! E pensi di non poter essere un bravo fratellone per Ty?».

L'altro rimugina, incerto, i suoi occhi non riescono ad abbandonare quelli svegli e attenti del neonato.

«... anche senza la mamma...?» un sussurro, l'angoscia bussa alla porta. «Perché non so se senza la mamma...».

«Ci sarò io, se avrai bisogno. E... quando non ci sarò... ci saranno i miei genitori... e Anna e i suoi... e tua madre non ti abbandonerà con Ty, credimi...». C'è una nota così marcata di durezza nella voce di Otter che Derrick non può fare a meno di guardarlo. Raramente è così serio, o arrabbiato. Non è un segreto quello che lui prova per sua madre. Non lo biasima, anche se è sua madre.

Ma lui le vuole ancora bene, nonostante tutto. È sua madre. Come puoi non volerle bene?Nonostante tutto.

Riabbassa lo sguardo, il biberon è quasi vuoto e Tyson pare soddisfatto del suo pasto.

«Ora devi alzarlo, piano, e metterlo contro la tua spalla...» Otter parla e muove Ty, nelle sue braccia, mostrandogli come tenere il capo eretto. Fa appena in tempo a mettergli la pezza sulla spalla che Tyson fa un ruttino degno di questo nome e rigurgita un po' della cena appena bevuta.

Derrick non riesce a trattenere il disgusto, Otter la risata.

«Che schifo...».

 

***
Più tardi quella sera, quando Otter è tornato – malvolentieri – a casa, Derrick è rimasto con Ty, profondamente addormentato, una manina stretta contro la bocca, la beatitudine dei più piccoli sul viso.

Il ragazzino si è messo sul divano, avvicinando a sé la culla, controllando con sguardo inquieto quel piccolo esserino capace di urlare come un ossesso per quasi un'ora e poi vomitargli addosso senza tante cerimonie, anche se si conoscono appena.

Derrick non sa proprio come sentirsi.

Otter ha parlato di lui come fratellone, ma, davvero, lui che ne può sapere?

Sa badare a se stesso perché sua madre non lo fa mai. Se la sa cavare nella vita, ma non può ancora fare un sacco di cose, anche se vorrebbe.

È un bambino.

È solo un bambino. Poco più grande di Tyson, poco più piccolo di Otter. Lì, nel mezzo, capace e incapace di fare cose. Abbastanza grande ma ancora troppo piccolo.

Non dovrebbe essere qualcosa di più per essere un fratellone?

Si alza in piedi, inquieto alla vista di quella culla ma non del suo contenuto.

Controlla con un fremito di emozione il piccolo dormiente e ne studia i connotati: Otter ha detto che gli somiglia. Cioè, certo. Hanno gli stessi capelli, facile. E gli occhi, anche quello, facile.

Ma poi?

Di sicuro è più felice, anche se Derrick non crede di essere del tutto infelice. Infatti, quando è venuto Otter da lui è stato felicissimo.

Ma quando c'è la mamma, spesso è infelice. E, a volte, prova cose che non sono belle.

Derrick ha paura.

In quel momento, mentre guarda quel nasino piccolo e le guance rosa e sicuramente morbide, e quella striscia di bavetta che... ok, fa un po' schifo, ma non così tanto... insomma, in quel momento, ha paura per Tyson: è piccolo, delicato, indifeso.

Non sa quanto fa male vedere, sentire certe cose. Quanto essere costretti a stare da soli, ad arrangiarsi, sempre, perché tua mamma è troppo ubriaca, o si è dimenticata di venirti a prendere, o di fare la spesa...

Non sa quanto fa male diventare grandi quando vorresti essere ancora un bambino.

Però, agli occhi di tutti, anche della legge, tu sei troppo piccolo per decidere della tua vita.

Abbastanza grande ma troppo piccolo. Sempre nel mezzo.

Tyson è solo troppo piccolo.

E Derrick ha paura per lui.

E quando lui non ci sarà? La mamma si ricorderà di dargli da mangiare? Non lo lascerà da solo? Lo cambierà, lo laverà... farà la mamma, almeno per lui?

Di nuovo, Derrick sente le lacrime, ma stavolta è solo e le lascia scorrere.

Si poggia appena alla culla, quella si muove e gli occhietti di Tyson si spalancano nel silenzio: per un lungo istante, i due si guardano e, di nuovo, a Derrick sembra che Ty gli sorrida.

Soffoca una risatina, nelle lacrime, e forse c'è un singhiozzo.

Allunga, incerto, una mano sul bambino e lui allunga una sua, con una sicurezza che spiazza il ragazzino.

Ed è allora che Tyson, per la prima volta, si aggrappa a Derrick: una manina stretta attorno al suo indice, forte, così forte che Derrick è meravigliato, perché una forza simile, in un corpicino così piccolo, non sa proprio da dove venga.

