Resti
qui se dormo?
Risponde
al telefono prima ancora d’esser sveglio
del tutto, allungando alla cieca la mano nel buio verso il comodino.
Non è
abbastanza lucido per dire pronto, ma con uno
sforzo inumano, accostando
l’orecchio al telefono, mormora: «Mh?»
«Scusi
il disturbo. Parlo con un certo Maxie?»
È
una voce distaccata e professionale, forse solo
un po’ dispiaciuta d’aver chiamato a
quell’ora. Rovesciandosi sulla schiena,
Max si ripara col braccio gli occhi dalla luce del telefono e cerca di
sbirciarne l’ora. Le tre e quarantaquattro del mattino. Non
ha neppure le forze
per chiedersi cosa possa esser successo a quest’ora per dover
telefonare, di
tutto il mondo, proprio a lui.
«È
Max» borbotta nel ricevitore.
«Prego?»
La
necessità di articolare una risposta più
complessa lo restituisce alla sua mente, almeno un pochino.
«Mi chiamo
Maximilian… Max. Maxie mi chiama solo…»
Prima di riuscire ad articolare quel
nome, d’improvviso è perfettamente sveglio. Si
solleva a sedere sul letto
stropicciandosi gli occhi. «Mi scusi, chi parla?»
«Chiamo
dall’ospedale di Ciclamipoli. Abbiamo
trovato il suo numero nei contatti d’emergenza del telefono
di Ivan. È
ricoverato qui da noi. Lo conosce?»
Ivan,
contatti d’emergenza. Ci sono troppe cose
che non tornano in questa storia, ma di certo non è al
telefono che potrà
schiarirsi i suoi dubbi. Max scivola fuori dal letto e cerca a tentoni
l’interruttore della luce sulla parete.
Odia
guidare di notte. Non che gli piaccia in
generale, ma di notte, con la sua miopia galoppante e i riflessi dei
fari altrui
che gli baluginano sugli occhiali e lo abbagliano, è
specificamente una
tortura; perciò, quando può evitare, preferisce
far guidare altri. Ma altri
stanotte non ce ne sono: quando sale in macchina, coi capelli arruffati
in una
coda e le mani intirizzite dal freddo, Max fende la notte come se fosse
l’ultimo essere vivente rimasto al mondo. La strada e i
lampioni gli scivolano
accanto come spettri nel buio.
All’ospedale
lo introducono da una chirurga che
dopo la sala operatoria non è ancora scesa a cambiarsi, ha
l’aria stanca,
greve, ma non sembra angosciata. Max le stringe la mano senza dir nulla
perché
è alquanto sicuro che la sua faccia parli per lui
già abbastanza
eloquentemente.
«Ah,
è lei il contatto d’emergenza. È venuto
in
fretta» commenta la dottoressa senza troppe cerimonie, ma
gentilmente. «Lo
stiamo mandando su proprio adesso. L’intervento è
andato bene. È stato molto
fortunato: se avesse aspettato ancora mezz’ora a venire in
ospedale, non ci
sarebbe più stato nulla da fare…»
Max
la ferma con un gesto supplice della mano. Si
sente ancora più frastornato di prima, e queste
informazioni, al momento, non
lo stanno aiutando: lo stanno terrorizzando. Il terrore, in questo
momento, è
inutile e controproducente. «Aspetti un momento. Al telefono
non mi hanno detto
di che si tratta, perciò…»
«Oh!
Mi spiace» s’interrompe la chirurga.
«L’hanno
svegliata a quest’ora senza dirle niente, eh? Le avranno
fatto paura per
niente… la tranquillizzo subito. Era una torsione
testicolare, ma siamo riusciti
a intervenire in tempo.»
Max
rimane un po’ frastornato alla notizia. Ha
bisogno di pensarci un momento; la dottoressa, prendendo per ignoranza
la sua
perplessità, si affretta a colmare le sue lacune:
«Si tratta di una torsione
del funicolo spermatico, che porta il testicolo a ruotare su se stesso.
