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Autore: Martin Eden    15/10/2022    1 recensioni
Ciao a tutti! Dopo anni di latitanza, mi è venuta voglia di tornare su questo Fandom, che ho tanto amato...e lo faccio con una vecchia storia LOTR che ho ripreso in mano ultimamente, dopo aver rivisto i film della trilogia de Lo Hobbit...mi è venuta voglia!
Scommetto che molti di voi, come me si sono posti questa domanda: ma Legolas e Aragorn dove si saranno conosciuti?! :D
Questa fanfiction cercherà di dare una risposta...allora voi leggete e commentate! :)
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aragorn, Legolas, Thranduil
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Compagni di Sventura'
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Thranduil
 



Tremai. C’era amore in quello sguardo, amore puro, amore vero, amore come nessuno – a parte mia moglie – avrebbe potuto darmi.

Abbassai lo sguardo sulle mie mani appena posate sulle ginocchia. Non erano più dieci lunghe dita che avevano percorso i piaceri del letto e della battaglia, ma arti rattrappiti che ora vacillavano. Le spinsi più a fondo contro la carne, cercando di controllare quel fremito.

Legolas aveva bloccato il passo. Non mi alzai subito: con gli occhi bassi e una gran voglia di non essere più lì, di poter guardare quella scena dall’esterno, presi tempo. Poi mi staccai faticosamente dal trono e mi avvicinai.

Sentii come se tutte le mie ossa si fossero rotte e ricostruite nello stesso momento.

Legolas non mi mise fretta, anzi, mi aspettò con pazienza. Quello era il mio corpo, quello era mio figlio, e quelle erano le nostre mani che leggermente si accostavano, si accarezzavano furtive. Prima che la sua si appoggiasse sul mio braccio:

- Sei un bravo padre.- mi disse.

- E tu un bravo figlio.- ricambiai, cercando di non balbettare.

Il viaggio a Fornost l’aveva profondamente cambiato. Ero certo non mi avesse raccontato ogni cosa; potevo solo immaginare le bestie che avevano tormentato i suoi sogni, i nemici che avevano graffiato la sua corazza, senza mai riuscire a penetrarla. Il mio unico figlio era uno spirito inossidabile che avrebbe resistito a qualunque tempo e a qualsiasi circostanza, al contrario mio. Io forse mi sarei spento un giorno tra i ricordi e quando ciò non sarebbe più stato sopportabile forse mi sarei ucciso. Non sarei stato codardo come i miei fratelli, non sarei salpato per i Porti Grigi invocando la pietà di Dèi a cui non credevo più da molto tempo.

Finchè la luce di Legolas sarebbe stata così chiara e sfavillante, mi accontentavo di poter essere specchio per la sua grandezza.

Mi teneva ancora la mano sul braccio. Non ero abituato a tale confidenza: mi chiesti che cosa poteva turbare l’animo di mio figlio così tanto da cercare riparo proprio in me.

Alzai gli occhi, incrociando i suoi:

- C’è una cosa che non ti ho detto, padre.- esordì, con voce insicura.

Quel tono mi preoccupò:

- Che succede?-

Gli leggevo in faccia un timore sconosciuto per la maggioranza della sua vita. Era come se Legolas avesse paura di me e del mio giudizio, dopo che mai mi era sembrato gliene potesse importare qualcosa.

Ma perché? Per quale motivo? Quale ragione poteva essere così soverchiante da rischiare di incrinare il nostro rapporto?

Dopo un attimo di esitazione, infilò l’altra mano all’interno della sua veste per trarne fuori qualcosa di lucente. Vedevo brillare i raggi del sole di marzo attraverso le sue dita, una luce a me fin troppo nota, mai dimenticata.

La memoria di cose andate mi travolse ancora una volta.

Non osavo nemmeno respirare. Legolas se ne accorse, ma non disse nulla, non interruppe l’incanto. Aprì le dita e una luce bianca investì i miei occhi, illuminando il volto di entrambi.

Le riconobbi immediatamente: erano le gemme di Lasgalen.

Come potevano essere in mano a lui?

- Queste gemme parlano di te.- mio figlio mi osservava piuttosto inquieto – Che cosa sono?-

Non potei fare a meno di coprirmi la bocca con le mani. Quasi mi commossi.

Quelle gemme non parlavano solo di me, ma di mia moglie. Le rammentavo ancora attorno al suo collo, quando ci eravamo sposati: quando mi ero inginocchiato per porgergliele e dopo mi ero alzato per adornarla con quel meraviglioso monile, creato apposta per noi dai nostri migliori mastri elfici.