Lo contempla, si contemplano a lungo. Sono silenziosi, anche se Tyson muove i piedini e l'altra mano, come se volesse avvicinarsi a lui.

Derrick sospira, tira appena il dito in trappola, ma la presa non cede.

«Non mi lasci, eh?» bisbiglia, anche se non c'è nessun altro. «Sai che non ti è andata molto bene a nascere qui? Potevi andare da qualche altra mamma... magari avevi anche un papà. E stavate in una bella casa, che non puzza di fumo e non sembra sempre sporca». La mano di Ty lo tira verso di sé, ma non fa altro. «E invece sei capitato qui, con me e mamma. Non hai fatto una bella scelta...».

Ty apre la bocca, Derrick teme che caccerà un altro urlo disperato, invece quello che esce è un altro rutto di una certa importanza.

Derrick non può non scoppiare a ridere.

Il movimento che ne consegue, sulla sua mano e, quindi, sul corpo del bimbo, sembra piacere a quest'ultimo.

«Quello significa che non te ne importa molto?» chiede all'ignaro neonato che, in tutta risposta, si guarda attorno, uno sguardo che non dovrebbe vedere granché e che invece sembra capire tutto. «Vuoi essere mio fratello?» azzarda l'altro, incerto. «Guarda che non è facile... non sono un esperto, anche se Otter dice il contrario».

Gli occhi di Tyson continuano a vagare, poggiandosi poi con vago interesse sul colletto di Derrick.

«Non so se ti piacerà stare qui... a me... non piace molto...».

Tyson sembra, tutto d'un tratto, ascoltarlo. Ma come può capire?

«Se tu sarai qui... forse...» incerto, Derrick si gratta la nuca, distoglie lo sguardo dal bimbo. «Non mi farai sentire solo? Magari quando crescerai non ti piacerò più, come Creed con Otter».

Si morde le labbra, sospira, ancora.

«Otter dice che non si piacevano... ma io li invidio. Vorrei avere un fratello anche io...». Si blocca, guarda Ty, che ricambia lo sguardo con quello che sembra un grande interesse. Ma i bambini così piccoli possono sembrare così intelligenti?

«Tu sei... mio fratello...?».

Gli occhi di Tyson, fino a quel momento fissi su di lui, si abbassano sulla sua mano e, con più forza, tira verso di sé la mano, fino a far finire nella propria bocca il dito del ragazzino.

Derrick lo guarda con occhi spalancati, non sa come reagire e teme di fare qualche movimento che disturberà o farà arrabbiare o... farà sapere a Tyson che non lo vuole come fratello.

È un pensiero illogico, stupido, assurdo.

Ma Derrick, di pensieri simili, ne fa spesso.

La sua testa lavora su strade percorse da pochi – o forse da nessuno – e riesce a tirare fuori le cose più brutte e tristi che la sua mente di dodicenne potrebbe partorire.

«Non voglio che ti succeda nulla. Non voglio che tu sia solo. Non voglio che tu sia... infelice».

La bocca di Tyson abbandona il dito di Derrick, rimane spalancata per un attimo, nel silenzio, fino a quando un urlo lacerante scoppia nella stanza.

Il panico arriva come una pallonata in pieno viso per il ragazzino.

Tyson si contorce, il suo viso è già paonazzo e lacrime e moccio sono una cosa sola sul suo viso.

È panico per Derrick, e l'unica cosa che si ricorda di fare è prenderlo in braccio.

Non credeva di essere così delicato.

Ma scopre che le sue mani possono essere lievi, così come le sue braccia. E la testolina di Ty affonda in maniera così perfetta sulla sua spalla che sembra sia stata fatta apposta per lui.

Quando l'abbraccio si chiude, e Derrick chiude gli occhi pregando che funzioni, l'urlo si spegne, veloce così come era iniziato.

Le manine forti di Ty si aggrappano alla sua maglietta, sembrano tenaglie di un supereroe; mugugna qualcosa, il rimasuglio del pianto, e bagna di muco e lacrime il tessuto, finché Derrick non sente la macchia infreddolita addosso.

Il volto di Tyson è rivolto verso di lui, la fronte, così aggrottata, sembra quella di un nonnino arcivecchio.

È buffo. E Derrick ridacchia.

Tyson lo guarda e lo guarda. Sembra, davvero, vederlo.

E lo sguardo, intelligente, attento... ha qualcosa di caldo. Di meraviglioso.

Qualcosa di indefinibile e indefinito, in Derrick, si spezza.

E si ricompone in un istante.

E Derrick sa.

Sa che Tyson è suo fratello. E lui è il suo fratellone.

È inevitabile.

  
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