In
questo modo s’interrompe l’afflusso di
sangue…»
«Sì,
so di che si tratta» la interrompe Max un po’
meno gentilmente di quanto avrebbe voluto, solo perché lo
infastidisce quando
cercano di spiegargli qualcosa che sa già perfettamente. «Mi pareva solo
un po’ strano, alla sua età.
Ne ho sempre sentito parlare nei bambini.»
La
chirurga lo guarda con occhi nuovi. «Lei è un
collega?»
«No»
si affretta a specificare Max che di medicina
ha dato solo qualche esame, su insistenza di suo padre, prima di virare
decisamente verso la geologia e la biologia.
«Solo… m’informo. Posso
vederlo?»
chiede per cambiare argomento.
«Ormai
devono averlo portato in stanza» risponde
la dottoressa gentilmente. «Terzo piano, settore
chirurgia.»
Passa
tra i corridoi in religioso silenzio: i
pazienti dormono, presume, anche se a far silenzio è solo
lui – infermieri e
infermiere camminano e parlano nei corridoi, entrano nelle stanze,
portano
carrelli e medicine. Gli indicano un’ultima stanza:
è una camera doppia, ma uno
dei due letti è ancora vuoto.
Ivan
dorme ancora pesantemente nel letto vicino
alla finestra. Max gli si avvicina in punta di piedi: ha
l’aria cerea, un po’
sbattuta, ma non sofferente. Non rimane che da aspettare: Max trova una
scomoda
sedia in un angolo, ci si appollaia sopra e rimane in attesa.
Quando
Ivan si sveglia, sta albeggiando. Max
s’accorge d’essersi appisolato, semincastrato tra
lo schienale e il bracciolo
della poltrona, e si tira su di scatto quando lo sente borbottare
qualcosa. Non
si sveglia subito del tutto: per un po’ passa dal sonno alla
veglia,
frastornato, e lo guarda senza forse riconoscerlo. Max lo osserva senza
parlare.
«Acqua»
gracchia a un tratto Ivan con una voce
bassa e fioca che Max non gli ha mai sentito, e Max riempie dalla
brocca che
hanno lasciato sul tavolino un bicchiere di plastica e gli accosta la
cannuccia
alla bocca. Dopo aver bevuto, Ivan sembra più lucido, e
questo getta tra di
loro un grande imbarazzo.
«Sei
venuto.»
«Già»
risponde Max macchinalmente; ma subito dopo,
poiché non pensa che gli capiterà una situazione
migliore di questa per porre
la domanda che lo assilla dal momento in cui il telefono lo ha
svegliato nella
notte senza doversi abbassare a chiederla direttamente, aggiunge:
«Presumo che
Ada e Alan non abbiano risposto.»
Ivan
aggrotta faticosamente la fronte. «In che
senso?» chiede mentre si sistema con certo sforzo sui
cuscini. Max tende
d’istinto la mano per aiutarlo, ma chissà
perché si trattiene. Ivan sorride
ugualmente del suo gesto con mezza bocca.
«Niente.
Pensavo solo che avranno telefonato prima
a loro che a me.»
«Loro
non sono nei miei contatti d’emergenza
sanitari» risponde Ivan come se fosse la cosa più
naturale del mondo aver
escluso i suoi luogotenenti e aver incluso lui: se non fosse
un’espressione un
po’ abusata, forse Max ne resterebbe senza fiato.
«Ah»
risponde per non dover affrontare
direttamente la questione che questo pone, nell’aria, tra di
loro: perché abbia
preferito lui a loro, perché lui sia qui e loro no. Ma Ivan
le sue domande
gliele legge negli occhi: Ivan è trasparente e sincero come
un libro aperto, e
a volte Max ha l’impressione che per lui anche gli altri
siano lo stesso, perscrutabili
e leggibili.
«Non
mi andava l’idea che loro mi vedessero
così»
risponde distendendosi.
Max
rimane in silenzio per un po’. «E io
sì?»
«Con
te è diverso» risponde Ivan chiudendo gli
occhi. «Resti qui se dormo?»
Max
non fa in tempo neppure a rispondere: Ivan è
tornato a distendersi. A poco a poco il suo respiro si fa
più regolare e
pesante, lento, e Max è certo che stia dormendo di nuovo.
Evidentemente è
ancora stanco dopo l’anestesia.