Le rammentavo mentre lei se le passava tra le dita, e le dita passavano sui suoi seni e il suo ventre arrotondato, in attesa di Legolas.

Quelle pietre erano la testimonianza più cara della mia famiglia, della mia stirpe, e del mio amore. Non pensavo sul serio di poterle rivedere.

Caddi in ginocchio di fronte a mio figlio. Per tutto quel tempo avevo pensato che erano andate perdute e con loro anche il Thranduil di qualche secolo prima.

Mi girava la testa.

Lui si precipitò al mio fianco, sostenendomi:

- Come fai ad averle tu?- mi azzardai a chiedere, con i singhiozzi trattenuti a stento.

Legolas sospirò. Poi confessò:

- Sono tornato da Angmar con tre fiori in boccio nella tasca...- mi spiegò – Mi ricordavano mia madre. Li ho tenuti gelosamente con me, cercando di farli sopravvivere, finché sono arrivati qui. Una notte, mentre controllavo che non si fossero sciupati, quelli si sono trasformati in queste pietre tra le mie mani.-

Non dissi niente. Cercai solo di inghiottire aria.

- Per tutto questo tempo le ho custodite nella mia stanza. Le rimiravo ogni sera, sembrava mi sussurrassero poesie. Mi hanno tenuto compagnia in questi anni bui e soli. Cercavo il momento giusto per dirtelo, anche perché non mi sentivo mai pronto a separarmene.- mi spiegò – Sono di mia madre vero?-

Avrei voluto parlare, spiegargli tutto, ma non mi riuscì un solo suono.

Avrei voluto piegarmi fino alla terra e baciare quell’erba, la natura, i grandi Valar che mi avevano permesso di realizzare quel piccolo sogno. Invece fui solo in grado di accartocciarmi su me stesso.

Legolas mi abbracciò. Forse pensava che che mi stessi sentendo male, e in effetti non era un pensiero troppo lontano dalla realtà.

Teneva ancora in mano le gemme. Allungai una mano a stringere il suo pugno chiuso, da cui partiva quella flebile luce. Le avevo desiderate così ardentemente che mi sembrava di averne il cuore ustionato.

Lui capì senza dir nulla. Era venuto il momento di lasciarle andare, di restituirle a chi appartenevano veramente.

Aprì le dita e le gemme scivolarono pigramente tra le mie mani, che ora Legolas teneva tra le sue. In quelle sfaccettature acquamarine, mi parve per un attimo di rimirare il viso di mia moglie, a me tanto caro, a me tanto mancato. Quelle pietre erano leggerissime e pesantissime allo stesso tempo.

Non riuscivo a smettere di far rotolare i sospiri.

- Come si chiamava?- mi chiese Legolas – Mia madre.-

Il mio viso scattò verso di lui, esterrefatto. Come aveva potuto dimenticare il nome di sua madre? Non riuscivo a concepirlo.

Legolas abbassò lo sguardo imbarazzato:

- L’ho sempre e solo chiamata meleth Hatha (adorata madre)...- spiegò.

Trattenni il respiro.

Aveva ragione. Era troppo piccolo per conoscere altri particolari, e dopo la morte di mia moglie io non avevo mai più pronunciato il suo nome. Avevo inoltre fatto togliere tutti i suoi ritratti, impedito agli altri di dire anche solo una parola su di lei.

Era l’ultimo atto di un sipario che andava a chiudersi: una liberazione.

- Mìriel.- risposi, sciogliendo quel groppo in gola che per anni mi aveva soffocato.

 

Poco più tardi, ormai di mio figlio nessuna traccia: tanto meglio.

Non ero in grado di resistere oltre.

Scesi dal proscenio, raggiungendo la veranda. Un paggio mi lanciò un’occhiata incuriosita, ma non osò avvicinarsi o farmi domande.

Con uno schiocco spalancai le finestre, come non facevo da un po’. L’aria fresca del bosco entrò con forza nel palazzo e nelle mie narici, rimaste a secco di buon profumo di casa.

L’estate si era ormai conclusa e le folte chiome degli alberi vivevano quella fase in cui il fogliame volge lentamente dal tenero verde germoglio al rosso fuoco del camino. Fra poco sarebbe stata ora di raccolto, di andar a far legna, di costruire nuovi manufatti. L’autunno è per noi Silvani una seconda primavera, nonché la stagione più celebrata.

Ero grato al mondo per aver avuto la possibilità di vederlo arrivare ancora una volta con mio figlio nella nostra casa. Questa certezza era per me fonte di buoni sentimenti, che mi rinvigorivano.

Per questo, forse, ebbi il coraggio di fare quel passo: come non lo compivo da molto tempo. Di solito mi fermavo solo al davanzale, preso da chissà quale rimorso, da chissà quale difficoltà. Raramente ero riuscito ad andare oltre, e in quelle poche volte si era sempre trattato di una sofferenza indicibile, che non mi aveva lasciato dormire la notte.

Ora invece era con passo leggero che posavo lo stivale sulla terra ancora bagnata di rugiada e con ancora un po’ d’erba incolta. Era con pace che attraversavo quella piccola anticamera verde, piena di fiori coltivati con amore dai miei servitori. Era con rinnovato coraggio che imboccavo quel sottile sentiero che si perdeva nel bosco, lungo un percorso che solo io potevo vedere e comprendere.

Era passato molto tempo, ma non avevo dimenticato neanche un singolo passo che mi aveva visto ricongiungermi a lei.

Superai una piccola macchia di cespugli, aggirai le radici aggrovigliate di un paio di salici e introducendomi tra i loro rami piangenti sbucai infine in una radura piuttosto raccolta e ormai invasa dalla polvere del tempo e dagli sterpi. Qualche animale aveva lasciato segno del suo passaggio dipingendo le proprie orme vicino al ruscello che irrigava quei luoghi.

Non c’era più traccia dei fiori che avevo piantato per lei, ma la pietra resisteva ancora. Corsi ad abbracciarla e a pulirla della cenere della passata stagione.

Mi inginocchiai di fronte ad essa e la accarezzai come se si trattasse di mia moglie.

Quella lapide sorgeva su una terra vuota, che nulla aveva a che fare con il suo corpo, nemmeno l’aveva mai toccato. Ma quel luogo le somigliava talmente tanto, che la prima volta che l’avevo rivisto dopo Angmar, ebbi l’impressione di averla riconosciuta.

Non vi eravamo recati spesso, ma lì, proprio lì, accanto a quel torrente, mi aveva detto di aspettare un figlio da me.

Per questo l’avevo scelto, e l’avrei scelto mille volte ancora, anche se il destino me l’aveva portata via.

Posai un bacio su quella dura pietra e per la prima volta non mi sentii colpevole di aver vissuto tanto a lungo. Così avevo potuto vedere con i miei occhi i successi di nostro figlio per raccontarli a lei sottovoce, benchè fossi convinto che dalle Aule di Mandos lei sapesse già tutto.

Infilai una mano nella tasca e tirai fuori le gemme di Lasgalen. Quelle riverberarono di un intenso riflesso bianco e verde, come a salutare quei luoghi, come se si sentissero a casa.

E come avrebbe potuto essere diverso?

In mezzo agli alberi erano state forgiate, lucidate, custodite e infine incastonate. Ero convinto potessero avvertire l’eco della loro storia in quel bosco, che potessero riconoscermi dal tocco.

Io le avevo volute, disegnate, contemplate e infine regalate con amore; le avevo impregnate di ogni virtù. Ero un po’ come un padre per loro, anche se non ero sicuro potessero avere un’anima.

Ma di certo una parte della mia era racchiusa in quelle sfaccettature.

Le avvicinai alla lapide e con un po’ di concentrazione riuscii a richiamare a me un’antica magia, con la quale modellai la pietra, lì dove la mia mano improvvisamente incandescente si posava. Creai un avvallamento adatto alle mie predilette, che ruotavo con fare giocoso nell’altra mano.

Sapevo che quella sarebbe stata la nostra ultima volta.

Fu un piacere posare le gemme di Lasgalen nel luogo che d’ora in avanti le avrebbe accolte e serbate, accanto al ricordo di Mìriel. Di nuovo addosso a lei, in un certo qual modo.

Quel gioiello le apparteneva e le sarebbe appartenuto per sempre. Non aveva senso che lo tenessi io, né nessun altro.

Fu facile chiudere anche quel cerchio. Una volta appoggiate nei loro vani, le pietre persero lucentezza, quasi a volersi nascondere; capii che, in effetti, renderle invisibili a occhi indiscreti sarebbe stata la cosa più saggia da fare.

Con la magia, quindi, feci in modo che altri non potessero più godere di quella meraviglia, a parte me e a quelli del mio stesso sangue. La meraviglia più grande restava sempre e comunque Mìriel, che solo io avevo avuto l’onore di accarezzare.

Chiusi gli occhi e trassi un sospiro confortato.

Un giorno avrei mostrato quel luogo anche a Legolas, così avrebbe avuto pace. Anche lui come i suoi simili avrebbe avuto una reliquia da celebrare, per quanto falsa e ipocrita potesse sembrare agli occhi altrui, poiché onorava non un corpo, ma uno spirito vagante.

Avrei tanto voluto conoscesse sua madre, invece ha avuto soltanto me. Nemmeno il miglior padre, perché so benissimo di non esserlo stato. Sono stato severo con lui e anche con me stesso, perché non riuscivo a perdonare. Perdonare avrebbe significato lasciarmi tutto dietro alle spalle, accettarlo, e suonava quasi come un tradimento. Non era stato semplice prendermi ogni responsabilità sul mio cuore già provato. Forse avevo fallito nel mio ruolo, di regnante e di genitore, ma avevo dato tutto ciò che mi era stato possibile dare in quel momento.

Ero sicuro che Legolas mi aveva capito. Il suo viaggio era servito anche a questo, a ricalcare le mie orme e ad immaginarsi nelle mie vesti: aveva passato una vita al mio fianco senza realmente sentire i miei pensieri. Io non gliel’avevo permesso, per vergogna mia.

Ora sapevo che avevo fatto male a privarmi di tale condivisione.

Posai ancora un bacio sulla lapide e mi alzai. Il bosco cantava come ai tempi d’oro, quando le ombre oscure non avevano ancora allungato le loro sudicie dita sulle chiome dei miei alberi. Una litania che continuavo ad amare e ricercare, anche se fin troppo spesso mi ritrovavo faccia a faccia con un silenzio martoriato.

Forse quello era un segno di buon auspicio.

Mi incamminai di nuovo lungo il vecchio sentiero. I raggi obliqui del sole morente mi colpivano le scapole, disegnando sul mio mantello bianco una striscia rossa come il sangue. Mi costrinsi a non pensare a tutti gli abiti lacerati e alle ferite ancora aperte, fuori e dentro di me.

La strada del ritorno fu anche più breve dei quella dell’andata. Legolas mi aspettava.

Ci guardammo negli occhi, ma non ebbi il coraggio di dirgli niente. Mi chiedeva dov’ero stato, senza parole. Non risposi, ero troppo spossato. Ai suoi interrogativi avrei dato adito più tardi. Ma un sorriso, quello potevo regalarglielo.

E allora glielo regalai, stringendogli un braccio con fare materno.

 

Venne anche quel momento.

Era già mattina prima che fosse stata notte, almeno per me, che non avevo dormito.

Poco dopo anche Legolas comparve alla stessa soglia di quella sala, pronto a partire.

- L'ora è buia. Temo di non sapere quando tornerò, stavolta. Potrebbe passare molto, molto tempo, più di quanto è possibile calcolare.- mi fece notare.

Alzai lentamente il capo. I miei occhi si perdevano ormai oltre le finestre, oltre la luce sfavillante del sole e il verde delle mie terre. Poi capii, in maniera più serena del previsto, che sapevo bene cosa fare.

Distesi le labbra in un sorriso giovane.

- Non importa.- affermai, piuttosto mestamente, ma anche con una certa solennità – Io posso aspettare.-

 

 

FINE
 





***N.d.A***
Signori e signore, è la fineeee! XD 
Prima o poi doveva succedere: ho deciso di finirla così, mi sembrava giusto. Ogni cosa al suo posto.
VI eravate dimenticati dei fiori, vero?! Ahahaah io no invece! Con questa ultima chicca si chiude il cerchio dei nostri eroi, poco prima del Bianco Consiglio che tutti noi conosciamo, e della prossima avventura.
Con un po' di tempo, dovrei riuscire a rimettere in sesto anche alle altre fanfic che avevo dedicato allaGuerra dell'Anello (hanno bisogno di una revisione TOTALE). Ma vi invito a leggere, tra un po', come già anni fa decisi di far andare avanti la storia, che ovviamente non può essere finita qui...
Grazie per avermi seguito in questo viaggio, spero di avervi lasciato delle belle sensazioni!
Alla prossima



 

  
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